Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 02
pareggiassero. Poi, usando i Francesi di trarre con le artiglierìe loro
nel corpo delle navi nemiche, era manifesto che i tiri meglio sarebbero
aggiustati, e maggior colpo farebbero, scagliati da navi sull'ancore,
che da navi sulle vele. Così egli si prometteva una probabile vittoria,
poichè i suoi soldati essendo animosissimi, non aveva, in tale modo
combattendo, cagione di temere che il coraggio loro venisse sopraffatto
dalla maggior perizia degl'Inglesi. Spirava il vento da maestro,
volgendosi un poco verso tramontana-maestro. Non così tosto l'ammiraglio
Inglese scoverse l'armata Francese, che diè il segnale della battaglia,
ordinando alle navi, che s'accostassero tutte al nemico, chi più presto,
il meglio. Dalla parte sua Brueys fe' salire incontanente i marinari
delle navi minori sulle maggiori, e sprofondava un'ancora di più,
acciocchè le sue navi fossero più ferme, e i suoi si persuadessero, che
quello era il luogo, in cui per loro abbisognava o vincere o morire.
Egli poscia si pose co' suoi migliori ufficiali a velettare sulla gabbia
dell'Oriente, sito pericolosissimo, perchè gl'Inglesi usano di tirare in
alto nelle vele, e nel sartiame. Si scagliavano gl'Inglesi con impeto
grandissimo contro l'antiguardo, e contro il mezzo dell'armata nemica, i
quali con tutte le artiglierìe di poggia fulminando, ferocemente gli
ributtarono, non senza aver loro recato danni gravissimi. In questo
primo incontro le artiglierìe dell'isoletta ajutarono non poco l'opera
delle navi. Tornarono gl'Inglesi all'urto un'altra volta, e sarebbe
stata la battaglia più lunga e più pericolosa per loro, poichè Nelson si
ostinava in voler dar dentro al petto dell'armata nemica, che se gli
scopriva per poggia, se al capitano Foley del Golìa non fosse avvenuto
l'audacissimo pensiero di ficcarsi, girando attorno alla punta
dell'antiguardo Francese, tra il lido e l'armata nemica, donde ne
avveniva, che i Francesi, perdendo il vantaggio di poter essere assaliti
solamente da una parte, cioè da poggia, potevano, fra due tempeste di
fuoco e di palle trovandosi, essere fulminati da ambe le parti, cioè da
poggia, e da orza. Pensollo, e fecelo anche con ardire, e perizia
inestimabile Foley. Consideratasi dagli altri l'importanza di questa
mossa, che tanto vantaggiava le sorti degl'Inglesi, il Golìa fu
prestamente seguitato dal Zelante, dall'Orione, dal Teseo, dall'Audace,
e finalmente dalla Vanguardia, vascello almirante. Nè così tosto erano
per tal modo trapassati a orza dei repubblicani, che, gettate le ancore,
incominciavano a trarre con una furia incredibile.
Al tempo stesso le altre navi Inglesi, poichè non potevano esser
molestate dalle navi del mezzo e del retroguardo nemico, che sull'ancore
più dietro erano sorte, si arringavano a poggia delle Francesi, e con
furiosi tiri le tempestavano. Così tutto l'antiguardo Francese, e parte
della mezza fila, che erano il Guerriero, il Conquistatore, lo Spartano,
e l'Aquilone, combattuti da ambi i lati travagliavano grandemente,
quantunque sulle prime con molto valore si difendessero. Ma sopraffatti
da quella prepotente forza, rotti, fracassati, disalberati, ed incapaci
di muoversi a volontà, non che mareggiare con disegno, si arrenderono.
Il vento in questo, che continuava a soffiare da maestro, sospingeva il
fumo di tante artiglierìe sulla mezza schiera, e sul retroguardo
Francese, e tutto, qual foltissima nebbia, l'ingombrava, nebbia, che
solo era rotta dai foschi lumi delle tiranti artiglierìe. Era lo
spettacolo orrendo; i Francesi, che si trovavano in terraferma, ansj del
fine, che tanto grave era per la patria loro, ascesi sui luoghi più
alti, prospettavano l'augurosa battaglia. Così la specola, e le torri
d'Alessandria, così i terrazzi, e le logge di Rosetta, e la torre di
Abul-Maradur, distante un tiro di cannone da questa città, erano piene
di repubblicani, paventosi a quello che vedevano, ed a quello che
udivano. Al tempo stesso gli Arabi si erano sparsi sul lido, condotti
parte dalla contentezza di vedere i repubblicani, cui molto odiavano, in
sì grave pericolo, parte dalla speranza di avergli a svaligiare, quando
cercassero di ricoverarsi a terra. Pareva, che non si potesse aggiungere
terrore ad uno spettacolo già tanto spaventevole pel rimbombo di tante e
sì grosse artiglierìe. Eppure una nuova scena si scoverse piena ancora
di maggiore spavento. S'era fatto notte; il Bellerofonte s'attaccava con
l'Oriente. Ma questa enorme mole con un fracasso orribile lo teneva
lontano, e tanto lo conquassava, che poco più sarebbe andato a fondo.
Sopraggiungeva in questo mentre l'Alessandro, che trovatosi più vicino
ad Alessandria aveva tardato ad arrivare, e si metteva tosto a
bersagliare ancor esso l'Oriente. Il Leandro, che era stato compagno
all'Alessandro, giuntosi col medesimo, assaltava il Popolo sovrano, ed
il Franclino. Poi altre navi Inglesi si avvicinavano ai vascelli
Francesi, che tuttavia combattevano, poichè, vinta la vanguardia, era
fatto loro facoltà di girsene ad assaltare le navi della fila mezzana.
Così l'Oriente, ed i suoi due vicini il Franclino ed il Tonante, si
trovarono ad un tempo stesso bersagliati da tutte parti. L'ammiraglio
Brueys, che in tanto estremo accidente aveva compito tutte le parti di
esperto ed animoso capitano di mare, ferito prima nel capo e nella mano,
fu finalmente da una palla diviso in due a mezzo il corpo. Casabianca,
capitano dell'Oriente, ferito gravemente ancor egli, era stato costretto
a lasciare l'ufficio. In mezzo a quel tumulto ecco gridarsi
sull'Oriente, ch'egli ardeva. Nè v'era modo a spegnere; le trombe rotte,
le secchie fracassate, gli uomini fuor di mente toglievano ogni
speranza. La scheggia, e le palle Inglesi continuavano a tempestare.
Ardeva l'Oriente, tanto bella e tanto potente nave, ed ardendo spargeva
fra quelle tenebre tutto all'intorno un funesto chiarore. Davano opera
gl'Inglesi ad allontanarsi, perchè nella finale ruina di quella mole
smisurata temevano l'ultimo sterminio. Infatti verso le dieci della sera
con un rimbombo, che parve più che di grossissimo tuono, e con un
incendio, come quando il cielo di nottetempo pare tutto acceso da non
interrotte folgori, scoppiò. Successe a tanto caso, per lo spavento e
per lo stupore, per ben dieci minuti un subito ed alto silenzio. Le navi
così vicine come lontane, ravviluppate da fumo, da tizzoni, da rottami
d'ogni sorte, non si vedevano, nè senza fatica poterono preservarsi
dalle circondanti fiamme. Poi le artiglierìe rincominciarono lo strazio,
massime dal canto degl'Inglesi, che non volevano, che l'opera della
distruzione della flotta Francese restasse imperfetta. Continuossi per
tal modo a trarre sino alle tre del seguente giorno, momento, in cui fu
forza far tregua, perchè la stanchezza prevalse al furore.
Quando poi incominciò a raggiornare, quanto si scoperse diverso
l'aspetto delle cose da quello, ch'era stato prima che la battaglia
incominciasse! Due flotte per lo innanzi fioritissime, acconce, preste,
piene di gente allegra ed intera, risuonanti di grida liete, e festose,
ora rotte, lacere, tarde, sanguinose, arse, piene di morti, di
moribondi, di gemiti spaventosi e compassionevoli. Nissuna reliquia
dell'arso Oriente; la fregata la Seria gita a fondo mostrava solo la
cima degl'infranti alberi; le navi Francesi, il Guerriero, il
Conquistatore, lo Spartano, l'Aquilone, il Popolo sovrano, ed il
Franclino disalberate, ed in poter d'Inghilterra; il Felice, ed il
Mercurio dato di fianco negli scogli; il Tonante privo di tutti i suoi
alberi, l'Artemisia in fiamme, il Timoleone gito di traverso. Solo
intere si osservavano le due navi del retroguardo il Guglielmo Tell ed
il Generoso, con le due fregate la Diana e la Giustizia. Degl'Inglesi il
Bellerofonte casso di tutti i suoi alberi, un altro in pari stato, uno
col solo artimone, tutti laceri e fracassati, ma non tanto che non
potessero ed armeggiare, e mareggiare. Si scagliavano contro il Felice,
il Mercurio, il Tonante, ed il Timoleone naufraghi, e se gli prendevano.
Poi facevano forza d'impadronirsi del Guglielmo Tell, del Generoso, e
delle due fregate superstiti; ma tutte queste navi, spiegate prestamente
le vele, e preso dell'alto, andarono a salvamento, la prima governata da
Villeneuve, capitano che era stato della fregata la Giustizia, a Malta,
la seconda a Corfù. Quest'ultima, strada facendo, si prese il Cavallo
marino, grossa nave d'Inghilterra, e lo condusse con se nel porto
dell'isola. Era il Generoso al governo di la Joailles, capitano, se mai
alcuno fu al mondo, di estremo valore, e le cose che fece con quel suo
Generoso sono piuttosto incredibili, che maravigliose. Pure era di
cortese tratto, e di facile e mansuetissima natura. La Giustizia,
fregata la più veloce corridora di tutto il navilio Francese e forse del
mondo, si salvò facilmente; la Diana, più tarda, difficilmente. Non
poterono gl'Inglesi seguitare le fuggenti navi, perchè avevano le
proprie rotte, e sdruscite dalla battaglia. Dei Francesi, chi fu
raccolto dagl'Inglesi, chi fuggì verso Alessandria sui leggieri
palischermi. Ma quelli che si gittarono al lido, venuti in mano degli
Arabi, furono con ogni strazio condotti a morte: quegli scogli strani
grondavano Francese sangue. Dei Francesi mancarono in questa battaglia
tra morti, feriti e prigionieri circa ottomila, fra i quali i morti
sommarono a quindici centinaja. Furono i feriti e i prigionieri
dall'ammiraglio Inglese, sotto fede di non guerreggiare contro
l'Inghilterra fino agli scambi, liberati, e mandati in Alessandria.
Perdettero gl'Inglesi fra feriti ed uccisi circa novecento soldati, fra
i quali molto desiderarono un Wescott, capitano del Maestoso. Fu
accagionato Brueys, come si usa nelle disgrazie, anche da Buonaparte,
dello avere stanziato troppo più lungamente che si convenisse su per
quelle spiagge infedeli. Scrisse anzi il generalissimo, che questo
soprastamento aveva fatto l'ammiraglio contro i suoi ordini, poichè,
come allegò, gli aveva comandato, che si ritirasse tosto a Corfù. Altri
al contrario scrivono, avere voluto Brueys, che conosceva il pericolo,
partirsene per Corfù, ed essere stato impedito da Buonaparte, che
gl'impose di restare, perchè non voleva privarsi del sussidio della
trasportatrice armata innanzi che avesse fermato con vittorie di momento
il piede in Egitto. Ciò non mi ardirò di affermare, non avendone alcuna
testimonianza certa. Bene non si può scusare Brueys dello aver lasciato
l'adito aperto, perchè gl'Inglesi si potessero recare a ridosso della
sua armata; poichè, quando a lui si scoperse il nemico, o doveva,
salpando tostamente, e dando le vele al vento, condursi a combattere in
alto mare, o se fermo sull'ancore voleva combattere, esplorar bene le
acque frammesse tra la sua vanguardia e il lido, e trovatele profonde a
dar passo a navi grosse da guerra, mettersi in altro sito, o serrarle
con altri avvisamenti; poichè si vede, che l'esser passati per quello
stretto ad orza dell'armata Francese, diè del tutto agl'Inglesi vinta
una battaglia, che altrimenti sarebbe stata per loro assai pericolosa e
dubbia. Dall'esito di lei nacquero altre sorti in Europa.
La rivoluzione di Roma, e la presa di Malta, per cui i repubblicani si
erano acquistati grandissima facilità di perturbare il regno di Napoli,
avevano dato cagione di temere al re Ferdinando, che il governo di
Francia avesse fatto pensieri sinistri anche contro quella estrema parte
d'Italia; nè era certamente verisimile, che la smania d'innovare e di
spogliare i paesi, che tanto sfrenatamente aveva turbato Genova, Milano,
Venezia, Roma, fosse per arrestarsi ai confini dello stato Romano. Ciò
non isfuggiva al direttorio, e per tal motivo aveva timore, che il re di
Napoli facesse qualche risoluzione precipitosa contro di lui. Pertanto,
siccome quello che voleva temporeggiare per vedere quale via fosse per
pigliare la spedizione d'Egitto, e qual effetto partorirebbe sui
principi d'Europa, e sul governo Ottomano, aveva mandato ambasciatore a
Napoli Garat, letterato di molto grido in Francia, per rendere il re
persuaso, che l'amicizia della Francia, verso di lui era sincera e
cordiale. Ma il fatto stesso era contrario alle parole, perchè sebbene
Garat fosse di dolce e pacifica natura, aveva ciò non ostante molto
capriccio sulle rivoluzioni di quei tempi, parendogli, che all'ultimo
avessero a produrre qualche gran benefizio all'umanità. Era anche in
questo un altro particolare, per cui il direttorio, se avesse avuto
animo più civile, o Garat mente meno illusa, avrebbero dovuto, quello
non dare, questo non accettare il carico di Napoli, dove regnava
Carolina d'Austria. Certo è bene, che il suo arrivo dispiacque
grandemente alla regina; e da un altro lato i novatori molto si
confortavano nei pensieri loro di mutar lo stato, perchè egli aveva nome
di essersi mescolato nella rivoluzione di Francia. Favellava Garat nel
suo ingresso al re parole di pace, di filosofia, di umanità. Favellava
per verità molto tersamente, siccome accademico.
Disse, che era mandato per conservar la pace fra i due stati; che il
direttorio della repubblica Francese così trattava con le altre nazioni
d'Europa, come reggeva i Francesi; cioè con la giustizia, e che gli alti
fatti, di cui suonava l'Europa, ciò dimostravano. Continuava, avere la
repubblica Francese, allorchè più era potente e più gloriosa, dato la
pace a' suoi nemici, quando già vinti ed inermi offerivano, non più
ostacoli, ma frutti; l'independenza, e la libertà (queste cose io
rapporto per dimostrare ai posteri o la semplicità, o la illusione di
Garat) essere state recate a nazioni tra folgori, che parevano avere a
recar loro il giogo della conquista, trattati essere stati fatti con
potenze nemiche del nome repubblicano; essere questa tolleranza politica
il segno di pace per le attuali generazioni d'Europa; mostrarlo la
moderazione nella forza, di quella forza, che di per se stessa
s'arresta, dove non è più che una giustizia invincibile, che pianta
avanti a se termini, che niuna cosa che al mondo sia, potrebbe opporgli.
Poscia l'ambasciadore chiamava il re virtuoso e buono, l'Inghilterra
schiava dentro, tiranna fuori, la Francia libera, clemente e felice, la
repubblica onnipotente per la libertà, savia per le disgrazie: per tutte
queste cose rappresentare averlo mandato il direttorio. Finalmente
parlava al re di filosofia, di volcani, di lave, di globi sconquassati
in questi termini: «Non già perchè io mi sia andato ravvolgendo sotto i
portici, dove si usa la ambizione e si cerca il favore, il direttorio mi
ha inviato con mandato straordinario presso di voi; che anzi piuttosto
io non vissi mai, che nelle silenziose campagne, ne' licei, e sotto i
portici della filosofia; e quando le rivoluzioni, ed una repubblica a
voi mi mandano con comandamenti, che possono tornare in pro di molti
popoli, la fantasia mi rappresenta quei tempi antichi, in cui dal grembo
delle repubbliche della Grecia partendo filosofi, che solo un nome si
avevano acquistato, perchè avevano imparato a pensare, su questi
medesimi lidi, su questo continente stesso, su queste isole erano venuti
recando i desiderj loro per la felicità degli uomini: fecervi parecchi
del bene, tutti vollero farvene: nè voti, e desiderj disformi da questi
io avere posso, nè il direttorio della Francese repubblica m'intimava.
Debbono questi voti, e questi desiderj inspirati essere a tutte le
potenze da tutte le voci, che hanno efficacia negli uomini, debbonlo in
nome del cielo, debbonlo in nome della natura; e parmi, o re, che in
questi luoghi, dove voi regnate, fra gli accidenti più stupendi del
cielo e della terra, su questo suolo, ammasso magnifico di reliquie
dalle rivoluzioni del globo conservate, vicine a questi volcani, le cui
bocche sempre aperte, e sempre fumanti rammentano quelle lave ardenti
che buttate hanno, e di nuovo butteranno, parmi, dico, o Sire, che, o
che in repubblica si viva, o sotto l'obbedienza di un re, l'uomo dee,
più che in altro luogo, amare di raccomandare ai posteri per qualche
beneficio fatto agli uomini una vita tanto fugace, e tanto incerta».
Questo così solenne e squisito parlare teneva l'ambasciadore Garat ad un
re, che secondochè egli narrava, d'altro non si dilettava che di pesca,
di caccia, e di lazzaroni. Ferdinando, che non s'intendeva di queste
squisitezze accademiche, stava come attonito, e non sapeva come uscirgli
di sotto.
Fatto il complimento al re, se n'andava il giorno seguente, che fu il
nove di maggio, l'ambasciatore a complir con la regina, favellandole dei
desiderj di pace del direttorio, dei pensieri buoni, e delle virtù di
Giuseppe, e di Leopoldo, suoi fratelli, come se le riforme fatte nello
stato politico da questi due principi eccellenti, ed anzi gli
ammaestramenti pieni di umanità, e di dolcezza dati alle genti dai
filosofi Francesi, che l'ambasciatore chiamò maestri di Giuseppe e di
Leopoldo, avessero che fare con le sfrenatezze dei repubblicani di
Francia a quel tempo.
Queste cose sapeva, e queste sentiva Garat, perchè nissuno più di lui
ebbe i desiderj volti a pro degli uomini; ma non s'accorgeva, perchè
forse l'ambizione il trasportava, che quando regna la tirannide,
migliore e più onorevole partito è per un filosofo di ficcarsi in un
deserto, che comparire, qual messo di tiranni. Intanto si passava dai
complimenti ai negoziati, ingannandosi le due parti a vicenda; perchè,
contuttochè le dimostrazioni fossero pacifiche da ambi i lati, nissuna
voleva la pace, ed ambedue aspettavano il tempo propizio per correre
all'armi: nè il direttorio voleva lasciare quelle Napolitane prede, nè
il re di Napoli poteva tollerare, che la democrazìa sfrenata
romoreggiasse a' suoi confini. Sapeva il direttorio, che il re si era
molto sdegnato, dappoichè Berthier, e l'incaricato d'affari a Napoli
l'avevano richiesto con insolente imperio, che cacciasse da' suoi regni
tutti i fuorusciti Corsi, licenziasse il ministro Acton, desse il passo
ai soldati della repubblica per Benevento e Pontecorvo, che volevano
occupare a benefizio, come dicevano, di Roma; si confessasse il re
feudatario della repubblica Romana, ed a lei pagasse, come al papa, il
solito tributo annuale, e soddisfacesse finalmente senz'altra mora, dei
soldi corsi di detto tributo. Negava il re le superbe proposte, solo
consentiva a non più ricettare i fuorusciti. Il direttorio, volendo
mitigare l'amarezza, e lo sdegno concetto da Ferdinando per le insolenze
de' suoi agenti, aveva dato carico a Garat di racconciar la cosa.
Perlochè si venne ad un accordo, pel quale si stipulò, che i Francesi
ritirerebbero parte delle loro genti dai confini Napolitani, che la
repubblica Romana desisterebbe dalle sue richieste, che Benevento e
Pontecorvo, per amor della pace, si depositerebbero in mano del re: ma
il re, non si fidando delle dimostrazioni d'amicizia più sforzate che
spontanee, di coloro che contro la fede data o conquistavano per forza,
o sovvertivano per inganno, aveva con ogni più efficace modo armato il
suo reame. Ordinava, che di cinque regnicoli uno andasse soldato; che
ogni cinque frati o monache dessero, vestissero, ed armassero un
soldato; che ogni chierico provvisto d'un beneficio di mila ducati
d'entrata parimente fornisse un soldato; richiedeva finalmente i baroni
del regno, perchè levassero al modo stesso, ed assoldassero un grosso
corpo di cavallerìa. Queste provvisioni recate ad effetto non senza
qualche calore dal canto dei popoli, accrebbero il numero dell'esercito
sino in ottanta mila soldati. E siccome il dispendio per mantenere
un'oste sì numerosa era gravissimo, così il governo aveva posto mano
nelle rendite ecclesiastiche, accresciuto certi dazi, e perfino raccolto
le argenterìe delle chiese non del tutto necessarie alla celebrazione
dei riti religiosi. Già le truppe si avviavano ai confini, e un gran
corredo di artiglierìe si era mandato a guernire le fortezze,
principalmente quelle dell'Abruzzo. Quantunque poi l'ambasciatore Garat
non cessasse d'inculcare al direttorio, che i soldati Napolitani, per
bene armati e bene vestiti che fossero, sembravano piuttosto gabellieri
o frodatori, che buoni soldati, non se ne stava il direttorio senza
apprensione, trovandosi privo in Italia de' suoi migliori soldati, e del
suo miglior capitano, e non sapendo a qual partito sarebbe per
appigliarsi l'Austria, che di nuovo diventava minacciosa e renitente.
Garat, o che solo volesse scoprire le vere intenzioni del re, o che
credesse intimorirlo, siccome quegli che aveva la mente molto accesa
sulla potenza della sua repubblica, gl'intimava, non senza le solite
parole superbe, che disarmasse, e riducesse l'esercito allo stato di
pace. Confidava, che Ferdinando sarebbe calato a condiscendere, perchè
reggeva allora, fra gli altri ministri, lo stato il marchese del Gallo,
che aveva indole propensa pei Francesi, e siccome uno dei negoziatori
del trattato di Campoformio, si conghietturava, che avesse pensieri
favorevoli alla pace. Dispiacquero e la domanda, e la forma di lei: se
ne dolse il Napolitano governo al direttorio addomandandolo del richiamo
di Garat. Aggiunse, o vero si fosse o supposto, che egli si era
mescolato coi novatori, dando loro promesse, o stimoli troppo poco
convenienti alla qualità di ambasciadore. Attribuiva verisimile colore
alle allegazioni la domanda fatta dall'ambasciadore, perchè si
liberassero i carcerati per delitti di stato.
Il direttorio, che non era ancora ben sicuro delle cose d'Egitto e
d'Europa, richiamava Garat, mandando in iscambio Lacombe San Michel,
repubblicano assai vivo, ma più cupo, e non tanto favellatore, quanto il
suo antecessore. Era il suo mandato, che temporeggiasse ed accarezzasse;
poi quando fosse venuto il tempo, fortemente insistesse, perchè Napoli
cessasse da ogni preparamento ostile, e si rimettesse nuovamente nella
condizione di pace. Dal canto suo il re, che non vedeva fra tante
cupidigie e tante fraudi altra salute per lui, che le armi, non solo non
cessava da loro, ma ogni giorno vieppiù le aumentava. A questo, dopo
avute le novelle d'Egitto, tanto più volentieri, e più pertinacemente si
risolveva, quanto più gli era ignoto, che la Francia era contro di lui
molto sdegnata per aver fatto solenni dimostrazioni di allegrezza alla
fama della vittoria acquistata dagl'Inglesi ad Aboukir. Parve, che
Napoli tutta, e tutto il regno in quel trionfo Inglese trionfassero,
tanti furono i rallegramenti e le feste. La nappa stessa Inglese in
tanto ardore fu inalberata da quei popoli comunemente, e tutti
esclamavano, essere giunto il tempo della vendetta Napolitana, e della
rovina Francese. Ferdinando stesso era andato ad incontrar sul mare
Nelson vittorioso, quando se ne venne a Napoli per racconciar le navi
rotte nella battaglia, ed il condusse al suo palazzo a guisa di
trionfatore fra l'accolta moltitudine, che non cessava di gridare, _viva
Nelson, viva l'Inghilterra!_ Poi gli fece copia, a racconcio delle navi,
delle sue armerìe ed arsenali. Come queste cose sentisse la Francia
repubblicana, ciascuno sel può pensare. Pure se ne stava aspettando,
serbando l'ira e la vendetta a tempi più favorevoli; ed anche
l'infortunio di Aboukir l'aveva se non intimorita, fatta più cauta. Così
era in Napoli volontà di guerra, ed era anche in Parigi, ma più coperta.
In questo mezzo tempo le macchinazioni Inglesi avevano sortito l'effetto
loro, perchè l'invasione dell'Egitto, siccome gl'Inglesi avevano
avvisato, la vittoria di Nelson, e medesimamente le esortazioni delle
corti Europee presso al Divano avevano per modo operato, che la Porta
Ottomana si era scoperta nemica alla Francia, e le aveva intimato la
guerra. Accidente tanto grave cambiò ad un tratto le condizioni di tutta
Europa, e spianò la strada ad una nuova confederazione contro la
Francia. Erano l'esercito Italico, ed il suo capitano, l'uno e l'altro
tanto formidabili, in paese lontano senza speranza di poter tornare a
soccorrere la patria loro nei campi di Europa. La guerra di Turchìa con
Francia toglieva il timore, che la prima potesse adoperarsi in favore
della seconda ed apriva l'adito sicuro alla Russia di correre in aiuto
dell'Austria. Stipulavasi anche per le medesime cagioni, e per maggiore
sicurezza della Russia, un trattato di pace, e d'alleanza tra lei e la
Turchìa. Già le schiere Moscovite s'incamminavano alla volta di
Germania: Paolo imperatore si versava con tutto l'empito suo contro
Francia. Si sapeva oltre a ciò, che gl'Italiani erano sdegnati per le
esorbitanze dei repubblicani; che gli Svizzeri erano molto più, e si
sperava, che lo sdegno di questi popoli fosse per riuscire di non poco
aiuto alla guerra. Quella vasta mole repubblicana, che il terrore aveva
fondato, cessato il terrore, s'accostava alla sua ruina.
Tutte queste cose non erano ignote a Ferdinando, e considerato oltre a
questo, che tutte le genti Francesi, che allora erano in Italia raccolte
insieme, non sommavano gran pezza al numero delle sue, e che i
repubblicani già inferiori di numero, erano dispersi quà e là nei
presidj della Cisalpina, dello stato Veneto, del Piemonte, e della
Romagna, credè di poter chiarire l'animo suo senza pericolo, e di poter
far la guerra da se con frutto contro la Francia, senza aspettare il
tempo, in cui gli altri suoi confederati, principalmente l'Austria e la
Russia, avrebbero potuto venire in suo soccorso. Aveva anche udito le
novelle, che per la lega fatta tra la Russia e la Turchìa, le flotte
confederate, passati i Dardanelli, arrivavano alle fazioni dell'Jonio
contro gli occupatori delle isole Veneziane poste in questo mare. Gli
pareva altresì da non doversi lasciar raffreddare la fama della vittoria
d'Aboukir, e la presenza del vincitore Nelson, che col suo consiglio, e
con la sua forza si dimostrava pronto ad aiutar l'impresa, grandemente
il confortava a cominciarla. Accrebbero questi desiderj le novelle, che
gl'isolani di Malta si erano ribellati ai Francesi, e tolto loro l'uso
della campagna, gli avevano sforzati a ritirarsi alle fortezze. Alla
risoluzione medesima inclinava Napoli pensando, che se facesse da se,
coglierebbe maggiori frutti della vittoria, perchè la cupidigia di aver
Fermo con alcune altre terre della Marca, e la speranza di aversi a
liberare dalle pretese della santa sede pel benefizio della sua
ristaurazione in Roma, non gli erano ancora uscite di mente. Finalmente
aveva testè udito, che i Francesi, che si erano accorti dei moti di
Napoli, e dei nuovi pensieri dei principi contro di loro, erano venuti
nell'antica deliberazione del direttorio di farsi signori della Toscana,
e di porre anche le mani addosso al gran duca, se a tale estremo gli
accidenti gli sforzassero. Nè si dubitava, che i repubblicani assaliti
quasi all'improvviso, e innanzi che avessero tempo di provvedersi,
avessero presto a cedere del tutto le terre Italiane.
Il re risolutosi del tutto alla guerra, domandava ai Francesi quello, a
che sapeva che ei non potevano consentire, e questo fu, che sgombrassero
da tutti gli stati pontifici, e l'isola di Malta, sulla quale pretendeva
ragioni di sovranità, in poter suo rimettessero: chiamava l'una e
l'altra occupazione novità fatte, violazioni manifeste delle condizioni
stipulate, e dei confini accordati nel trattato di Campoformio. Il
direttorio, contuttochè si vedesse in pericolo di guerra imminente colle
principali potenze d'Europa, rispose risolutamente, non poter consentire
alle domande, giudicando benissimo, che l'inchinarsi a tali condizioni
era peggio che perdere tre battaglie campali. Per la qual cosa
pubblicava Ferdinando da San Germano, perchè già si era condotto ai
confini con tutte le sue genti, un manifesto, pel quale mostrandosi
sdegnato per la occupazione dello stato Romano e di Malta, bandiva al
mondo, aver preso le armi per allontanare dai suoi dominj ogni danno e
pericolo, per restituire il patrimonio della chiesa al suo vero e
legittimo signore, per ristorarvi la cattolica religione, per cessarvi
l'anarchia, le stragi, le rapine: protestava al tempo stesso, non volere
muover guerra contro alcun potentato, ma solo provvedere alla sicurezza,
ed all'onore della religione; lui stesso, diceva, essere venuto co' suoi
invitti soldati a così santa opera, proteggerebbe i buoni ed i virtuosi,
accorrebbe con affetto paterno i traviati che si volessero ridurre al
buon sentiero, ed a penitenza; dimenticassero, inculcava, ogni ingiuria,
nel corpo delle navi nemiche, era manifesto che i tiri meglio sarebbero
aggiustati, e maggior colpo farebbero, scagliati da navi sull'ancore,
che da navi sulle vele. Così egli si prometteva una probabile vittoria,
poichè i suoi soldati essendo animosissimi, non aveva, in tale modo
combattendo, cagione di temere che il coraggio loro venisse sopraffatto
dalla maggior perizia degl'Inglesi. Spirava il vento da maestro,
volgendosi un poco verso tramontana-maestro. Non così tosto l'ammiraglio
Inglese scoverse l'armata Francese, che diè il segnale della battaglia,
ordinando alle navi, che s'accostassero tutte al nemico, chi più presto,
il meglio. Dalla parte sua Brueys fe' salire incontanente i marinari
delle navi minori sulle maggiori, e sprofondava un'ancora di più,
acciocchè le sue navi fossero più ferme, e i suoi si persuadessero, che
quello era il luogo, in cui per loro abbisognava o vincere o morire.
Egli poscia si pose co' suoi migliori ufficiali a velettare sulla gabbia
dell'Oriente, sito pericolosissimo, perchè gl'Inglesi usano di tirare in
alto nelle vele, e nel sartiame. Si scagliavano gl'Inglesi con impeto
grandissimo contro l'antiguardo, e contro il mezzo dell'armata nemica, i
quali con tutte le artiglierìe di poggia fulminando, ferocemente gli
ributtarono, non senza aver loro recato danni gravissimi. In questo
primo incontro le artiglierìe dell'isoletta ajutarono non poco l'opera
delle navi. Tornarono gl'Inglesi all'urto un'altra volta, e sarebbe
stata la battaglia più lunga e più pericolosa per loro, poichè Nelson si
ostinava in voler dar dentro al petto dell'armata nemica, che se gli
scopriva per poggia, se al capitano Foley del Golìa non fosse avvenuto
l'audacissimo pensiero di ficcarsi, girando attorno alla punta
dell'antiguardo Francese, tra il lido e l'armata nemica, donde ne
avveniva, che i Francesi, perdendo il vantaggio di poter essere assaliti
solamente da una parte, cioè da poggia, potevano, fra due tempeste di
fuoco e di palle trovandosi, essere fulminati da ambe le parti, cioè da
poggia, e da orza. Pensollo, e fecelo anche con ardire, e perizia
inestimabile Foley. Consideratasi dagli altri l'importanza di questa
mossa, che tanto vantaggiava le sorti degl'Inglesi, il Golìa fu
prestamente seguitato dal Zelante, dall'Orione, dal Teseo, dall'Audace,
e finalmente dalla Vanguardia, vascello almirante. Nè così tosto erano
per tal modo trapassati a orza dei repubblicani, che, gettate le ancore,
incominciavano a trarre con una furia incredibile.
Al tempo stesso le altre navi Inglesi, poichè non potevano esser
molestate dalle navi del mezzo e del retroguardo nemico, che sull'ancore
più dietro erano sorte, si arringavano a poggia delle Francesi, e con
furiosi tiri le tempestavano. Così tutto l'antiguardo Francese, e parte
della mezza fila, che erano il Guerriero, il Conquistatore, lo Spartano,
e l'Aquilone, combattuti da ambi i lati travagliavano grandemente,
quantunque sulle prime con molto valore si difendessero. Ma sopraffatti
da quella prepotente forza, rotti, fracassati, disalberati, ed incapaci
di muoversi a volontà, non che mareggiare con disegno, si arrenderono.
Il vento in questo, che continuava a soffiare da maestro, sospingeva il
fumo di tante artiglierìe sulla mezza schiera, e sul retroguardo
Francese, e tutto, qual foltissima nebbia, l'ingombrava, nebbia, che
solo era rotta dai foschi lumi delle tiranti artiglierìe. Era lo
spettacolo orrendo; i Francesi, che si trovavano in terraferma, ansj del
fine, che tanto grave era per la patria loro, ascesi sui luoghi più
alti, prospettavano l'augurosa battaglia. Così la specola, e le torri
d'Alessandria, così i terrazzi, e le logge di Rosetta, e la torre di
Abul-Maradur, distante un tiro di cannone da questa città, erano piene
di repubblicani, paventosi a quello che vedevano, ed a quello che
udivano. Al tempo stesso gli Arabi si erano sparsi sul lido, condotti
parte dalla contentezza di vedere i repubblicani, cui molto odiavano, in
sì grave pericolo, parte dalla speranza di avergli a svaligiare, quando
cercassero di ricoverarsi a terra. Pareva, che non si potesse aggiungere
terrore ad uno spettacolo già tanto spaventevole pel rimbombo di tante e
sì grosse artiglierìe. Eppure una nuova scena si scoverse piena ancora
di maggiore spavento. S'era fatto notte; il Bellerofonte s'attaccava con
l'Oriente. Ma questa enorme mole con un fracasso orribile lo teneva
lontano, e tanto lo conquassava, che poco più sarebbe andato a fondo.
Sopraggiungeva in questo mentre l'Alessandro, che trovatosi più vicino
ad Alessandria aveva tardato ad arrivare, e si metteva tosto a
bersagliare ancor esso l'Oriente. Il Leandro, che era stato compagno
all'Alessandro, giuntosi col medesimo, assaltava il Popolo sovrano, ed
il Franclino. Poi altre navi Inglesi si avvicinavano ai vascelli
Francesi, che tuttavia combattevano, poichè, vinta la vanguardia, era
fatto loro facoltà di girsene ad assaltare le navi della fila mezzana.
Così l'Oriente, ed i suoi due vicini il Franclino ed il Tonante, si
trovarono ad un tempo stesso bersagliati da tutte parti. L'ammiraglio
Brueys, che in tanto estremo accidente aveva compito tutte le parti di
esperto ed animoso capitano di mare, ferito prima nel capo e nella mano,
fu finalmente da una palla diviso in due a mezzo il corpo. Casabianca,
capitano dell'Oriente, ferito gravemente ancor egli, era stato costretto
a lasciare l'ufficio. In mezzo a quel tumulto ecco gridarsi
sull'Oriente, ch'egli ardeva. Nè v'era modo a spegnere; le trombe rotte,
le secchie fracassate, gli uomini fuor di mente toglievano ogni
speranza. La scheggia, e le palle Inglesi continuavano a tempestare.
Ardeva l'Oriente, tanto bella e tanto potente nave, ed ardendo spargeva
fra quelle tenebre tutto all'intorno un funesto chiarore. Davano opera
gl'Inglesi ad allontanarsi, perchè nella finale ruina di quella mole
smisurata temevano l'ultimo sterminio. Infatti verso le dieci della sera
con un rimbombo, che parve più che di grossissimo tuono, e con un
incendio, come quando il cielo di nottetempo pare tutto acceso da non
interrotte folgori, scoppiò. Successe a tanto caso, per lo spavento e
per lo stupore, per ben dieci minuti un subito ed alto silenzio. Le navi
così vicine come lontane, ravviluppate da fumo, da tizzoni, da rottami
d'ogni sorte, non si vedevano, nè senza fatica poterono preservarsi
dalle circondanti fiamme. Poi le artiglierìe rincominciarono lo strazio,
massime dal canto degl'Inglesi, che non volevano, che l'opera della
distruzione della flotta Francese restasse imperfetta. Continuossi per
tal modo a trarre sino alle tre del seguente giorno, momento, in cui fu
forza far tregua, perchè la stanchezza prevalse al furore.
Quando poi incominciò a raggiornare, quanto si scoperse diverso
l'aspetto delle cose da quello, ch'era stato prima che la battaglia
incominciasse! Due flotte per lo innanzi fioritissime, acconce, preste,
piene di gente allegra ed intera, risuonanti di grida liete, e festose,
ora rotte, lacere, tarde, sanguinose, arse, piene di morti, di
moribondi, di gemiti spaventosi e compassionevoli. Nissuna reliquia
dell'arso Oriente; la fregata la Seria gita a fondo mostrava solo la
cima degl'infranti alberi; le navi Francesi, il Guerriero, il
Conquistatore, lo Spartano, l'Aquilone, il Popolo sovrano, ed il
Franclino disalberate, ed in poter d'Inghilterra; il Felice, ed il
Mercurio dato di fianco negli scogli; il Tonante privo di tutti i suoi
alberi, l'Artemisia in fiamme, il Timoleone gito di traverso. Solo
intere si osservavano le due navi del retroguardo il Guglielmo Tell ed
il Generoso, con le due fregate la Diana e la Giustizia. Degl'Inglesi il
Bellerofonte casso di tutti i suoi alberi, un altro in pari stato, uno
col solo artimone, tutti laceri e fracassati, ma non tanto che non
potessero ed armeggiare, e mareggiare. Si scagliavano contro il Felice,
il Mercurio, il Tonante, ed il Timoleone naufraghi, e se gli prendevano.
Poi facevano forza d'impadronirsi del Guglielmo Tell, del Generoso, e
delle due fregate superstiti; ma tutte queste navi, spiegate prestamente
le vele, e preso dell'alto, andarono a salvamento, la prima governata da
Villeneuve, capitano che era stato della fregata la Giustizia, a Malta,
la seconda a Corfù. Quest'ultima, strada facendo, si prese il Cavallo
marino, grossa nave d'Inghilterra, e lo condusse con se nel porto
dell'isola. Era il Generoso al governo di la Joailles, capitano, se mai
alcuno fu al mondo, di estremo valore, e le cose che fece con quel suo
Generoso sono piuttosto incredibili, che maravigliose. Pure era di
cortese tratto, e di facile e mansuetissima natura. La Giustizia,
fregata la più veloce corridora di tutto il navilio Francese e forse del
mondo, si salvò facilmente; la Diana, più tarda, difficilmente. Non
poterono gl'Inglesi seguitare le fuggenti navi, perchè avevano le
proprie rotte, e sdruscite dalla battaglia. Dei Francesi, chi fu
raccolto dagl'Inglesi, chi fuggì verso Alessandria sui leggieri
palischermi. Ma quelli che si gittarono al lido, venuti in mano degli
Arabi, furono con ogni strazio condotti a morte: quegli scogli strani
grondavano Francese sangue. Dei Francesi mancarono in questa battaglia
tra morti, feriti e prigionieri circa ottomila, fra i quali i morti
sommarono a quindici centinaja. Furono i feriti e i prigionieri
dall'ammiraglio Inglese, sotto fede di non guerreggiare contro
l'Inghilterra fino agli scambi, liberati, e mandati in Alessandria.
Perdettero gl'Inglesi fra feriti ed uccisi circa novecento soldati, fra
i quali molto desiderarono un Wescott, capitano del Maestoso. Fu
accagionato Brueys, come si usa nelle disgrazie, anche da Buonaparte,
dello avere stanziato troppo più lungamente che si convenisse su per
quelle spiagge infedeli. Scrisse anzi il generalissimo, che questo
soprastamento aveva fatto l'ammiraglio contro i suoi ordini, poichè,
come allegò, gli aveva comandato, che si ritirasse tosto a Corfù. Altri
al contrario scrivono, avere voluto Brueys, che conosceva il pericolo,
partirsene per Corfù, ed essere stato impedito da Buonaparte, che
gl'impose di restare, perchè non voleva privarsi del sussidio della
trasportatrice armata innanzi che avesse fermato con vittorie di momento
il piede in Egitto. Ciò non mi ardirò di affermare, non avendone alcuna
testimonianza certa. Bene non si può scusare Brueys dello aver lasciato
l'adito aperto, perchè gl'Inglesi si potessero recare a ridosso della
sua armata; poichè, quando a lui si scoperse il nemico, o doveva,
salpando tostamente, e dando le vele al vento, condursi a combattere in
alto mare, o se fermo sull'ancore voleva combattere, esplorar bene le
acque frammesse tra la sua vanguardia e il lido, e trovatele profonde a
dar passo a navi grosse da guerra, mettersi in altro sito, o serrarle
con altri avvisamenti; poichè si vede, che l'esser passati per quello
stretto ad orza dell'armata Francese, diè del tutto agl'Inglesi vinta
una battaglia, che altrimenti sarebbe stata per loro assai pericolosa e
dubbia. Dall'esito di lei nacquero altre sorti in Europa.
La rivoluzione di Roma, e la presa di Malta, per cui i repubblicani si
erano acquistati grandissima facilità di perturbare il regno di Napoli,
avevano dato cagione di temere al re Ferdinando, che il governo di
Francia avesse fatto pensieri sinistri anche contro quella estrema parte
d'Italia; nè era certamente verisimile, che la smania d'innovare e di
spogliare i paesi, che tanto sfrenatamente aveva turbato Genova, Milano,
Venezia, Roma, fosse per arrestarsi ai confini dello stato Romano. Ciò
non isfuggiva al direttorio, e per tal motivo aveva timore, che il re di
Napoli facesse qualche risoluzione precipitosa contro di lui. Pertanto,
siccome quello che voleva temporeggiare per vedere quale via fosse per
pigliare la spedizione d'Egitto, e qual effetto partorirebbe sui
principi d'Europa, e sul governo Ottomano, aveva mandato ambasciatore a
Napoli Garat, letterato di molto grido in Francia, per rendere il re
persuaso, che l'amicizia della Francia, verso di lui era sincera e
cordiale. Ma il fatto stesso era contrario alle parole, perchè sebbene
Garat fosse di dolce e pacifica natura, aveva ciò non ostante molto
capriccio sulle rivoluzioni di quei tempi, parendogli, che all'ultimo
avessero a produrre qualche gran benefizio all'umanità. Era anche in
questo un altro particolare, per cui il direttorio, se avesse avuto
animo più civile, o Garat mente meno illusa, avrebbero dovuto, quello
non dare, questo non accettare il carico di Napoli, dove regnava
Carolina d'Austria. Certo è bene, che il suo arrivo dispiacque
grandemente alla regina; e da un altro lato i novatori molto si
confortavano nei pensieri loro di mutar lo stato, perchè egli aveva nome
di essersi mescolato nella rivoluzione di Francia. Favellava Garat nel
suo ingresso al re parole di pace, di filosofia, di umanità. Favellava
per verità molto tersamente, siccome accademico.
Disse, che era mandato per conservar la pace fra i due stati; che il
direttorio della repubblica Francese così trattava con le altre nazioni
d'Europa, come reggeva i Francesi; cioè con la giustizia, e che gli alti
fatti, di cui suonava l'Europa, ciò dimostravano. Continuava, avere la
repubblica Francese, allorchè più era potente e più gloriosa, dato la
pace a' suoi nemici, quando già vinti ed inermi offerivano, non più
ostacoli, ma frutti; l'independenza, e la libertà (queste cose io
rapporto per dimostrare ai posteri o la semplicità, o la illusione di
Garat) essere state recate a nazioni tra folgori, che parevano avere a
recar loro il giogo della conquista, trattati essere stati fatti con
potenze nemiche del nome repubblicano; essere questa tolleranza politica
il segno di pace per le attuali generazioni d'Europa; mostrarlo la
moderazione nella forza, di quella forza, che di per se stessa
s'arresta, dove non è più che una giustizia invincibile, che pianta
avanti a se termini, che niuna cosa che al mondo sia, potrebbe opporgli.
Poscia l'ambasciadore chiamava il re virtuoso e buono, l'Inghilterra
schiava dentro, tiranna fuori, la Francia libera, clemente e felice, la
repubblica onnipotente per la libertà, savia per le disgrazie: per tutte
queste cose rappresentare averlo mandato il direttorio. Finalmente
parlava al re di filosofia, di volcani, di lave, di globi sconquassati
in questi termini: «Non già perchè io mi sia andato ravvolgendo sotto i
portici, dove si usa la ambizione e si cerca il favore, il direttorio mi
ha inviato con mandato straordinario presso di voi; che anzi piuttosto
io non vissi mai, che nelle silenziose campagne, ne' licei, e sotto i
portici della filosofia; e quando le rivoluzioni, ed una repubblica a
voi mi mandano con comandamenti, che possono tornare in pro di molti
popoli, la fantasia mi rappresenta quei tempi antichi, in cui dal grembo
delle repubbliche della Grecia partendo filosofi, che solo un nome si
avevano acquistato, perchè avevano imparato a pensare, su questi
medesimi lidi, su questo continente stesso, su queste isole erano venuti
recando i desiderj loro per la felicità degli uomini: fecervi parecchi
del bene, tutti vollero farvene: nè voti, e desiderj disformi da questi
io avere posso, nè il direttorio della Francese repubblica m'intimava.
Debbono questi voti, e questi desiderj inspirati essere a tutte le
potenze da tutte le voci, che hanno efficacia negli uomini, debbonlo in
nome del cielo, debbonlo in nome della natura; e parmi, o re, che in
questi luoghi, dove voi regnate, fra gli accidenti più stupendi del
cielo e della terra, su questo suolo, ammasso magnifico di reliquie
dalle rivoluzioni del globo conservate, vicine a questi volcani, le cui
bocche sempre aperte, e sempre fumanti rammentano quelle lave ardenti
che buttate hanno, e di nuovo butteranno, parmi, dico, o Sire, che, o
che in repubblica si viva, o sotto l'obbedienza di un re, l'uomo dee,
più che in altro luogo, amare di raccomandare ai posteri per qualche
beneficio fatto agli uomini una vita tanto fugace, e tanto incerta».
Questo così solenne e squisito parlare teneva l'ambasciadore Garat ad un
re, che secondochè egli narrava, d'altro non si dilettava che di pesca,
di caccia, e di lazzaroni. Ferdinando, che non s'intendeva di queste
squisitezze accademiche, stava come attonito, e non sapeva come uscirgli
di sotto.
Fatto il complimento al re, se n'andava il giorno seguente, che fu il
nove di maggio, l'ambasciatore a complir con la regina, favellandole dei
desiderj di pace del direttorio, dei pensieri buoni, e delle virtù di
Giuseppe, e di Leopoldo, suoi fratelli, come se le riforme fatte nello
stato politico da questi due principi eccellenti, ed anzi gli
ammaestramenti pieni di umanità, e di dolcezza dati alle genti dai
filosofi Francesi, che l'ambasciatore chiamò maestri di Giuseppe e di
Leopoldo, avessero che fare con le sfrenatezze dei repubblicani di
Francia a quel tempo.
Queste cose sapeva, e queste sentiva Garat, perchè nissuno più di lui
ebbe i desiderj volti a pro degli uomini; ma non s'accorgeva, perchè
forse l'ambizione il trasportava, che quando regna la tirannide,
migliore e più onorevole partito è per un filosofo di ficcarsi in un
deserto, che comparire, qual messo di tiranni. Intanto si passava dai
complimenti ai negoziati, ingannandosi le due parti a vicenda; perchè,
contuttochè le dimostrazioni fossero pacifiche da ambi i lati, nissuna
voleva la pace, ed ambedue aspettavano il tempo propizio per correre
all'armi: nè il direttorio voleva lasciare quelle Napolitane prede, nè
il re di Napoli poteva tollerare, che la democrazìa sfrenata
romoreggiasse a' suoi confini. Sapeva il direttorio, che il re si era
molto sdegnato, dappoichè Berthier, e l'incaricato d'affari a Napoli
l'avevano richiesto con insolente imperio, che cacciasse da' suoi regni
tutti i fuorusciti Corsi, licenziasse il ministro Acton, desse il passo
ai soldati della repubblica per Benevento e Pontecorvo, che volevano
occupare a benefizio, come dicevano, di Roma; si confessasse il re
feudatario della repubblica Romana, ed a lei pagasse, come al papa, il
solito tributo annuale, e soddisfacesse finalmente senz'altra mora, dei
soldi corsi di detto tributo. Negava il re le superbe proposte, solo
consentiva a non più ricettare i fuorusciti. Il direttorio, volendo
mitigare l'amarezza, e lo sdegno concetto da Ferdinando per le insolenze
de' suoi agenti, aveva dato carico a Garat di racconciar la cosa.
Perlochè si venne ad un accordo, pel quale si stipulò, che i Francesi
ritirerebbero parte delle loro genti dai confini Napolitani, che la
repubblica Romana desisterebbe dalle sue richieste, che Benevento e
Pontecorvo, per amor della pace, si depositerebbero in mano del re: ma
il re, non si fidando delle dimostrazioni d'amicizia più sforzate che
spontanee, di coloro che contro la fede data o conquistavano per forza,
o sovvertivano per inganno, aveva con ogni più efficace modo armato il
suo reame. Ordinava, che di cinque regnicoli uno andasse soldato; che
ogni cinque frati o monache dessero, vestissero, ed armassero un
soldato; che ogni chierico provvisto d'un beneficio di mila ducati
d'entrata parimente fornisse un soldato; richiedeva finalmente i baroni
del regno, perchè levassero al modo stesso, ed assoldassero un grosso
corpo di cavallerìa. Queste provvisioni recate ad effetto non senza
qualche calore dal canto dei popoli, accrebbero il numero dell'esercito
sino in ottanta mila soldati. E siccome il dispendio per mantenere
un'oste sì numerosa era gravissimo, così il governo aveva posto mano
nelle rendite ecclesiastiche, accresciuto certi dazi, e perfino raccolto
le argenterìe delle chiese non del tutto necessarie alla celebrazione
dei riti religiosi. Già le truppe si avviavano ai confini, e un gran
corredo di artiglierìe si era mandato a guernire le fortezze,
principalmente quelle dell'Abruzzo. Quantunque poi l'ambasciatore Garat
non cessasse d'inculcare al direttorio, che i soldati Napolitani, per
bene armati e bene vestiti che fossero, sembravano piuttosto gabellieri
o frodatori, che buoni soldati, non se ne stava il direttorio senza
apprensione, trovandosi privo in Italia de' suoi migliori soldati, e del
suo miglior capitano, e non sapendo a qual partito sarebbe per
appigliarsi l'Austria, che di nuovo diventava minacciosa e renitente.
Garat, o che solo volesse scoprire le vere intenzioni del re, o che
credesse intimorirlo, siccome quegli che aveva la mente molto accesa
sulla potenza della sua repubblica, gl'intimava, non senza le solite
parole superbe, che disarmasse, e riducesse l'esercito allo stato di
pace. Confidava, che Ferdinando sarebbe calato a condiscendere, perchè
reggeva allora, fra gli altri ministri, lo stato il marchese del Gallo,
che aveva indole propensa pei Francesi, e siccome uno dei negoziatori
del trattato di Campoformio, si conghietturava, che avesse pensieri
favorevoli alla pace. Dispiacquero e la domanda, e la forma di lei: se
ne dolse il Napolitano governo al direttorio addomandandolo del richiamo
di Garat. Aggiunse, o vero si fosse o supposto, che egli si era
mescolato coi novatori, dando loro promesse, o stimoli troppo poco
convenienti alla qualità di ambasciadore. Attribuiva verisimile colore
alle allegazioni la domanda fatta dall'ambasciadore, perchè si
liberassero i carcerati per delitti di stato.
Il direttorio, che non era ancora ben sicuro delle cose d'Egitto e
d'Europa, richiamava Garat, mandando in iscambio Lacombe San Michel,
repubblicano assai vivo, ma più cupo, e non tanto favellatore, quanto il
suo antecessore. Era il suo mandato, che temporeggiasse ed accarezzasse;
poi quando fosse venuto il tempo, fortemente insistesse, perchè Napoli
cessasse da ogni preparamento ostile, e si rimettesse nuovamente nella
condizione di pace. Dal canto suo il re, che non vedeva fra tante
cupidigie e tante fraudi altra salute per lui, che le armi, non solo non
cessava da loro, ma ogni giorno vieppiù le aumentava. A questo, dopo
avute le novelle d'Egitto, tanto più volentieri, e più pertinacemente si
risolveva, quanto più gli era ignoto, che la Francia era contro di lui
molto sdegnata per aver fatto solenni dimostrazioni di allegrezza alla
fama della vittoria acquistata dagl'Inglesi ad Aboukir. Parve, che
Napoli tutta, e tutto il regno in quel trionfo Inglese trionfassero,
tanti furono i rallegramenti e le feste. La nappa stessa Inglese in
tanto ardore fu inalberata da quei popoli comunemente, e tutti
esclamavano, essere giunto il tempo della vendetta Napolitana, e della
rovina Francese. Ferdinando stesso era andato ad incontrar sul mare
Nelson vittorioso, quando se ne venne a Napoli per racconciar le navi
rotte nella battaglia, ed il condusse al suo palazzo a guisa di
trionfatore fra l'accolta moltitudine, che non cessava di gridare, _viva
Nelson, viva l'Inghilterra!_ Poi gli fece copia, a racconcio delle navi,
delle sue armerìe ed arsenali. Come queste cose sentisse la Francia
repubblicana, ciascuno sel può pensare. Pure se ne stava aspettando,
serbando l'ira e la vendetta a tempi più favorevoli; ed anche
l'infortunio di Aboukir l'aveva se non intimorita, fatta più cauta. Così
era in Napoli volontà di guerra, ed era anche in Parigi, ma più coperta.
In questo mezzo tempo le macchinazioni Inglesi avevano sortito l'effetto
loro, perchè l'invasione dell'Egitto, siccome gl'Inglesi avevano
avvisato, la vittoria di Nelson, e medesimamente le esortazioni delle
corti Europee presso al Divano avevano per modo operato, che la Porta
Ottomana si era scoperta nemica alla Francia, e le aveva intimato la
guerra. Accidente tanto grave cambiò ad un tratto le condizioni di tutta
Europa, e spianò la strada ad una nuova confederazione contro la
Francia. Erano l'esercito Italico, ed il suo capitano, l'uno e l'altro
tanto formidabili, in paese lontano senza speranza di poter tornare a
soccorrere la patria loro nei campi di Europa. La guerra di Turchìa con
Francia toglieva il timore, che la prima potesse adoperarsi in favore
della seconda ed apriva l'adito sicuro alla Russia di correre in aiuto
dell'Austria. Stipulavasi anche per le medesime cagioni, e per maggiore
sicurezza della Russia, un trattato di pace, e d'alleanza tra lei e la
Turchìa. Già le schiere Moscovite s'incamminavano alla volta di
Germania: Paolo imperatore si versava con tutto l'empito suo contro
Francia. Si sapeva oltre a ciò, che gl'Italiani erano sdegnati per le
esorbitanze dei repubblicani; che gli Svizzeri erano molto più, e si
sperava, che lo sdegno di questi popoli fosse per riuscire di non poco
aiuto alla guerra. Quella vasta mole repubblicana, che il terrore aveva
fondato, cessato il terrore, s'accostava alla sua ruina.
Tutte queste cose non erano ignote a Ferdinando, e considerato oltre a
questo, che tutte le genti Francesi, che allora erano in Italia raccolte
insieme, non sommavano gran pezza al numero delle sue, e che i
repubblicani già inferiori di numero, erano dispersi quà e là nei
presidj della Cisalpina, dello stato Veneto, del Piemonte, e della
Romagna, credè di poter chiarire l'animo suo senza pericolo, e di poter
far la guerra da se con frutto contro la Francia, senza aspettare il
tempo, in cui gli altri suoi confederati, principalmente l'Austria e la
Russia, avrebbero potuto venire in suo soccorso. Aveva anche udito le
novelle, che per la lega fatta tra la Russia e la Turchìa, le flotte
confederate, passati i Dardanelli, arrivavano alle fazioni dell'Jonio
contro gli occupatori delle isole Veneziane poste in questo mare. Gli
pareva altresì da non doversi lasciar raffreddare la fama della vittoria
d'Aboukir, e la presenza del vincitore Nelson, che col suo consiglio, e
con la sua forza si dimostrava pronto ad aiutar l'impresa, grandemente
il confortava a cominciarla. Accrebbero questi desiderj le novelle, che
gl'isolani di Malta si erano ribellati ai Francesi, e tolto loro l'uso
della campagna, gli avevano sforzati a ritirarsi alle fortezze. Alla
risoluzione medesima inclinava Napoli pensando, che se facesse da se,
coglierebbe maggiori frutti della vittoria, perchè la cupidigia di aver
Fermo con alcune altre terre della Marca, e la speranza di aversi a
liberare dalle pretese della santa sede pel benefizio della sua
ristaurazione in Roma, non gli erano ancora uscite di mente. Finalmente
aveva testè udito, che i Francesi, che si erano accorti dei moti di
Napoli, e dei nuovi pensieri dei principi contro di loro, erano venuti
nell'antica deliberazione del direttorio di farsi signori della Toscana,
e di porre anche le mani addosso al gran duca, se a tale estremo gli
accidenti gli sforzassero. Nè si dubitava, che i repubblicani assaliti
quasi all'improvviso, e innanzi che avessero tempo di provvedersi,
avessero presto a cedere del tutto le terre Italiane.
Il re risolutosi del tutto alla guerra, domandava ai Francesi quello, a
che sapeva che ei non potevano consentire, e questo fu, che sgombrassero
da tutti gli stati pontifici, e l'isola di Malta, sulla quale pretendeva
ragioni di sovranità, in poter suo rimettessero: chiamava l'una e
l'altra occupazione novità fatte, violazioni manifeste delle condizioni
stipulate, e dei confini accordati nel trattato di Campoformio. Il
direttorio, contuttochè si vedesse in pericolo di guerra imminente colle
principali potenze d'Europa, rispose risolutamente, non poter consentire
alle domande, giudicando benissimo, che l'inchinarsi a tali condizioni
era peggio che perdere tre battaglie campali. Per la qual cosa
pubblicava Ferdinando da San Germano, perchè già si era condotto ai
confini con tutte le sue genti, un manifesto, pel quale mostrandosi
sdegnato per la occupazione dello stato Romano e di Malta, bandiva al
mondo, aver preso le armi per allontanare dai suoi dominj ogni danno e
pericolo, per restituire il patrimonio della chiesa al suo vero e
legittimo signore, per ristorarvi la cattolica religione, per cessarvi
l'anarchia, le stragi, le rapine: protestava al tempo stesso, non volere
muover guerra contro alcun potentato, ma solo provvedere alla sicurezza,
ed all'onore della religione; lui stesso, diceva, essere venuto co' suoi
invitti soldati a così santa opera, proteggerebbe i buoni ed i virtuosi,
accorrebbe con affetto paterno i traviati che si volessero ridurre al
buon sentiero, ed a penitenza; dimenticassero, inculcava, ogni ingiuria,
- Parts
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 01
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 02
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 03
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 04
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 05
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - 06
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