Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III - 11

in pensando, che la libertà potesse far fare gran cose ad un popolo,
come affermava, molle, superstizioso, commediajo, e vile; volere il
ministro, ch'egli, Buonaparte, facesse miracoli; ma non saperne fare,
non avere nel suo esercito un solo Italiano, se non forse quindici
centinaja di piazzaruoli raggranellati a stento sulle piazze di diverse
città d'Italia, ribaldaglia piuttosto atta a rubare, che a far guerra:
il re di Sardegna solo con un suo reggimento esser più forte di tutta la
Cisalpina; non permettesse, diceva, che qualche avventuriere, o
fors'anche qualche ministro gli desse a credere, che ottanta mila
Italiani fossero in armi; bugiardi essere i giornalisti Parigini,
bugiarda la opinione in Francia rispetto agl'Italiani: se i ministri
Cisalpini gli dicessero, aggiungeva Buonaparte, ch'egli avesse
all'esercito più di quindici centinaja dei loro, e più di due mila
destinati a mantener il buon ordine in Milano, rispondesse loro, che
dicevano bugia, e gli sgridasse, che lo meritavano; certe cose esser
buone a dirsi nei caffè, e nei discorsi, ma non ai governi: romanzi
esser quelle, che son buone a dirsi nei manifesti, e nei discorsi
stampati; doversi ai governi parlar di un altro suono, perchè le falsità
gli sviano, e le male strade gli fan rovinare; non l'amore degl'Italiani
per la libertà e per l'equalità aver ajutato i Francesi in Italia, ma sì
la disciplina dell'esercito, il valore dei soldati, il rispetto per la
repubblica, il contenere i sospetti, il castigare gli avversi; avere ad
essere un abile legislatore quello, che potesse invogliar dell'armi i
Cisalpini; esser loro una nazione snervata e codarda: forse col tempo si
ordinerebbe bene la loro repubblica insino a metter su trenta mila
soldati di tollerabil gente, massime se conducessero qualche polso di
Svizzeri, ma per allora non vi si potere far su fondamento. Nè maggior
capitale potersi fare dei patrioti Cisalpini e Genovesi doversi aver per
certo, che se i Francesi se ne gissero, il popolo gli ammazzarebbe
tutti. Adunque, concludeva, se ausiliarj di niun conto sono e Genovesi e
Cisalpini, nissun miglior partito restare alla Francia per avere un
ausiliario buono in Italia a diminuzione della potenza Austriaca, che lo
stringere amicizia col re di Sardegna, e fermare con lui un trattato
d'alleanza.
Infatti un trattato di tal sorte tra Francia e Sardegna già si era
negoziato, quando ancora l'imperatore combatteva in Italia, e tuttavia
erano gli eventi della guerra dubbj. Infine era stato concluso il dì
cinque aprile da parte della Francia pel generale Clarke, da quella
della Sardegna pel ministro Priocca. I primi e principali capitoli
erano, fosse l'alleanza offensiva e difensiva prima della pace del
continente, solamente difensiva dopo; non obbligasse il re a far guerra
ad altro principe, che all'imperatore di Germania, ed il re se ne stesse
neutrale con l'Inghilterra; guarentivansi reciprocamente le due parti i
loro stati d'Europa, e si obbligavano a non dar soccorso ai nemici sì
esterni che interni, fornisse il re nove mila fanti, mille cavalli,
quaranta cannoni; obbedissero questi soldati al generalissimo di
Francia; partecipassero nelle taglie poste sui paesi vinti in
proporzione del numero loro: quelle poste sugli stati del re cessassero;
niuna parte potesse fare accordo col nemico comune, se non comune; si
stipulasse un trattato di commercio; la repubblica di Francia, come più
possibil fosse, avvantaggiasse, alla pace generale, o del continente le
condizioni del re di Sardegna.
Questo trattato, che prometteva giorni più lieti e più sicuri al
Piemonte, ed avrebbegli anche adotti, se meno perversi fossero stati gli
uomini, o meno avversi i tempi, conteneva una condizione
principalissima, e di tutto momento pel re, e quest'era la guarantigia
degli stati contro i nemici sì esterni che interni, gli uni e gli altri
pericolosi, i primi per la forza, i secondi per quella sequela delle
cose Milanesi e Genovesi. Debbono i Piemontesi averne una perpetua
gratitudine a Priocca per aver saputo far sorgere di mezzo a tanta
tempesta una speranza così grande di salute; perchè, se il vantaggio
dello avere per ausiliari diecimila Piemontesi non era da sprezzarsi per
la repubblica di Francia, bene era molto maggiore pel sovrano del
Piemonte la stipulata sicurezza degli stati, e per questa parte era il
trattato più glorioso al principe, che alla repubblica. Restava, che i
consigli di Francia ratificassero il trattato, perchè già il direttorio
l'aveva appruovato. Qui sorsero parecchie cagioni d'indugio, prima da
parte del governo regio, che desiderava, che la ratificazione fosse
susseguente alla pace con Roma, e che il suo ministro a Vienna ne fosse
uscito e condotto in salvo, poi per parte della Francia, perchè a questo
tempo stesso erano stati fermati i preliminari di Leoben; e siccome la
principal condizione dell'alleanza consisteva nel far guerra di concerto
contro l'Austria, pareva, che il ratificare, ed il pubblicare il
trattato potesse sturbare le pratiche di fresco aperte con l'imperatore.
Ma il re, sentiti i preliminari di Leoben, insisteva ostinatissimamente
per la ratificazione, perchè aveva timore delle turbazioni interne, e
sospettava, giacchè l'imperatore era stato costretto a chiedere i patti,
che il direttorio si ritirasse da lui, e si stipulassero nei sorti
negoziati cose contrarie ai suoi interessi. Temeva di restar solo
esposto ai risentimenti dell'Austria, tanto più formidabili, quanto egli
con maggiore sincerità e calore si era gettato alla parte Francese. Per
questo Balbo usava ogni opera a Parigi, e con ragioni forti, e con mezzi
più forti ancora che le ragioni, acciocchè il trattato si appresentasse
per la ratificazione dal direttorio ai consigli. Secondava Buonaparte
con le lettere i tentativi del conte. Badassero bene, scriveva, non
essere punto sicure le cose coll'imperatore; ad ogni momento potersi
rompere la guerra; se non ratificasse al trattato, per questo solo
diventerebbe il re di Sardegna nemico, perchè si persuaderebbe, e con
ragione, che la Francia volesse al tutto la sua rovina; per la medesima
ragione, e dovendo tenere il re in grado di avverso alla Francia,
sarebbe egli, Buonaparte, necessitato a mettere un presidio di due mila
soldati in Cuneo, altrettanti in Tortona, altrettanti in Alessandria;
avere conseguentemente l'esercito ad esser diminuito di sei mila
combattenti necessari a custodire le piazze Piemontesi, e di più, di
altri sei mila necessari a guernire le Milanesi: quest'erano i castelli
di Milano e di Pavia, e la fortezza di Pizzighettone. Per tal modo, se
non si ratificasse per parte della Francia il trattato, si perderebbero
dieci mila Piemontesi, ottimi soldati, e dieci mila Francesi, destinati
a tener sicure le spalle dell'esercito Italico, e ad allontanare
accidenti sinistri in caso di sconfitta. Perchè non voler mandare ad
effetto quello, che si era stipulato? Forse per lo scrupolo di
collegarsi con un re? Essersi bene la Francia collegata coi re di Spagna
e di Prussia. Forse il desiderio di sovvertire il Piemonte? Ma perciò
fare senza strepito, senza mancar di fede al trattato, anche senza
offendere la buona creanza, miglior mezzo essere (quest'era veramente
pensiero Buonapartiano) il mescolare ai soldati di Francia diecimila
soldati Piemontesi, fiore e parte eletta della nazione, e fargli
partecipi delle vittorie Francesi; sei mesi dopo sarebbe il re di
Piemonte detruso dal trono. Stringere la Francia con le sue forti
braccia, qual gigante, e serrare, e soffocare un pigmeo: tal essere la
necessità delle condizioni Piemontesi. Se ciò non s'intendesse,
soggiungeva, non saper che farci, e se alla politica savia e vera, che
si conveniva ad una grande nazione chiamata a gran destino, e che ha a
fronte nemici potentissimi, si sostituissero le ciarle democratiche, non
saper che farci, e niuna cosa potersi fare, che buona fosse.
A queste cose vere, e con sincerità fraudolenta dette da Buonaparte,
rispondeva dal canto suo cose vere, e con sincerità apparente dette,
Carlo Maurizio di Talleyrand: non volere il direttorio ratificare il
trattato concluso col re di Sardegna; implicar contraddizione il far
patti solenni con una monarchia, la di cui prossima distruzione potrebbe
esser l'effetto di quanto la Francia aveva operato in Italia: sarebbene
il direttorio accusato dello stesso procedere machiavellico, col quale
aveva proceduto il re di Prussia verso la Polonia. Di più, il capitolo
del trattato, che più stava a cuore al re di Sardegna, quello essere,
per cui se gli faceva sicurtà del suo regno; ma non potere la Francia
dare ai re questa sicurtà contro i popoli; un tale patto condurrebbe la
Francia a far la guerra a quelli stessi principj pei quali aveva essa
combattuto sino allora, ed ai quali era della maggior parte delle sue
vittorie obbligata; diventerebbe il Piemonte posto tra la Francia e
l'Italia, ambedue libere, quello che il suo destino volesse: ma non
poter altro in ciò fare la Francia, che lasciare andar le cose al loro
naturale corso. Conseguitarne da tutto questo, che l'esercito Italico
non avrebbe i diecimila Piemontesi; ma niuna cosa poter impedire, che
Buonaparte avesse dal Piemonte quanti soldati volesse; non mancarvi
uomini disposti a combattere per la libertà sotto le insegne
Buonapartiane; tutti i novatori, tutti i sovvertitori accorrerebbero,
solo che Buonaparte muovesse la Cisalpina ad arruolargli, a soldargli, a
fornirgli: avrebbesi a questo modo, continuava a dire Talleyrand, il
piccolo esercito, che il re dovrebbe dare in virtù del trattato, e
nissun obbligo si avrebbe ad un principe di casa Borbone (scrivo
Borbone, perchè così trovo scritto). Forse il re medesimo si
compiacerebbe di queste chiamate, siccome di quelle, che lo
libererebbero da gente inquieta e pericolosa: questo consiglio utile
alla Francia ritarderebbe la rivoluzione Piemontese: ma non importare,
sì veramente che la Cisalpina pagasse: pagar già molto la Cisalpina, ma
all'ultimo non esser che denaro: aver bene la Francia comprato la
libertà più caro prezzo.
Ma o che Balbo avesse trovato modo di ammollire queste durezze, forse
mostrate appunto, perchè ei trovasse modo di ammollirle, o che le cose
di guerra pressassero, e prevedesse il direttorio una nuova rottura
coll'Austria, il trattato d'alleanza con la Sardegna era mandato dal
direttorio ai consigli, e questi il ratificarono. Così, rescriveva un
quinqueviro di Parigi a Buonaparte, avrebbe adempiti i suoi desiderj, e
potrebbe stare a sicurtà sulle truppe Sarde; potrebbe mandar ad effetto
i disegni, che sopra di esse aveva concetto, dar loro nuovi ufficiali, e
preparare per tal mezzo quello, che in altro modo bisognerebbe
effettuare, se la pace si facesse; conciossiachè in quest'ultimo caso,
continuava a discorrere il quinqueviro, sarebbe forse incomodo impaccio,
se il governo Francese si trovasse vincolato per una ratificazione, alla
quale avrebbe acconsentito pel solo rispetto della guerra. Quest'era la
lealtà del direttorio nel momento stesso, in cui stringeva, non che
amicizia, alleanza col re di Sardegna. Che fede fosse questa io non lo
so; questo so bene, che non era fede Italica. Da questo si vede, in
quale conto si debbano tenere le protestazioni di lealtà, che in nome
del direttorio andavano facendo, nelle loro allocuzioncelle accademiche,
i suoi ministri in occasione degl'introiti loro ai re d'Italia, e
principalmente a quel di Sardegna.
Mentre così, come abbiam raccontato, il governo repubblicano di Francia
studiava modo di usare le forze del re di Sardegna durante la guerra, e
di distruggerlo durante la pace, i semi venuti di Francia, e pullulati
con tanto vigore in Milano ed in Genova, incominciavano a partorire i
frutti loro in Piemonte. Principiavasi dalle congiure segrete,
procedevasi alle ribellioni aperte. Davano incentivo a queste mosse,
oltre le opinioni dei tempi, le condizioni infelici di quel paese;
imposizioni gravissime, quantità esorbitante di carta moneta, che
scapitava del cinquanta per cento, moneta erosomista anch'essa in copia
eccessiva, e disavanzante del dieci per cento; a questo i gravami dei
soldati repubblicani o di stanza nel paese, o di passo, le leve di
genti, sì pei regolari che per le milizie molto onerose, l'orgoglioso
procedere dei nobili, certamente intempestivo, stantechè da lui
principalmente nasceva la mala contentezza dei popoli, e contro di loro
specialmente si dirizzavano le opinioni. A tutto questo non portava
rimedio nè la natura temperata del re, nè la santità della regina, nè i
consigli prudenti dei ministri. Era la quiete di Torino raccomandata al
conte di Castellengo, uomo tanto deforme di corpo, quanto svegliato
d'animo. Amatore del bene solo pel buon ordine, odiatore del male solo
pel mal ordine, indovinava gli uomini, e gli sapeva frenare. Cercatore
di mercati assiduo, esploratore notturno di conventicoli, scopritore
acutissimo di volti infinti, si vedeva che in lui più poteva la natura
che l'arte, ancorachè l'arte potesse moltissimo, e se per debito spiava,
spiava molto più per inclinazione. Della nobiltà non si curava, dei re
poco, della libertà si rideva, della non libertà parimente, i patriotti
perseguitava piuttosto per vanagloria dell'arte, che per opinione.
Insomma ei fu uomo, non dirò già più tristo dei tempi, ma bene tanto
astuto, quanto i tempi avviluppati, e se campo più largo alle abilità
sue avesse avuto, che il Piemonte non era, avrebbe lasciato una gran
pruova di quanto possa a far muover gli uomini a posta d'uomo il
conoscergli. Fu accusato di sangue, di ruberìe, di ricchezze illecite.
Punì qualcheduno, ma sospinto dalla rabbia altrui; fu continente da quel
d'altri, morì coi beni paterni non aumentati. Un Bonino, cameriere del
marchese di Cravanzana, ed un Pasio, materassajo, furono sostenuti, come
di aver voluto assaltare a mano armata il re sulla strada per alla
Venerìa a fine di fare una rivoluzione. Credevano trovar molta gente,
trovarono nissuno. Si disse, un Santini, spia di Castellengo, avergli
messi su, poi traditi; ma non fu vero, e Castellengo non era uomo da
simili giuochi, non che avesse scrupolo, che veramente non aveva, ma gli
parevano inezie sanguinose per niente. Intanto l'astio delle due parti
vieppiù s'inacerbiva. Insolentivano i soldati regj a Novara con lacerar
di forza certe nappe d'oro, che i giovani Novaresi portavano sui
cappelli: fuvvi gran tumulto, e qualche ferita. Tumultuava il popolo a
Fossano, pretendendo il caro dei viveri, e faceva oltraggio alle case
del conte San Paolo, uomo dotto e buono, ma lo chiamavano usurajo: poi i
sollevati prendevano certi cannoni; il che non era più tumulto per le
vettovaglie, ma ribellione: a Torino s'incominciava a gridar il nome di
libertà, preso principio dalla bottega di un panattiere, che non voleva
vender pane. Questi erano cattivi segni di un peggior avvenire; ed
appunto in Genova era nata la rivoluzione. Accresceva il terrore ed il
livore mi caso molto lagrimevole; che un medico Boyer con un compagno
Berteux si arrestavano come rei di congiure. Era Boyer giovane virtuoso,
e di famiglia ornata ancor essa di tutte le virtù, che possono capire in
mortali uomini. Era egli certamente amico di libertà, ma per lei, non
per lui: aveva l'animo innocente, e dell'innocenza prima; il mal fare
odiava più che la morte, ed il mal fare degli altri il muoveva piuttosto
a compassione che a odio; tanto era la natura sua dolce e comportevole.
Amici e nemici piangevano le sue disgrazie. Egli solo, come se l'animo
suo albergasse in altra miglior regione che questa non è, non rimetteva
dalla dolcezza e serenità consuete. Eppure tanto amore lasciava
nell'estremo supplizio!
I tumulti intanto si dilatavano. Già Racconigi, Carignano, Chieri e
Moretta, terre vicine a Torino, contro il dominio regio si muovevano. In
Asti soprattutto succedeva un fatto terribile, perchè i novatori, prese
improvvisamente le armi, combattevano i soldati regj, che in numero di
mila cinquecento vi stanziavano, e gli facevano prigioni con
insignorirsi intieramente, non solo della città, ma ancora del castello.
Poi chiamavano a libertà le terre vicine, in aiuto i patriotti lontani:
Canale ed Alba romoreggiavano da vicino, Mondovì da lontano. Poco stante
si udiva di nuovi romori a Biella, che oppugnata da una banda di
novatori guidati da un conte Avogadro, e venuti parte da Cambursano e da
Pollone, parte dalla valle di Mosso, fu tosto ridotta in estremo
pericolo; perchè mentre i soldati regj combattevano gli assalitori da
una parte, gli altri sforzavano il comandante ad arrendersi con dare in
mano loro armi, e vettovaglie. Al tempo medesimo nella già tentata
Novara prevalevano i regj, ma fu più insidia che onorevole vittoria;
conciossiachè i soldati a ciò spinti da parecchi ufficiali, andavano
facendo molte grida di libertà per fare scoprir i libertini: un solo fu
colto all'agguato, perchè gridò, e non così tosto ebbe gridato, che
restò ucciso. Nissun altro si scopriva, perchè avevano conosciuto
l'inganno. Ma il moto, come suole avvenire, non poteva terminarsi di
leggieri: i soldati correndo alla scapestrata incominciavano a mettere a
sacco le case di coloro, che erano in voce di desiderar le novità; poi
saccheggiavano le case degli aristocrati, e stava per poco che la città
non andasse tutta a ruba. Un Seminoli, che fabbricava orologi, un
Martinez gioielliere ne andavano con la peggio. Ho per testimonj uomini
gravi, i quali raccontano, essersi veduto il dì seguente un ufficiale
portar in dito l'anello della moglie del saccheggiato Martinez. La qual
cosa io nè affermo, nè nego; basta bene, che il farlo veramente, ed il
dirlo falsamente erano degni ugualmente di quei tempi.
Così con varia fortuna ardeva la guerra civile in Piemonte, accesa dal
popolo pel timore delle vettovaglie, dai novatori per amore di libertà,
o per odio dei nobili, dai nobili per fede verso il re, o per odio
contro i novatori. Si trepidava in ogni luogo, perchè in ogni luogo si
faceva sangue, o si temeva che si facesse. Già si sospettava di Torino;
ma ottomila fanti, e duemila cavalli chiamati in fretta per sussidio
della regia sede, e posti a campo sullo spaldo della cittadella
minacciosamente, erano mantenitori di quiete. Ed ecco sulle porte stesse
della città regia udirsi un romor confuso d'armi e d'armati: erano i
Moncalieresi, che levatisi a romore, e sovvertita in Moncalieri
l'autorità regia, già si mostravano sulle rive del Sangone con animo di
andar più oltre a tentar Torino. Eransi i Moncalieresi a ciò mossi
principalmente dai romori di Asti e di Carignano, e dalla stretta dei
viveri, parte vera, parte esagerata dagli spaventi popolari, parte con
vivi colori descritta dai novatori, levati a sedizione, e corsi sulla
piazza per cui si ascende al castello, creavano tumultuariamente una
immagine di reggimento popolare, non conoscendo bene nè che cosa si
volessero, nè qual pericolo portassero in tanta vicinanza della sede
della metropoli ottimamente munita d'armi e di munizioni. Sogliono i
popoli sollevati nei primi impeti loro, prima che i tristi abbiano fatto
i loro maneggi per tirar le cose a se, ricorrere, e far capo a
personaggi autorevoli per dottrina e per virtù; il che lascia poi la
solita coda dei martirj dei buoni, non solo abbandonati, ma ancora dati
in mano ai persecutori da quei popoli medesimi, che gli avevano fatti
capi delle imprese loro. Viveva a questi tempi in Moncalieri un uomo
dottissimo, e tanto buono quanto dotto, dico Carlo Tenivelli, autore
elegante di storie Piemontesi. Questi, alieno dalle opinioni dei tempi,
avverso per natura, siccome quegli che Italianissimo era, da quanto
venisse d'oltre Alpi, ed oltre a ciò di costume molto indolente e non
curante, non avendo attività alcuna se non per iscrivere storie, non
aveva a niun modo mente a muover cose nuove, e molto meno quelle che si
assomigliassero alle Francesi. Divoto alla casa di Savoja, dedito, anche
con singolare compiacenza, ai nobili, non era uomo, non che a fare, a
sognar rivoluzioni. Per me, quando considero la natura sua, e quella del
La Fontaine, celebrato favolatore di Francia, mi pare, che non mai chi
crea tutto, abbia creato due nature tanto l'una all'altra somiglianti,
quanto quelle di Tenivelli e di La Fontaine, solo ed unicamente in ciò
differenziandogli, che l'uno era formato per aver ad essere uno storico
egregio, l'altro un favolatore eccellente. Suonavano l'armi e le grida
tutto all'intorno, e dentro della mossa Moncalieri, che Tenivelli non se
ne addava, tutto con la mente immerso nelle solite lucubrazioni. Ma i
sollevati avvisandosi, che il buon Tenivelli tornasse in acconcio di ciò
che desideravano, tanto buono egli era, ed alla mano con tutti, lo
andavano a levare di casa, e per forza il portavano in piazza, senza che
egli ancora si avvedesse, che cosa volesse significare tanta novità.
Insomma condottolo sulla piazza, e fattolo montar sulle panche, gli
dicevano: _Fa, Tenivelli un discorso in lode del popolo_, ed egli, che
eloquentissimo era, faceva un discorso in lode del popolo: poi gli
dicevano: _Tenivelli tassa le grasce, che son troppo care_, ed ei
tassava le grasce con tanta bontà, con tanta innocenza, che mi vien le
lagrime in pensando al fine, che il fato gli apprestava. Tassate le
grasce, ed usatosene anche copiosamente dai sollevati, s'incamminavano,
come dicemmo, verso il Sangone per alla volta di Torino. Scrivono
alcuni, che Tenivelli gli guidasse, ma non fu vero; e se fosse stato,
sarebbe certamente stato guida poco acconcia, siccome quegli, che mezzo
cieco essendo, appena vedeva lume.
In sì pericoloso frangente, in cui quasi tutto il Piemonte romoreggiava
per la guerra civile, e che il suono dell'armi contrarie si udiva per
fin dalle mura della real Torino, il governo non si perdeva d'animo,
scoprendosi in questo, qual differenza sia fra uno stato enervato, qual
era quel di Venezia, uno stato male armato, qual era quel di Genova, ed
uno stato forte e bene armato, qual era quel del Piemonte. Il giorno
stesso, in cui Moncalieri si muoveva contro Torino, creava il re con
un'apposita legge, giunte militari, le quali con l'assistenza dei
giudici ordinari sommariamente e militarmente giudicassero i ribelli.
Poi premendo che si mettesse tosto il piede su quelle prime faville di
Moncalieri, il che era più facile, e più pronto per la vicinanza, e pel
gagliardo presidio che alloggiava nella capitale, ordinava ai soldati,
in ciò insistendo massimamente il conte di Sant'Andrea, recentemente
creato governator di Torino, buon soldato, e che sapeva quanto i buoni
soldati valessero contro i popoli tumultuanti, andassero contro i
ribelli, e gli vincessero. Non poterono i sollevati sostenere l'impeto
delle compagnìe regie, e in poco d'ora si disperdettero; tornava
Moncalieri sotto la consueta divozione.
Il buon Tenivelli, non solo non pensando, ma nemmeno sospettando, che
quel che aveva fatto, fosse male, non che delitto, se ne veniva
quietamente in Torino, e quivi tornava sui soliti studj, come se gli
accidenti di Moncalieri fossero cose dell'altro mondo, o di un altro
secolo. Passava arrivando tra file di soldati minacciosi, che nol
conoscevano, e grande era la sicurtà sua: tanta era in lui l'astrazione
e la fissazione negli studj, tanta la bontà, tanta l'ignoranza degli
affari di questo mondo. Ma gli amici gli dicevano: _Tenivelli, che hai
fatto? o fuggi, o ti nascondi, se no, tu sei morto_. Non la sapeva
capire: tornava nella solita astrazione. In fine il nascondevano in casa
di un soldato Urbano, che faceva professione di libertà; il soldato per
prezzo di trecento lire il tradiva. Fu arrestato, condotto a Moncalieri,
e condannato a morire dalla giunta militare. Lettagli la sentenza, non
cambiava nè viso, nè parole. L'innocenza della vita il confortava, non
era coraggio il suo, perchè il coraggio suppone uno sforzo, ma una
mansuetudine, una equalità d'animo, tali che l'aspetto della vicina
morte in modo alcuno non turbava. Introdotti gli amici piangevano, ed ei
gli confortava. Raccoltosi, scriveva una lettera a sua sorella, il suo
unico e diletto figliuolo Carlo, ancor fanciullo, raccomandandole. Poi
con la verità paragonando il fallo che gli era imputato, e che a sì
cruda ed a sì acerba morte il traeva, ed in mente recandosi tutta la
vita sua, e quel che aveva fatto, e quel che aveva scritto, e più ancora
quello che aveva in animo di fare e di scrivere ad onore del re e dei
nobili, ed a gloria di una patria, che già aveva illustrato con gli
scritti ed onorato con le virtù, rimetteva alquanto, in sì estrema
sventura, dalla consueta mansuetudine, e scriveva, un'ora prima che
andasse a morte, un sonetto pieno di spirito poetico, di pietà verso
Dio, di sdegno contro i suoi percussori. Condotto sulla piazza di
Moncalieri, gli fu rotto l'intemerato petto dalle palle soldatesche.
Va, mio maestro, che conforto emmi della tua morte il poter raccontare
ai posteri le tue virtù, e se nell'altra vita conservano le anime presso
il pietoso Iddio memoria, siccome credo, di quanto hanno operato nella
presente, non tu ti pentirai, spero, dello avermi ammaestrato, nè io mi
pentirò dello aver collocato nella più intima, e più ricordevol parte
dell'animo mio i tuoi puri e santi erudimenti; imperciocchè ama il
cielo, e ricompensa così l'amore dei maestri, come la gratitudine dei
discepoli. Tu mi desti più che i parenti miei non mi diedero, poichè non
la vita del corpo, ma quella dell'anima coi civili insegnamenti mi
desti; e morendo ancora per atroce caso, mi mostrasti, come si possa
concludere una innocente vita con una generosa morte. Così e vivendo e
morendo a me fosti di utili precetti, gli uni pur troppo amorevoli, gli
altri pur troppo funesti, fonte, ond'io durante questo mortal corso
apprendessi nella prospera fortuna a temperarmi, nell'avversa a
confortarmi, e se chi leggerà queste mie storie, potrà giudicare, ch'io
non mi sia del tutto indegno discepolo di un tanto maestro, tu ne
goderai nel celeste tuo seggio, ed io mi crederò di non aver impiegato
indarno il tempo e le fatiche mie.
Continuavano intanto nelle città sommosse gl'insulti al governo regio.
Il re, per rimediare ad un male tanto pericoloso, e per temperare un
furore che ogni ora più andava crescendo, comandava, volendo dar adito
al pentimento, e forza contro i renitenti, che si perdonassero le offese
a chi ritornasse alla quiete ed alla fedeltà, e che i sudditi si
armassero contro i ribelli. Riusciva questo rimedio utile per l'effetto,
feroce per l'esecuzione: perchè i contadini, gente ignorante e fanatica,
commettevano enormità degne di eterne lagrime, non portando più rispetto
agli aristocrati che ai democrati, nè più ai nobili che ai plebei.
Sanguinosa era per ogni parte la terra del Piemonte. Pure da questo
editto conseguiva il governo gran parte dell'intento; perchè i novatori,
interrotte le strade, non potevano più nè accordarsi, nè accorrere gli
uni in ajuto degli altri.
Siccome poi per pretesto principale di tanti movimenti sfrenati si
allegava la carestia dei viveri, ed anche era andata la stagione molto
sinistra pel grano e per le biade, si facevano provvisioni sull'annona,
e fra le altre, che nissuno potesse negar grano, o qualunque biada al
pubblico, ove le volesse comprare al prezzo comune: ancora, che gli
affitti dei terreni coltivati a riso le diecimila lire, que' dei terreni
coltivati a grano e ad altre biade, le cinquemila non potessero passare;
il qual consiglio era diretto ad impedire i monopolj, fonti di caro nei
viveri, di sdegno nei popoli.
Oltre la scarsezza, principal cagione del caro che si pruovava, era il
disavanzo dei biglietti di credito verso le finanze, e della
cartamoneta, e così ancora quello della moneta erosa ed erosomista, gli
uni e le altre cresciute in quantità soprabbondante, vera peste del
Piemonte. Si sforzava il governo, premendo tanto i tempi, a rimediare ad
un pregiudizio sì grave con obbligare, insino alla somma di cento
milioni, con pubblico editto ai possessori dei biglietti, per sicurezza
del loro credito, i beni degli ordini di Malta, di San Maurizio e
Lazzaro, e quei del clero sì secolare che regolare, eccettuati i
benefizj vescovili e parrocchiali. Nè questo bastando a tanta pernicie,
diminuiva, poco dopo, il valore della moneta erosa ed erosomista, e al
tempo medesimo creava, con autorità del papa, una tassa di cinquanta