Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 05

mandato contro di loro truppe a sufficienza; ma perchè meglio i sudditi
fossero tutelati, voleva, che tutte le città, che tutti i comuni, di
concerto coi giudici regj, e sotto guida dei governatori, e dei
comandanti delle piazze ponessero le armi in mano a tutti gli uomini
dabbene ed affezionati, acciocchè, ove d'uopo ne fosse, potessero
congiungersi con le genti regie, e correre insieme alla difesa comune;
che sapeva altresì, e di certa scienza novellamente affermava, che ogni
giorno riceveva tanto da parte dei generali, quanto da quella degli
agenti del governo Francese, dimostrazioni non dubbie di buona amicizia;
che finalmente con la sua reale sopportazione consigliandosi, offeriva
perdono a chi pentito de' suoi errori se ne volesse tornare al suo
grembo paterno.
Non ignorava il re, che la rabbia e la ostinazione delle opinioni
politiche non lasciano luogo alle persuasioni. E però facendo maggior
fondamento sulle armi, che sulle parole, aveva mandato sul lago Maggiore
parecchj reggimenti di buona e fedele gente, affinchè combattessero i
novatori dell'alto Novarese, e ritogliendo dalle loro mani Domodossola
la restituissero al dominio consueto. Medesimamente mandava truppe
sufficienti per difendere le frontiere verso la Liguria contro
gl'insulti dei Carrosiani. Pinerolo si empiva di soldati, per frenare e
spegnere l'incendio sorto nelle valli dei Valdesi.
Ma il fondamento di tutto consisteva nel modo, in cui la repubblica di
Francia sentirebbe tutte queste Piemontesi sommosse; perchè, se ella le
fomentava, era impossibile il resistere. A questo fine insisteva
fortemente il ministro Priocca presso a Ginguenè, acciò dichiarasse,
qual fosse veramente negli accidenti presenti l'animo del governo
Francese. Ragionava egli, e certamente con molto fondato discorso, che
importava al re, che il direttorio si risolvesse sulle sorti Piemontesi;
poter bene, allegava, resistere a questi nuovi insulti, ma non potere
più lungamente sussistere nella condizione in cui era; rendersi perciò
necessario, o che la Francia gli desse mezzi d'esistenza, o che a modo
suo ne disponesse: «Se è destinato dai cieli, diceva, che noi abbiamo a
cessar di essere una potenza, se il corso delle cose, se la forza degli
umani accidenti a ciò portano, che noi abbiamo ad essere spenti, noi
preferiamo, noi anzi domandiamo, che una nazione grande, potente, e
nostra alleata sia quella, che giudichi il destin nostro, ed eseguisca
essa stessa quello, che abbia giudicato, piuttostochè vederci minacciati
dai nostri stessi sudditi, che è indegnità insopportabile, piuttostochè
vederci consumare appoco appoco, e languire in uno stato tale, che la
morte non è peggiore».
Questi estremi lamenti della cadente monarchìa Piemontese non sono
certamente segni di animo doppio, e non sincero; che anzi la sincerità è
tale, che non solamente induce persuasione nella mente, ma ancora muove
vivamente il cuore.
Rispose Ginguenè con sincerità e con parole degne, non di lui, ma del
direttorio: che il governo Francese a modo nissuno fomentava quei
movimenti; che l'animo suo verso il re era sempre il medesimo; ch'ei
voleva adempire lealmente le condizioni dei trattati; che se un nemico
esterno assaltasse il re potrebbe egli far capitale delle bajonette
Francesi, ma che nel presente caso si vedevano sudditi volere la
distruzione del suo trono; che per verità i suoi soldati avevano
prevalso nei primi assalti; che sei mila fuorusciti Piemontesi, a cui
stava a cuore la libertà, e che bramavano la vendetta, privi di ogni
cosa necessaria al vivere, si aggiravano sull'estreme frontiere del
regno; che si adunavano in grembo di nazioni libere; che quivi si
accordavano ai disegni loro, e che coll'armi in mano assaltavano il re.
Conviensi forse alla Francia implicarsi in tale faccenda? Certamente non
conviensi. Ha la Francia armi potenti in Lombardìa, ed in Liguria: se in
queste due repubbliche nascessero moti contrari al governo, se questo di
per se non fosse abile al resistere, e richiedesse di ajuto la
repubblica Francese, accorrerebbe ella certamente in soccorso di lui, e
dissiperebbe i ribelli. Ma quando Piemontesi amatori di libertà si
adunano per conquistarla, e per far la loro patria libera, volere che i
Cisalpini, i Liguri, od i Francesi a loro si oppongano, è cosa del tutto
sconveniente e vana. A questo dire aggiungeva Ginguenè rimprocci sul
modo, con cui il governo Piemontese reggeva i suoi popoli, favellando
degli abusi che gli scontentavano, dei rigori usati, dell'angustia delle
finanze, del caro dei viveri, della insopportabile gravezza delle
imposizioni. Concludeva, che i moti di sedizione non portavano con se
alcun pericolo, se niuna radice avessero nella propensione dei popoli;
ma che bene era da temersi, che i Piemontesi, la nobiltà in fuori,
desiderassero esito felice alla impresa dei sollevati: che però,
esortava, preoccupassero il passo, e prevenissero la rivoluzione col
dare spontaneamente al popolo tutto quello, che si prometteva dalla
rivoluzione. I rimproveri dell'ambasciadore sul mal governo del Piemonte
erano, come di forestiero, inconvenienti; che la Francia poi non fosse
obbligata a mantenere lo stato quieto al re, era falso, perciocchè a
questo si era solennemente obbligata nel trattato d'alleanza.
In mezzo a tante angustie del governo regio, Ginguené, come se
desiderasse torgli non solo la forza, ma ancora la mente ed il tempo di
deliberare sulle faccende più importanti, non cessava di travagliarlo
con importune richieste, muovendolo a ciò fare, parte i comandamenti del
direttorio, parte i propri spaventi. Chiedeva perciò, ed instantemente
ricercava Priocca, operasse, che il re cacciasse da' suoi stati i
fuorusciti Francesi, ed ancora proibisse, sotto pena di morte, gli
stiletti e le coltella. Voleva altresì, e minacciava il re, se nol
facesse, che disperdesse i Barbetti, che infestavano le strade, ed
assassinavano i Francesi. Alle due prime richieste rispondeva Priocca,
che quanto ai fuorusciti Francesi, desiderava sapere, se la Francia, e
l'ambasciador suo intendessero, ch'e' fossero perseguitati, o che la
qualità loro di fuorusciti fosse certificata in giustizia, o ch'ella
avesse nissun fondamento legale, e solo fosse effetto dell'odio
personale, dell'invidia e delle fraudi; desiderava sapere, se volessero
parlare di una emigrazione di fatto, o di una emigrazione di dritto. Se
di fatto, e' bisognava che l'ambasciadore si risolvesse a rendersi
complice di tutti gli atti d'ingiustizia e di violenza commessi da
agenti subalterni per interesse o per vendetta contro un numero infinito
di Savoiardi e di Nizzardi. Non di tutti parlerebbe il ministro; solo
rammenterebbe il conte Selmatoris, nato in Cherasco di Piemonte,
impiegato ai servigi militari, ed in corte del re da più di trent'anni,
il quale stato solo in tutto il tempo della sua vita quindici giorni
nello stato di Nizza, era stato scritto nella lista dei fuorusciti di
quel paese. Rammenterebbe altresì il cavaliere di Camerano, il quale,
chiuso dall'ottantaquattro in poi nell'ospedal dei matti di Torino, era
stato ancor esso nella lista fatale notato. Osservava oltre a ciò
Priocca, che il trattato di pace, lasciando al re la facoltà di
conservare a' suoi servigi i Savoiardi ed i Nizzardi, aveva riservato
alla repubblica Francese il diritto di addomandar l'allontanamento di
coloro, che si rendessero sospetti. Ora vorrebbesi forse, insisteva, che
tali stipulazioni guardassero indietro, o statuire il principio, che
ogni qualunque denunzia senza pruove faccia un uomo sospetto? E potrebbe
ella forse, questa valorosa e virtuosa nazione, imputare a delitto ad un
ufficiale del re l'aver guidato contro di lei soldati, che poco dopo
ella credè potere far compagni delle sue fatiche e delle sue vittorie?
Finalmente, concludeva, la giustizia è il primo dovere delle grandi
nazioni; ella è anzi bisogno, non che dovere, se esse non vogliono
rimanersi alla triste gloria di dominar con la forza, e col terrore. Ora
la giustizia domanda, anzi comanda, che non s'incrudelisca contro
persona per accuse meramente date da chi è mosso da brama detestabile di
vendetta, o da sete vile d'interesse.
Rispetto agli stiletti ed alle coltella, affermava Priocca, non potersi
i portatori di tali armi pel solo fatto del portarle punire colla pena
di morte, senza una considerabile alterazione nel corpo delle leggi, e
che nè la giustizia, nè la umanità permettevano, che per solo termine di
polizia e di prudenza, si usasse il mezzo estremo della morte. Se si
punisce di morte colui che portava un'arme, qual pena si darebbe ad un
omicida? Bene si maravigliava Priocca, che queste atroci dottrine si
professassero, e l'uso loro anche con minacce s'inculcasse da coloro,
che continuamente avevano in bocca parole di filosofia e di umanità.
Certamente non erano queste le dottrine di Beccaria.
Quanto agli assassini dei Francesi, allegava il ministro, che se gli
autori ne fossero conosciuti, sarebbero incontanente castigati, e che a
questo fine si era ordinato a tutti i magistrati sì civili che militari,
che la sicurezza e la vita dei Francesi diligentemente preservassero; ma
che sapeva bene l'ambasciatore, ed era anche vero, che intieramente non
si potevano impedire gli effetti dei risentimenti particolari suscitati
dagl'insulti, e dalla cattiva condotta dei Francesi; che il mutare la
natura degli uomini, ed il fare che non si risentano alle ingiurie, è
cosa del tutto impossibile.
Così affermava Priocca, che il governo regio, per quanto stava in lui,
fosse molto vigilante a render sicuri i Francesi in Piemonte, e quello
che diceva, anche sel faceva. Ma bene debbe far maravigliare ognuno, che
secondo gli umori, od alla prima favola raccontata all'ambasciator di
Francia dai democrati, che gli andavano per casa, tosto ei si movesse a
domandare, anche con termini molto imperativi, la liberazione
degl'incolpati. Agitavasi la causa di un Richini, detto per soprannome
Contino, capo di Barbetti, il quale accusato di grassazione contro un
commissario Francese, che viaggiava da Torino a Susa, era stato
arrestato per ordine regio, e tuttavia era sostenuto nelle carceri del
senato a Torino. A costui fu suggerito da alcuni democrati, che se ne
stavano carcerati con lui, un bel tratto, e questo fu, che affermando
cose orribili ordite per suo mezzo dal governo regio contro i Francesi,
l'avrebbero eglino scampato dal pericolo. Nè fu la risoluzione sua
diversa dal consiglio; perchè testimoniò per iscritto, che il re defunto
Vittorio Amedeo, il principe reale di Piemonte stato, dopo la morte di
Vittorio, assunto al trono, ed il duca d'Aosta, figliuol secondogenito
di Vittorio, gli avevano comandato, che se ne andasse nel contado di
Nizza e nella riviera di Genova, e quivi avvelenasse tutti i fonti, ai
quali necessariamente andassero ad abbeverarsi i Francesi; che quello,
che gli era stato imposto, aveva mandato ad effetto; che per questo era
sorta una grande mortalità così nei Francesi, come nelle bestie loro.
Aggiunse questo Contino, che se n'era andato parecchie volte, per ordine
espresso dei tre principi, ad arrestar i corrieri sulle strade, e che
aveva da essi principi avuto la facoltà più ampia di ordinare sul colle
di Tenda bande d'uomini armati col fine di assassinare i Francesi; ma
che i principi medesimi per far vedere, che non l'avevano mosso a tutte
queste enormità, l'avevano fatto carcerare, ed ordinato che se gli
facesse, come affermava, un processo simulato. Io mi sento muovere a
grandissima maraviglia, pensando che un ambasciatore di Francia, uomo
del rimanente civile e buono, soffocata in lui la prudenza
dall'illusione, non abbia abborrito dall'udire, credere, e rapportare,
come fece, al suo governo calunnie tali contro principi religiosi e pii.
Certo un deplorabile fantasma era quello, che gli occupava la mente. Il
seguito fu, che Ginguené a nome del direttorio richiese solennemente il
re, che gli desse Contino, ed il re gli satisfece dell'effetto, dandogli
incontanente, e senza difficoltà l'uomo accusato d'assassinio di un
Francese: vergognosa vittoria per un governo, ed un ambasciatore di
Francia.
I terrori di Ginguené erano anche fomentati dalle esorbitanze dei
democrati più ardenti, i quali, veduto che i Francesi a tutt'altro
pensavano che alla libertà d'Italia, si erano deliberati a voler
camminare da se, ed a fare un moto contro i nuovi signori, tacciandogli
di tirannide e d'oppressione. Questa gente audacissima, prese occasione
di un lauto desinare dato dall'ambasciator di Francia a tutti i
ministri, che si trovavano alle stanze di Torino, si misero a dire le
cose più smodate, che uomo immaginar si possa. Nè contenti alle parole,
mandarono attorno uno scritto, che fu portato da Cicognara a Ginguené.
Egli era espresso in questa forma: «Popoli della terra, e voi
massimamente patriotti, ed amici sinceri della libertà e dell'umanità,
ascoltate le mie voci. Ha la Francia accettato e dichiarato i dritti
degli uomini in presenza dell'Ente supremo; ella ha punito il tiranno,
che a loro voleva opporsi; ella ha rovesciato il suo trono, ella ha
disperso tutte le forze dei confederati d'Europa, che erano accorsi in
suo ajuto. Tutti questi miracoli ella gli ha fatti, perchè ha trovato
dappertutto uomini, che e conoscevano la giustizia della sua causa, e
non esitarono a dichiararsi per lei contro la tirannide. Si era la
Francia conciliato l'amicizia loro, dichiarandosi l'amica di tutti i
popoli, e promettendo di ajutar quelli, che, com'ella, portassero odio
ai tiranni. Popoli della terra, la Francia ha mentito. Il solo scopo
ch'ella si è proposto, è quello dell'interesse; ella non ha in nissuna
stima i popoli, i tiranni soli le stanno a cuore. Ella se ne sta
tranquillamente rimirando le carnificine dei patriotti, e si rallegra
del trionfo dei dispoti. Gli agenti, che manda presso a loro per
compiacere al loro orgoglio, e per istringere gli empj nodi della loro
amicizia, in vece di vestirsi a lutto per la morte degli amici per la
libertà, celebrano feste scandalose, e bevono nelle medesime coppe dei
tiranni. Il sangue di coloro, che amici della libertà si protestano,
scorre a rivi, e dilaga sovra una terra fatta per esser emola della
patria loro. Ciò non ostante e' non si risolvono ad abbandonarla. Gli
splendori del trono gli rendono spettatori insensibili dell'orribile
ecatombe immolata a piè della tirannide. E col nome di amici dei popoli
si chiamano! Col nome di amici dei popoli si chiamano essi, cui la
guerra civile con tutte le sue orribilità non turba, essi, che l'oro dei
tiranni corrompe! Popoli della terra, ascoltate le voci di un uomo, che
è spettatore di tante sceleragini, e che ne pruova un dolore orribile.
Ardete le dichiarazioni frodolente dei diritti dell'uomo, ch'eglino vi
hanno portato. Chiudete gli occhi alla luce, che risplende dal tempio
della libertà, fate lega coi vostri tiranni, servite ai capricci loro,
abbracciate sinceramente la causa loro, o perirete. La Francia non
atterra più troni; essa gli difende: essa vuol fare ammenda dell'insulto
fatto alla tirannìa: con una mano opprime i popoli, ai quali per suo
proprio interesse dà la libertà, dall'altra tutela i tiranni, che
divorano i popoli servi. Le spoglie degli uni e degli altri appena
bastano a saziare l'immensa sua cupidigia. Popoli, ancora un lustro, e
non vedrete più nella deserta Europa, salvo che in Francia, che tiranni
e ruine».
Questo scritto tanto impetuoso e sfrenato, e principalmente diretto
contro Ginguené, avrebbe dovuto farlo accorto, se non avesse avuto la
mente inferma, del cammino, a cui si andava con quegli amatori di
libertà, e quale speranza di governo buono da loro si potesse aspettare.
Intanto tutta l'ambascerìa di Francia n'era mossa a romore. Ginguené
prese contegno con Cicognara, a cui si era sempre dimostrato amico, ed
egli a lui. Poi parendogli cosa d'importanza, ne scriveva al direttorio,
con molta instanza pregandolo, operasse efficacemente col direttorio
Cisalpino, affinchè Cicognara avesse presto lo scambio a Torino, ed in
ciò andarvi la salute di Francia.
L'ecatombe mentovata nello scritto fu questa. Eransi, come già abbiam
narrato, i Piemontesi nemici al nome reale adunati sotto la guida di
Seras e di Léotaud sulle rive del lago Maggiore, e già condottisi fin
oltre Gravelona, marciavano contro i regj che loro venivano incontro.
Erano stati armati, e forniti d'abiti, d'armi e di munizioni con secrete
provvisioni del governo Cisalpino. Si noveravano nell'esercito regio
circa quattro mila soldati descritti sotto le insegne dei reggimenti di
Savoja, della Marina, di Peyer-Im-Off, di Zimmerman, e di Bacman. Le due
parti si preparavano alla battaglia. Si combattè tra Gravelona ed
Ornavasso. L'ala sinistra dei repubblicani, donde poteva venire il più
grave pericolo, pareva fatta sicura dal fiume Toce, insino al quale ella
si distendeva; ma siccome tutta l'importanza del fatto dipendeva dal
vietare il passo del fiume ai regj, vi aveva Léotaud, per maggior
sicurezza, collocato una compagnia di gente eletta, granatieri
massimamente. Cominciavano i feritori alla leggiera una battaglia
sparsa; poi le genti più grosse l'ingaggiarono per modo, che a mezzo
giorno tutte le schiere menavano molto valorosamente le mani. La rabbia
era uguale da ambe le parti, siccome di guerra civile, ma l'impeto
maggiore da quella dei repubblicani. Questo era cagione, che i regj,
quantunque fortemente resistessero, perdevano del campo, e pareva la
fortuna inclinare del tutto a favore dei loro avversarj. Tanto bene
ordinato era questo moto, sebbene avesse in se qualche cosa di
tumultuario, e tanto era l'ardore, che animava a cose nuove quei giovani
repubblicani! Mentre in questo modo si mostrava la fortuna favorevole
agli sforzi dei novatori, ecco levarsi il grido, che i regj, aspramente
urtata e rotta la compagnia guardatrice della Toce, avevano varcato il
fiume, ed assaltavano, fremendo, le squadre repubblicane alle spalle. Nè
era senza verità il grido spaventevole; imperciochè sei compagnìe di
granatieri dei reggimenti di Savoja, e della Marina, con gagliardìa
estrema combattendo, avevano e sbaraglialo i guardatori del varco, e
passato il fiume, e già assaltavano alle terga i repubblicani. Questa
mossa fe' del tutto prevalere i regj; i repubblicani assaliti da fronte
e da dietro, e sopraffatti dal numero soprabbondante degli avversari che
su quel forte punto si erano spinti avanti con grande sforzo, andarono
in rotta; nè fu più possibile ai capi di rannodargli, ancorchè Léotaud
in questa bisogna virilmente si adoperasse. Cencinquanta repubblicani
perirono nella fazione; quattrocento vennero vivi in mano dei vincitori.
Cento furono uccisi soldatescamente in Domodossola, tornata, subito dopo
la battaglia, in poter dei regj. Perì, fra gli altri, Angelo Paroletti,
giovane di costume angelico, e d'ingegno maraviglioso. I superstiti
furono condotti nel castello di Casale, dove si fecero loro i processi
militarmente; trentadue condannati a morte.
In questo mezzo tempo arrivarono novelle importanti da Parigi. Mancava
al cupo ravviluppamento dei tempi, che si accagionassero dal governo di
Francia i re, e specialmente quel di Sardegna, di essere loro medesimi
gli autori delle ribellioni. Aveva Ginguené con instanti parole
descritto al suo governo i supplizj del Piemonte. Il direttorio, che
poteva meramente intromettersi per umanità, amò meglio mescolarvi le
accuse e l'inganno. Scriveva il dì diciotto maggio Taleyrand a Ginguené,
che i moti d'Italia, quelli sopratutto, che erano sorti in Piemonte,
mostrandosi con sembianza minacciosa e molto pericolosa, era venuto il
direttorio in una risoluzione definitiva; che sapeva il direttorio di
certa scienza, che si era ordita una congiura col fine di far
assassinare tutti i Francesi in Italia; che sapeva ugualmente, che moti
sediziosi si fomentavano a questo fine in ogni parte, acciocchè soccorsi
di Francesi essendo addomandati al tempo medesimo in luoghi diversi, le
loro forze per la spartizione s'indebolissero, e fosse per tal modo
fatto abilità agli assassini di uccidergli. Sapeva finalmente, che non
contenti al dare compimento a sì scelerato proposito, volevano ancora
imputarlo a coloro, che si credevano amici della Francia, affinchè la
morte loro si rendesse più sicura. In tanta complicazione, come diceva,
di preparati delitti, faceva Taleyrand sapere a Ginguené ciò, che il
direttorio aveva risoluto per salvare e l'Italia e i Francesi e gli
amici della repubblica, dai mali che loro sovrastavano; gl'intimava
pertanto, che si appresentasse al governo del re, della orribile
conspirazione favellando tanto evidentemente tramata dalle potenze
straniere, e nemiche della Francia, e dimostrasse, volere il governo
francese risolutamente, ch'ella e per cagioni e per pretesti
intieramente fosse diradicata; volere, che prima di tutto, offerisse il
governo del re indulto leale ed intiero a tutti i sollevati, sì
veramente che le armi deponessero, ed alle case loro ritornassero;
volere, che il re adoprasse le sue forze contro i Barbetti, che
desolavano quelle infortunate regioni, ed usasse tutti i mezzi per fare,
che le strade tra Francia ed Italia fossero libere e sicure. A queste
condizioni, e per allontanar il timore che le repubbliche Cisalpina e
Ligure turbassero il Piemonte, interporrebbe il direttorio la sua
autorità, perchè si mantenessero in quiete. Ordinerebbe anzi a Brune,
che apertamente, ed espressamente comandasse ai sediziosi, che
dissolvessero le bande loro e si ricomponessero nel riposo. Caso
importante, ed urgentissimo essere, aggiungeva il ministro di Francia,
le anzidette condizioni, perchè tanti giudizj arbitrarj, tanti supplizj
crudeli contro uomini ragguardevoli per virtù e per dottrina, e che solo
parevano essere stati condotti all'ora estrema, perchè erano amatori
della repubblica Francese, non permettevano che si frapponesse indugio.
Se il governo Sardo non accettasse le condizioni offerte, si renderebbe
manifesto, essere lui, non più vittima, ma complice delle sedizioni, cui
fomenterebbe in segreto, fingendo di temerle in palese. Del rimanente
badasse bene Ginguené a non chiamare mai i sediziosi, patriotti, ma sì
sempre amici della Francia. Nel che io non saprei giudicare, se vi sia
derisione o fraude; perchè se i sediziosi erano incitati dall'Austria e
dall'Inghilterra, come si dava sospetto, non si vede come si potessero
chiamare amici della Francia; e da un'altra parte, se veramente era la
Francia amica del re di Sardegna, come tutte le parole espresse
suonavano, non si comprende, come ella chiamasse suoi amici i ribelli,
che con le armi in mano apertamente combattevano l'autorità e la potenza
del re.
Fece Ginguené molto efficacemente il dì ventiquattro di maggio
l'ufficio. Vi aggiunse di per se parecchie parti, che furono quest'esse;
che si cacciassero i fuorusciti, che attivamente si punissero gli
uccisori dei Francesi, che con pena di morte si proibissero le coltella
e gli stiletti, che si castigassero quei preti, che seminavano odj
contro una nazione amica.
Ma parendo all'ambasciatore, che lo sforzare il re a perdonare ai
ribelli, ed il chiamare amici di Francia coloro, che macchinavano contro
il suo stato, fors'anche contro la sua vita, non bastassero a
constituirlo in compiuta servitù, voleva, ed instava presso al
direttorio, che la Francia dovea avere piena ed assoluta autorità in
Piemonte, che per propria sicurezza ella doveva sforzare il re a
cambiare tutti i suoi ministri, ed a richiamare il conte Balbo da
Parigi. Su questo punto principalmente insisteva l'ambasciatore:
affermava, essere il conte l'agente di tutta la confederazione d'Europa
in Parigi, spargervi, e spandervi denari in copia, seminarvi corruttele
in ogni parte, rendere co' suoi dispacci il re sicuro, scrivere a
Torino, che badassero a stare coll'animo riposato, che i rigori usati e
da usarsi sarebbero approvati a Parigi, che gli agenti di Londra, e di
Vienna, benchè fossero d'infimo grado, si adoperavano efficacemente
contro Francia, e che del rimanente la repubblica rovinerebbe prima del
Piemonte. Per tutti questi motivi richiedeva Ginguené, che si rivocasse
il conte da Parigi, e che in oltre si eleggesse a sua scelta il
successore.
Il governo Piemontese stretto da sì vive istanze e mosso da sì gravi
minacce, ordinava il dì venticinque di maggio, che si sospendessero sino
a nuovo ordine i processi dei non condannati, e si soprassedesse alle
pene dei Francesi, che si fossero mescolati nelle ribellioni.
Intanto il dì ventisei di maggio alle ore quattro della mattina i fossi
di Casale grondavano sangue. Léotaud, aiutante del generale Fiorella, e
Lions ajutante di Léotaud, ambidue francesi di nascita, ma non di
servizio, con otto altri parte forestieri, parte Piemontesi, che per
aver combattuto nella battaglia di Ornavasso, erano stati dannati a
morte, soggiacquero all'estremo supplizio. Fu accusato il governo
Piemontese, per questo caso, di studiata barbarie; perciocchè diedero
veramente a pensare l'ora insolita dei supplizj, e la tardità della
staffetta apportatrice a Casale dell'ordinato soprastamento: soffermossi
nove ore in Trino. Certamente i condannati erano rei; ma pur troppo
atroce fu la deliberazione dello avere a bella posta ritardato le
novelle, ed accelerato i supplizj, affinchè la salute arrivasse, quando
già morte spaziava. Adunque il sangue, adunque l'ecatombe di Domodossola
non bastavano? Bene ciò io debbo dire ai posteri, che questa crudeltà,
degna di eterna riprensione, non fu opera di Priocca, ma bensì di chi in
queste faccende camminava con più ferocia di lui. Si avvide il ministro
in quale taccia incorresse, e perciò scriveva all'ambasciator di
Francia, mostrando dolore dell'accidente, accusando il messo di
tardanza, e giustificandone il governo. La uccisione massimamente dei
due Francesi il travagliava: temeva di qualche subito sdegno di Francia.
Per la qual cosa scrivendo a Ginguené spiegava, come il dritto pubblico,
ed il dritto naturale avevano sempre voluto, che il giudice naturale di
un delitto sia quello del luogo, in cui è il delitto commesso, e che
come un Piemontese, che commettesse in Francia un delitto, dovrebbe
essere giudicato da giudici Francesi, così un Francese, che commettesse
un delitto in Piemonte, doveva esser giudicato da giudici Piemontesi.
Levò Ginguené pei due Francesi morti gravissime querele, minacciò il
governo Piemontese, scrisse a Parigi, che era oggimai tempo di purgar la
Francia dal dire calunnioso, che si faceva, ch'ella tollerasse le
carnificine dei Francesi e degli amici loro, per forza dell'oro mandato
a Parigi al conte Balbo. Poscia le proposizioni del Piemontese ministro
riprendendo circa il diritto pubblico e naturale, affermava, esser vere
nei casi ordinari, ma non negli straordinari, e che quello era caso
straordinario, da qualificarsi in realtà dritto di conquista, e quasi di
guerra aperta sotto nome di pace e d'alleanza: parole verissime, che se
giustificavano quello, che la Francia faceva contro il re,
giustificavano del pari quello, che si supponeva che il re facesse
contro la Francia. Adunque quello era tempo da cannoni, non da discorsi,
da manifesti di guerra, non da proteste di amicizia.
Disfatto il nido dei repubblicani di Pallanza per la vittoria di
Ornavasso, restavano i Carrosiani, che divenivano ogni giorno più
molesti; poichè crescendo di numero e d'ardire, sboccavano sovente a far
correrìe sui territorj regj, dando loro facile adito i comandanti Liguri
per le terre della repubblica. Fra le altre ci fecero una spedizione
piena di molta audacia contro Pozzuolo, terra estrema verso le frontiere
Liguri, e custodita da un forte presidio. Partiti con una squadra di
circa quattrocento soldati al tramontar del sole del dì ventisei
d'aprile, e viaggiato tutta la notte, arrivarono il giorno seguente
improvvisi sopra Pozzuolo, ed investita la terra, dopo breve battaglia,
la recarono in poter loro, con aver fatto prigioni circa quattrocento
soldati. Portaronsi i Carrosiani molto lodevolmente in Pozzuolo, e non
fecero ingiuria ai soldati cattivi. Poi se ne tornarono a Carrosio,
donde di nuovo uscivano spesso a travagliare i confini.
Non ignorava il governo Piemontese, che i moti di Carrosio avevano più
alte radici, che quelle dei repubblicani Piemontesi, perchè Brune e