Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III - 14
Francia da non pochi uomini temperati, e fuori da tutte le potenze, che
la repubblica si spegnesse, ed il consueto reggimento, per quanto
gl'interessi nuovi il permettessero, col mezzo dei Borboni si
ristorasse. Nè essendosi questo fine potuto conseguire coll'armi civili
delle Vendea, nè coll'armi esterne di tutta l'Europa, perchè la nazione
Francese, che forte ed animosa è, non aveva voluto lasciarsi sforzare,
si pensava, che i maneggi segreti, le promesse, le corruttele, e le
adulazioni potessero avere maggior efficacia. A questo fine, e con
questi mezzi si era operato che le nuove elezioni ai consigli
legislativi cadessero in uomini, che amassero meglio la monarchìa dei
Borboni, che la repubblica, ed in ciò si era fatto non poco effetto.
Siccome poi a tutti i moti è necessario un capo di chiaro nome, così
avevano al consiglio dei giovani eletto il generale Pichegru, capitano
rinomato per le sue vittorie in Alemagna ed in Olanda. Con lui
concorrevano molti altri personaggi famosi o per armi o per dottrina, o
per segnalati fatti nelle rivoluzioni politiche di Francia. Nel
direttorio stesso Barthelemi favoriva il disegno per natura e per
opinione, ed i desiderj suoi fino ai Borboni si estendevano; che
certamente aveva dato questi segni di se nella sua ambascerìa in
Isvizzera. Il favoriva, siccome pare, anche Carnot, o che volesse la
monarchìa dei Borboni, il che è incerto, o che solamente disegnasse,
come uomo di acutissimo pensiero, ridurre, spenti gli uomini immoderati,
quello stato di repubblica scorretta e tumultuaria a forma più stretta e
più ordinata. Seppesi questo maneggio dai tre quinqueviri, che non vi
erano mescolati, e si misero all'ordine per isturbarlo, perchè amavano
la repubblica, e temevano la monarchìa. È quivi per altro debito nostro
riferire, che a questo tempo alcune pratiche segrete si erano introdotte
tra Barras, uno dei tre, ed alcuni agenti di Luigi decimottavo, per le
quali il quinqueviro aveva dato speranza, e s'era anche obbligato a
favorire la rinstaurazione dei Borboni sotto condizione di dimenticanza
del passato, e promessa di premio in denaro; ma con la medesima
sincerità procedendo, dobbiamo notare, che sebbene sia vero, che queste
pratiche siano esistite, Barras sdegnosamente, e con termini molto
espressivi negò d'aver voluto procurare la mutazione del governo allora
sussistente, ed asseverò, avere prestato orecchio agli agenti dei
Borboni col solo fine di conoscere, e sventar le loro trame: vogliono
anzi alcuni, che gli volesse condurre in luogo dove potessero essere
arrestati. Pubblicò di più, aver ciò fatto con saputa e consentimento
espresso de' suoi colleghi del direttorio, ai quali a questo fine aveva
comunicato il negozio. Dà verisimile colore a quest'ultima allegazione
l'averla lui pubblicata quando gli sarebbe stato utile dire il
contrario, se fosse stato vero, ed il citare, per pruova della verità
del fatto, il testimonio dei ministri di quel tempo, de' suoi colleghi
del direttorio, ed anzi i registri segreti di questo magistrato supremo
della repubblica, in cui, siccome affermò, vi era un decreto che
l'autorizzava a condurre queste pratiche. Comunque ciò sia, era allora
l'esercito d'Italia in bocca di tutti, e quanto da lui veniva era
ricevuto in Francia con grandissimo o amore o terrore, secondo le
opinioni e le passioni, per la qual cosa coloro, che contrastavano a
questo proposito, facevano avviso, che le mosse contrarie dovessero aver
principio dall'esercito Italico. A questo dava favore Buonaparte per la
sua emolazione verso Pichegru, prevedendo nell'esaltazione del vincitore
dell'Olanda la depressione del vincitore dell'Italia. Per tutte queste
ragioni uscivano dalle diverse schiere dell'Italico minacce fierissime
contro i nemici della libertà, come gli chiamavano, contro gli amatori
del nome reale, contro i minacciatori della constituzione. Parlavano del
voler marciare in Francia con le armi vincitrici per castigare i
ribelli, descrivevano con patetiche parole le orribili congiure ordite
nella patria loro contro la libertà, mentre essi col sangue, e con
disagi innumerevoli la libertà, e la patria difendevano. Non
isperassero, minacciavano, che il sangue sparso, che le acquistate
vittorie, che la conseguita gloria fossero indarno; quelle mani stesse,
che avevano vinto l'Austria, vincerebbero facilmente, e farebbero tornar
in nulla quei branchi di faziosi. Al solo mostrarsi degl'Italici soldati
oltre l'Alpi, presi di spavento si disperderebbero quei vili sommovitori
di congiure. Non dubitasse punto il governo, che l'esercito Italico
tanto amasse la libertà, quanto la gloria, e che la prima con la
medesima costanza, col medesimo valore difendesse, coi quali aveva
acquistato la seconda: verrebbero, vedrebbero, ed anche senza battaglie
vincerebbero.
Da questi conforti, e da questo appoggio fatto sicuro il direttorio,
veniva a quelle risoluzioni, che resero tanto famoso il dì diciotto
fruttidoro, anno quinto della repubblica, o il dì quattro settembre del
novantasette: per esse si carceravano, ed in istrane e pestilenziali
regioni si mandavano Barthelemi, Pichegru, e gli altri capi della
congiura. Alcuni, e fra questi Carnot, fuggiti alla diligenza dei
cercatori, trovarono in forestiere terre scampo contro chi gli chiamava
a prigione ed a morte. Questo fu il moto di fruttidoro, pel quale
affortificatosi il direttorio coll'esclusione dei dissidenti, e
coll'unione dei consenzienti, e fattosi padrone dei consigli, recava in
sua mano la somma delle cose, e pareva, che vieppiù avesse confermato la
repubblica.
Tornato vano questo tentativo, i confederati, massimamente l'Austria,
che si trovava più vicina all'incendio, e che, essendo alle strette con
Buonaparte, aveva meglio conosciuto la sua natura, si gettarono ad un
altro cammino per arrivare al fine della distruzione della formidabile
repubblica. Si negoziava a questo tempo la pace coll'Austria; gli agenti
Austriaci vennero dicendo a Buonaparte, guardasse le ruine d'Europa, e
della sua patria stessa; una repubblica fondata solo con le mannaje,
conservata solo con le bajonette, sopportatrice dei malvagi,
perseguitatrice dei buoni; non isperasse di fuggir egli stesso la
repubblicana invidia; più illustri erano i fatti suoi, più magnifici i
benefizj verso la patria, e più inevitabile credesse l'atroce fine che
l'aspettava. Considerasse, che sono inesorabili le repubblicane
emolazioni, e che sempre la gratitudine delle repubbliche è
l'ingratitudine. Se i più chiari cittadini erano stati all'estrema fine
condotti in Francia, solo perchè chiari erano, che sarebbe del più
chiaro fra tutti? Ricordassesi le recenti trame ordite contro di lui, le
proprie querele, ed il livore del direttorio già vicino a prorompere,
quand'era ancora l'opera sua necessaria in guerra: che sarebbe in pace?
Forse era nato egli e fatto per essere stromento di faziosi, e
mentecatti? Forse a servir ad avvocati, e notaruzzi ambiziosi? Con le
grida, e coi patiboli s'hanno a governar gli stati? Guardassesi intorno,
entrasse in se, si paragonasse ad altri, e vedrebbe, che siccome era
unica la sua gloria al mondo, così unico doveva essere il fine, che a se
doveva proporre, che già dalle volgari vie militari si era discostato
nelle faccende di guerra, e che debito gli era di discostarsi dalle
volgari vie anche nelle faccende civili: a ciò chiamarlo, lacera e rotta
tutta l'Europa; a ciò medesimo chiamarlo la misera umanità ingannata
dalle lusingherìe, straziata dai delitti: vedeva egli certamente, ed
anche più volte aveva accennato, essere la repubblica un governo
impossibile in Francia. A che dunque dubitare, a che indugiare? l'Europa
infelice, la Francia infelicissima domandare da lui altre sorti,
domandare da lui la rinstaurazione dell'antica monarchìa dei Borboni,
domandare la rintegrazione dei diritti Europei: assai avere spaziato la
forza, assai la usurpazione, assai l'anarchìa: domare questi mostri
esser suo destino: al solo segnale dei Borboni, quando l'opportuno
instante fosse venuto, seguiterebbonlo in Francia tutti i buoni,
seguiterebbonlo tutti gli sdegnati, seguiterebbonlo tutti gl'infelici
condotti all'ultimo caso dalla presente tirannide. Favorirebbelo
l'Europa tutta, tirata da sì grande impresa, mossa da sì bella speranza
dopo tanto conquasso. Seconderebbonlo i principi, l'Austria la prima, e
la Russia tanto attiva fomentatrice dei Borboni. Parlare di ricompense a
chi già aveva acquistato maggior gloria, che altr'uomo avesse acquistato
mai, e che solo con un gran civile fatto poteva la propria gloria
ampliare, essere superflua, e fors'anche offenditrice cosa: pure o che
in grado privato la venerazione, o che in grado pubblico l'autorità
desiderasse, ciò gli sarebbe, e più ampiamente, che non desiderasse,
conceduto. Desse pertanto opera ad impadronirsi della somma delle cose
in Francia; che a ciò l'ajuterebbero i potentati, solo che promettesse
di fare la gran rimessa all'antico e legittimo signore. Muovessesi
adunque Buonaparte unico ad opera unica; rispondesse col fatto al
destinato dalla provvidenza, posciachè non senza intervento divino tante
volte avevano suonato le armi sue vincitrici.
Queste esortazioni muovevano quell'animo ambizioso. Ma da Borboni a
repubblica ei non faceva divario, gli uni e l'altra aveva ugualmente in
dispregio, ed anche la felicità, o le disgrazie umane nol toccavano.
Bensì, siccome quegli che sagacissimo era, e di prontissimo intelletto,
avvisava in un subito, che quello, che gli si offeriva, poteva aprirgli
la strada all'altissime sue cupidità. Si mostrava pertanto disposto a
fare quanto si richiedeva da lui, proponendosi nell'animo, e questo fu
il più solenne inganno, che mai sia stato fra gli uomini, di favorirsi
del consentimento e cooperazione dei principi, per arrivare alla potestà
suprema in Francia; non già per dispogliarsene in favor di chicchessia,
ma per serbarla ed anzi vieppiù consolidarla in se medesimo, ed
ampliarla.
Vogliono alcuni, che Barras quinqueviro avesse l'animo volto a favor dei
Borboni già insin da quando aveva procurato la elezione di Buonaparte al
governo supremo dell'esercito Italico, e che a questo fine appunto
l'abbia procurata, argomentando, che il giovane di Corsica, in cui egli
aveva scoperto mente atta a qualunque più ardua impresa, e natura nemica
ai reggimenti popolari, il dovesse secondare nel mandar ad effetto il
suo intendimento. Danno corpo a questa opinione le pubblicazioni fatte
dagli agenti dei Borboni, la contraddicono quelle fatte da Barras: le
une e le altre noi abbiamo rapportate, affinchè chi ci legge, possa
dalle medesime prender conghiettura della verità in cose tanto
avviluppate quanto importanti.
Dato in tal modo intenzione ai confederati, ed accordatosi con loro del
ristaurare in Francia l'antico governo dei Borboni, non formidabile ai
principi per essere conforme ai loro proprj, cominciava Buonaparte a
fare qualche dimostrazione, che della sua sincerità potesse far
testimonianza. Avea egli fatto arrestare contro ogni dritto delle genti
in Trieste, e condurre gelosissimamente custodito nel castello di Milano
il conte d'Entraigues, agente molto fidato di Luigi decimottavo.
Parlavano a quei tempi tutti i giornali della carcerazione del conte, e
ne favellavano come di cosa, che sommamente importasse alla salute della
repubblica. Gli trovavano, siccome fu pubblicato per opera di
Buonaparte, scritti, che discoprivano le macchinazioni di Pichegru, e
degli altri amatori del nome reale. Inoltre si facevano constare per un
rigoroso esame dato al conte, sebbene egli il verbale costantemente
sempre abbia negato, molto maggiori cose in pregiudizio della
repubblica, ed in pro dei Borboni, che gli scritti non palesavano. Tal
era il rigore di quell'età, che, se non ci fosse stato di mezzo qualche
grave motivo, avrebbe tosto Buonaparte dato a giudicare ad un consiglio
militare, o mandato il conte in Francia, dove sarebbe stato o sottoposto
all'ultimo supplizio, o carcerato per sempre. Ma quando ognuno temeva di
veder il conte giunto all'estrema fine, diede ammirazione agli uomini
l'udire, che il generalissimo aveva comandato a Berthier, che il facesse
comodamente alloggiare nel castello, e che la moglie il potesse
visitare. Gli comandava ancora, che se non trovasse stanza comoda nel
castello, il lasciasse sotto buona guardia in città, e gli rendesse
tutti gli scritti, salvo quelli, che toccavano gli affari politici:
questi erano le congiure di Pichegru. La maraviglia più si cambiava in
istupore per coloro, che non conoscevano l'intrinseco del fatto, e le
cagioni, quando si seppe, che il conte si era fuggito dal castello, e
più ancora, quando portò la fama, ch'ei fosse già arrivato con felice
viaggio nelle terre dell'imperatore Paolo di Russia, succeduto alla sua
madre Caterina. La verità del fatto fu, che Buonaparte desideroso di far
chiari gli alleati della sincerità sua col fidare le cose segrete
trattate a Montebello ad uomo confidente della Russia, e di Luigi
decimottavo, aveva procurato la libertà ad Entraigues, e mandatolo in
Russia portatore delle sue promesse. Infatti a queste novelle si piegava
Paolo con divenire molto meno acerbo verso la Francia. Al tempo stesso i
negoziati di Udine e di Montebello si fecero assai più morbidi, per modo
che non tardarono ad avvicinarsi alla conclusione; conciossiachè i
principi credevano, facilitando il sentiero a Buonaparte per arrivare
alla somma potenza in Francia, abilitarlo a mandar ad effetto le cose,
che da lui si promettevano. Tutti questi disegni molto gli arridevano, e
quantunque fosse uomo di natura molto coperta, e di pensieri cupissimi,
tuttavìa si lasciava di quando in quando uscir di bocca certi motti, che
disvelavano la sua intenzione, e le fatte macchinazioni. Ed io ho udito
parecchie volte raccontare a Villetard, giovane candidissimo, che
trovandosi a passeggiare a Montebello con Buonaparte, e con Dupuis, che
poi fu morto generale in Egitto nella sommossa del Cairo, sostando
improvvisamente dal passeggiare, il generalissimo aveva loro detto: _che
direste voi s'io diventassi re di Francia?_ Al che, siccome a me
raccontava il medesimo Villetard, rispondeva Dupuis, che professava un
ardente desiderio dello stato repubblicano, che sarebbe il primo a
piantargli un coltello nel petto; il quale tratto non fu udito senza
riso da Buonaparte.
Nè questi erano i soli segni delle meditate cose. Sorgevano a Montebello
i costumi, e le abitudini regie: ivi le udienze altiere da una parte,
umili dall'altra; ivi le adulazioni smoderate, ed il silenzio
rispettoso, non interrotto che dalle interrogazioni; ivi le sorelle del
vincitore corteggiate a modo di corte, ivi i ministri dei principi
esteri, e quei della Cisalpina accolti alla reale. Certamente null'altro
mancava di re che il nome, e questo nome stesso veniva naturalmente
sulle labbra dei cortigiani, ma vi periva per amore o per timore, ma
piuttosto per timore, che per amore della repubblica. A chi era uso a
scrutare le umane vicende, appariva manifestamente, essere in Buonaparte
natura a volere, e ad usare l'imperio, nè ciò con leggi, ma sopra le
leggi, non come cittadino, ma come padrone: il fato il fece per l'età, e
l'età per lui.
Frattanto le promesse segrete, ch'egli aveva fatte, e la necessità, in
cui si trovava il direttorio di rammollire con un solenne fatto i
risentimenti nati in Francia per la terribile rivoluzione dei quattro
settembre, operavano di modo che, rimosse da ambe le parti tutte le
durezze, si veniva il giorno diciassette ottobre alla conclusione nella
villa di Campoformio, di un trattato di pace, in cui un governo nuovo
distruggeva un governo antico, ed un governo antico consentiva, e
s'arricchiva delle spoglie di un governo antico ed amico, disonoratosi
l'uno per aver rapito, poco onoratosi l'altro per aver accettato le
rapine, se però non iscusano quest'ultimo le affermazioni magnifiche del
primo dell'averlo ridotto alla necessità di accettar la pace, qualunque
ella fosse. Oltre a ciò lasciava l'Austria in libera preda della
repubblica Francese, non dirò il Piemonte, perchè forse ella se ne
teneva male soddisfatta per la stretta congiunzione di lui con la
Francia dopo la tregua di Cherasco, e la pace di Parigi, ma bensì il
papa, ed il re di Napoli, che in nessun modo l'avevano offesa, e che
anzi si trovavano condotti in dure strette, ed in gravissimo pericolo
per avere sino agli estremi seguitato la sua parte. Certamente nissuna
sicurezza stipulava l'Austria nel trattato nè pel papa, nè per Napoli.
Fu il trattato di Campoformio principio di quelle brutte e crudeli
stipulazioni, che desolarono poi per circa vent'anni la miseranda Europa
con l'esempio di sommuovere prima i popoli, poi di dargli in preda ad
insolite signorìe.
Fermarono fra di loro l'Austria e Buonaparte, che la repubblica Francese
si avesse i Paesi Bassi, che l'imperatore consentisse, che le isole
Venete dell'Arcipelago, e dell'Ionio, e così ancora tutte le possessioni
della Veneta repubblica in Albanìa, cadessero in potestà della Francia;
che la repubblica Francese consentisse, che l'imperatore possedesse con
piena potestà la città di Venezia, l'Istria, la Dalmazia, le isole
Venete dell'Adriatico, le bocche di Cattaro, e tutti i paesi situati fra
i suoi stati ereditarj, ed il mezzo del lago di Garda, poi la sinistra
sponda dell'Adige insino a Porto-Legnago, e finalmente la sinistra
sponda del Po; che la repubblica Cisalpina comprendesse la Lombardia
Austriaca, il Bergamasco, il Bresciano, il Cremasco, la città e fortezza
di Mantova, Peschiera, e tutta la parte degli stati Veneti, che è posta
a ponente e ad ostro dei confini sovra descritti; che si desse nella
Brisgovia un conveniente ricompenso al duca di Modena; che finalmente i
plenipotenziarj di Francia e d'Austria convenissero in Rastadt per
accordare gl'interessi dell'imperio d'Alemagna.
A questi articoli palesi altri furono aggiunti di non poca importanza,
pei quali l'imperatore consentiva, che la Francia acquistasse certi
territorj Germanici insino al Reno, e dalla parte sua prometteva la
Francia di adoperarsi, acciocchè l'Austria aggiungesse a' suoi dominj
una parte del circolo di Baviera; il che non si poteva effettuare se non
con pregiudizio del duca.
Fu il trattato di Campoformio pieno di rapina, ma non fu meno pieno di
scherno, ancor peggiore della rapina; conciossiachè di che sappiano
quelle parole, che la repubblica Francese consentiva, che l'imperatore
possedesse Venezia, vedranlo non senza sdegno coloro, che
considereranno, se sarebbe stato possibile ai Veneziani di non diventar
imperiali, e se la Francia avrebbe permesso, che imperiali non
diventassero, e se i generali, ed i soldati di Buonaparte abbiano, sì o
no, consegnato eglino medesimi con le proprie mani la compassionevole
Venezia nuda ed inerme, ai generali ed ai soldati dell'imperatore.
Questo essere e non voler parere, parrà a tutti, come pare a me, un
pudore molto ipocrito.
Pure questa è quella pace, di cui favellando Carlo Maurizio Talleyrand,
tutto ammirativo sclamava: _questa è una pace da Buonaparte_; il che gli
sarà da ognuno facilmente conceduto. Poi non potendo Talleyrand medesimo
capire in se stesso per l'ammirazione, per l'amicizia, pel rispetto, per
la riconoscenza, come diceva, verso Buonaparte, e se qualche altra più
efficace cosa possono significare le più ammirative parole, scriveva:
_forse avremo qualche improntitudine d'Italiani, ma è tuttuno_; brutto,
incivile, e crudele scherno! Certamente coloro, cui Buonaparte tradiva,
e Talleyrand scherniva, erano, i più, uomini ricchi di nome, di
sostanze, e di virtù, i quali cedendo agli stimoli, e credendo alle
promesse degli agenti di Francia, s'erano in tal condizione posti, che
nella patria loro spenta non potevano più dimorare senza pericolo, e nel
duro esilio trovavano gl'insulti di chi era cagione del loro infortunio.
Parlare poi con tanta leggerezza di un caso di tanto momento, quale si
era quello della distruzione di uno stato così antico, così principale,
ed a cui l'Europa era obbligata di gran parte della sua civiltà, e della
sua preservazione dalla barbarie Ottomana, qual era veramente quel di
Venezia, dimostra una totale indifferenza verso il bello ed il brutto,
il buono ed il cattivo, il decente e l'indecente.
Fatto il trattato di Campoformio, ed ordinata a suo modo la Cisalpina,
se ne partiva Buonaparte dall'Italia per andare a Rastadt. Quale, e
quanto da quella diversa la lasciasse, che nel suo primo ingresso
l'aveva trovata, facilmente concepirà colui, che nella mente andrà
riandando i compassionevoli casi nei precedenti libri da noi raccontati.
Le difese dell'Alpi prostrate; un re di Sardegna, prima libero, ora
servo; una repubblica di Genova, prima independente per istato, ricca
per commercio, ora disfatto, ed in licenza convertito l'antichissimo
governo, fatta provincia, e sensale di Francia; un duca di Parma
ingannato dalle speranze di Spagna, e taglieggiato da agenti
oscurissimi: un duca di Modena, prima cacciato, poi rubato; un papa
schernito, e spogliato; un regno di Napoli poco sicuro, e per poca
sicurezza crudo; un'antichissima repubblica di Venezia, già lume del
mondo, e gran parte della civiltà moderna, condotta all'ultima fine,
prima dagl'inganni, poi dalla forza; il mansueto e generoso governo di
Firmian cambiato in un governo soldatesco, servo di soldati forestieri,
tributario di governo forestiero, e là, dove una volta addottrinavano le
genti con dolci e sublimi precetti filosofici i Beccaria, ed i Verri,
farla da maestri i Beauvinais, ed i Prelli. A questo le opere di Tiziano
e di Raffaello rapite; i nobili abituri fatti stanze deformi di soldati
strani; una lingua bellissima contaminata con un gergo schifoso; tutti
gl'ingegni volti all'adulazione, le ambizioni svegliate, le virtù
schernite, i vizi lodati, e per arrota, il che fu il pessimo dei mali,
uomini virtuosi perdenti la buona fama per essersi mescolati, o per
forza o per un generoso dedicarsi alle patrie loro, nelle opere malvage
dei tempi. In tanto male nissun lume di bene; perchè nè quei governi
potevano durare, nè a quali governi avessero a dar luogo si vedeva,
perchè i fondamenti privati erano corrotti, i fondamenti pubblici
forestieri, e se fosse mancata o la mano Francese, o la mano Tedesca,
nissuno poteva congetturare, che cosa fosse per sorgere, di modo che non
si scorgeva, se la independenza non fosse per diventare condizione
peggiore della servitù. A tal era condotta l'Italia, che lo stare per se
senza anarchìa, lo stare coi forestieri senza servitù non poteva. Così
corrotte le speranze, e cambiati i tempi, erano succeduti ai benefizj di
Giuseppe, di Leopoldo, di Beccaria, e di Filangieri una rapina
incredibile, una tirannide soldatesca, un sovvertimento confuso, un
dolore acerbissimo di vedere, forse per sempre, allontanato quel bene,
che essi avevano tanto vicino, e tanto soave alle menti nostre
rappresentato. In somma fu la bella Italia contaminata, e peggio, che
chi le faceva le membra rotte, e sanguinose, le lacerava anche la fama.
In somma la giustizia e l'innocenza non son più buone ad altro, in
questo pazzo ed ingannatore mondo, che a farsi soperchiare dai più
potenti, e chi non ha montagne di cannoni, di sciabole, e di soldati,
s'aspetti ad essere oppresso, rubato, e calunniato. Con le sue belle
parole sepolcro imbianchito è la vecchia Europa.
Restava, che le stipulazioni di Campoformio circa Venezia si recassero
ad effetto. Ma prima di raccontare la gran consegna fatta di quella
nobil sede dai repubblicani di Francia ad un principe Alemanno, sarà
bene andar rammemorando, quali accidenti, quali umori, quali disegni
sorgessero nelle varie parti dell'antico stato Veneto, e nella metropoli
stessa, innanzichè i patti di Campoformio si pubblicassero, e dappoichè,
spento l'antico governo aristocratico, vi si era introdotto il nuovo, al
quale non so qual nome dare, se non quello di tirannico e di servo. Non
così tosto furono instituiti i municipali di Venezia, che divisi fra di
loro per servile imitazione anche nelle discordie, si davano alle parti,
chi seguitando i modi dei democrati Francesi più ardenti ai tempi della
rivoluzione, e chi accostandosi a pensieri più miti e più temperati.
Capi ai primi erano Giuliani e Dandolo. Sovrastavano fra i secondi per
ricchezze, e per carità patria Vidiman e Joblovitz: quelli si chiamavano
da alcuni veri patriotti, da altri giacobini; i secondi presso alcuni
avevano nome di veri amatori della libertà, presso altri aristocrati.
Giuliani e Dandolo, massimamente il primo, continuamente spingevano il
magistrato a determinazioni rigorose contro i nobili. Giuliani più
rottamente procedendo non risparmiava nemmeno i Francesi, verso i quali
non mostrava mai adulazione di sorte alcuna, mentre Dandolo andava loro
a versi, e gli accarezzava. Il buono e virtuoso Vidiman, lontano del
pari dall'adulazione verso i forestieri, che dalla persecuzione contro i
compatriotti, mirava solamente al giusto ed all'onesto. Seguitavano
queste parti i Veneziani, pochi con Giuliani e Dandolo consentendo,
molti, fra i quali i nobili, per lo minor male si accostavano a Vidiman
ed a Joblovitz. Sedevano i municipali pubblicamente nella sala del gran
consiglio, dove le discussioni, e le contese erano grandi tra l'una
parte e l'altra, e trascorrevano qualche volta a manifesta contenzione.
Così Venezia anche posta al giogo forestiero parteggiava; tutti però in
questo consentivano, ch'ella intiera si conservasse. A questo fine si
rendeva necessario, che le provincie di terraferma, e quelle
dell'oltremare non si separassero dall'antica madre; e perciò, come
prima i municipali ebbero preso il magistrato, spedivano delegati, e
lettere a tutte le città del dominio Veneto, dando loro parte della
felice rivoluzione, come la chiamavano, sorta in Venezia, ed invitandole
ad accomunarsi, ed incorporarsi con esso lei. Ma i patriotti della
terraferma, attribuendo a Venezia cambiata le medesime mire, che si
attribuivano a Venezia antica, e chiamandola tiranna, e dominatrice
avida ed insolente, ricusavano le sue proposte. Pei maneggi loro le
città protestavano, questa di voler andar unita alla Cisalpina, quella
di voler restare da se. E stantechè Venezia aveva conservato, sebbene
nel libro aperto dell'Evangelista avesse fatto scrivere i diritti
dell'uomo, l'antico stemma del lione, gl'insulti, gli scherni, le
esecrazioni della gente matta democratica della terraferma andavano
all'infinito. Insomma una nimistà generale, piuttostochè desiderio di
unione, prevaleva in tutta la terraferma contro Venezia. Godeva
Buonaparte, godevanne i suoi agenti, perchè vedevano nella discordia
altrui la più facile esecuzione dei pensieri loro contro quelle
miserande reliquie della repubblica Veneziana; anzi quelle faville con
ogni mezzo fomentavano. Perchè poi gli odj già tanto intensi vieppiù
s'invelenissero, gli rinfiammavano non solo colle parole, ma ancora con
gli scritti. Victor generale, che aveva le sue stanze in Padova,
esortava con lettere pubbliche, e con parole molto veementi i municipali
di questa città a far atterrare le insegne di San Marco, ed a diffidarsi
dei municipali di Venezia, a cui attribuiva intenzioni molto sinistre,
accusandogli di trame aristocratiche.
I democrati, massime un Savonarola, che procedeva con più calore degli
altri, facevano quello, e più di quello, a che gli aveva esortati
Victor, tutte le immagini di San Marco col leone, avessero o no fra le
rampe i diritti dell'uomo, sdegnosamente mandando in pezzi, e con questo
si andavano persuadendo di aver acquistato la libertà. Nè a frenare un
furore tanto pazzo bastavano le risoluzioni dei municipali Veneziani, i
quali decretavano, che si cambiasse del tutto l'antico stemma della
repubblica, il leone si annullasse, e le insegne della moderna libertà
in luogo suo vi campeggiassero. Avevano queste condiscendenze l'effetto
solito di quelle, che sogliono farsi per forza, e negli estremi casi;
che pruovando nel conceditore più debolezza che volontà, non sono mai
prese a grado, e l'autorità di lui fanno andar in diminuzione. Ma appoco
appoco vieppiù crescendo il furore contro Venezia, si lacerava senza
posa il suo nome nelle gazzette Cisalpine; anzi i Padovani trascorrevano
tant'oltre, che si consigliarono di voler torre ai Veneziani l'uso delle
la repubblica si spegnesse, ed il consueto reggimento, per quanto
gl'interessi nuovi il permettessero, col mezzo dei Borboni si
ristorasse. Nè essendosi questo fine potuto conseguire coll'armi civili
delle Vendea, nè coll'armi esterne di tutta l'Europa, perchè la nazione
Francese, che forte ed animosa è, non aveva voluto lasciarsi sforzare,
si pensava, che i maneggi segreti, le promesse, le corruttele, e le
adulazioni potessero avere maggior efficacia. A questo fine, e con
questi mezzi si era operato che le nuove elezioni ai consigli
legislativi cadessero in uomini, che amassero meglio la monarchìa dei
Borboni, che la repubblica, ed in ciò si era fatto non poco effetto.
Siccome poi a tutti i moti è necessario un capo di chiaro nome, così
avevano al consiglio dei giovani eletto il generale Pichegru, capitano
rinomato per le sue vittorie in Alemagna ed in Olanda. Con lui
concorrevano molti altri personaggi famosi o per armi o per dottrina, o
per segnalati fatti nelle rivoluzioni politiche di Francia. Nel
direttorio stesso Barthelemi favoriva il disegno per natura e per
opinione, ed i desiderj suoi fino ai Borboni si estendevano; che
certamente aveva dato questi segni di se nella sua ambascerìa in
Isvizzera. Il favoriva, siccome pare, anche Carnot, o che volesse la
monarchìa dei Borboni, il che è incerto, o che solamente disegnasse,
come uomo di acutissimo pensiero, ridurre, spenti gli uomini immoderati,
quello stato di repubblica scorretta e tumultuaria a forma più stretta e
più ordinata. Seppesi questo maneggio dai tre quinqueviri, che non vi
erano mescolati, e si misero all'ordine per isturbarlo, perchè amavano
la repubblica, e temevano la monarchìa. È quivi per altro debito nostro
riferire, che a questo tempo alcune pratiche segrete si erano introdotte
tra Barras, uno dei tre, ed alcuni agenti di Luigi decimottavo, per le
quali il quinqueviro aveva dato speranza, e s'era anche obbligato a
favorire la rinstaurazione dei Borboni sotto condizione di dimenticanza
del passato, e promessa di premio in denaro; ma con la medesima
sincerità procedendo, dobbiamo notare, che sebbene sia vero, che queste
pratiche siano esistite, Barras sdegnosamente, e con termini molto
espressivi negò d'aver voluto procurare la mutazione del governo allora
sussistente, ed asseverò, avere prestato orecchio agli agenti dei
Borboni col solo fine di conoscere, e sventar le loro trame: vogliono
anzi alcuni, che gli volesse condurre in luogo dove potessero essere
arrestati. Pubblicò di più, aver ciò fatto con saputa e consentimento
espresso de' suoi colleghi del direttorio, ai quali a questo fine aveva
comunicato il negozio. Dà verisimile colore a quest'ultima allegazione
l'averla lui pubblicata quando gli sarebbe stato utile dire il
contrario, se fosse stato vero, ed il citare, per pruova della verità
del fatto, il testimonio dei ministri di quel tempo, de' suoi colleghi
del direttorio, ed anzi i registri segreti di questo magistrato supremo
della repubblica, in cui, siccome affermò, vi era un decreto che
l'autorizzava a condurre queste pratiche. Comunque ciò sia, era allora
l'esercito d'Italia in bocca di tutti, e quanto da lui veniva era
ricevuto in Francia con grandissimo o amore o terrore, secondo le
opinioni e le passioni, per la qual cosa coloro, che contrastavano a
questo proposito, facevano avviso, che le mosse contrarie dovessero aver
principio dall'esercito Italico. A questo dava favore Buonaparte per la
sua emolazione verso Pichegru, prevedendo nell'esaltazione del vincitore
dell'Olanda la depressione del vincitore dell'Italia. Per tutte queste
ragioni uscivano dalle diverse schiere dell'Italico minacce fierissime
contro i nemici della libertà, come gli chiamavano, contro gli amatori
del nome reale, contro i minacciatori della constituzione. Parlavano del
voler marciare in Francia con le armi vincitrici per castigare i
ribelli, descrivevano con patetiche parole le orribili congiure ordite
nella patria loro contro la libertà, mentre essi col sangue, e con
disagi innumerevoli la libertà, e la patria difendevano. Non
isperassero, minacciavano, che il sangue sparso, che le acquistate
vittorie, che la conseguita gloria fossero indarno; quelle mani stesse,
che avevano vinto l'Austria, vincerebbero facilmente, e farebbero tornar
in nulla quei branchi di faziosi. Al solo mostrarsi degl'Italici soldati
oltre l'Alpi, presi di spavento si disperderebbero quei vili sommovitori
di congiure. Non dubitasse punto il governo, che l'esercito Italico
tanto amasse la libertà, quanto la gloria, e che la prima con la
medesima costanza, col medesimo valore difendesse, coi quali aveva
acquistato la seconda: verrebbero, vedrebbero, ed anche senza battaglie
vincerebbero.
Da questi conforti, e da questo appoggio fatto sicuro il direttorio,
veniva a quelle risoluzioni, che resero tanto famoso il dì diciotto
fruttidoro, anno quinto della repubblica, o il dì quattro settembre del
novantasette: per esse si carceravano, ed in istrane e pestilenziali
regioni si mandavano Barthelemi, Pichegru, e gli altri capi della
congiura. Alcuni, e fra questi Carnot, fuggiti alla diligenza dei
cercatori, trovarono in forestiere terre scampo contro chi gli chiamava
a prigione ed a morte. Questo fu il moto di fruttidoro, pel quale
affortificatosi il direttorio coll'esclusione dei dissidenti, e
coll'unione dei consenzienti, e fattosi padrone dei consigli, recava in
sua mano la somma delle cose, e pareva, che vieppiù avesse confermato la
repubblica.
Tornato vano questo tentativo, i confederati, massimamente l'Austria,
che si trovava più vicina all'incendio, e che, essendo alle strette con
Buonaparte, aveva meglio conosciuto la sua natura, si gettarono ad un
altro cammino per arrivare al fine della distruzione della formidabile
repubblica. Si negoziava a questo tempo la pace coll'Austria; gli agenti
Austriaci vennero dicendo a Buonaparte, guardasse le ruine d'Europa, e
della sua patria stessa; una repubblica fondata solo con le mannaje,
conservata solo con le bajonette, sopportatrice dei malvagi,
perseguitatrice dei buoni; non isperasse di fuggir egli stesso la
repubblicana invidia; più illustri erano i fatti suoi, più magnifici i
benefizj verso la patria, e più inevitabile credesse l'atroce fine che
l'aspettava. Considerasse, che sono inesorabili le repubblicane
emolazioni, e che sempre la gratitudine delle repubbliche è
l'ingratitudine. Se i più chiari cittadini erano stati all'estrema fine
condotti in Francia, solo perchè chiari erano, che sarebbe del più
chiaro fra tutti? Ricordassesi le recenti trame ordite contro di lui, le
proprie querele, ed il livore del direttorio già vicino a prorompere,
quand'era ancora l'opera sua necessaria in guerra: che sarebbe in pace?
Forse era nato egli e fatto per essere stromento di faziosi, e
mentecatti? Forse a servir ad avvocati, e notaruzzi ambiziosi? Con le
grida, e coi patiboli s'hanno a governar gli stati? Guardassesi intorno,
entrasse in se, si paragonasse ad altri, e vedrebbe, che siccome era
unica la sua gloria al mondo, così unico doveva essere il fine, che a se
doveva proporre, che già dalle volgari vie militari si era discostato
nelle faccende di guerra, e che debito gli era di discostarsi dalle
volgari vie anche nelle faccende civili: a ciò chiamarlo, lacera e rotta
tutta l'Europa; a ciò medesimo chiamarlo la misera umanità ingannata
dalle lusingherìe, straziata dai delitti: vedeva egli certamente, ed
anche più volte aveva accennato, essere la repubblica un governo
impossibile in Francia. A che dunque dubitare, a che indugiare? l'Europa
infelice, la Francia infelicissima domandare da lui altre sorti,
domandare da lui la rinstaurazione dell'antica monarchìa dei Borboni,
domandare la rintegrazione dei diritti Europei: assai avere spaziato la
forza, assai la usurpazione, assai l'anarchìa: domare questi mostri
esser suo destino: al solo segnale dei Borboni, quando l'opportuno
instante fosse venuto, seguiterebbonlo in Francia tutti i buoni,
seguiterebbonlo tutti gli sdegnati, seguiterebbonlo tutti gl'infelici
condotti all'ultimo caso dalla presente tirannide. Favorirebbelo
l'Europa tutta, tirata da sì grande impresa, mossa da sì bella speranza
dopo tanto conquasso. Seconderebbonlo i principi, l'Austria la prima, e
la Russia tanto attiva fomentatrice dei Borboni. Parlare di ricompense a
chi già aveva acquistato maggior gloria, che altr'uomo avesse acquistato
mai, e che solo con un gran civile fatto poteva la propria gloria
ampliare, essere superflua, e fors'anche offenditrice cosa: pure o che
in grado privato la venerazione, o che in grado pubblico l'autorità
desiderasse, ciò gli sarebbe, e più ampiamente, che non desiderasse,
conceduto. Desse pertanto opera ad impadronirsi della somma delle cose
in Francia; che a ciò l'ajuterebbero i potentati, solo che promettesse
di fare la gran rimessa all'antico e legittimo signore. Muovessesi
adunque Buonaparte unico ad opera unica; rispondesse col fatto al
destinato dalla provvidenza, posciachè non senza intervento divino tante
volte avevano suonato le armi sue vincitrici.
Queste esortazioni muovevano quell'animo ambizioso. Ma da Borboni a
repubblica ei non faceva divario, gli uni e l'altra aveva ugualmente in
dispregio, ed anche la felicità, o le disgrazie umane nol toccavano.
Bensì, siccome quegli che sagacissimo era, e di prontissimo intelletto,
avvisava in un subito, che quello, che gli si offeriva, poteva aprirgli
la strada all'altissime sue cupidità. Si mostrava pertanto disposto a
fare quanto si richiedeva da lui, proponendosi nell'animo, e questo fu
il più solenne inganno, che mai sia stato fra gli uomini, di favorirsi
del consentimento e cooperazione dei principi, per arrivare alla potestà
suprema in Francia; non già per dispogliarsene in favor di chicchessia,
ma per serbarla ed anzi vieppiù consolidarla in se medesimo, ed
ampliarla.
Vogliono alcuni, che Barras quinqueviro avesse l'animo volto a favor dei
Borboni già insin da quando aveva procurato la elezione di Buonaparte al
governo supremo dell'esercito Italico, e che a questo fine appunto
l'abbia procurata, argomentando, che il giovane di Corsica, in cui egli
aveva scoperto mente atta a qualunque più ardua impresa, e natura nemica
ai reggimenti popolari, il dovesse secondare nel mandar ad effetto il
suo intendimento. Danno corpo a questa opinione le pubblicazioni fatte
dagli agenti dei Borboni, la contraddicono quelle fatte da Barras: le
une e le altre noi abbiamo rapportate, affinchè chi ci legge, possa
dalle medesime prender conghiettura della verità in cose tanto
avviluppate quanto importanti.
Dato in tal modo intenzione ai confederati, ed accordatosi con loro del
ristaurare in Francia l'antico governo dei Borboni, non formidabile ai
principi per essere conforme ai loro proprj, cominciava Buonaparte a
fare qualche dimostrazione, che della sua sincerità potesse far
testimonianza. Avea egli fatto arrestare contro ogni dritto delle genti
in Trieste, e condurre gelosissimamente custodito nel castello di Milano
il conte d'Entraigues, agente molto fidato di Luigi decimottavo.
Parlavano a quei tempi tutti i giornali della carcerazione del conte, e
ne favellavano come di cosa, che sommamente importasse alla salute della
repubblica. Gli trovavano, siccome fu pubblicato per opera di
Buonaparte, scritti, che discoprivano le macchinazioni di Pichegru, e
degli altri amatori del nome reale. Inoltre si facevano constare per un
rigoroso esame dato al conte, sebbene egli il verbale costantemente
sempre abbia negato, molto maggiori cose in pregiudizio della
repubblica, ed in pro dei Borboni, che gli scritti non palesavano. Tal
era il rigore di quell'età, che, se non ci fosse stato di mezzo qualche
grave motivo, avrebbe tosto Buonaparte dato a giudicare ad un consiglio
militare, o mandato il conte in Francia, dove sarebbe stato o sottoposto
all'ultimo supplizio, o carcerato per sempre. Ma quando ognuno temeva di
veder il conte giunto all'estrema fine, diede ammirazione agli uomini
l'udire, che il generalissimo aveva comandato a Berthier, che il facesse
comodamente alloggiare nel castello, e che la moglie il potesse
visitare. Gli comandava ancora, che se non trovasse stanza comoda nel
castello, il lasciasse sotto buona guardia in città, e gli rendesse
tutti gli scritti, salvo quelli, che toccavano gli affari politici:
questi erano le congiure di Pichegru. La maraviglia più si cambiava in
istupore per coloro, che non conoscevano l'intrinseco del fatto, e le
cagioni, quando si seppe, che il conte si era fuggito dal castello, e
più ancora, quando portò la fama, ch'ei fosse già arrivato con felice
viaggio nelle terre dell'imperatore Paolo di Russia, succeduto alla sua
madre Caterina. La verità del fatto fu, che Buonaparte desideroso di far
chiari gli alleati della sincerità sua col fidare le cose segrete
trattate a Montebello ad uomo confidente della Russia, e di Luigi
decimottavo, aveva procurato la libertà ad Entraigues, e mandatolo in
Russia portatore delle sue promesse. Infatti a queste novelle si piegava
Paolo con divenire molto meno acerbo verso la Francia. Al tempo stesso i
negoziati di Udine e di Montebello si fecero assai più morbidi, per modo
che non tardarono ad avvicinarsi alla conclusione; conciossiachè i
principi credevano, facilitando il sentiero a Buonaparte per arrivare
alla somma potenza in Francia, abilitarlo a mandar ad effetto le cose,
che da lui si promettevano. Tutti questi disegni molto gli arridevano, e
quantunque fosse uomo di natura molto coperta, e di pensieri cupissimi,
tuttavìa si lasciava di quando in quando uscir di bocca certi motti, che
disvelavano la sua intenzione, e le fatte macchinazioni. Ed io ho udito
parecchie volte raccontare a Villetard, giovane candidissimo, che
trovandosi a passeggiare a Montebello con Buonaparte, e con Dupuis, che
poi fu morto generale in Egitto nella sommossa del Cairo, sostando
improvvisamente dal passeggiare, il generalissimo aveva loro detto: _che
direste voi s'io diventassi re di Francia?_ Al che, siccome a me
raccontava il medesimo Villetard, rispondeva Dupuis, che professava un
ardente desiderio dello stato repubblicano, che sarebbe il primo a
piantargli un coltello nel petto; il quale tratto non fu udito senza
riso da Buonaparte.
Nè questi erano i soli segni delle meditate cose. Sorgevano a Montebello
i costumi, e le abitudini regie: ivi le udienze altiere da una parte,
umili dall'altra; ivi le adulazioni smoderate, ed il silenzio
rispettoso, non interrotto che dalle interrogazioni; ivi le sorelle del
vincitore corteggiate a modo di corte, ivi i ministri dei principi
esteri, e quei della Cisalpina accolti alla reale. Certamente null'altro
mancava di re che il nome, e questo nome stesso veniva naturalmente
sulle labbra dei cortigiani, ma vi periva per amore o per timore, ma
piuttosto per timore, che per amore della repubblica. A chi era uso a
scrutare le umane vicende, appariva manifestamente, essere in Buonaparte
natura a volere, e ad usare l'imperio, nè ciò con leggi, ma sopra le
leggi, non come cittadino, ma come padrone: il fato il fece per l'età, e
l'età per lui.
Frattanto le promesse segrete, ch'egli aveva fatte, e la necessità, in
cui si trovava il direttorio di rammollire con un solenne fatto i
risentimenti nati in Francia per la terribile rivoluzione dei quattro
settembre, operavano di modo che, rimosse da ambe le parti tutte le
durezze, si veniva il giorno diciassette ottobre alla conclusione nella
villa di Campoformio, di un trattato di pace, in cui un governo nuovo
distruggeva un governo antico, ed un governo antico consentiva, e
s'arricchiva delle spoglie di un governo antico ed amico, disonoratosi
l'uno per aver rapito, poco onoratosi l'altro per aver accettato le
rapine, se però non iscusano quest'ultimo le affermazioni magnifiche del
primo dell'averlo ridotto alla necessità di accettar la pace, qualunque
ella fosse. Oltre a ciò lasciava l'Austria in libera preda della
repubblica Francese, non dirò il Piemonte, perchè forse ella se ne
teneva male soddisfatta per la stretta congiunzione di lui con la
Francia dopo la tregua di Cherasco, e la pace di Parigi, ma bensì il
papa, ed il re di Napoli, che in nessun modo l'avevano offesa, e che
anzi si trovavano condotti in dure strette, ed in gravissimo pericolo
per avere sino agli estremi seguitato la sua parte. Certamente nissuna
sicurezza stipulava l'Austria nel trattato nè pel papa, nè per Napoli.
Fu il trattato di Campoformio principio di quelle brutte e crudeli
stipulazioni, che desolarono poi per circa vent'anni la miseranda Europa
con l'esempio di sommuovere prima i popoli, poi di dargli in preda ad
insolite signorìe.
Fermarono fra di loro l'Austria e Buonaparte, che la repubblica Francese
si avesse i Paesi Bassi, che l'imperatore consentisse, che le isole
Venete dell'Arcipelago, e dell'Ionio, e così ancora tutte le possessioni
della Veneta repubblica in Albanìa, cadessero in potestà della Francia;
che la repubblica Francese consentisse, che l'imperatore possedesse con
piena potestà la città di Venezia, l'Istria, la Dalmazia, le isole
Venete dell'Adriatico, le bocche di Cattaro, e tutti i paesi situati fra
i suoi stati ereditarj, ed il mezzo del lago di Garda, poi la sinistra
sponda dell'Adige insino a Porto-Legnago, e finalmente la sinistra
sponda del Po; che la repubblica Cisalpina comprendesse la Lombardia
Austriaca, il Bergamasco, il Bresciano, il Cremasco, la città e fortezza
di Mantova, Peschiera, e tutta la parte degli stati Veneti, che è posta
a ponente e ad ostro dei confini sovra descritti; che si desse nella
Brisgovia un conveniente ricompenso al duca di Modena; che finalmente i
plenipotenziarj di Francia e d'Austria convenissero in Rastadt per
accordare gl'interessi dell'imperio d'Alemagna.
A questi articoli palesi altri furono aggiunti di non poca importanza,
pei quali l'imperatore consentiva, che la Francia acquistasse certi
territorj Germanici insino al Reno, e dalla parte sua prometteva la
Francia di adoperarsi, acciocchè l'Austria aggiungesse a' suoi dominj
una parte del circolo di Baviera; il che non si poteva effettuare se non
con pregiudizio del duca.
Fu il trattato di Campoformio pieno di rapina, ma non fu meno pieno di
scherno, ancor peggiore della rapina; conciossiachè di che sappiano
quelle parole, che la repubblica Francese consentiva, che l'imperatore
possedesse Venezia, vedranlo non senza sdegno coloro, che
considereranno, se sarebbe stato possibile ai Veneziani di non diventar
imperiali, e se la Francia avrebbe permesso, che imperiali non
diventassero, e se i generali, ed i soldati di Buonaparte abbiano, sì o
no, consegnato eglino medesimi con le proprie mani la compassionevole
Venezia nuda ed inerme, ai generali ed ai soldati dell'imperatore.
Questo essere e non voler parere, parrà a tutti, come pare a me, un
pudore molto ipocrito.
Pure questa è quella pace, di cui favellando Carlo Maurizio Talleyrand,
tutto ammirativo sclamava: _questa è una pace da Buonaparte_; il che gli
sarà da ognuno facilmente conceduto. Poi non potendo Talleyrand medesimo
capire in se stesso per l'ammirazione, per l'amicizia, pel rispetto, per
la riconoscenza, come diceva, verso Buonaparte, e se qualche altra più
efficace cosa possono significare le più ammirative parole, scriveva:
_forse avremo qualche improntitudine d'Italiani, ma è tuttuno_; brutto,
incivile, e crudele scherno! Certamente coloro, cui Buonaparte tradiva,
e Talleyrand scherniva, erano, i più, uomini ricchi di nome, di
sostanze, e di virtù, i quali cedendo agli stimoli, e credendo alle
promesse degli agenti di Francia, s'erano in tal condizione posti, che
nella patria loro spenta non potevano più dimorare senza pericolo, e nel
duro esilio trovavano gl'insulti di chi era cagione del loro infortunio.
Parlare poi con tanta leggerezza di un caso di tanto momento, quale si
era quello della distruzione di uno stato così antico, così principale,
ed a cui l'Europa era obbligata di gran parte della sua civiltà, e della
sua preservazione dalla barbarie Ottomana, qual era veramente quel di
Venezia, dimostra una totale indifferenza verso il bello ed il brutto,
il buono ed il cattivo, il decente e l'indecente.
Fatto il trattato di Campoformio, ed ordinata a suo modo la Cisalpina,
se ne partiva Buonaparte dall'Italia per andare a Rastadt. Quale, e
quanto da quella diversa la lasciasse, che nel suo primo ingresso
l'aveva trovata, facilmente concepirà colui, che nella mente andrà
riandando i compassionevoli casi nei precedenti libri da noi raccontati.
Le difese dell'Alpi prostrate; un re di Sardegna, prima libero, ora
servo; una repubblica di Genova, prima independente per istato, ricca
per commercio, ora disfatto, ed in licenza convertito l'antichissimo
governo, fatta provincia, e sensale di Francia; un duca di Parma
ingannato dalle speranze di Spagna, e taglieggiato da agenti
oscurissimi: un duca di Modena, prima cacciato, poi rubato; un papa
schernito, e spogliato; un regno di Napoli poco sicuro, e per poca
sicurezza crudo; un'antichissima repubblica di Venezia, già lume del
mondo, e gran parte della civiltà moderna, condotta all'ultima fine,
prima dagl'inganni, poi dalla forza; il mansueto e generoso governo di
Firmian cambiato in un governo soldatesco, servo di soldati forestieri,
tributario di governo forestiero, e là, dove una volta addottrinavano le
genti con dolci e sublimi precetti filosofici i Beccaria, ed i Verri,
farla da maestri i Beauvinais, ed i Prelli. A questo le opere di Tiziano
e di Raffaello rapite; i nobili abituri fatti stanze deformi di soldati
strani; una lingua bellissima contaminata con un gergo schifoso; tutti
gl'ingegni volti all'adulazione, le ambizioni svegliate, le virtù
schernite, i vizi lodati, e per arrota, il che fu il pessimo dei mali,
uomini virtuosi perdenti la buona fama per essersi mescolati, o per
forza o per un generoso dedicarsi alle patrie loro, nelle opere malvage
dei tempi. In tanto male nissun lume di bene; perchè nè quei governi
potevano durare, nè a quali governi avessero a dar luogo si vedeva,
perchè i fondamenti privati erano corrotti, i fondamenti pubblici
forestieri, e se fosse mancata o la mano Francese, o la mano Tedesca,
nissuno poteva congetturare, che cosa fosse per sorgere, di modo che non
si scorgeva, se la independenza non fosse per diventare condizione
peggiore della servitù. A tal era condotta l'Italia, che lo stare per se
senza anarchìa, lo stare coi forestieri senza servitù non poteva. Così
corrotte le speranze, e cambiati i tempi, erano succeduti ai benefizj di
Giuseppe, di Leopoldo, di Beccaria, e di Filangieri una rapina
incredibile, una tirannide soldatesca, un sovvertimento confuso, un
dolore acerbissimo di vedere, forse per sempre, allontanato quel bene,
che essi avevano tanto vicino, e tanto soave alle menti nostre
rappresentato. In somma fu la bella Italia contaminata, e peggio, che
chi le faceva le membra rotte, e sanguinose, le lacerava anche la fama.
In somma la giustizia e l'innocenza non son più buone ad altro, in
questo pazzo ed ingannatore mondo, che a farsi soperchiare dai più
potenti, e chi non ha montagne di cannoni, di sciabole, e di soldati,
s'aspetti ad essere oppresso, rubato, e calunniato. Con le sue belle
parole sepolcro imbianchito è la vecchia Europa.
Restava, che le stipulazioni di Campoformio circa Venezia si recassero
ad effetto. Ma prima di raccontare la gran consegna fatta di quella
nobil sede dai repubblicani di Francia ad un principe Alemanno, sarà
bene andar rammemorando, quali accidenti, quali umori, quali disegni
sorgessero nelle varie parti dell'antico stato Veneto, e nella metropoli
stessa, innanzichè i patti di Campoformio si pubblicassero, e dappoichè,
spento l'antico governo aristocratico, vi si era introdotto il nuovo, al
quale non so qual nome dare, se non quello di tirannico e di servo. Non
così tosto furono instituiti i municipali di Venezia, che divisi fra di
loro per servile imitazione anche nelle discordie, si davano alle parti,
chi seguitando i modi dei democrati Francesi più ardenti ai tempi della
rivoluzione, e chi accostandosi a pensieri più miti e più temperati.
Capi ai primi erano Giuliani e Dandolo. Sovrastavano fra i secondi per
ricchezze, e per carità patria Vidiman e Joblovitz: quelli si chiamavano
da alcuni veri patriotti, da altri giacobini; i secondi presso alcuni
avevano nome di veri amatori della libertà, presso altri aristocrati.
Giuliani e Dandolo, massimamente il primo, continuamente spingevano il
magistrato a determinazioni rigorose contro i nobili. Giuliani più
rottamente procedendo non risparmiava nemmeno i Francesi, verso i quali
non mostrava mai adulazione di sorte alcuna, mentre Dandolo andava loro
a versi, e gli accarezzava. Il buono e virtuoso Vidiman, lontano del
pari dall'adulazione verso i forestieri, che dalla persecuzione contro i
compatriotti, mirava solamente al giusto ed all'onesto. Seguitavano
queste parti i Veneziani, pochi con Giuliani e Dandolo consentendo,
molti, fra i quali i nobili, per lo minor male si accostavano a Vidiman
ed a Joblovitz. Sedevano i municipali pubblicamente nella sala del gran
consiglio, dove le discussioni, e le contese erano grandi tra l'una
parte e l'altra, e trascorrevano qualche volta a manifesta contenzione.
Così Venezia anche posta al giogo forestiero parteggiava; tutti però in
questo consentivano, ch'ella intiera si conservasse. A questo fine si
rendeva necessario, che le provincie di terraferma, e quelle
dell'oltremare non si separassero dall'antica madre; e perciò, come
prima i municipali ebbero preso il magistrato, spedivano delegati, e
lettere a tutte le città del dominio Veneto, dando loro parte della
felice rivoluzione, come la chiamavano, sorta in Venezia, ed invitandole
ad accomunarsi, ed incorporarsi con esso lei. Ma i patriotti della
terraferma, attribuendo a Venezia cambiata le medesime mire, che si
attribuivano a Venezia antica, e chiamandola tiranna, e dominatrice
avida ed insolente, ricusavano le sue proposte. Pei maneggi loro le
città protestavano, questa di voler andar unita alla Cisalpina, quella
di voler restare da se. E stantechè Venezia aveva conservato, sebbene
nel libro aperto dell'Evangelista avesse fatto scrivere i diritti
dell'uomo, l'antico stemma del lione, gl'insulti, gli scherni, le
esecrazioni della gente matta democratica della terraferma andavano
all'infinito. Insomma una nimistà generale, piuttostochè desiderio di
unione, prevaleva in tutta la terraferma contro Venezia. Godeva
Buonaparte, godevanne i suoi agenti, perchè vedevano nella discordia
altrui la più facile esecuzione dei pensieri loro contro quelle
miserande reliquie della repubblica Veneziana; anzi quelle faville con
ogni mezzo fomentavano. Perchè poi gli odj già tanto intensi vieppiù
s'invelenissero, gli rinfiammavano non solo colle parole, ma ancora con
gli scritti. Victor generale, che aveva le sue stanze in Padova,
esortava con lettere pubbliche, e con parole molto veementi i municipali
di questa città a far atterrare le insegne di San Marco, ed a diffidarsi
dei municipali di Venezia, a cui attribuiva intenzioni molto sinistre,
accusandogli di trame aristocratiche.
I democrati, massime un Savonarola, che procedeva con più calore degli
altri, facevano quello, e più di quello, a che gli aveva esortati
Victor, tutte le immagini di San Marco col leone, avessero o no fra le
rampe i diritti dell'uomo, sdegnosamente mandando in pezzi, e con questo
si andavano persuadendo di aver acquistato la libertà. Nè a frenare un
furore tanto pazzo bastavano le risoluzioni dei municipali Veneziani, i
quali decretavano, che si cambiasse del tutto l'antico stemma della
repubblica, il leone si annullasse, e le insegne della moderna libertà
in luogo suo vi campeggiassero. Avevano queste condiscendenze l'effetto
solito di quelle, che sogliono farsi per forza, e negli estremi casi;
che pruovando nel conceditore più debolezza che volontà, non sono mai
prese a grado, e l'autorità di lui fanno andar in diminuzione. Ma appoco
appoco vieppiù crescendo il furore contro Venezia, si lacerava senza
posa il suo nome nelle gazzette Cisalpine; anzi i Padovani trascorrevano
tant'oltre, che si consigliarono di voler torre ai Veneziani l'uso delle
- Parts
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