Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III - 16

generosa nazione. I cavalli di bronzo, opera, come si narra, di Lisippo,
dati prima in dono a Nerone da Tiridate, re d'Armenia, poi trasportati
da Costantino a Bisanzio, e conquistati finalmente pel valore dei
Veneziani congiunti ai Francesi, che ebbero in sorte altre
Costantinopolitane spoglie, e mandati a Venezia dal doge Pietro Zani,
accrescevano, involati essendo, il dolore pubblico della gente
Veneziana. Spiaceva al letterato Arnauld, che questi cavalli restassero
a Venezia: spiacevagli altresì, che i leoni conquistati dal valore del
Morosini nel Pireo, continuassero a starsene nella sede loro, segni
della Veneziana gloria. Ne gli spiacque, e ne scrisse a Buonaparte.
Cavalli, e leoni furono per suo comandamento condotti in Francia. Il che
venne fatto in cospetto dei Veneziani con tanto dolore loro, che,
instupidite le menti, parevano piuttosto attonite che dolorose. Come
queste cose Arnauld, che faceva professione di amare la libertà e
l'independenza della sua patria, suggerisse a Buonaparte, io non ne
posso restar capace, perchè a me pare, che nissuno possa sinceramente
amare la libertà e la indipendenza della propria patria, se non porta
rispetto alla libertà ed all'independenza delle patrie altrui. So, che
alcuni dicevano, e tuttavia dicono, che questi spogli si eseguivano in
virtù del trattato di Milano. Ma Buonaparte non aveva voluto ratificare
questo trattato, e perciò la Francia lo doveva aver per nullo. Che se
poi ad ogni modo si voleva aver per valido, bel modo di eseguirlo
certamente era quello di mandar ad effetto tutte le sue peggiori
condizioni contro Venezia, e di non osservar quelle che erano in suo
favore, massimamente la sua conservazione, condizione che era pure la
più principale, anzi la sostanziale del trattato, perciocchè non si
possono stipular trattati con una potenza, che si crede nulla, nè
accordare condizioni di futura esecuzione con una potenza, che si vuol
distruggere.
Non solo gli ornamenti e le ricchezze Veneziane si trasportavano, ma
quelle ancora commesse alla fede dei neutri avidamente s'involavano.
Erasi il duca di Modena, come abbiamo detto, fuggendo la furia dei
repubblicani, ricoverato in Venezia; poi già romoreggiando le armi loro
d'ogn'intorno, e prevedendo la dedizione, si era per sua sicurezza
ritirato sulle terre d'Austria. Ma lasciava un suo tesoro, perchè
credeva, in ciò scostandosi dalla sua solita provvidenza, che o non
sarebbe scoverto, o se scoverto, sarebbe tenuto inviolato per la
neutralità del luogo. Occupata Venezia dai Buonapartiani, gli agenti del
direttorio ebbero sentore del deposito, e parendo loro che fosse lor
venuto un bel destro, alla fama di quei zecchini nascosti tostamente si
calavano, e circondato improvvisamente con soldatesche armate il palazzo
in San Pantaleone, dove aveva abitato il duca, cercarono il tesoro, in
ogni parte diligentemente investigando. Ciò fu indarno; perchè era stato
deposto in casa del ministro d'Austria. Perlochè, fatto armatamano
improvviso insulto contro di essa, e ricercato in ogni canto, trovarono
il denaro, e via se lo portavano: furono, come portò la fama, circa
duecentomila zecchini. I Modenesi erano venuti a Venezia per averselo;
ma e' furon novelle. Gli agenti gli serbarono, dissero, per la cassa
militare.
Le espilazioni delle opere d'ingegno si effettuavano con grande apparato
di soldati, perchè sebbene fossero i piè dei Veneziani in ceppi, si
temeva, che ad un bel levarsi, il popolo prorompesse, e rivendicasse
alla patria con qualche solenne precipizio degl'involatori le gloriose
spoglie. Accresceva il timore il pensare, che le rapine di Venezia
rinfrescavano la memoria delle altre rapine d'Italia. Per ogni lato si
fremeva nel vedere questi spogli. Pubblicavasi a questi giorni in Italia
con le stampe un libro, che aveva in titolo i _Romani in Grecia_ e che
fu generalmente creduto opera di un Barzoni. In questo scritto l'autore,
sotto spezie dei Romani in Grecia simboleggiando i Francesi in Italia, e
così paragonando la tirannide di Flaminio a quella di Buonaparte,
eccitava i popoli Italiani allo sdegno, alla vendetta, alla
rivendicazione. Ne riceveva molta molestia il generalissimo, e ne
cercava per ogni dove l'autore e le copie. Ma più il perseguitava, e più
era letto, e non pochi tra i Francesi, che avversavano Buonaparte, o per
generosità naturale, o per odio, o per invidia, lodavano e promuovevano
lo scritto. Villetard fra gli altri il chiamava pieno pur troppo di
allusioni veridiche sui ladronecci commessi da alcuni individui indegni
del nome Francese. Girava attorno lo scritto al momento degli spogli, e
siccome quello che accusava i municipali del caro del pane, che
paragonava l'Italia ad un vasto cimitero tutto squallido e bruttato
d'infiniti cadaveri, e che stimolava i popoli a correre armati contro i
Francesi, partoriva un effetto incredibile. Se ne querelava Villetard
coi municipali; se la passarono con dire, che la stampa era libera, e,
quanto alle ingiurie contro a loro, che le avevano in dispregio. Ma
Buonaparte non l'intendeva a questo modo: voleva, che l'autore si
rinvenisse. Si viveva pertanto fra la rabbia ed il timore, quando
dimorandosi una sera Villetard in caffè sotto le quarantìe, se gli
faceva avanti in un atto amico Barzoni. L'allontanava da se con aspre
parole il Francese, dicendo, maravigliarsi, che colui, che chiamava a
morte i Francesi, avesse fronte di accostarsi amichevolmente a chi gli
rappresentava in Venezia. In questo Barzoni, trattosi di seno una
pistola, e contro Villetard dirizzatola, lo voleva uccidere. Nasceva pel
fatto in quel ritrovo un gridare, un fuggire, un accorrere incredibile.
Si ritirava o intimorito, o sbalordito Barzoni, e vi fu calca: furono
presto i soldati ad accorrere a quel romore inopinato. Per ammansare lo
sdegno di Buonaparte, scriveva Villetard a Monge, scusasse il fatto col
generalissimo, allegando, che il povero Barzoni, preso da un ardente ed
infelice amore per una giovane gentildonna, era fuori di mente. Il
pregava altresì, tanto era buono quel Villetard, operasse presso al
generalissimo, onde si contentasse, ch'ei desse un passaporto a Barzoni,
acciocchè se ne andasse a passare in paesi forestieri quella sua ira
tanto gonfia contro i Francesi. Rescriveva furiosamente Buonaparte,
essere un assassinamento; volere, che il reo si castigasse. Non ostante
gli dava Villetard il passaporto: il giovane Barzoni fuggendo in paesi
esteri la collera di chi tanto poteva, si riduceva per ultimo nell'isola
di Malta, quando ella venne in potestà degl'Inglesi, e quivi si stette
lungo tempo, scrivendo un giornale contro la tirannide Buonapartiana.
Asperava questo fatto vieppiù gli animi da ambo le parti: insino ai
municipali era venuto in odio quel forestiero dominio.
Cercavasi intanto di coprire con segni di allegrezza le apparenze tristi
e funeste. Esita l'animo nostro a raccontare una festa solenne ordinata,
e festeggiata da coloro, che sapevano qual fato sovrastasse a Venezia.
Pure la racconterò per impietosire i posteri, se essi saranno migliori
di noi; conciossiachè niuna cosa più muova a compassione che
un'allegrezza procurata a chi è destinato a morte. Correva il dì della
Pentecoste, quando la piazza di San Marco si vedeva tutt'addobbata a
festa pel piantamento dell'albero della libertà. Mani Veneziane avevano
eretto a capo della piazza dalla parte opposta a San Marco un'ampia
loggia, a cui si saliva per due scale laterali ornate di vaghi fiori, e
di arbusti odoriferi. Era la facciata della loggia un magnifico
colonnato d'ordine Toscano con doppie cornici, e belle statue corredato.
Da ambi i lati della loggia sorgevano due adorni palchi con colonne, con
ghirlande, con insegne repubblicane. Quivi dovevano sedere i musici
della cappella ducale, dismessi dal celebrare le antiche glorie della
repubblica libera, chiamati ora a celebrare i vergognosi principj della
repubblica serva. Due altre logge adorne, e belle si vedevano in mezzo
alla piazza, e davanti alle procuratìe, con orchestre pure a lato; i
fregi, gli arazzi, le divise, gli emblemi, conformi ai tempi. Gli archi
delle procuratìe, e così ancora la chiesa di San Marco comparivano alla
vista dei circostanti carchi ed adorni di festoni tricolorati. In vedere
un tanto apparato non pochi erano i motti di quegli ameni e spiritosi
Veneziani, dimentichi, fra mezzo a quelle illusioni festevoli, dei tanti
infortunj loro. Steso a terra in mezzo della piazza giaceva il fusto
ancor fronzuto dell'albero, che non so come, nè perchè col nome della
libertà si chiamava. Ed ecco alle diciassette Italiane comparire con
solenne comitiva di tutti i suoi ufficiali Baraguey d'Hilliers.
L'incontravano i municipali in abito, coi cappelli, con le sciabole di
moda. Quinci poscia essendosi congiunti col corteggio del generale, si
ordinavano a processione. Le campane tintinnivano, gli strumenti
suonavano, i democrati dall'allegrezza gridavano: che cosa si pensasse
Baraguey d'Hilliers, che sapeva l'avvenire, io non lo so. Intanto giva
la processione; soldati Italiani precedevano, seguitavano due fanciulli
vagamente vestiti, poi una coppia di un giovane e di una giovane, che si
dovevano sposare, poi un vecchio ed una vecchia con istromenti
d'agricoltura. Veniva dietro la guardia nazionale in addobbo; indi
Baraguey in addobbo ancor esso, e i consoli delle nazioni, e i
magistrati sì civili che militari, e i capi delle arti coi simboli delle
arti loro. Mostravansi alla coda del corteggio, seguitati da musica
militare i municipali. Toccavano i due fanciulli il fusto, ed in un
batter d'occhio fra le grida ed i suoni festivi era rizzato nelle sue
radici in mezzo alla piazza: sopra le radici deponevano i due vecchi i
rurali strumenti. Compariva in questo una berretta rossa sulla punta
dell'albero, e la moltitudine applaudiva. Io vidi, trovandomi allora a
sedere nella destra loggia, Baraguey, ed il presidente dei municipali
gettare terra, e versar acqua sulle radici dell'innalzato albero, ed a
quell'atto, tanto il cielo mi fu amico, che non proruppi, benchè ne
avessi voglia, perchè mi erano in abbominazione i tradimenti. Le
orchestre suonavano, le musiche militari rispondevano, le campane
rimbombavano, i cannoni tuonavano, le tricolorite bandiere si
sventolavano. Fatto silenzio, orava l'arciprete Valier municipale, con
magnifiche parole commendando la generosità Francese, e la rigenerazione
Veneziana. Poscia entrati in San Marco, cantavano l'inno delle grazie, e
facevano il maritaggio del giovane e della giovane. Restava, che ad
onore dello stato nuovo si vilipendesse il vecchio. Per la qual cosa,
uscito il corteggio da San Marco ed in piazza tornatosi, dove
promiscuamente e Francesi, e Veneziani intorno all'albero già ballavano,
ardevano il libro d'oro, e le altre insegne ducali: in quel mentre orava
enfaticamente l'abbate Collalto: l'albero della libertà al salutifero
legno della croce paragonando. Continuossi a ballare il giorno, ballossi
ancora la notte; si recitava in musica una bella, e magnifica opera nel
bellissimo teatro della Fenice. Il cuore umano non ha affetto, nè
l'immaginazione figura, nè la lingua espressione per rappresentare
degnamente quello, che si dovrebbe rappresentare pensando, quale materia
covasse sotto tali rallegramenti. Certo, feste e rallegramenti più
crudeli di questi non furono al mondo mai. Ricordomi, e fia l'ultima
volta che in queste lagrimevoli storie io favelli di me, che trovandomi
in palco di una nobile donna Contarini, se la memoria non falla, sposata
ad un Correr di Santa Fosca, che fu almirante delle navi, ed a casa il
quale io mi godeva a quei giorni una dolce e cordiale ospitalità, in
vedere quelle apparenze ed in pensare al fatto, sentiimi come quasi
dividere, a lacerare in due dentro me stesso, e paragonaimi a
quell'orrendo accoppiamento di corpi vivi e di cadaveri, che per
supplizio di rei e di innocenti faceva, a guisa di diporto, quel tiranno
dell'antichità. Pure m'infinsi, perchè il discoprirmi sarebbe stato
pericoloso; e forse da coloro, con cui mi conversava, non creduto.
Per tal modo si piantava l'albero in Venezia da Baraguey d'Hilliers. Al
tempo stesso Bernadotte, che conosceva a che fosse serbata Venezia,
proibiva con animo sincero, che in Udine si piantasse. Guyeux al
contrario metteva una taglia di centomila lire sur un piccolo comune del
Padovano, sotto pretesto, che l'albero vi fosse stato tagliato; doloroso
avviluppamento d'accidenti strani per l'infelice Venezia, a cui in
proposito di un medesimo fusto figurativo la sincerità dell'uno non
giovava, l'improntitudine degli altri pregiudicava.
Continuava Buonaparte nelle sue arti di mostrarsi propenso ai Veneziani,
e di dar loro speranza della conservazione del dominio. Nè contento alle
chimere, con cui andava pascendo il legato Battaglia, e Dandolo, e
Zorzi, e gli altri municipali, che andavano e venivano da lui, volle
fare una dimostrazione tanto più brutta, quanto ella era di civiltà, e
di cortesìa. Dimostrava non potere, per le molte e gravi faccende che il
travagliavano, visitare, come desiderava, per se stesso Venezia, ma
mandarvi la donna sua, perchè in lei vedessero i Veneziani, così appunto
si spiegava, quanta fosse l'affezione che loro portava. Veniva la moglie
in Venezia: le adulazioni dei repubblicani di quei tempi sì Veneziani,
che Francesi, furono oltre misura. Traevano per comandamento del
generalissimo i cannoni a festa, e ad onore di privata donna, e queste
cose non solamente si comportavano, ma ancora si lodavano; potevano i
prudenti uomini augurar dell'avvenire. Accolta nella sala dei municipali
era segno d'applausi infiniti: deputavano due dei loro ad intrattenerla,
ed a farle onoranza. Furonvi festini, balli, canti, allegrezze di ogni
sorte: alla Giudecca una gran cena, al canal grande una luminaria, nè
mancovvi la regata, spettacolo gradito dei Veneziani. Credevano i
municipali di aver vinto la pruova, perchè la donna dava parole dolci, e
pareva loro Buonaparte non avrebbe mandato una persona gradita in una
città tradita. Ma s'ingannavano, perchè nol conoscevano, o nol volevano
conoscere. Dandolo, e gli altri municipali trionfavano, e sempre stavano
accanto alla donna, e dal suo volto pendevano. Solo Giuliani
repubblicano se ne stava bieco, ed alla traversa. Infine, dimoratasi
quattro giorni, il quinto se ne partiva con assai ricchi presenti. Io
non affermerò, perchè non lo so di certo, che le sia stata data una
collana ricchissima di grosse perle, tratta espressamente dal tesoro di
San Marco, in cui era custodita ad uso sacro. Nondimeno l'ho dovuto
avvertire, perchè lo trovo scritto negli annali dei tempi. Certamente se
non questo, ebbesi ed accettò la donna di molti altri presenti. Fu
brutto il dare, fu ancor più brutto l'accettare, non dico dal canto di
lei, perchè forse ignorava le insidie del marito contro Venezia, ma dal
canto di lui che le sapeva, e che ordiva.
Non ostante tutte le promesse e le dimostrazioni favorevoli, non
vivevano coloro, che avevano in mano la somma delle cose in Venezia,
senza qualche sospetto, però oltre i maneggi ed i denari, trattavano di
unirsi strettamente alle città di terraferma, che, come abbiam narrato,
molto ripugnavano al dominio Veneziano. Laonde operavano, che le
principali mandassero deputati a Bassano per trattar dell'unione. Vi
mandava Verona un Monga, Padova un Savonarola, Brescia un Beccalozzi: vi
mandava Venezia Giuliani, perchè essendo natìo di Desenzano, si sperava,
che potesse più facilmente conciliarsi ed accomunar i dissidenti. Non
arrivavano i deputati di Udine, perchè Bernadotte, per umanità e
sincerità, impediva che deputasse. Vi mandava Buonaparte, che in
sembianza favoriva il disegno, Berthier, affinchè e presiedesse il
congresso, e con arte distornasse il progetto d'unione. Vi furono molte
parole e contenzioni. Verona voleva esser capo della terraferma, Padova
andava alla medesima volta, i Bassanesi piuttosto ai Padovani aderivano
che ai Veronesi, i Vicentini piuttosto ai Veronesi che ai Padovani,
Treviso stava in favor dei Veneziani, i deputati d'Oltremincio
propendevano verso la Cisalpina. Non ostante si vedeva tra mezzo a
questi dispareri, che per la necessità del caso, i deputati sarebbero
finalmente restati d'accordi sull'unione. Però Berthier, che non aveva
potuto turbare il disegno con le arti, il rompeva con l'autorità,
disciogliendo il congresso, e pubblicando, che circa l'unione i deputati
non si erano potuti accordare; il che era vero, ma era colpa di lui, non
di loro.
Riuscito vano questo tentativo, pensavano i Veneziani a ricercare il
direttorio e Buonaparte della unione loro alla Cisalpina; ne facevano
anche inchiesta formale al direttorio Cisalpino. Davano i primi buone
parole; Battaglia e San Fermo le scrivevano ai municipali, confortando
per tal modo i Veneziani con la speranza di aversene almeno a restar
Italiani. Rispondeva il direttorio Cisalpino con ambagi e con superbia;
barbaro, e stolido insulto alla compassionevole Venezia.
In questo mentre si era concluso il trattato di Campoformio; Buonaparte
se ne tornava a Milano. Il suo parlar diverso, e le voci che già si
levavano, atterrivano i popoli. Interrogato a Vicenza, qual fosse il
destino dei Veneti, rispondeva, nè la Francia nè lui avere alcun diritto
sopra di loro. Qui soggiungeva un Tiene Vicentino, che sarebbero pronti
a spendere ogni più preziosa cosa per conservar l'indipendenza.
Replicava, nulla ancora essere deciso; nè la Francia, nè egli non
sarebbero mai per operare cosa alcuna contro di loro, nè per disporre di
un popolo, sopra del quale non avevano nissun diritto. Ma giunto a
Verona, già più vicino al suo sicuro nido di Milano, e perchè si credeva
che la parte Austriaca vi fosse potente, interrogato delle Veneziane
sorti da un De Angeli, presidente del governo, faceva sentire questo
suono, che Verona era ceduta all'Austria. Dissegli allora il presidente,
_perchè non lasciarci piuttosto sotto i Veneziani? Perchè dopo tante
promesse di libertà venderci all'Austria?_ A questo tratto rispondeva il
capitano atroce a uomini, ai quali egli aveva tolte le armi: _ebbene,
difendetevi_. Riprendeva il presidente le parole, e magnanimamente
rispondendo, tuonava a questo modo: _Vattene, traditore, e sgombra da
queste terre: rendici le armi che ci hai tolte, e ci difenderemo_.
Taceva il barbaro a tale rincalzata attonito, e si ritirava non
vergognoso, ma avvilito, in altra camera. Spargevasi intanto il grido;
la città piena di dolore, di trepidazione e di spavento. Udiva le grida
disperate dei cittadini dolenti il venditore; se ne partiva frettoloso
per Milano.
L'ora estrema di Venezia era giunta. Scriveva da Milano Buonaparte a
Villetard: pel trattato di pace essere i Francesi obbligati a vuotare la
città di Venezia, e perciò potersene l'imperatore impadronire; ma non
doverla vuotare che venti, o trenta giorni dopo le ratificazioni; potere
tutti i patriotti, che volessero, spatriarsi, ricoverarsi nella
repubblica Cisalpina, in cui godrebbero dei diritti di cittadinatico;
avere facoltà per tre anni di vendere i beni loro; essere
indispensabile, che si creasse un fondo, il quale potesse alimentare
quelli fra i patriotti, che si risolvessero a lasciar il paese loro, e
non avessero facoltà sufficienti per vivere; essere la repubblica
Francese parata a soccorrergli, se ne avessero bisogno, con la vendita
dei beni d'allodio che possedeva nella Cisalpina; esservi a Venezia
molte munizioni navali, o di guerra, o di commercio, che appartenevano
al governo Veneziano; essere indispensabile, che la congregazione di
salute pubblica, (quest'era una congregazione di municipali), le
trasportasse, più presto il meglio, a Ferrara, perchè quivi potessero
essere vendute in pro dei fuorusciti; quanto fosse per esser utile alle
opere navali di Tolone, tosto s'imbarcasse per Corfù, e se ne facesse
stima, onde del ritratto si soccorressero i fuorusciti; i cannoni e le
polveri si vendessero alla Cisalpina; accordassesi Villetard con un
Roubault, e con un Forfait, e con la congregazione di salute pubblica
per vedere a qual pro si potessero condurre una nave, ed una fregata
recentemente disarmate, otto galeotte, sei cannoniere, un argano da
inalberare, le piatte, il Bucintoro, e le barche dorate, i barconi, i
palischermi grossi, e sei navi da guerra, sei fregate, sei brigantini,
sei cannoniere, e tre galere sui cavalletti.
Aggiungeva Buonaparte a Villetard, badasse bene a tre cose: la prima,
lasciar nulla, che potesse servire all'imperatore per creare un navilio;
la seconda, trasportar in Francia quanto fosse utile alla nazione; la
terza, usare quanto si vendesse, nel miglior modo possibile, perchè più
fosse profittevole ai fuorusciti: insomma ogni altra opera facesse, che
il tempo e l'occorrenza richiedessero per assicurar le sorti dei
Veneziani, che si volessero ricoverare in Cisalpina: finalmente fosse
suo obbligo di pensare, di concerto con la congregazione di salute
pubblica, e coi deputati delle città di terraferma, alla salute dei
fuorusciti loro.
Avuto Villetard questo mandalo, duro per lui per essere stato autore
della rivoluzione Veneziana, duro pei Veneziani per la perduta patria,
nella sala delle adunanze recatosi, e ragionato prima delle condizioni
dell'Europa, che, secondo lui, rendevano pericolosa alla Francia una
nuova guerra sul continente, in cotale guisa ai municipali favellava:
«Cittadini, voi già anteponeste all'interesse vostro l'interesse della
patria: un altro maggiore sforzo, un altro più nobile sacrifizio vi
resta a fare, e quest'è il dare l'interesse della vostra patria stessa
all'interesse di tutta l'Europa. Già udiste le funeste voci
sollecitamente sparse dai nemici vostri: esse risparmiano almeno ai
vostri amici, che questo infausto mandato ricevuto hanno, il dolore di
adempirlo con altro, che con lagrime. Ma, cittadini, i nemici vostri
sono anche nemici nostri; essi calunniato hanno la Francia, come se ella
trafficasse di carne umana, affinchè voi contro la libertà, e contro i
difenditori suoi parte di quell'odio voltaste, che alla tirannide, ed a'
suoi sostenitori portate. No, per Dio, no; che la Francese repubblica
questa vendita infame lascia ai re: ella perseguita i re, ella protegge
gli uomini liberi, ovunque gli trovi. Ma la sua protezione, e la sua
vendetta là debbono terminarsi, dove nascerebbe la offesa dei suoi
propri concittadini. I soldati della repubblica ora troppo sparsi,
meglio fomenteranno ristretti nella Cisalpina, la novella libertà. I
territorj Veneti, forse la città stessa di Venezia resteranno aperti
alle imperiali genti, fors'elleno gli occuperanno. Alcuni fra di voi,
come gli Ottomani fanno, sono pronti a piegar il collo al fato
inesorabile. Altri, come i Veneti, gloriosi avoli loro, sonsi risoluti a
lasciar le insensate mura per trasportar sulle navi la patria, ed ogni
uomo libero con lei. Evvi finalmente chi elegge il morire sotto le mura
diroccate piuttosto che lasciarle in mano degli strani. Non io presumerò
di giudicare qual fia il meglio fra una rassegnanza stoica, fra una
ritirata onorevole, fra un sacrificio generoso. Bene ho a dirvi, dopo di
aver purgato la mia patria dal veleno della calunnia, ch'ella offre
ricovero, ed asilo a coloro, che perduta l'antica Venezia vorranno
fondarne una nuova su lidi inaccessi alla tirannide. La Cisalpina
repubblica per intercessione della Francia, e per amore della libertà vi
apre il grembo; ivi il titolo di cittadini avrete, ivi una sede alla
novella Venezia, o che vi piaccia presso alle terre forti, o nelle
popolose città, o sotto gli umili tuguri, dove abitano gli uomini
virtuosi e liberi, fondarla: potrete i Veneziani beni con voi Veneziani
trasportare, che così a favor vostro stipulava la potentissima
repubblica. Per tale guisa la generosa Francia, non potendo in tanta
lontananza assicurare il libero stato ai Veneziani in Venezia,
assicurava almeno il viver libero a coloro, che preferiscono la libertà
alle lagune!»
Dette queste parole il giovane Villetard, pallido, tremante e lagrimoso
si tacque. Poi gli esortava, in nome anche di Buonaparte, che
ordinassero quanto era necessario, perchè Venezia sottentrasse intera e
salva al nuovo dominio. La rabbia, l'indegnazione, il furore agitavano
il consenso. Ora era il silenzio, ora mormori di maledizione. Il buon
Vidiman, che già il cuore funesto aveva per la morte del fratello,
antico governatore delle isole, che non aveva potuto sopravvivere alle
rapine Corciresi, visto accostarsi la morte della patria a quella del
fratello, se ne stava un pezzo attonito e sbattuto. Poi ritrovando in se
quella forza d'animo, che più gli uomini temperati hanno, che gli
sfrenati, faceva risoluzione di andarsene all'esilio, non già per adular
Buonaparte, o per correr dietro a nuove ambizioni, ma per viversene
umile ed ignoto, là dove ancora virtù si pregiasse. Fortunato Veneziano,
anche nelle disgrazie, poichè la virtù non solo consola, ma a gran
misura felicità, da te impareranno i posteri, se avranno vita queste
carte ch'io vergo, e divozione verso la patria, ed integrità di costume,
ed amore della libertà, e costanza nell'esilio; e forse tempo verrà, che
essi anteporranno l'esule ed umile Vidiman al glorioso Buonaparte,
distruttore di patrie innocenti.
Riprendeva le parole Villetard, ed offeriva in nome del generalissimo,
ed a scampo della loro vita nel vicino esilio, le Veneziane spoglie. A
questa offerta veramente Buonapartiana la natura Italiana si scosse, e
mostrossi intiera. Ritenessesi, rispondevano concordi, gl'infami doni;
non essi aver consentito a governare un dì la patria loro in tempi
infelicissimi per dividersene le spoglie; sapere, come si preferisca la
povertà all'infamia, gli esempi che correvano, non avere fin là
contaminato le anime Veneziane: poter esser traditi, perchè per tradire
basta la potenza, ma non avviliti, perchè per non essere avvilito basta
la virtù, intrinseco e durevol pregio, non esteriore e caduco, come la
potenza; prendessesi pure la Francia le Veneziane spoglie, ma non
cercasse di chiamar a parte del furto i Veneziani; aver essi perduto la
patria, non voler anco perdere l'onore; se si pascevano i potenti delle
rubate ricchezze, volere gli esuli pascersi della buona coscienza, nè
non esser mai per consentire, che quelle mura e quelle acque, tante
volte testimonj di virtuosi fatti, gli vedessero far fardelli di
Veneziane ricchezze; sapere, per aver voluto servire alla Francia ed
alla patria, aver incorso l'odio di molti compatriotti, ma sperare, che
quest'ultimo atto della vita pubblica loro, gli purgherebbe, ed a tutti
dimostrerebbe, che se furono troppo confidenti, non furono almeno
colpevoli. Ciò detto, se ne stavano fremendo con segni di grandissima
indegnazione.
Di questo sdegno, e di questo rifiuto scriveva Villetard a Buonaparte
con la seguente lettera, la quale io sono, come un'altra scritta dal
medesimo Villetard, obbligato di riferire alla distesa, perchè un
recente autore di una storia di Venezia, badando piuttosto a scusare
Buonaparte del fatto di Venezia, che a rendere a ciascuno il suo debito
secondo il vizio o la virtù, le passò sotto silenzio, contentandosi di
rapportare la lettera del generalissimo, la quale anche qui sotto si
troverà trascritta. Della quale omissione io non posso restar capace,
perchè, se desiderio dello storico era il non lodar Italiani di un fatto
che dinotava magnanimità, mi pare, che almeno avrebbe dovuto lodare il
Francese Villetard di un procedere, che se stesso e la Francia sua
patria in sì brutto accidente onorava.
«E' bisogna, scriveva Villetard al generalissimo, ch'io avessi tanta
fermezza stoica, quanto amor patrio, perchè io il doloroso carico, che
mi deste, accettassi. Era presto, per quanto in me fosse, di adempirlo;
ma bene io meco stesso mi rallegro almeno, di aver trovato nei
municipali di Venezia animi troppo alti per voler cooperare a quello,
che per mezzo mio loro avete proposto. Cercheranno eglino altrove una
libera terra, ma preferiranno, se necessario fia, la povertà
all'infamia. Non consentiranno, che altri possa dir di loro, che abbiano
durante alcuni giorni, usurpato la sovranità della nazione loro per
metterla in preda. Per un tal procedere pruoveranno almeno, che non
meritano i ceppi che si stan loro preparando. Gemono, è vero, su cotesti