Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III - 09

che la salute di Genova dall'amicizia di Francia si poteva solo, ed
unicamente aspettare. La quale esortazione dispiacque oltre modo al
popolo, che soltanto vedeva le trame, e non conosceva il modo di
passarle per la politica.
Il fine principale a cui miravano tante arti, spaventi e minacce, non
era punto nè la liberazione di pochi carcerati, nè l'incarcerazione di
pochi magistrati, cose tutte nè stimate da Buonaparte d'importanza, nè
usate se non per mezzi. Bensì ei voleva la mutazione, affinchè dalla
nuova forma fossero esclusi gli amatori dell'indipendenza, e gli
aderenti dell'Austria, ed inclusi i partigiani di Francia. Perlochè,
vintesi dagli agenti del generalissimo le prime domande, insorgevano con
maggior calore, richiedendo il senato, riducesse lo stato a forma più
democratica, e facesse abilità ai legati che si volevano mandar al
generalissimo, di accordar con lui il cambiamento che si desiderava.
Rappresentavano, non altro modo esservi di quietare gli spiriti, se non
quello di chiamare anche i popolari al dominio; considerassero, con
quanta fatica e quanto sangue s'era poc'anzi l'antica forma potuta
conservare, solo perchè non era più consentanea alle opinioni dei più;
doversi dare sfogo a questi nuovi umori, se non si voleva che
inondassero con rovina della repubblica; per questo solo atto
acquisterebbe il senato nella liberata Italia somma autorità, e
loderebbe Milano Genova, quel Milano, che allora la scherniva; con
questo solo atto si renderebbe sicura la integrità della repubblica, che
allora era dubbia; ciò desiderare la repubblica Francese, ciò volere
Buonaparte; ciò fatto, sperimenterebbegli Genova così facili ed
amichevoli, come allora gli trovava ritrosi ed avversi; divenuti essere
odiosi i privilegi; il rinunziarvi, e l'accomunarsi esser da savio,
perciocchè altro non era che perdere una chimera con acquistare una
realtà; parecchie volte aver Genova mutato modo nel corso dei secoli,
ora allargandolo al popolare, ora restrignendolo all'aristocratico
secondo i tempi; che ora tornasse al popolare, essere non solo
necessario, ma ancora non insolito: cedessero adunque, ed in quella sola
risoluzione vedessero la salute della repubblica.
Queste esortazioni fortissime in se stesse, operavano gagliardamente.
Pure trovavano non poca difficoltà; perchè molti dei senatori vedevano
in quei reggimenti democratici non amore, nè gratitudine per la
rinunziazione dei privilegi, ma scherni e persecuzione, nè cambiando era
andare dall'aristocrazìa alla democrazìa, ma bensì dal dominio consueto
al dominio di una parte prepotente. Atterriva anche l'esempio di
Venezia, che già si vedeva passare, pel cambiamento fatto, non alla
libertà ed alla concordia, ma prima alla servitù di una parte, poi alla
servitù forestiera. Così si stava in pendente, e, come accade nei casi
dubbj e pericolosi, si amava lo stare, solo perchè lo stare era
consueto.
Mentre si deliberava nel piccolo consiglio di quanto si dovesse fare in
quella occorrenza di suprema, anzi di unica importanza per la patria,
comparivano le prime squadre di Rusca, le quali, sparsesi prima per la
Polcevera, si distendevano poscia insino alle porte di Genova. Si udiva
eziandìo, che Serrurier poco lontano succedeva con le sue, e che da
Cremona si muovevano nuovi soldati per dar rinforzo a Rusca ed a
Serrurier, ove da per se non bastassero. Erasi appresentata alcuni
giorni innanzi alla bocca del porto l'armata di Brueys; ma per la
istanza del senato, e per la tempera del popolo, che non l'avrebbe
lasciata entrare quietamente, aveva Faipoult operato, che l'ammiraglio
se ne tornasse verso Tolone; del che, qual debole e timoroso, fu poscia
aspramente biasimato da Buonaparte. Sebbene però l'armata Francese si
fosse ritirata, si sapeva, che andava volteggiandosi ora a vista, ed ora
poco lontana dalla riviera di ponente, e poteva dar animo, e fare spalla
facilmente ai novatori della riviera, ed a quei della metropoli. Nè fu
l'esito diverso dal prevedere; perchè tra la presenza di Rusca nella
Polcevera, alcune squadre di soldati Francesi sparsi nella riviera, e la
prossimità di Brueys, si tumultuava in vari luoghi, non senza sangue;
gli abitatori delle ville e delle montagne combattevano acremente i
novatori. Ciò non ostante questi ultimi erano rimasti superiori in
Savona, città principale in quelle piagge, e già in ella, e nel Finale,
e nel porto Maurizio avevano piantato l'albero, che chiamavano della
libertà. Il senato minacciato da una setta potente nella sua sede
medesima, attorniato da soldati forestieri, lacerato dalla guerra
civile, stretto continuamente dagli agenti di Francia, che sempre
parlavano dello sdegno del direttorio, e di Buonaparte, non aveva più
libertà di deliberare.
Cedevano i padri, perchè il contrastare era impossibile. Statuivano, si
riformerebbe lo stato; la mutazione, quantunque in termini generali, al
popolo si annunzierebbe. Mandavano poi legali a Buonaparte, con facoltà
di accordare con lui la forma futura degli ordini politici, i nobili
Michel Agnolo Cambiaso, Luigi Carbonara, Gerolamo Serra, i due primi
amatori di un governo popolare più largo, l'ultimo di uno più stretto,
ma uomini tutti di singolare ingegno, ed anche di natura buona e forte,
se fati migliori avessero conceduto, che la bontà e la fortezza
potessero giovare alla patria. Partivano i deputati per Montebello,
alloggiamento di Buonaparte. Partivano anche, conseguito l'intento, alla
volta medesima Faipoult e Lavallette, per informar il generale
dell'adempimento delle commissioni loro, e per consigliarlo intorno alle
persone, che per gl'interessi di Francia si convenisse introdurre nel
nuovo reggimento.
Il doge, i governatori, ed i procuratori della repubblica avvertivano il
pubblico, mandarsi legati a Buonaparte, perchè ai pericoli esterni, ed
alle turbazioni interne di Genova provvedesse. Lodavano la lealtà di
Faipoult, conforme, dicevano, a quella della gran nazione; sperare, con
l'ajuto della divina provvidenza, poter facilmente compire un'opera
conducente a conservazione della repubblica, ed a contentamento di
tutti, e sulla quale a tempo debito si sarebbe chiamata a consiglio
tutta la nazione: se ne vivessero intanto quieti, esortavano, e non
corrompessero con moti inopportuni una occasione, dalla quale
dipendevano il riposo, e la felicità di tutti.
Spedivano al tempo stesso il nobile Stefano Rivarola a Parigi,
comandandogli, in una faccenda di tanto momento per la repubblica,
s'ingegnasse con ogni possibil modo di fare, che la forma antica, il
meno che fate si potesse, si alterasse, e la integrità dei territorj in
sicuro si ponesse.
Il direttorio di Francia era per le cose d'Italia piuttosto servo, che
padrone di Buonaparte, e però a Montebello piuttosto che a Parigi si
doveva definire il destino di Genova. Combattevano a questo tempo in
Buonaparte due diversi pensieri, la necessità delle cose, e la volontà
di secondare, pe' suoi fini particolari, i desiderj dei principi. Il
primo lo sforzava a far le rivoluzioni, perchè l'operare senza posa era
per lui mezzo di non lasciar illanguidire la fama, che si era
acquistata; il secondo lo spingeva a far sicure le monarchie, a rivoltar
solo le repubbliche, e queste o spegnere, o lasciarle dare nella
democrazìa meno che potesse. Questi consigli operando in lui
efficacemente, erano cagione, che, cambiando gli antichi ordinamenti di
Genova, non gli lasciasse scendere sino alla pura ed inquieta
democrazìa, e che la somma delle cose confidasse, non a gente fanatica e
spaventevole ai re, ma bensì a uomini temperati e savi, che o per
necessità consentivano al cambiamento, o volevano la democrazìa mista e
con leggi, non pura e senza leggi. Questi pensieri consuonavano con
quelli dei legati, ed anche la volontà del vincitor Buonaparte non era
contrastabile. Per la qual cosa non fu lungo il negoziare, e addì cinque
giugno si concludeva un accordo per mezzo loro tra la repubblica di
Francia, e quella di Genova, pei principali capitoli del quale si
statuiva, che il governo rimettesse alla nazione, così richiedendo la
felicità della medesima, il deposito della sovranità, che gli aveva
confidato; ch'ei riconoscesse, la sovranità stare nell'universalità dei
cittadini; che l'autorità legislativa si commettesse a due consigli
rappresentativi, uno di trecento, l'altro di cencinquanta consiglieri;
che la potestà esecutiva fosse investita in un senato di dodici, e a cui
presiedesse un doge; il doge, ed i senatori dai consigli si eleggessero;
ogni comune avesse ad esser retto da ufficiali municipali, ogni
distretto da ufficiali distrettuali; le potestà giudiziali e militari, e
così pure le divisioni dei territorj secondo il modello da farsi da una
congregazione a posta si ordinassero, con ciò però, che la religione
cattolica salva ed intera si serbasse; i debiti del pubblico si
guarentissero; il porto franco, ed il banco di San Giorgio si
conservassero; ai nobili poveri, per quanto possibil fosse, si
provvedesse; che ogni privilegio per abolito si avesse; che intanto si
creasse un reggimento temporaneo di ventidue, ed a cui il doge
presiedesse; che questo reggimento prendesse il magistrato il dì
quattordici di giugno. Statuisse delle indennità dei Francesi offesi nei
giorni ventidue e ventitrè maggio; finalmente la repubblica Francese
perdonasse a tutti, che l'avessero offesa nei giorni suddetti, e
mantenesse l'integrità dei territorj della repubblica Genovese.
Mandava Buonaparte questi capitoli al doge con lettere portatrici di
dolci parole, mostrando molta affezione verso la repubblica, e
consigliando, fossero savj, fossero uniti, e non dubitassero della
protezione della Francia. Eleggeva al reggimento temporaneo Giacomo
Brignole, doge, Carlo Cambiaso, Luigi Carbonara, Gian Carlo Serra,
Francesco Cataneo, Giuseppe Assereto da Rapallo, Stefano Carega, Luca
Gentile, Agostino Pareto, Luigi Corvetto, Francesco Maria Ruzza,
Emanuele Balbi, Gian Battista Durand del porto Maurizio, capitano
Ruffino di Ovada, Agostino Maglione, Gian Antonio Mongiardini, Francesco
Pezzi, Bertuccioni, Gian Battista Rossi, Luigi Lupi, Gian Maria de
Alberti, Bacigalupi, Marco Federici della Spezia.
Quando il generalissimo di Francia creava questa nuova signorìa, aveva
in pensiero, non solamente di dare autorità a uomini prudenti, e lontani
da voglie estreme, ma ancora mescolando uomini di diverse condizioni, di
mostrare che la sovranità non cadeva più in pochi, ma bensì in tutti,
cosa che avrebbe dovuto far quietare, contentando le ambizioni, molti
umori. Ma nelle rivoluzioni le ambizioni sono incontentabili, e come se
le faccende pubbliche potessero maneggiarsi continuamente dalla
moltitudine, il restringerle in pochi magistrati era riputato
aristocrazìa: gli esclusi gridavano tirannide, gente pericolosissima,
perchè pretendeva parole di amore di patria.
Incominciava appena a farsi giorno, che già le piazze e le contrade
erano piene di gente, accorrendo da una parte il popolo tratto dalla
novità del caso, dall'altra i libertini portati dall'allegrezza, e dal
desiderio di far certe dimostrazioni, che credevano libertà, ed erano
vanità in se, scherno ad una parte dei loro concittadini, imitazione
servile dei forestieri, segni di tirannide, semi di future discordie. Il
popolo stesso, solito a seguitare così il bene come il male ad un posto
segnale, se prima traeva per curiosità, dopo, e visto il giubbilar dei
libertini, incominciava a trarre per allegrezza, ed era uno spettacolo
mirabile il vedere tutta quella città mossa a gioia, che ancora non
faceva un mese, si era veduta mossa a sangue. _Viva la libertà, muoja
l'aristocrazìa, viva Francia, viva Buonaparte_, gridavano le Genovesi
voci: gli alberi della libertà non solo sulle piazze e principali
contrade, ma ancora sulle piazzuole e nei vicoli a tutta fretta si
piantavano; i balli, canti, ed i discorsi che si facevano loro intorno,
erano eccessivi. A questo, alcune donne, e non delle infime, certi
berrettini di libertà, che così gli chiamavano, che avevano tessuti
nascostamente, di tre colori nei giorni precedenti, distribuivano in
pubblico, ed i libertini con molto romore se gli appiccavano sul petto.
Le quali cose se abbiano mosso a riso Buonaparte tanto astuto
conoscitore e tanto cupo sprezzatore dell'umana natura, non è da
domandare: godeva in se del compito inganno. Morando era fuori di se
dalla contentezza, sebbene non del tutto si soddisfacesse dei membri del
governo temporaneo, parendogli aristocrati anzi che no. Vitaliani
predicava, e per gridar forte che facesse il popolo, non gli pareva mai,
che gridasse abbastanza. I nobili o si nascondevano nelle più segrete
case, o fuggivano dalla città, e ne avevano ben anche il perchè; che ad
un primo trarre, il popolo mosso, e stimolato dai novatori più vivi, gli
avrebbe manomessi. In mezzo a tanto fracasso poteva nascer bene, come
male, ma più facilmente male che bene. I patriotti scrivevano nel gergo
gonfio, servile, e schifoso di quei tempi, che «superbo dei riacquistati
diritti scorreva per le vie il genio della Liguria, e scrivea sulla
fronte ai liberi cittadini la bella immagine di un fortunato avvenire».
Ed ancora: «Oh, sublime maestoso spettacolo d'un popolo intero, che dopo
aver trascorso dei secoli di servitù, curvo, ed umiliato sotto un giogo
di ferro, si leva subitamente ritto sui piedi, e scosso l'infame peso
delle irrugginite catene ne getta i rotti avanzi in faccia ai
detronizzati tiranni!» Così parlavano: Buonaparte ne faceva le risa a
Montebello, e gli chiamava pazzi da legare. Gian Carlo Serra, e suo
fratello Gerolamo, che non erano uomini da riscaldarsi troppo, ed
avevano l'animo piuttosto da storico che da poeta, s'erano lasciati
ancor essi trasportare all'entusiasmo, e scrivevano cose di fuoco a
Buonaparte.
La servile imitazione verso le tragicomedie della rivoluzione Francese
dominava; ed ecco una calca di gente trarre con grida al ducale palazzo,
i patriotti la guidavano, con animo di levarne il libro d'oro, infame
catalogo, come dicevano, volume esecrato dell'antica aristocrazìa. Si
custodiva il libro assai gelosamente in un luogo appartato del palazzo
d'onde non si estraeva se non quando il nome di qualche nuova famiglia,
chiamata a nobiltà, vi si scriveva. La plebe, rotte a forza le porte
dell'archivio, se lo portava con incredibili scede e giullerìe sulla
piazza dell'acquaverde, e quivi acceso un fuoco, lo ardeva, e le grida,
e le risa, e gli scherni furono molti. Non pochi, perchè non mancassero
neanche le puerilità, ferivano a punta di bajonetta o di sciabola
l'odiato libro, e con questo si credevano di aver morto l'aristocrazìa:
i circostanti applaudivano. Insomma il popolo mosso, se non fa tragedie,
vuol comedie. Ardevano col libro d'oro anche la bussola del doge, e
l'urna, dove s'imborsavano i nomi dei senatori per gli squittinj. Vi si
arrosero altri stemmi gentilizj raccolti a furia di popolo da diversi
luoghi; cose tutte, che si facevano piuttosto per ingiuria di persone,
che per amore di libertà: poi piantavano sulle ceneri delle reliquie
aristocratiche, come dicevano, il solito fusto, e gli applausi, e le
musiche, e i discorsi andavano al colmo.
Arso il libro d'oro, trascorreva il popolo, anche i carbonari vi si
mescolavano, ad un atto assai più biasimevole, e questo fu di rompere,
ed atterrare la statua di Andrea Doria, che per memoria ed onore delle
sue virtù, e de' suoi meriti verso la patria i Genovesi antichi avevano
eretta nella corte del palazzo ducale; e se chi stava dentro a guardia
fosse stato men pronto a serrare le porte contro l'invasata moltitudine,
avrebbe rotto anche le altre statue del Doria, che si vedevano nella
sala del gran consiglio. Che cosa poi pretendessero le ingiurie fatte ai
morti illustri, ed il disprezzo di servigi eminenti fatti alla patria,
ciascuno potrà da per se stesso giudicare, ed erano novatori noti
solamente per parole ed incapricciti di certi governi geometrici non
ancora pruovati, o pruovati soltanto per esilj, per persecuzioni, e per
morti crudeli, che un Andrea Doria oltraggiavano.
Dalle ingiurie si trapassava ad insolenze criminose; perchè sospettando,
che fossero ancora sostenuti nelle carceri alcuni fra coloro, che erano
stati arrestati nei giorni ventidue e ventitrè maggio, vi correvano a
folla, ed avendole sforzate, davano comodità di fuggirsi a parecchi
malfattori, contaminando in questo modo il nuovo governo con lo stesso
fatto, col quale avevano già assaltato l'antico; tristi principj di
libertà, e di stato civile.
Tal era la condizione di Genova, che il governo, composto la maggior
parte di uomini buoni e savj, dipendeva da Buonaparte, anche serviva
alle opinioni dei tempi; dal che nasceva, che voleva ordinare, non la
libertà che si convenisse a Genova, ma quella che era foggiata a modo di
Francia, come se nissun'altra forma buona di vivere libero potesse
essere, se non quella dei forestieri. Era oltre a questo, una parte
assai viva, che chiamavano dei patriotti, la quale non contenta ad un
vivere moderato, avrebbe voluto, piuttosto, credo per imitazione
servile, che per malvagità di natura, ma certamente per pensieri
immoderati, non la forma ordinata in Francia col direttorio, ma la
precedente. Erano costoro intoppo insuperabile ad ogni forma buona,
siccome quelli, che ogni reggimento regolare libero o non libero, ma più
se libero, laceravano con gl'improperj insidiavano con le congiure,
assaltavano con le sollevazioni. Mescolavasi finalmente a questi umori
la parte aristocratica vinta, la quale, impotente a far moto
d'importanza a cagione della forza Francese presente, e del nome di
Buonaparte, teneva non pertanto con le molte sue dipendenze gli animi di
non pochi sospesi, ed avversi allo stato nuovo. Si accostavano a questa
parte i più fra le genti di chiesa, che argomentando, da quello che si
era fatto in Francia, a quello che si farebbe in Genova, o della
religione, o dell'autorità, o dei beni loro temevano.
Come prima ebbero i nuovi magistrati preso l'ufficio, mandavano fuori un
manifesto, ringraziando Buonaparte della benevolenza mostrata verso la
repubblica, lodando i privilegiati della rinunziazione dei privilegi,
commendando i preti dello aver usato l'autorità loro a stabilimento
della libertà; invitavano i popoli della riviera ad unirsi, e ad
affratellarsi con Genova; esortavano tutti a vivere quieti e concordi;
allegavano, sperare, potere con l'ajuto divino rendere più felici le
condizioni del popolo, e perchè il popolo potesse giudicare per se del
buon animo loro, promettevano di palesare al pubblico le laboriose loro
occupazioni. Venivano a congratularsi, ed a parlare encomj
dell'acquistata libertà le città principali delle riviere; l'allegrezza
si diffondeva; la fratellanza e la concordia fra le varie parti della
dizione Genovese parevano pigliar radice. Accresceva l'allegrezza il
sentire, che i feudi imperiali avevano fatto dedizione di se medesimi a
Genova, e mandato deputati. Poi per esser odioso quel nome di feudi, gli
chiamarono Monti Liguri. Erano volentieri accettati nella società
Genovese, lodati, e ringraziati i deputati.
Ordinavasi intanto il corpo municipale di Genova, soggetto molto geloso,
perchè i municipj delle metropoli, ad esempio di quello di Parigi,
volevano far a gara, e contrastare di potenza coi governi. I capi
dell'esercito repubblicano, talvolta per capriccio, talvolta per altri
fini più reconditi, soffiavano su di queste faville: semi tutti di
discordia, e di anarchìa. Prendevano i municipali il magistrato il dì
primo di luglio con non mediocre apparato, e non mancavano i soliti
discorsi. Un prete Cuneo, che procedeva con molto calore in queste
faccende, ed era stato mescolato nei moti precedenti, diceva loro: «Oh,
Bruto, mio caro Bruto, prestami, io te ne prego, prestami per un momento
il tuo pugnale grondante ancora del sangue del tiranno, onde scriver
possa sulle pareti di questa sala, sotto gli occhi del governo
provvisorio, i nomi santi di libertà, e d'uguaglianza». Poscia il prete
lodava i municipali. E' bisognerà bene che i leggitori d'oggidì mi
comportino la libertà di dire tutto quello, che si disse, perchè
l'intento mio è di scrivere storie, non tacere, nè parlare per
adulazione.
L'affare più importante, che si esaminava nelle consulte Genovesi, era
quello di formar il modello della nuova constituzione. Perlocchè,
conformandosi ai patti di Montebello, creava il governo la
congregazione, che questo modello dovesse ordinare. A questo fine si
chiamavano e dalla città, e dalla riviera, e d'oltremonti uomini di
riputato valore. Gottardo Solari, Benedetto Solari vescovo di Noli, Gian
Carlo Serra, Tommaso Langlade, Giuseppe Cavagnaro, Sebastiano Biaggini,
abbate Niccolò Mangini, Leonardo Benza, abbate Giuseppe Levreri, Gian
Battista Rebecco, Filippo Busseti. S'adunavano bene spesso, ma
servilmente procedendo modellavano alla Francese, e secondo i
comandamenti di Buonaparte. Serra s'intendeva col generalissimo, ed
aveva più dominio degli altri. N'era imputato dai patriotti, che
incominciavano a mostrarsi mal soddisfatti di lui, chiamandolo
aristocrata. Pure la sentiva bene e saviamente. Voleva, che non si
offendesse la religione, che si allargasse il senato, come troppo poco
numeroso, che si restringessero i consigli, come troppo numerosi; che
non si perseguitasse nissuno nè in fatti, nè in parole per opinioni
antiche, che gli esagerati si frenassero; che nissun ritrovo pubblico e
politico si tollerasse, salvo il caso, in cui si volesse scuoter gli
animi a congiungere in un sol corpo tutte le parti d'Italia; al quale
fatto come cosa degna del suo gran nome esortava il generalissimo. Ma
non se ne soddisfaceva Buonaparte, nemico, come il direttorio,
dell'unione Italica. Gli piacevano gli altri pensieri di Serra, e come
se fossero suoi, ne scriveva lettere al governo Genovese. Della qual
cosa molto il lodava Serra stesso, desiderosissimo di scrivere la storia
di Buonaparte; alla quale opera non gli mancava già l'ingegno, che anzi
l'aveva molto capace, ma bene la libertà dell'animo; imperciocchè quella
gloria Buonapartiana gliel'aveva offuscato.
Incominciavano a prepararsi i semi delle future discordie. Si faceva
principio dalla religione, non che toccassero le opinioni dogmatiche, ma
soltanto la disciplina. I popoli confondevano l'una cosa coll'altra, i
cherici non che gli disingannassero, gli mantenevano nel falso concetto.
Prevalevano i desiderj delle riforme Leopoldine, a ciò stimolando il
Solari, vescovo di Noli, personaggio d'autorità pel grado, per la
dottrina, pei costumi, e molto ardente nelle sentenze Pistojesi.
Comandava il governo, che non fosse lecito ai vescovi di promuovere,
senza sua licenza, alcuno agli ordini sacri, se non coloro, che già
suddiaconi, o diaconi essendo, desiderassero ricevere il diaconato, od
il pretato, e parimente senza suo beneplacito, nessuno potesse, o uomo o
donna si fosse, vestir l'abito di nessuna regola di frati o di monache;
ordinamenti certamente molto prudenti, ma presi in mala parte dai più,
perchè la setta contraria al nuovo stato se ne prevaleva. Poi decretava,
che ogni cherico o regolare, o secolare che si fosse, se forestiero,
dovesse fra certo termine, e con certe condizioni uscire dai territorj.
Parevano questi stanziamenti molto insoliti in tanto e sì lungo dominio
delle potestà ecclesiastiche; ma bene più insolito e più strano appariva
quell'altro precetto, che fu pensiero di Serra, col quale si ordinava,
che uomini deputati dal governo a tempo, e dopo i divini ufficj,
predicassero la democrazia alle genti. Fu questo un gran tentativo; non
succedeva bene, perchè in molti luoghi i deputati non fecero frutto, in
altri furono scherniti, in alcuni scacciati. Si sollevarono
universalmente gli animi religiosi contro questa novità; i nemici dello
stato crescevano: novello argomento, che nelle umane faccende chi vuol
far troppo, fa poco.
Questo quanto alla religione: si moltiplicavano per altre ragioni gli
sdegni. Oltrechè con gl'incessabili discorsi e scritti non si lasciavano
mai quietare i nobili, fu preso decreto, che si mandasse a Parigi, come
ministro della repubblica, l'avvocato Boccardi, e si richiamasse Stefano
Rivarola, si richiamasse ancora Cristoforo Spinola, ministro a Londra:
se non obbedissero, i beni loro fossero posti al fisco; intanto si
sequestrassero. Il motivo fu, che Rivarola e Spinola, in ciò gittando
grida incredibili i patriotti, erano stimati agenti, e spie della spenta
aristocrazìa; e di più si opponeva loro lo aver fatto stampare per mezzo
di Lacretelle in un giornale di Parigi acerbe invettive contro i fatti
accaduti in Genova nel giorno ventidue di maggio. L'atto rigoroso
offendeva i nobili, vieppiù gli animi s'innasprivano. Questo era
riprensibile, ma bene del tutto intollerabile fu un altro atto, con cui
si ordinava, che i principali autori della convenzione fatta a Parigi da
Vincenzo Spinola, per la quale la repubblica si era obbligata a pagare
quattro milioni di tornesi alla Francia, fossero tenuti in solido a
restituire la detta somma all'erario, e se non la restituissero, fossero
i beni loro posti al fisco. Erano in questa faccenda interessate le
principali famiglie, specialmente i Doria, i Pallavicini, i Durazzo, i
Fieschi, i Gentili, i Carega, gli Spinola, i Lomellini, i Grimaldi, i
Catanei, personaggi che tiravano con loro una dipendenza grandissima.
Decreto fu questo veramente incomportabile, perchè chi aveva fatto, ed
appruovato quella convenzione (perciocchè anche il minor consiglio
l'aveva ratificata) aveva facoltà di farla, e quel far guardar la legge
indietro è cosa contro ogni giustizia, e di pessimo esempio. Tant'è, che
sebbene il decreto sia stato preso tardi, si vociferava nel pubblico,
che si volesse prendere, e gli scapestrati democrati menavano un romore
senza fine, perchè si prendesse. Ciò faceva maggiormente inviperire gli
animi degli scontenti, i quali vedendo di non trovare dopo la mutazione
alcun riposo nè per le sostanze, nè per le persone, pensavano a
vendicarsi, non che si consigliassero di far congiure, e moti popolari,
perchè troppo erano sbigottiti a voler ciò tentare, ma spargevano ad
arte voci sinistre nel popolo, ed aspettavano le prime occasioni per
insorgere. Mescolavano il falso col vero: vero era, che Buonaparte aveva
domandato parecchi milioni pel vivere delle sue genti: questo anzi era
stato uno dei principali motivi della mutazione. Il governo poi,
trovandosi ancor debole in quei principj, e non avendo altre radici che
i discorsi vani dei democrati, ed il patrocinio forestiero, andava lento
alle tasse, e perciò aveva trovato il rimedio di quell'iniquo balzello.
Genova per tal modo aveva pagato per comperar quiete quattro milioni, ed
aveva trovato sovvertimento: poi si era fatto restituire da uomini
privati i quattro milioni per comperar di nuovo quiete, poichè i primi a
nulla erano valsi. Qual quiete poi si sia comperata questa seconda
volta, diranlo a suo luogo le presenti storie.
A tutto questo si aggiungevano le rapine dei Barbareschi tanto più
moleste, quanto più si aveva avuto la speranza data espressamente, che
cambiato il reggimento, la Francia avrebbe tutelato dagli assalti dei
Barbari le navigazioni dei Genovesi. A questo modo, sclamavano, la nuova
repubblica vive? A questo modo preservano i Francesi Genova? Gonfie
parole, ed esili fatti son dunque tutto, che si è acquistato? Francesi
dentro, Algerini fuori! a che pro servire a Faipoult, a che pro servire
a Buonaparte, se l'Africano ci assassina? Questi discorsi, che toccavano
l'intimo delle sostanze Genovesi a cagione dell'interruzione del
commercio, accrescevano ogni ora più la mala contentezza, e già, come
suol avvenire, tornando indietro col pensiero, desideravano l'antico
stato.
Motivo potente di mal umore era altresì quello, che due generali
Francesi, Casabianca e Duphot, fossero venuti a reggere, e ad ordinare i
soldati, segno certo, essere perita la independenza. Ciò significava
inoltre, che Buonaparte o non si fidava dei Genovesi, o gli stimava
inabili alle cose militari; dal che nasceva, che chi pensava altamente,
si teneva mal soddisfatto. I nemici degli ordini presenti se ne
prevalevano, mostrando la patria perduta, e serva. Dava maggior forza
alle insinuazioni loro l'essersi udito, che si voleva, si smantellassero