Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 03
spegnessero ogni desiderio di vendetta, imitassero la reale
comportazione, solo intenta a far fiorire nuovamente la religione, la
quiete, e la giusta libertà di tutti. Esortava finalmente i capi d'ogni
esercito estero a ritirarsi incontanente dal territorio Romano, ed a non
ingerirsi più oltre negli accidenti di questo stato, la cui sorte per
ragione di vicinanza, e per altri legittimi motivi principalmente
interessava la sua regia potestà.
Dalle parole trapassava tosto ai fatti: partito l'esercito in tre parti
marciava alla volta delle Romane terre. Era venuto per consigliare il re
sulle faccende di guerra il generale Austriaco Mack, mandato a questo
fine dall'imperatore Francesco. Fu suo disegno in questa mossa, sapendo
che i Francesi erano dispersi in alloggiamenti lontani fra di loro, e
sperando che i popoli tumultuerebbero in favor dei Napolitani, di
occupare un gran tratto di paese. Confidava, che gli avversarj sarebbero
stati circondati, e presi senza molto sangue. Perlocchè aveva Mack in
tale modo ordinato l'assalto, che la più grossa schiera condotta da lui
medesimo, avendo con se il principe ereditario di Napoli, per la strada
degli Abruzzi, se ne gisse contro Fermo, e se la fortuna si mostrasse
favorevole, a porre il campo sotto Ancona, terra munita di una
cittadella forte, ma con presidio debole, perchè una parte era stata
mandata a rinforzare Corfù minacciato dalle armi Ottomane e Russe. Era
suo intento, che questa schiera tagliasse il ritorno ai Francesi verso
la repubblica Cisalpina. L'altra colonna guidata dal re, che aveva con
se per moderatore Colli, aveva carico di far impeto direttamente contro
Roma serbata espressamente al trionfo di Ferdinando. Ma pensiero di
colui, che aveva ordito tutta questa macchina militare, era altresì di
tagliare la strada ai Francesi per la Toscana. Fu quest'opera commessa
ad una terza schiera sotto i comandamenti del generale Naselli: la parte
più grossa di lei posta su navi Inglesi e Portoghesi governate da Nelson
s'incamminava ad occupar Livorno. Ma perchè ella non fosse troppo
distante dalle genti che accennavano a Roma, si era dato opera, che la
minor parte, che obbediva al conte Ruggiero di Damas, fuoruscito
Francese, radendo i lidi verso Civitavecchia, se n'andasse ad occupare
quei luoghi della Toscana, che portano il nome di Presidj. Per tal modo
ordinato il disegno si mandava ad esecuzione. Il generale Championnet,
nelle mani del quale stava allora il supremo governo dei repubblicani in
quelle parti, aveva con se poca gente, nè certamente bastevole a far
fronte a tanta moltitudine, se i soldati Napolitani fossero stati pari
a' suoi per perizia e per valore; conciossiachè non avesse con lui, che
cinque reggimenti di fanti, uno di cavalleggieri, uno di dragoni, due
compagnie di artiglieri, numero forse che non sommava a dieci mila
soldati. Erano per verità con lui alcuni reggimenti Italiani, ma ei
faceva sopra di loro poco fondamento.
Il dì ventitrè novembre i Napolitani si muovevano al destino loro: già
la schiera guidata da Ferdinando, scacciate le poche genti repubblicane,
che le si pararono avanti, s'avvicinava a Terni. Mandava Championnet
domandando a Mack, qual ragione muovesse i Napolitani alla guerra contro
Francia. Rispondeva con troppo maggior alterigia che se gli convenisse,
che l'esercito di sua maestà Siciliana occupava il territorio Romano
sovvertito, ed usurpato dalla Francia contro la fede dei capitoli di
Campoformio; che il nuovo stato di Roma non era consentito nè dal re, nè
dall'imperatore, suo alleato; però andrebbe avanti, non commetterebbe
ostilità, se non se gli resistesse; se sì, commetterebbele contro
chiunque, e qual fosse il nome che si avesse. Replicava modestamente
Championnet, la repubblica Romana essere sotto la tutela della Francese,
e difenderebbela. Intanto non vedendosi, pel piccol numero de' suoi
soldati sparsi in luoghi lontani, pari al resistere a tanta piena, nè a
custodire tanta larghezza di paese, raccoglieva i suoi e gli mandava,
lasciando un sufficiente presidio in Castel Sant'Angelo, a far capo
grosso a Civita-Castellana. Ma udendo, che i Napolitani erano stati
ricevuti in Livorno, sebbene con protesta della neutralità violata per
parte dei magistrati del gran duca, che Viterbo e Civitavecchia si
levavano a rumore, che Ruggiero di Damas arrivava sui confini fra lo
stato ecclesiastico e la Toscana, soprattutto sentendo che Mack, sebbene
valorosamente, e non senza grossa strage dei regj combattuto dal
generale Lemoyne, si era impadronito di Fermo, e già accennava ad
Ancona, fece pensiero di ritirarsi più in su per le rive del Tevere, e
piantò i suoi alloggiamenti in Perugia, perchè temeva, che il generale
Napolitano gli tagliasse le strade dell'Apennino, per cui poteva avere
il suo ricovero sulle terre della Cisalpina. A Perugia poi raccoglieva
tutte le sue sparse genti, e vi trasferiva anche il governo Romano, che
aveva abbandonato, per la forza di quell'accidente improvviso, la sua
sede, lasciando Roma sicura preda dei regj. Trovarono qualche aderenza
di popoli nello stato pontificio, come era succeduto a Viterbo, ed a
Civitavecchia. Ma generalmente poco si muovevano, o tepidezza verso
l'antico governo del papa, o odio innato contro i Napolitani, o non
cessata paura delle armi repubblicane, che sel facessero. Che anzi in
alcuni luoghi, come a Terni, i paesani combatterono virilmente in favor
dei Francesi, e diedero loro campo di ridursi a salvamento. Entrava
Ferdinando trionfando in Roma il dì ventinove di novembre. Il
seguitavano i suoi soldati in bellissima mostra; il circondavano i primi
capi in magnifico arnese. Il popolo, che sempre si precipita cupidamente
sotto i nuovi signori, tratto piuttosto dalla novità, che dall'amore,
gli fece feste, e rallegramenti di ogni sorte: le Romane e le Napolitane
grida miste insieme erano un singolare spettacolo. Si rallegravano
dell'essere liberati da quel vivere tirannico e soldatesco, e si
auguravano, certo molto leggermente, tempi migliori; perciocchè non andò
gran pezza, che si accorsero come si può cambiar di signore, e non di
servitù. S'incominciava intanto a trascorrere in vituperj ed in fatti
peggiori dei vituperj, contro coloro che avevano seguitato il governo
nuovo, chiamandogli il popolo, o mosso da se, od incitato da altri, Atei
e Giacobini. I vituperj poi, ed i mali trattamenti trascorrevano, come
suol avvenire in simili casi, dai nocenti agl'innocenti, e si
manomettevano i Giacobini per odio pubblico, i non Giacobini per odj
privati. Non parlo dell'atterramento degli alberi della libertà, e della
ruina a furia di popolo del monumento eretto in Campidoglio all'ucciso
Duphot; perciocchè avesse pur voluto Dio, che a queste opere piuttosto
oziose che dannose si fossero rimasti, ma s'incominciava a far sangue, e
a demolir case. S'interpose Ferdinando, e fe' cessare i tumulti, creando
una milizia urbana, e confidandola ad un cavaliere Gennaro Valentino.
Instituì oltre a ciò un governo temporaneo d'uomini probi ed autorevoli,
che furono i principi Borghese, Aldobrandini e Gabrielli, il marchese
Massimi, ed un Ricci. Ma siccome i popoli, massimamente il Romano, non
stan fermi che alle provvisioni, così Ferdinando calava il prezzo del
pane; il che fece una grande allegrezza.
Intanto Roma si spogliava; nè meglio la città veneranda trattarono i
Napolitani che i Francesi, quantunque gli uni e gli altri si chiamassero
col nome di liberatori. Portarono le logge del Vaticano dipinte da
Raffaello, risparmiate, ed anche rispettate dai Francesi, lungo tempo le
vestigia della barbarie delle soldatesche Napolitane. Nè i quadri si
risparmiarono, nè le statue, nè i manoscritti sfuggiti alla rapacità
degli agenti del direttorio. Da tante enormità nacque, che il popolo
cominciò a desiderar Francia contro Napoli, e che molti fra i partigiani
del papa diventavano partigiani Francesi. Tali furono le opere
Napolitane in Roma; ma poco durarono, perchè era fatale, che in quella
nobile, e sventurata Roma, un dominio insolente in brevissimo giro di
tempo sottentrasse ad un dominio insolente; i quali accidenti saranno
per noi raccontati nel progresso di queste storie.
Era costume del direttorio di Francia, per sovvertire i paesi, di
accarezzare e fomentare i desiderosi di novità, o che tali fossero per
fin di bene, o per fin di male; ma conseguita la mutazione, i suoi
agenti più accarezzavano i cattivi che i buoni, perchè trovavano i primi
più arrendevoli, e meglio inclinati a servire ai desiderj loro. Tanto
più poi vezzeggiavano i cattivi, e trasandavano i buoni, quanto più
erano lontani i pericoli. Ma quando sovrastava un tempo forte, tosto si
davano a far le chiamate ai buoni, perchè questi per la virtù loro
avevano volti in lor favore gli animi dei popoli, il che era fondamento
di potenza. Da un'altra parte gli amatori veri di libertà tanto più vivi
si dimostravano, quanto più il paese loro aveva sembianza
d'indipendente, perchè il resistere alla tirannide pareva loro vano, ed
il non servire alla indipendenza, vile. Questi adunque sorgevano, quando
era data al loro paese, se non in fatti, almeno in parole, la
indipendenza, sperando di trovar modo di acquistarla vera e reale.
Quindi i dominatori, mettendosi in sospetto, usavano di ritrarre lo
stato dalle mani loro, ponendolo in balìa di coloro, che, o più vili o
più prudenti essendo, si accomodavano facilmente alle voglie dei
forestieri. Quindi nasceva, che assai più dei partigiani della potestà
regia, assai più dei fautori dell'aristocrazìa, e della oligarchìa
stessa, che per altro abborrivano, o fingevano di abborrire, gli agenti
del direttorio, odiavano gli amatori dell'indipendenza. Queste cose si
vedevano manifestamente in Cisalpina, dove essi allontanandosi
dagl'indipendenti, si accostavano ai novatori avidi di denaro e di
dominio, ed anche agli aristocrati, perchè sapevano che a questi, purchè
e' siano guarentiti, ed abbiano sicurezza contro gl'impeti e le
insolenze popolari, poco importa chi abbia il reggimento supremo in
mano. Per bene intendere queste cose, e' bisognerà incominciarle dal
loro primo principio. Aveva il direttorio di Francia fino a questo tempo
dominato in Liguria, ed in Cisalpina per la conquista; volle quindi
dominare per l'alleanza, condizione peggiore della prima, se gli
sfrenati modi non si cambiano, perchè quella comporta per se ogni cosa,
questa dovrebbe avere moderazione e regola. Stipulossi a Parigi il dì
ventinove di marzo, per forza dall'ambasciatore ordinario di Cisalpina
Visconti, volentieri dall'ambasciatore straordinario Serbelloni, un
trattato d'alleanza fra le due repubbliche, Francese e Cisalpina, i cui
principali capitoli furono i seguenti: che la repubblica Francese
riconosceva come potenza libera e indipendente la Cisalpina, e le
guarentiva la sua libertà, la indipendenza, e l'abolizione di ogni
governo anteriore a quello, che attualmente la reggeva; che vi fosse
pace ed amicizia perpetua fra ambedue; che vi fosse alleanza, e che la
Cisalpina stesse, così per le difese come per le offese, a favore della
Francia; che la Cisalpina avendo domandato alla Francese un corpo, che
fosse bastante a conservare la sua libertà, indipendenza, e quiete, e
così pure a preservarla da ogni insulto da parte de' suoi vicini, si era
convenuto fra le due repubbliche, che la Francese manterrebbe nella
Cisalpina, per tanto tempo per quanto non fosse altrimenti convenuto,
ventiduemila fanti, duemila cinquecento cavalli, cinquecento artiglieri
sì da piè che da cavallo, e che per questo la Cisalpina pagasse alla
Francese ogni anno diciotto milioni di franchi, ogni mese un milione
cinquecentomila franchi; che obbedissero queste genti, e così ancora
quelle della Cisalpina ai generali Francesi. L'ambasciatore Visconti,
siccome quelli a cui pareva, che questo trattato significasse tutt'altra
cosa piuttosto che alleanza ed indipendenza, non gli voleva consentire.
Ma ebbe ad udire dal ministro di Francia il suono di queste parole, che
la repubblica Francese avendo creato la Cisalpina, poteva anche
distruggerla, se volesse. Il che era verissimo, ma certamente nè
generoso, nè consentaneo alle belle parole, nè conducente a
indipendenza. Perciò Visconti non istette ad aspettar altro, e
sottoscrisse il trattato.
Arrivato quest'accordo in Cisalpina, vi sorse uno sdegno grandissimo: i
consigli legislativi nol volevano ratificare. Scriveva pubblicamente
Berthier, che da Roma se n'era venuto a Genova per andarsene alla
spedizione d'Egitto, che quel trattato era la salute della Cisalpina, se
ella il ratificasse. Altri sottomano insinuavano, che se ratificasse,
sarebbe ingrandita, se ricusasse, spenta.
Queste promesse e queste minacce operarono di modo che i consigli
ratificarono, non senza però molti discorsi contrari, e molta discordia.
Gli amatori dell'indipendenza se ne sgomentarono, molti mali umori
nascevano nella repubblica. S'aggiunse che i due quinqueviri Moscati e
Paradisi, e nove dei consigli legislativi, che più vivamente degli altri
si erano versati al trattato, avevano ricevuto sforzata licenza dal
direttorio di Francia. Di più si fe' dire e stampare, che fossero
fautori dell'Austria, e nemici della Francia; delle quali allegazioni si
può dire, che è dubbio, se siano o più ridicole, o più false. Ma la
persecuzione non si rimase alle parole; perchè alcuni degli oppositori
furono anche carcerati. Si conturbavano le menti a questi eccessi; si
temevano cose peggiori.
In mezzo a questi mali umori arrivava in Cisalpina mandato dal
direttorio in qualità di ambasciatore di Francia, Trouvé, giovane di
spirito, e che faceva professione di amare la libertà. Si sollevarono
gli animi al suo arrivo, comparendo per la prima volta un ministro di
Francia presso quello stato nuovo, ed ognuno si stava ansiosamente
aspettando, che cosa portasse. Gl'indipendenti ne auguravano bene pel
fatto stesso; gli aristocrati quieti si rallegravano ancor essi, perchè
speravano, che un reggimento più regolato gli preserverebbe dalle
improntitudini dei libertini. Fu l'ingresso di Trouvé al direttorio
Cisalpino molto pomposo. Parlò nel suo discorso della Francia
magnificamente, della Cisalpina amorevolmente. Piacque soprattutto
agl'indipendenti il principio del suo favellare, che fu con queste
parole: che veniva in nome della grande nazione a salutare
l'indipendenza della repubblica Cisalpina. Poi continuando affermava,
che era venuto per adempire presso a lei un carico onorevole, e caro
all'anima sua, quello cioè di giungere all'ammirazione verso gli eroici
fatti, l'amore che inspira la pratica delle virtù; che tal era il
desiderio, tale il bisogno del governo Francese, che a questo generoso
fine per comandamento di lui, ed in adempimento della sua tenerezza
paterna indirizzerebbe egli tutti gli sforzi, tutti i pensieri suoi.
Allontanassero pertanto da loro, come egli allontanava da se, le
dimostrazioni vane di un'astuta politica, che adula per corrompere, che
accarezza per uccidere: allontanassero le sottigliezze, allontanassero
le ingannatrici promesse, le seduzioni, la duplicità; animi aperti e
leali, confidenza vicendevole, giustizia sincera, probità incorrotta,
unione inalterabile fra i magistrati le due repubbliche congiungessero;
congiunzione, continuava vieppiù nella sua poesia infuocandosi il
giovane ambasciatore, congiunzione gloriosa e toccante; congiunzione
giurata sull'ara della patria per difendere i principj della ragione, e
per dilatare il culto della libertà. Queste belle poesie, che coprivano
brutti fatti, giravano a quei tempi. Rispondeva all'ambasciatore di
Francia con pensieri adulatorj, e lingua Italiana sucidissima il
presidente del direttorio Constabili: il linguaggio stesso disvelava la
debolezza degli animi, la servitù dello stato.
Scriveva sulle prime, cioè il dì trenta maggio, Trouvé a Birago,
ministro degli affari esteri della Cisalpina, invitandolo ad operar per
modo che il governo Cisalpino facesse risoluzioni vigorose contro i
fuorusciti Francesi, che si erano ricoverati sul territorio Cisalpino:
gli mandava indizi sopra alcuni di loro: voleva, che a termine del
capitolo decimoquinto del trattato d'alleanza fra le due repubbliche,
essi fuorusciti fossero arrestati, onde il direttorio di Francia gli
potesse bandire, e confinar ne' luoghi, che stimerebbe; accusava, quelli
di aver combattuto contro la loro patria nelle legioni parricide, come
le chiamava, di Condè, questi, di spandere fra i Cisalpini novellamente
liberi le dottrine della schiavitù, di calunniare i repubblicani
Francesi, e di far sorgere contro di loro il fanatismo, il pregiudizio,
e tutti gli odj possibili: voleva finalmente, che il ministro della
Cisalpina pubblicasse la sua lettera, affinchè tutti i fuorusciti
sapessero, che la legazione Francese dichiarava loro una guerra, la
quale non avrebbe termine, se non quando i medesimi cessassero di
contaminare la terra della libertà. Rispose il Cisalpino ministro
all'ambasciadore di Francia, che il direttorio Cisalpino purgherebbe la
terra della libertà da quegli uomini immorali, come gli qualificava,
contaminati, ed ipocriti. Brutto principio di legazione era certamente
quello, che s'annunziava con un'opera inumana, e brutto principio ancora
di governo libero era quello che la secondava.
Ma ben altri pensieri che questi nodriva l'ambasciadore nella sua mente
e per se, e per comandamento di chi il mandava. Aveva il direttorio
osservato, che la vivezza dei libertini era stata cagione, che i popoli
Cisalpini, che sono generalmente di natura quieta e savia, si fossero
messi in mal umore. I medesimi libertini, siccome quelli, dico i
sinceri, che senza freno parlando accusavano continuamente di prepotenza
e di ladroneccio gli agenti del direttorio di Francia, operavano, che
l'odio contro i Francesi moltiplicasse ogni giorno. Tenevano nei due
consigli, massimamente in quello dei giovani, il predominio, e le
proposte che vi si facevano, ed i decreti che vi si pigliavano,
indicavano molta ardenza negli animi. Già insospettiva la Francia, che
sapeva, che la smoderatezza può dare contro ogni cosa, ed ella non
voleva che si desse contro di lei. L'opposizione tanto gagliarda, che
era sorta nei consigli contro il trattato d'alleanza, accresceva ancora
maggior colore a questi pensieri e sospetti, dimodochè divenne certo pel
direttorio, che se non domava quei partigiani tanto risentiti di libertà
e d'independenza, la sua superiorità in Cisalpina sarebbe sempre stata
incerta e vacillante. Infatti si vedeva, che il medesimo spirito
d'opposizione, che nei consigli ed in una parte del direttorio si era
manifestato, si radicava anche nei magistrati subalterni, ed ognuno
gridava libertà ed independenza, con tali grida accennando non più ai
Tedeschi, che ai Francesi. Parve, che fosse arrivato il tempo per
Francia di aggravar la mano e di porre il freno, perchè per la pace
fatta con l'imperatore d'Austria essendo passata la stagione di fomentar
le rivoluzioni in Lombardia, pensava, che alla sicurezza sua in Italia,
così in pace come in guerra, si appartenesse di farsene un appoggio,
introducendovi un vivere più quieto, e che più piacesse ai più ricchi, e
notabili cittadini. Per la qual cosa Trouvé, usando così i cattivi, come
i buoni, sì veramente che favorissero i suoi disegni, fece in sua casa
un'adunanza segreta, in cui si esaminarono i cambiamenti da farsi nella
costituzione Cisalpina. Ajutavano questo moto principalmente Sopransi,
antico ministro di polizia, per vendicarsi del direttorio che l'aveva
licenziato, Adelasio quinqueviro, e Luosi, ministro della giustizia. A
loro si accostavano Aldini di Bologna, Beccalozzi di Brescia, Villa di
Milano, Martinelli, ed Alborghetti di Bergamo, uomini meno odiati
dall'Austria, che amati dai Francesi. Era il progetto di ridurre la
constituzione a forma più aristocratica con diminuire il numero dei
membri dei consigli, e così ancora quello dei dipartimenti, e dei membri
dei magistrati distrettuali. Si voleva altresì accrescer forza al
direttorio, perchè si era non senza ragione osservato, ch'egli si
trovava nella constituzione molto impari ai due consigli, e quasi
schiavo loro. Con questo si voleva frenare la libertà della stampa, e
serrare i ritrovi politici, per la quale e pei quali i pensieri buoni si
facevano cattivi per la esagerazione, i cattivi peggiori per l'impeto.
Certamente questa riforma era da lodarsi, e sarebbe piaciuta ai buoni,
se al tempo medesimo si fosse data la independenza alla Cisalpina; ma
con la servitù ogni legge è cattiva, e le peggiori sono le buone, perchè
portano con se la menzogna, e fan credere che vi sia ciò che non v'è.
Ebbero i democrati ardenti avviso del disegno da un Montaldi
rappresentante, che chiamato alle congreghe segrete, nè appruovandole,
aveva svelato ogni cosa al consiglio dei giovani. Il romore fu grande;
le parole nei ritrovi non ancora chiusi, gli scritti nelle gazzette non
ancora frenate, furono in gran numero. Grande impressione massimamente
fece nel pubblico una orazione che sotto il nome supposto di Marco
Ferri, fu composta, data secretamente alle stampe, e sparsa
copiosissimamente in ogni parte della Cisalpina da un giovane
Piacentino, che aveva già stampato in Milano molte cose con non poca
lode. Grave, e forte orazione era questa: «E donde in te, uomo da nulla
(sclamava rivoltosi al giovane Trouvé il giovane Piacentino) donde in
te, piccolo straniero, barbaro per l'Italia, la podestà di tante e sì
gravi cose a dispetto nostro operare nella nostra repubblica? Dal tuo
direttorio? Ma come mai il direttorio Francese munito ti avrebbe di così
tirannica autorità, di una autorità, che in nessun tempo, in nessun caso
mai non fu delegata ad ambasciadore presso popolo amico? Come potrebb'ei
contraddire a se stesso, e detestare nella Cisalpina quello statuto, cui
con tanto fervore, con tanta severità protegge, e difende nell'ampio
recinto di sua giurisdizione? Come vorrebbe rapire in un istante a
repubblica sorella l'independenza, che, pochi mesi sono, le ha
guarentita con solenne trattato, e che tu, pochi dì fa, con sue patenti
lettere, e in apparato quasi trionfale a salutar sei venuto? Chi oserà
mai accagionare quei gravissimi quinqueviri dell'atroce e vile perfidia
d'avere occultamente preparata la violazione di un trattato nell'atto
medesimo, che di adempirlo fan pubblica testimonianza; di un trattato,
che ottenuto avendo la sanzione dei legislatori di Francia, non può
senza il loro consenso essere alterato, come non senza il previo
concerto coi direttori Cisalpini? Chi potrà mai credere, che quel tuo
governo, il quale non ha ricevuto che la delegazione di eseguire le
leggi in terra Francese, e sopra cittadini Francesi, usurpar voglia in
paese straniero, ed alleato l'autorità elettorale, legislativa,
esecutiva, tutta insomma la sovranità nazionale? Li Cisalpini sono
troppo giusti per recare a que' supremi governanti sì grave ingiuria.
No, non è vero, che fidata abbianti la missione di rovesciar lo statuto,
per cui esistono eglino medesimi: l'hanno difeso contro Europa tutta:
come nol faran trionfare di pochi oscuri oligarchi?
«Sei tu, novello Lisandro (benchè solo in male, e peggio a te s'attagli
siffatto nome) che vuoi poterti dar vanto di avere ricostituita una
repubblica in estranio paese, tu, che nel tuo proprio non meritasti mai
di sedere fra i settecento cinquanta, che le ordinarie leggi sanzionano.
Che altro infatti dimostra il giro tortuoso de' tuoi clandestini
maneggi? Per riverire, qual inviato di Francia, l'independenza
Cisalpina, ti recasti con pubblica magnifica pompa al palagio nostro
direttoriale, e il dì venti pratile andrà chiaro nei fasti della nostra
repubblica; per colpire oggi di morte questa independenza, ti rintani
nella più secreta parte del tuo alloggiamento; vi chiami un ambizioso, e
ribelle congedato ministro, un deputato adolescente, e tal altri da te
compro o ingannato; e con questi soli tenti, e disponi il tenebroso
lavoro. Nè sa nulla il supremo governo, nulla li ministri, nulla il
senato legislatore, nulla il popolo. Ma la patria vigilanza s'adombra e
bisbiglia, va in traccia dell'ambasciadore, e il cospiratore ritrova.
«Questa è dunque la fede, l'amicizia, la fraternità, che di Francia ne
apporti? questi li modi e le forme, onde la prima ambascerìa Francese
presso la novella repubblica condisci, ed onori? Questa la libertà, la
prosperità, che in Italia pretendi? Qual vasta materia di dire per que',
che mai non posero ne' tuoi fidanza! Diranno, che voi non prometteste
libertà agli Italiani, che per più agevolmente dominargli e spogliargli;
che oggi sotto pretesto di riforma, gli caricate di nuove catene, onde
viemmeglio continuare ad ismungergli, a dissanguargli; che l'oro, non la
libertà, è l'unico idolo vostro; che quella, d'ogni virtù maestra e
fonte, non è fatta per voi, nè voi per ella; infine, che la libertà
Francese sta tutta nelle parole, e negli scritti, negli ululati di
furibondi tribuni, e nelle declamazioni di perversi impudenti sofisti.
Ma v'è di più. Quei cangiamenti, che di tua despotica possanza, e con
tanta leggerezza effettuare intendi nello stato politico della
Cisalpina, saranno l'infallibil segnale della caduta della stessa
repubblica. Questo primo funesto esempio ne trarrà altri dopo di se. Ciò
sta in principio, ma sta molto più, se si badi al carattere dei
dominatori di una nazione. Nulla è durevole in Francia, dove
signoreggiano soltanto foga di novità, ambizione di dominio, furore di
parti, disorbitanze. Offeso in tal guisa l'Italiano nell'opposto suo
carattere, insultato così, ed isvilito, non avendo potuto ancora
riconoscersi, ordinarsi come a lui si conviene, sviluppare il suo genio,
e le sue forze, non potrà che abbandonarsi al primo conquistatore, che
si parrà a lui d'innanzi. Non è nei modi, che tu, di frivoli maestri più
frivolo allievo, apparasti sulla Senna, che le antiche repubbliche
Italiane stabilite, ed assodate si sono. Giudicane, se capace ne sei,
dalla loro durata a traverso dei secoli. Più di quattordici ne contava
la Veneta. Che è ella divenuta in due giorni nelle mani de' tuoi? Ti
vanta adunque di poter tu fortificare la repubblica Cisalpina....! Per
indole natìa, per l'esempio de' tuoi, per la forza pretoriana onde sei
cinto, forse potrai distruggere; edificare, consolidare non mai: non si
consolida distruggendo».
Sentì molto gravemente Trouvé il fatto, e condottosi in pompa al
direttorio, il richiedeva con parole aspre ed imperiose dell'arresto
dell'autore dell'orazione, per avere, come diceva, insultato la
repubblica di Francia. Gli fu risposto, non trovarsi in Milano i
caratteri di tale stampa, esser venuta di fuori; cercherebbero,
farebbero, non dubitasse: ma se la passarono con parole, perchè il
direttorio non ancora riformato amava il moto dell'oratore. Intanto
rimostrarono i consigli legislativi, rimostrò il direttorio, mandando
anche un uomo a posta a Parigi. Vi andò eziandio espressamente il
generale Brune, che era succeduto a Berthier, per rimostrare, perchè gli
piacevano i governi più popolari, e faceva professione di amatore
ardente di libertà.
Tutto fu indarno; Trouvé, al quale il direttorio, massimamente
Lareveillere-Lepeaux, per cui passavano principalmente le faccende
d'Italia portavano molta affezione, mandava ad effetto le accordate
deliberazioni. La notte dei trenta agosto chiamava in sua casa
centodieci rappresentanti, che non erano la metà di tutti: leggeva la
nuova constituzione, e le nuove leggi. Le appruovarono, chi per amore,
chi per forza, perchè aveva intimato loro, che tale era risolutamente la
volontà del direttorio di Francia, e che se non l'accettassero di buon
grado, l'avrebbe eseguita per forza. Nonostante alcuni ricusarono, e
sdegnati si ritirarono. Il giorno seguente l'opera si recava ad
esecuzione. Le soldatesche circondavano la sede dei consigli,
ributtavano con le bajonette i rappresentanti non eletti dalla riforma;
cacciavano dal direttorio Savoldi e Testi; vi surrogavano Sopransi e
Luosi: i rappresentanti renitenti scacciati dai consigli; Fantoni,
Custodi, Borghi, amatori vivissimi di libertà, e capi degli altri, posti
in carcere. La forza predominava. Fece Trouvé la nuova constituzione, e
finalmente dichiarò, parendogli di avere operato abbastanza, e bene
solidato l'imperio Francese in Lombardia, rimettere di nuovo l'autorità
comportazione, solo intenta a far fiorire nuovamente la religione, la
quiete, e la giusta libertà di tutti. Esortava finalmente i capi d'ogni
esercito estero a ritirarsi incontanente dal territorio Romano, ed a non
ingerirsi più oltre negli accidenti di questo stato, la cui sorte per
ragione di vicinanza, e per altri legittimi motivi principalmente
interessava la sua regia potestà.
Dalle parole trapassava tosto ai fatti: partito l'esercito in tre parti
marciava alla volta delle Romane terre. Era venuto per consigliare il re
sulle faccende di guerra il generale Austriaco Mack, mandato a questo
fine dall'imperatore Francesco. Fu suo disegno in questa mossa, sapendo
che i Francesi erano dispersi in alloggiamenti lontani fra di loro, e
sperando che i popoli tumultuerebbero in favor dei Napolitani, di
occupare un gran tratto di paese. Confidava, che gli avversarj sarebbero
stati circondati, e presi senza molto sangue. Perlocchè aveva Mack in
tale modo ordinato l'assalto, che la più grossa schiera condotta da lui
medesimo, avendo con se il principe ereditario di Napoli, per la strada
degli Abruzzi, se ne gisse contro Fermo, e se la fortuna si mostrasse
favorevole, a porre il campo sotto Ancona, terra munita di una
cittadella forte, ma con presidio debole, perchè una parte era stata
mandata a rinforzare Corfù minacciato dalle armi Ottomane e Russe. Era
suo intento, che questa schiera tagliasse il ritorno ai Francesi verso
la repubblica Cisalpina. L'altra colonna guidata dal re, che aveva con
se per moderatore Colli, aveva carico di far impeto direttamente contro
Roma serbata espressamente al trionfo di Ferdinando. Ma pensiero di
colui, che aveva ordito tutta questa macchina militare, era altresì di
tagliare la strada ai Francesi per la Toscana. Fu quest'opera commessa
ad una terza schiera sotto i comandamenti del generale Naselli: la parte
più grossa di lei posta su navi Inglesi e Portoghesi governate da Nelson
s'incamminava ad occupar Livorno. Ma perchè ella non fosse troppo
distante dalle genti che accennavano a Roma, si era dato opera, che la
minor parte, che obbediva al conte Ruggiero di Damas, fuoruscito
Francese, radendo i lidi verso Civitavecchia, se n'andasse ad occupare
quei luoghi della Toscana, che portano il nome di Presidj. Per tal modo
ordinato il disegno si mandava ad esecuzione. Il generale Championnet,
nelle mani del quale stava allora il supremo governo dei repubblicani in
quelle parti, aveva con se poca gente, nè certamente bastevole a far
fronte a tanta moltitudine, se i soldati Napolitani fossero stati pari
a' suoi per perizia e per valore; conciossiachè non avesse con lui, che
cinque reggimenti di fanti, uno di cavalleggieri, uno di dragoni, due
compagnie di artiglieri, numero forse che non sommava a dieci mila
soldati. Erano per verità con lui alcuni reggimenti Italiani, ma ei
faceva sopra di loro poco fondamento.
Il dì ventitrè novembre i Napolitani si muovevano al destino loro: già
la schiera guidata da Ferdinando, scacciate le poche genti repubblicane,
che le si pararono avanti, s'avvicinava a Terni. Mandava Championnet
domandando a Mack, qual ragione muovesse i Napolitani alla guerra contro
Francia. Rispondeva con troppo maggior alterigia che se gli convenisse,
che l'esercito di sua maestà Siciliana occupava il territorio Romano
sovvertito, ed usurpato dalla Francia contro la fede dei capitoli di
Campoformio; che il nuovo stato di Roma non era consentito nè dal re, nè
dall'imperatore, suo alleato; però andrebbe avanti, non commetterebbe
ostilità, se non se gli resistesse; se sì, commetterebbele contro
chiunque, e qual fosse il nome che si avesse. Replicava modestamente
Championnet, la repubblica Romana essere sotto la tutela della Francese,
e difenderebbela. Intanto non vedendosi, pel piccol numero de' suoi
soldati sparsi in luoghi lontani, pari al resistere a tanta piena, nè a
custodire tanta larghezza di paese, raccoglieva i suoi e gli mandava,
lasciando un sufficiente presidio in Castel Sant'Angelo, a far capo
grosso a Civita-Castellana. Ma udendo, che i Napolitani erano stati
ricevuti in Livorno, sebbene con protesta della neutralità violata per
parte dei magistrati del gran duca, che Viterbo e Civitavecchia si
levavano a rumore, che Ruggiero di Damas arrivava sui confini fra lo
stato ecclesiastico e la Toscana, soprattutto sentendo che Mack, sebbene
valorosamente, e non senza grossa strage dei regj combattuto dal
generale Lemoyne, si era impadronito di Fermo, e già accennava ad
Ancona, fece pensiero di ritirarsi più in su per le rive del Tevere, e
piantò i suoi alloggiamenti in Perugia, perchè temeva, che il generale
Napolitano gli tagliasse le strade dell'Apennino, per cui poteva avere
il suo ricovero sulle terre della Cisalpina. A Perugia poi raccoglieva
tutte le sue sparse genti, e vi trasferiva anche il governo Romano, che
aveva abbandonato, per la forza di quell'accidente improvviso, la sua
sede, lasciando Roma sicura preda dei regj. Trovarono qualche aderenza
di popoli nello stato pontificio, come era succeduto a Viterbo, ed a
Civitavecchia. Ma generalmente poco si muovevano, o tepidezza verso
l'antico governo del papa, o odio innato contro i Napolitani, o non
cessata paura delle armi repubblicane, che sel facessero. Che anzi in
alcuni luoghi, come a Terni, i paesani combatterono virilmente in favor
dei Francesi, e diedero loro campo di ridursi a salvamento. Entrava
Ferdinando trionfando in Roma il dì ventinove di novembre. Il
seguitavano i suoi soldati in bellissima mostra; il circondavano i primi
capi in magnifico arnese. Il popolo, che sempre si precipita cupidamente
sotto i nuovi signori, tratto piuttosto dalla novità, che dall'amore,
gli fece feste, e rallegramenti di ogni sorte: le Romane e le Napolitane
grida miste insieme erano un singolare spettacolo. Si rallegravano
dell'essere liberati da quel vivere tirannico e soldatesco, e si
auguravano, certo molto leggermente, tempi migliori; perciocchè non andò
gran pezza, che si accorsero come si può cambiar di signore, e non di
servitù. S'incominciava intanto a trascorrere in vituperj ed in fatti
peggiori dei vituperj, contro coloro che avevano seguitato il governo
nuovo, chiamandogli il popolo, o mosso da se, od incitato da altri, Atei
e Giacobini. I vituperj poi, ed i mali trattamenti trascorrevano, come
suol avvenire in simili casi, dai nocenti agl'innocenti, e si
manomettevano i Giacobini per odio pubblico, i non Giacobini per odj
privati. Non parlo dell'atterramento degli alberi della libertà, e della
ruina a furia di popolo del monumento eretto in Campidoglio all'ucciso
Duphot; perciocchè avesse pur voluto Dio, che a queste opere piuttosto
oziose che dannose si fossero rimasti, ma s'incominciava a far sangue, e
a demolir case. S'interpose Ferdinando, e fe' cessare i tumulti, creando
una milizia urbana, e confidandola ad un cavaliere Gennaro Valentino.
Instituì oltre a ciò un governo temporaneo d'uomini probi ed autorevoli,
che furono i principi Borghese, Aldobrandini e Gabrielli, il marchese
Massimi, ed un Ricci. Ma siccome i popoli, massimamente il Romano, non
stan fermi che alle provvisioni, così Ferdinando calava il prezzo del
pane; il che fece una grande allegrezza.
Intanto Roma si spogliava; nè meglio la città veneranda trattarono i
Napolitani che i Francesi, quantunque gli uni e gli altri si chiamassero
col nome di liberatori. Portarono le logge del Vaticano dipinte da
Raffaello, risparmiate, ed anche rispettate dai Francesi, lungo tempo le
vestigia della barbarie delle soldatesche Napolitane. Nè i quadri si
risparmiarono, nè le statue, nè i manoscritti sfuggiti alla rapacità
degli agenti del direttorio. Da tante enormità nacque, che il popolo
cominciò a desiderar Francia contro Napoli, e che molti fra i partigiani
del papa diventavano partigiani Francesi. Tali furono le opere
Napolitane in Roma; ma poco durarono, perchè era fatale, che in quella
nobile, e sventurata Roma, un dominio insolente in brevissimo giro di
tempo sottentrasse ad un dominio insolente; i quali accidenti saranno
per noi raccontati nel progresso di queste storie.
Era costume del direttorio di Francia, per sovvertire i paesi, di
accarezzare e fomentare i desiderosi di novità, o che tali fossero per
fin di bene, o per fin di male; ma conseguita la mutazione, i suoi
agenti più accarezzavano i cattivi che i buoni, perchè trovavano i primi
più arrendevoli, e meglio inclinati a servire ai desiderj loro. Tanto
più poi vezzeggiavano i cattivi, e trasandavano i buoni, quanto più
erano lontani i pericoli. Ma quando sovrastava un tempo forte, tosto si
davano a far le chiamate ai buoni, perchè questi per la virtù loro
avevano volti in lor favore gli animi dei popoli, il che era fondamento
di potenza. Da un'altra parte gli amatori veri di libertà tanto più vivi
si dimostravano, quanto più il paese loro aveva sembianza
d'indipendente, perchè il resistere alla tirannide pareva loro vano, ed
il non servire alla indipendenza, vile. Questi adunque sorgevano, quando
era data al loro paese, se non in fatti, almeno in parole, la
indipendenza, sperando di trovar modo di acquistarla vera e reale.
Quindi i dominatori, mettendosi in sospetto, usavano di ritrarre lo
stato dalle mani loro, ponendolo in balìa di coloro, che, o più vili o
più prudenti essendo, si accomodavano facilmente alle voglie dei
forestieri. Quindi nasceva, che assai più dei partigiani della potestà
regia, assai più dei fautori dell'aristocrazìa, e della oligarchìa
stessa, che per altro abborrivano, o fingevano di abborrire, gli agenti
del direttorio, odiavano gli amatori dell'indipendenza. Queste cose si
vedevano manifestamente in Cisalpina, dove essi allontanandosi
dagl'indipendenti, si accostavano ai novatori avidi di denaro e di
dominio, ed anche agli aristocrati, perchè sapevano che a questi, purchè
e' siano guarentiti, ed abbiano sicurezza contro gl'impeti e le
insolenze popolari, poco importa chi abbia il reggimento supremo in
mano. Per bene intendere queste cose, e' bisognerà incominciarle dal
loro primo principio. Aveva il direttorio di Francia fino a questo tempo
dominato in Liguria, ed in Cisalpina per la conquista; volle quindi
dominare per l'alleanza, condizione peggiore della prima, se gli
sfrenati modi non si cambiano, perchè quella comporta per se ogni cosa,
questa dovrebbe avere moderazione e regola. Stipulossi a Parigi il dì
ventinove di marzo, per forza dall'ambasciatore ordinario di Cisalpina
Visconti, volentieri dall'ambasciatore straordinario Serbelloni, un
trattato d'alleanza fra le due repubbliche, Francese e Cisalpina, i cui
principali capitoli furono i seguenti: che la repubblica Francese
riconosceva come potenza libera e indipendente la Cisalpina, e le
guarentiva la sua libertà, la indipendenza, e l'abolizione di ogni
governo anteriore a quello, che attualmente la reggeva; che vi fosse
pace ed amicizia perpetua fra ambedue; che vi fosse alleanza, e che la
Cisalpina stesse, così per le difese come per le offese, a favore della
Francia; che la Cisalpina avendo domandato alla Francese un corpo, che
fosse bastante a conservare la sua libertà, indipendenza, e quiete, e
così pure a preservarla da ogni insulto da parte de' suoi vicini, si era
convenuto fra le due repubbliche, che la Francese manterrebbe nella
Cisalpina, per tanto tempo per quanto non fosse altrimenti convenuto,
ventiduemila fanti, duemila cinquecento cavalli, cinquecento artiglieri
sì da piè che da cavallo, e che per questo la Cisalpina pagasse alla
Francese ogni anno diciotto milioni di franchi, ogni mese un milione
cinquecentomila franchi; che obbedissero queste genti, e così ancora
quelle della Cisalpina ai generali Francesi. L'ambasciatore Visconti,
siccome quelli a cui pareva, che questo trattato significasse tutt'altra
cosa piuttosto che alleanza ed indipendenza, non gli voleva consentire.
Ma ebbe ad udire dal ministro di Francia il suono di queste parole, che
la repubblica Francese avendo creato la Cisalpina, poteva anche
distruggerla, se volesse. Il che era verissimo, ma certamente nè
generoso, nè consentaneo alle belle parole, nè conducente a
indipendenza. Perciò Visconti non istette ad aspettar altro, e
sottoscrisse il trattato.
Arrivato quest'accordo in Cisalpina, vi sorse uno sdegno grandissimo: i
consigli legislativi nol volevano ratificare. Scriveva pubblicamente
Berthier, che da Roma se n'era venuto a Genova per andarsene alla
spedizione d'Egitto, che quel trattato era la salute della Cisalpina, se
ella il ratificasse. Altri sottomano insinuavano, che se ratificasse,
sarebbe ingrandita, se ricusasse, spenta.
Queste promesse e queste minacce operarono di modo che i consigli
ratificarono, non senza però molti discorsi contrari, e molta discordia.
Gli amatori dell'indipendenza se ne sgomentarono, molti mali umori
nascevano nella repubblica. S'aggiunse che i due quinqueviri Moscati e
Paradisi, e nove dei consigli legislativi, che più vivamente degli altri
si erano versati al trattato, avevano ricevuto sforzata licenza dal
direttorio di Francia. Di più si fe' dire e stampare, che fossero
fautori dell'Austria, e nemici della Francia; delle quali allegazioni si
può dire, che è dubbio, se siano o più ridicole, o più false. Ma la
persecuzione non si rimase alle parole; perchè alcuni degli oppositori
furono anche carcerati. Si conturbavano le menti a questi eccessi; si
temevano cose peggiori.
In mezzo a questi mali umori arrivava in Cisalpina mandato dal
direttorio in qualità di ambasciatore di Francia, Trouvé, giovane di
spirito, e che faceva professione di amare la libertà. Si sollevarono
gli animi al suo arrivo, comparendo per la prima volta un ministro di
Francia presso quello stato nuovo, ed ognuno si stava ansiosamente
aspettando, che cosa portasse. Gl'indipendenti ne auguravano bene pel
fatto stesso; gli aristocrati quieti si rallegravano ancor essi, perchè
speravano, che un reggimento più regolato gli preserverebbe dalle
improntitudini dei libertini. Fu l'ingresso di Trouvé al direttorio
Cisalpino molto pomposo. Parlò nel suo discorso della Francia
magnificamente, della Cisalpina amorevolmente. Piacque soprattutto
agl'indipendenti il principio del suo favellare, che fu con queste
parole: che veniva in nome della grande nazione a salutare
l'indipendenza della repubblica Cisalpina. Poi continuando affermava,
che era venuto per adempire presso a lei un carico onorevole, e caro
all'anima sua, quello cioè di giungere all'ammirazione verso gli eroici
fatti, l'amore che inspira la pratica delle virtù; che tal era il
desiderio, tale il bisogno del governo Francese, che a questo generoso
fine per comandamento di lui, ed in adempimento della sua tenerezza
paterna indirizzerebbe egli tutti gli sforzi, tutti i pensieri suoi.
Allontanassero pertanto da loro, come egli allontanava da se, le
dimostrazioni vane di un'astuta politica, che adula per corrompere, che
accarezza per uccidere: allontanassero le sottigliezze, allontanassero
le ingannatrici promesse, le seduzioni, la duplicità; animi aperti e
leali, confidenza vicendevole, giustizia sincera, probità incorrotta,
unione inalterabile fra i magistrati le due repubbliche congiungessero;
congiunzione, continuava vieppiù nella sua poesia infuocandosi il
giovane ambasciatore, congiunzione gloriosa e toccante; congiunzione
giurata sull'ara della patria per difendere i principj della ragione, e
per dilatare il culto della libertà. Queste belle poesie, che coprivano
brutti fatti, giravano a quei tempi. Rispondeva all'ambasciatore di
Francia con pensieri adulatorj, e lingua Italiana sucidissima il
presidente del direttorio Constabili: il linguaggio stesso disvelava la
debolezza degli animi, la servitù dello stato.
Scriveva sulle prime, cioè il dì trenta maggio, Trouvé a Birago,
ministro degli affari esteri della Cisalpina, invitandolo ad operar per
modo che il governo Cisalpino facesse risoluzioni vigorose contro i
fuorusciti Francesi, che si erano ricoverati sul territorio Cisalpino:
gli mandava indizi sopra alcuni di loro: voleva, che a termine del
capitolo decimoquinto del trattato d'alleanza fra le due repubbliche,
essi fuorusciti fossero arrestati, onde il direttorio di Francia gli
potesse bandire, e confinar ne' luoghi, che stimerebbe; accusava, quelli
di aver combattuto contro la loro patria nelle legioni parricide, come
le chiamava, di Condè, questi, di spandere fra i Cisalpini novellamente
liberi le dottrine della schiavitù, di calunniare i repubblicani
Francesi, e di far sorgere contro di loro il fanatismo, il pregiudizio,
e tutti gli odj possibili: voleva finalmente, che il ministro della
Cisalpina pubblicasse la sua lettera, affinchè tutti i fuorusciti
sapessero, che la legazione Francese dichiarava loro una guerra, la
quale non avrebbe termine, se non quando i medesimi cessassero di
contaminare la terra della libertà. Rispose il Cisalpino ministro
all'ambasciadore di Francia, che il direttorio Cisalpino purgherebbe la
terra della libertà da quegli uomini immorali, come gli qualificava,
contaminati, ed ipocriti. Brutto principio di legazione era certamente
quello, che s'annunziava con un'opera inumana, e brutto principio ancora
di governo libero era quello che la secondava.
Ma ben altri pensieri che questi nodriva l'ambasciadore nella sua mente
e per se, e per comandamento di chi il mandava. Aveva il direttorio
osservato, che la vivezza dei libertini era stata cagione, che i popoli
Cisalpini, che sono generalmente di natura quieta e savia, si fossero
messi in mal umore. I medesimi libertini, siccome quelli, dico i
sinceri, che senza freno parlando accusavano continuamente di prepotenza
e di ladroneccio gli agenti del direttorio di Francia, operavano, che
l'odio contro i Francesi moltiplicasse ogni giorno. Tenevano nei due
consigli, massimamente in quello dei giovani, il predominio, e le
proposte che vi si facevano, ed i decreti che vi si pigliavano,
indicavano molta ardenza negli animi. Già insospettiva la Francia, che
sapeva, che la smoderatezza può dare contro ogni cosa, ed ella non
voleva che si desse contro di lei. L'opposizione tanto gagliarda, che
era sorta nei consigli contro il trattato d'alleanza, accresceva ancora
maggior colore a questi pensieri e sospetti, dimodochè divenne certo pel
direttorio, che se non domava quei partigiani tanto risentiti di libertà
e d'independenza, la sua superiorità in Cisalpina sarebbe sempre stata
incerta e vacillante. Infatti si vedeva, che il medesimo spirito
d'opposizione, che nei consigli ed in una parte del direttorio si era
manifestato, si radicava anche nei magistrati subalterni, ed ognuno
gridava libertà ed independenza, con tali grida accennando non più ai
Tedeschi, che ai Francesi. Parve, che fosse arrivato il tempo per
Francia di aggravar la mano e di porre il freno, perchè per la pace
fatta con l'imperatore d'Austria essendo passata la stagione di fomentar
le rivoluzioni in Lombardia, pensava, che alla sicurezza sua in Italia,
così in pace come in guerra, si appartenesse di farsene un appoggio,
introducendovi un vivere più quieto, e che più piacesse ai più ricchi, e
notabili cittadini. Per la qual cosa Trouvé, usando così i cattivi, come
i buoni, sì veramente che favorissero i suoi disegni, fece in sua casa
un'adunanza segreta, in cui si esaminarono i cambiamenti da farsi nella
costituzione Cisalpina. Ajutavano questo moto principalmente Sopransi,
antico ministro di polizia, per vendicarsi del direttorio che l'aveva
licenziato, Adelasio quinqueviro, e Luosi, ministro della giustizia. A
loro si accostavano Aldini di Bologna, Beccalozzi di Brescia, Villa di
Milano, Martinelli, ed Alborghetti di Bergamo, uomini meno odiati
dall'Austria, che amati dai Francesi. Era il progetto di ridurre la
constituzione a forma più aristocratica con diminuire il numero dei
membri dei consigli, e così ancora quello dei dipartimenti, e dei membri
dei magistrati distrettuali. Si voleva altresì accrescer forza al
direttorio, perchè si era non senza ragione osservato, ch'egli si
trovava nella constituzione molto impari ai due consigli, e quasi
schiavo loro. Con questo si voleva frenare la libertà della stampa, e
serrare i ritrovi politici, per la quale e pei quali i pensieri buoni si
facevano cattivi per la esagerazione, i cattivi peggiori per l'impeto.
Certamente questa riforma era da lodarsi, e sarebbe piaciuta ai buoni,
se al tempo medesimo si fosse data la independenza alla Cisalpina; ma
con la servitù ogni legge è cattiva, e le peggiori sono le buone, perchè
portano con se la menzogna, e fan credere che vi sia ciò che non v'è.
Ebbero i democrati ardenti avviso del disegno da un Montaldi
rappresentante, che chiamato alle congreghe segrete, nè appruovandole,
aveva svelato ogni cosa al consiglio dei giovani. Il romore fu grande;
le parole nei ritrovi non ancora chiusi, gli scritti nelle gazzette non
ancora frenate, furono in gran numero. Grande impressione massimamente
fece nel pubblico una orazione che sotto il nome supposto di Marco
Ferri, fu composta, data secretamente alle stampe, e sparsa
copiosissimamente in ogni parte della Cisalpina da un giovane
Piacentino, che aveva già stampato in Milano molte cose con non poca
lode. Grave, e forte orazione era questa: «E donde in te, uomo da nulla
(sclamava rivoltosi al giovane Trouvé il giovane Piacentino) donde in
te, piccolo straniero, barbaro per l'Italia, la podestà di tante e sì
gravi cose a dispetto nostro operare nella nostra repubblica? Dal tuo
direttorio? Ma come mai il direttorio Francese munito ti avrebbe di così
tirannica autorità, di una autorità, che in nessun tempo, in nessun caso
mai non fu delegata ad ambasciadore presso popolo amico? Come potrebb'ei
contraddire a se stesso, e detestare nella Cisalpina quello statuto, cui
con tanto fervore, con tanta severità protegge, e difende nell'ampio
recinto di sua giurisdizione? Come vorrebbe rapire in un istante a
repubblica sorella l'independenza, che, pochi mesi sono, le ha
guarentita con solenne trattato, e che tu, pochi dì fa, con sue patenti
lettere, e in apparato quasi trionfale a salutar sei venuto? Chi oserà
mai accagionare quei gravissimi quinqueviri dell'atroce e vile perfidia
d'avere occultamente preparata la violazione di un trattato nell'atto
medesimo, che di adempirlo fan pubblica testimonianza; di un trattato,
che ottenuto avendo la sanzione dei legislatori di Francia, non può
senza il loro consenso essere alterato, come non senza il previo
concerto coi direttori Cisalpini? Chi potrà mai credere, che quel tuo
governo, il quale non ha ricevuto che la delegazione di eseguire le
leggi in terra Francese, e sopra cittadini Francesi, usurpar voglia in
paese straniero, ed alleato l'autorità elettorale, legislativa,
esecutiva, tutta insomma la sovranità nazionale? Li Cisalpini sono
troppo giusti per recare a que' supremi governanti sì grave ingiuria.
No, non è vero, che fidata abbianti la missione di rovesciar lo statuto,
per cui esistono eglino medesimi: l'hanno difeso contro Europa tutta:
come nol faran trionfare di pochi oscuri oligarchi?
«Sei tu, novello Lisandro (benchè solo in male, e peggio a te s'attagli
siffatto nome) che vuoi poterti dar vanto di avere ricostituita una
repubblica in estranio paese, tu, che nel tuo proprio non meritasti mai
di sedere fra i settecento cinquanta, che le ordinarie leggi sanzionano.
Che altro infatti dimostra il giro tortuoso de' tuoi clandestini
maneggi? Per riverire, qual inviato di Francia, l'independenza
Cisalpina, ti recasti con pubblica magnifica pompa al palagio nostro
direttoriale, e il dì venti pratile andrà chiaro nei fasti della nostra
repubblica; per colpire oggi di morte questa independenza, ti rintani
nella più secreta parte del tuo alloggiamento; vi chiami un ambizioso, e
ribelle congedato ministro, un deputato adolescente, e tal altri da te
compro o ingannato; e con questi soli tenti, e disponi il tenebroso
lavoro. Nè sa nulla il supremo governo, nulla li ministri, nulla il
senato legislatore, nulla il popolo. Ma la patria vigilanza s'adombra e
bisbiglia, va in traccia dell'ambasciadore, e il cospiratore ritrova.
«Questa è dunque la fede, l'amicizia, la fraternità, che di Francia ne
apporti? questi li modi e le forme, onde la prima ambascerìa Francese
presso la novella repubblica condisci, ed onori? Questa la libertà, la
prosperità, che in Italia pretendi? Qual vasta materia di dire per que',
che mai non posero ne' tuoi fidanza! Diranno, che voi non prometteste
libertà agli Italiani, che per più agevolmente dominargli e spogliargli;
che oggi sotto pretesto di riforma, gli caricate di nuove catene, onde
viemmeglio continuare ad ismungergli, a dissanguargli; che l'oro, non la
libertà, è l'unico idolo vostro; che quella, d'ogni virtù maestra e
fonte, non è fatta per voi, nè voi per ella; infine, che la libertà
Francese sta tutta nelle parole, e negli scritti, negli ululati di
furibondi tribuni, e nelle declamazioni di perversi impudenti sofisti.
Ma v'è di più. Quei cangiamenti, che di tua despotica possanza, e con
tanta leggerezza effettuare intendi nello stato politico della
Cisalpina, saranno l'infallibil segnale della caduta della stessa
repubblica. Questo primo funesto esempio ne trarrà altri dopo di se. Ciò
sta in principio, ma sta molto più, se si badi al carattere dei
dominatori di una nazione. Nulla è durevole in Francia, dove
signoreggiano soltanto foga di novità, ambizione di dominio, furore di
parti, disorbitanze. Offeso in tal guisa l'Italiano nell'opposto suo
carattere, insultato così, ed isvilito, non avendo potuto ancora
riconoscersi, ordinarsi come a lui si conviene, sviluppare il suo genio,
e le sue forze, non potrà che abbandonarsi al primo conquistatore, che
si parrà a lui d'innanzi. Non è nei modi, che tu, di frivoli maestri più
frivolo allievo, apparasti sulla Senna, che le antiche repubbliche
Italiane stabilite, ed assodate si sono. Giudicane, se capace ne sei,
dalla loro durata a traverso dei secoli. Più di quattordici ne contava
la Veneta. Che è ella divenuta in due giorni nelle mani de' tuoi? Ti
vanta adunque di poter tu fortificare la repubblica Cisalpina....! Per
indole natìa, per l'esempio de' tuoi, per la forza pretoriana onde sei
cinto, forse potrai distruggere; edificare, consolidare non mai: non si
consolida distruggendo».
Sentì molto gravemente Trouvé il fatto, e condottosi in pompa al
direttorio, il richiedeva con parole aspre ed imperiose dell'arresto
dell'autore dell'orazione, per avere, come diceva, insultato la
repubblica di Francia. Gli fu risposto, non trovarsi in Milano i
caratteri di tale stampa, esser venuta di fuori; cercherebbero,
farebbero, non dubitasse: ma se la passarono con parole, perchè il
direttorio non ancora riformato amava il moto dell'oratore. Intanto
rimostrarono i consigli legislativi, rimostrò il direttorio, mandando
anche un uomo a posta a Parigi. Vi andò eziandio espressamente il
generale Brune, che era succeduto a Berthier, per rimostrare, perchè gli
piacevano i governi più popolari, e faceva professione di amatore
ardente di libertà.
Tutto fu indarno; Trouvé, al quale il direttorio, massimamente
Lareveillere-Lepeaux, per cui passavano principalmente le faccende
d'Italia portavano molta affezione, mandava ad effetto le accordate
deliberazioni. La notte dei trenta agosto chiamava in sua casa
centodieci rappresentanti, che non erano la metà di tutti: leggeva la
nuova constituzione, e le nuove leggi. Le appruovarono, chi per amore,
chi per forza, perchè aveva intimato loro, che tale era risolutamente la
volontà del direttorio di Francia, e che se non l'accettassero di buon
grado, l'avrebbe eseguita per forza. Nonostante alcuni ricusarono, e
sdegnati si ritirarono. Il giorno seguente l'opera si recava ad
esecuzione. Le soldatesche circondavano la sede dei consigli,
ributtavano con le bajonette i rappresentanti non eletti dalla riforma;
cacciavano dal direttorio Savoldi e Testi; vi surrogavano Sopransi e
Luosi: i rappresentanti renitenti scacciati dai consigli; Fantoni,
Custodi, Borghi, amatori vivissimi di libertà, e capi degli altri, posti
in carcere. La forza predominava. Fece Trouvé la nuova constituzione, e
finalmente dichiarò, parendogli di avere operato abbastanza, e bene
solidato l'imperio Francese in Lombardia, rimettere di nuovo l'autorità
- Parts
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 01
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 02
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 03
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 04
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 05
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 06
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 07
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 08
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 09
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 10
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 11
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 12
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 13
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 14
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 15
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 16
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 17
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 18
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 19
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 20
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 21
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 22