Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III - 06

Emilj, il vescovo, Maffei, i quattro fratelli Miniscalchi, Filiberi, i
due fratelli Carlotti, San Fermo, e Garavetta: eseguiti i capitoli, si
rendessero gli ostaggi. Volevano i provveditori aggiungere il capitolo,
che fossero salve le vite e le proprietà dei Veronesi, delle truppe, e
dei capi loro; ma Kilmaine, che era sopraggiunto, non volle ratificarlo.
E però, sebbene fossero accettati gli altri capitoli, si rendeva Verona
quasi a discrezione. La qual cosa vedutasi dai provveditori, si
deliberarono di ritirarsi a Padova, lasciando che i magistrati
municipali, quanto fosse in poter loro, alla salute di lei
provvedessero. Fu grande in questi negoziati il dolore, e lo spavento
dei provveditori; perchè non solamente vedevano una popolazione fedele
al nome Veneziano abbandonata a discrezione di un nemico offeso, ma
udivano anche parole espresse, e funeste della vicina distruzione della
repubblica; perciocchè Beaupoil, dalle solite ambagi uscendo, ed almeno
più sincerità degli altri mostrando, disse apertamente, che la
repubblica di Venezia aveva sussistito bastantemente per quattordici
secoli, e che conveniva adattarsi ai tempi, che l'assistenza prestata
alle rivoluzioni di Bergamo e di Brescia non poteva derivare dal solo
arbitrio dei comandanti Francesi, ma bensì da un espresso comando del
generale Buonaparte.
Entravano i Francesi nella sanguinosa Verona. Io non so, se mi debba
raccontare un fatto orribile, e quest'è, che i patriotti Italiani, che
pretendevano parole di libertà, e d'indipendenza alle imprese loro,
cercavano diligentemente, secondando il furore dei capi repubblicani di
Francia, per le case gli autori della resistenza Veronese, e trovati,
gli davano loro in mano, perchè fossero percossi coll'ultimo supplizio.
Scoprivano fra gli altri il frate cappuccino, e lo consegnavano ai
percussori. Gli trovavano in casa la predica, la quale, siccome pareva
scritta in istile più pulito, che a cappuccino si appartenesse, veniva
attribuita al vescovo di Parma Turchi, che era allora in grido di
predicatore eccellente. Creossi un consiglio militare per giudicarlo.
Sostenne il frate in cospetto de' suoi giudici la medesima sentenza.
Condannato nel capo, incontrò la morte con quella medesima costanza, con
la quale aveva vissuto. Conservò la storia il nome di questo forte
Italiano, quantunque per la malvagità dei tempi sia stata la sua morte
piuttosto apposta ad ignominia, che ad onore. Si chiamava frate Luigi
Colloredo, e dopo la venuta dei Tedeschi gli fu posta nella sua chiesa
dei cappuccini una lapida tramandatrice ai posteri della sua eroica
costanza. Furono con lui condotti a morte i conti Francesco degli Emilj,
Verità, e Malenza con alcuni altri di minor nome. Tale fu l'esito della
Veronese sollevazione: la chiamarono le pasque Veronesi a confronto dei
vespri Siciliani; ma se ugualmente crudi ne furono gli effetti, bene le
cagioni ne furono peggiori; perchè a Verona s'aggiunse la perfidia alla
tirannide.
Era la città esposta alla vendetta del vincitore. Le si toglievano le
armi, seguitavano minacce crudeli, e fatti peggiori; si viveva dai
soldati a discrezione; fu espilato il monte di pietà; le più preziose
gioie mandate al generalissimo. Gridavano i popoli a fatti tanto
sacrileghi; Buonaparte ordinava, si restituissero i pegni di minor
prezzo; ma fu indarno, perchè i più erano involati, e chi fu preposto
alla bisogna, per render meno, ne accoppiava due in uno: nè si perdonava
alle doti delle figliuole povere, perchè anche queste furono preda dei
rapitori. Il commissario di guerra Bouquet, eletto commissario sopra il
monte, fu carcerato, e condotto in Francia per essere processato, ma non
si udì mai di pena, o perchè fosse innocente, o perchè avesse operato
per ordine di chi poteva più di lui. Decretava Buonaparte, pagasse
Verona centoventimila zecchini, e di più cinquantamila per caposoldo ai
soldati dei castelli, risarcisse i danni dei soldati e degli ospedali, i
cavalli dei Veronesi si dessero alle artiglierie ed alla cavallerìa;
ancora desse Verona nel più breve spazio fornimenti da vestire i soldati
in quantità considerabile; gli ori e gli argenti sì delle chiese, che
del pubblico si confiscassero in pro della repubblica; i quadri, gli
erbari, i musei tanto del pubblico, quanto dei particolari fossero ancor
essi posti al fisco della repubblica; i privati, che meritassero di
esser fatti indenni, si compensassero coi beni dei condannati.
Ma già la espilazione, prima che si eseguisse per ordine, era stata
mandata ad effetto per disordine. Scriveva Augereau, la confusione dei
poteri, l'esercizio abusivo fattone da parecchi ufficiali superiori
avere colmo l'anarchia e la dissipazione; infatti il monte di pietà di
Verona, in cui erano più di cinquanta milioni di preziose suppellettili,
e così ancora quel di Vicenza (Lahoz aveva fatto rivoltar Vicenza)
essere stati con tale prestezza vuotati, che gli espilatori impazienti
all'indugio dello aprir le porte, le avevano sforzate: e vero fu,
quantunque Augereau non lo scriva, che vi entrarono con le scuri, e coi
sacchi. Sapere, continuava a scrivere, che Victor aveva fatto arrestare
il commissario Bouquet, autore di questo dilapidare; non dubitare, che
se si venisse a processo contro di lui, non mettesse in compromesso
cittadini, che erano nei superiori gradi dell'esercito; non essere le
campagne in miglior condizione della città; gl'incendj, i furti, le
rapine generali, e particolari fatte d'arbitrio, e senza legale autorità
avere spopolato parecchi villaggi, e ridotto famiglie ad errare
disperatamente alla ventura; giunta essere a tal colmo questa peste, che
ufficiali adescati dall'amor del sacco si erano fatti comandanti di
piazza da se medesimi, ed avevano commesso atti, cui la giustizia,
l'onore, e la severità della disciplina militare condannavano; gli
arbitrj di Verona essere ancora più orribili: tolte sforzate esservi
state fatte per iscritto sino a franchi sessantamila, e negate le
ricevute; rubatevi per otto giorni interi le botteghe; regnarvi il
terrore; esservi cessato ogni commercio, essere Verona deserta; alcuni
ufficiali essersi impadroniti di merci spettanti a' negozianti, sotto
colore che calasser per l'Adige; le migliori case saccheggiate attestare
il furore dei saccheggiatori. Nissuno più di lui, continuava Augereau,
odiare i Veneziani, nissuno più di lui bramar di vendicare il sangue
Francese, ma nissuno più di lui odiare l'ingiustizia e la persecuzione;
se i Francesi erano stati rei d'ingiustizia e di persecuzione a lui
toccare il consolare i Veneziani, a lui toccar fare, ch'essi
dimenticassero, ch'erano obbligati di una parte dei loro mali a' suoi
compatriotti. Fatte queste querele richiedeva Augereau da Buonaparte,
moderasse le contribuzioni, ne rendesse il contado partecipe.
Da chi avrà attentamente considerato le cose fin qui da noi raccontate,
sarà facilmente scorto, che nissuno buon partito restava a pigliarsi
alla repubblica di Venezia, se alcuno restava, era quello dell'armi.
Forse i Veneziani, armando vieppiù fortemente l'estuario, e difendendo
Venezia con quell'istessa costanza, colla quale i loro maggiori avevano
una volta difeso Padova contro l'imperator Massimiliano, avrebbero ancor
potuto far sorgere in Europa qualche spiraglio di salute; perchè ancora
l'Inghilterra era intera, e l'imperatore consentiva per forza ai patti
di Leoben, non che non gli piacesse l'acquisto degli stati Veneziani, ma
perchè abbominava i principj sovvertitori di ogni vecchio stato, sui
quali si fondava la repubblica di Francia. Ma qualunque fosse l'evento,
era più onorevole partito per Venezia il perire con l'armi in mano, che
con negoziati già conosciuti inutili prima che s'intavolassero.
Giunte a Buonaparte le novelle di Verona e del Lido, fingeva un
grandissimo sdegno con acerbissime parole lamentandosi del sangue
Francese sparso, e protestando volerne aver vendetta. Adunque vedendo,
che era venuto il tempo prefisso, e con tant'arte preparato, scriveva al
ministro Lallemand queste furibonde parole: «S'insultano a Venezia i
colori nazionali, e voi vi siete ancora! Pubblicamente vi si assassinano
i Francesi, e voi vi siete ancora! Per me, io dichiaro, e protesto non
voler udire proposta di conciliazione, se prima non sono arrestati i tre
inquisitori di stato, ed il comandante del Lido: si carcerino, e poi
venite a trovarmi».
Faceva Lallemand l'ufficio. La serva Venezia arrestava i tre
inquisitori, ed il comandante; posersi in fortezza in una delle isole
delle lagune; gli avogadori del comune incominciavano a far loro il
processo. Liberavansi (perchè anche questo esigeva il generalissimo) i
carcerati per opinioni, o fatti politici, fra gli altri i ribelli di
Salò, Verona, Bergamo, Brescia e Padova. Partivane Lallemand, partivanne
i Francesi, solo restava Villetard, segretario della legazione, come
agente eletto ad operare la mutazione di governo.
Viaggiavano intanto i due legati Francesco Donato, e Leonardo
Giustiniani alla volta degli alloggiamenti di Buonaparte. Il trovarono
in Gradisca: introdotti escusavano la repubblica: aver voluto Venezia
amicizia colla Francia repubblicana già prima che gli eserciti di lei
inondassero l'Italia; averla riconosciuta, quand'era pericolo il
riconoscerla; avere costantemente rifiutato ogni proposta fattale dai
confederati ai danni della Francia; avere aperto spontaneamente agli
eserciti di lei, e senza che a ciò fosse astretta da alcun trattato,
come era con l'imperatore, gli stati suoi; averle fatto copia delle sue
fortezze, delle armi, delle munizioni; avere obbligato i sudditi a
somministrare per somme grandissime quanto fosse necessario al vivere
dei soldati, ed avere in questo anche sopperito l'erario. Come esser
probabile, affermavano, che uno stato illanguidito da danni sì gravosi,
consumato da dispendio sì enorme, mutilato per l'alterazione di tante
città, volesse far guerra alla Francia tanto potente, ora ch'ella aveva
obbligato alla pace quasi tutta l'Europa: volere il Veneziano governo la
pace, ma bene non volerla i sediziosi ed i ribelli, perchè trovavano
nella guerra immensi profitti, ed il compimento dei loro fatali disegni:
da ciò derivare le tante invenzioni di supposti fatti, le carte false,
come quella di Battaglia, le gelosie dei comandanti Francesi,
l'alterazione dei popoli. Del rimanente non venir loro per muover
querele, ma bensì per purgarle, e fare tutte quelle opere, che
s'appartenevano all'incorrotta fede: ad ogni sua richiesta
pruoverebbero, tutti i sospetti dei comandanti esser opera dei raggiri,
e delle fraudi dei sollevati: rispetto poi all'avvenire, esser pronto il
senato a punire i rei d'assassinio, purchè gli fossero dati indizi dei
fatti, dei luoghi, e delle persone: essere ugualmente pronto ad accettar
la mediazione per ridurre le città ribellate all'obbedienza, e a
disarmare i sudditi, purchè si disarmassero anche le popolazioni
sollevate, e si preservassero le fedeli dagl'insulti loro.
Non valsero le escusazioni, e le profferte a vincere la durezza del
generalissimo. Rispose, che voleva, che tutti i carcerati si
liberassero, anche quei di Verona perchè erano addetti a Francia, che
non voleva più piombi, ed andrebbe egli a rompergli; che non voleva più
inquisizione, barbarie dei tempi antichi; che le opinioni dovevano esser
libere; che i Francesi erano stati assassinati in Venezia, e nella
terraferma, e che i Veneziani gli avevano fatti assassinare; che i
soldati gridavano vendetta, e ch'ei la voleva fare; che bene aveva il
senato tante spie che bastassero per potere scoprire i rei; che se il
senato non aveva mezzi per frenare i popoli, era imbecille, e non doveva
più sussistere; che non voleva alleanze con Venezia, nè progetti; che
voleva comandare; che non temeva gli Schiavoni; che sarebbe andato in
Dalmazia; che insomma, se il senato non puniva i rei, non cacciava il
ministro d'Inghilterra, non disarmava i popoli, non liberava i prigioni,
non eleggeva tra Francia ed Inghilterra, egl'intimerebbe la guerra a
Venezia; che al postutto i nobili di provincia dovevano partecipare
nell'autorità suprema; che il governo Veneziano era vecchio, e doveva
cessare; ch'ei sarebbe un Attila per lo stato Veneto; se non avevano
altro a dire, se n'andassero.
Udivano per soprassoma delle angustie loro in questo tempo i legati le
novelle del fatto del Lido, e con accomodate parole il rappresentarono a
Buonaparte. Rispondeva, che non gli voleva vedere, che non gli voleva
udire, bruttati com'erano di sangue Francese, se prima non gli davano in
mano l'ammiraglio, il comandante del Lido, e gl'inquisitori di stato.
Aggiungeva, che erano mentitori per aver cercato di colorir con menzogne
un fatto atroce: se gli togliessero d'avanti, sgombrassero tosto dalla
terraferma; quando no, avrebbero a far con lui.
Adunque l'antico insidiatore della Veneziana repubblica dichiarava, il
dì secondo di maggio, la guerra a Venezia. Avere, intimava, il governo
Veneto usato l'occasione della settimana santa, mentre l'esercito
Francese era impegnato nelle fauci della Stiria, per mettere in armi, e
col fine di tagliargli le strade, quarantamila Schiavoni; mandar Venezia
armi, e commissari straordinari in terraferma, arrestare gli amici di
Francia, fomentare i nemici; risuonare le piazze, i caffè, ogni luogo
pubblico di male parole, e di mali fatti contro i Francesi; chiamarvisi
giacobini, regicidi, atei; avere ordine i popoli di Padova, Vicenza, e
Verona di armarsi a stormo per rinnovare i vespri Siciliani: gridare gli
ufficiali Veneti, che si apparteneva al Lione Veneto di verificare il
proverbio, che l'Italia fosse la tomba dei Francesi; predicare i preti
dai pulpiti, gli scrittori con le stampe la crociata; assassinarsi i
Francesi in Padova, assassinarsi in Castiglione dei Mori, assassinarsi
sulle strade postali da Mantova a Legnago, da Cassano a Verona; impedire
i soldati Veneti il libero passo alle truppe della Francia, suonarsi
campana a martello a Verona, trucidarvisi i convalescenti; assaltare i
Veronesi con l'armi in mano i presidj Francesi ritirati ai castelli;
ardersi la casa del console a Zante; trarsi da una nave Veneta contro la
fregata di Francia la Bruna per salvare una conserva Austriaca; fumare
il Lido di Venezia del sangue del giovine Laugier. Per tutte queste cose
voleva, ed ordinava, che il ministro di Francia partisse da Venezia; che
gli agenti di Venezia sgombrassero dalla Lombardia e dalla terraferma;
che i suoi generali trattassero come nemiche le truppe Veneziane, ed
atterrassero il Lione di San Marco da tutte le città della terraferma.
A tutte queste querele chi dritto mirava, ed amava la giustizia,
rispondeva pei Veneziani, che, eccettuati gli assassinj non mai
escusabili, opera dei particolari, non del governo, e frutto in gran
parte delle insolenze soldatesche, essendo la vendetta passione innata
all'uomo, Venezia, tacendo anche le ribellioni suscitate a posta nella
terraferma, era autorizzata a far peggio dal dritto delle genti a
cagione dei patti di Leoben, venditori della repubblica. Aggiungevano,
che solo era da biasimarsi del non aver dichiarato, e fatto la guerra
con tutte le sue forze alla Francia, guerra della quale aveva tante, e
sì giuste cagioni. Gli autori, cui muove piuttosto la parzialità che la
giustizia, scrivono, che Venezia fu traditrice; certo ella fu, ma di se
stessa, non d'altrui.
La dichiarazione di guerra fatta da Buonaparte, non pareva a lui poter
bastare per arrivare al suo fine del cambiar la forma del governo
Veneziano. Per arrivarvi aveva con tanto veementi parole intimorito i
legati Veneziani, toccato loro il capitolo del cambiamento di governo: a
questo medesimo fine aveva ordinato a Baraguey d'Hilliers, che si
accostasse coi soldati alle rive dell'estuario, e d'ogni intorno
tempestasse, come se volesse farsi strada alla sede stessa della
repubblica: a questo fine ancora Villetard, e gli altri repubblicani
rimasti in Venezia, menavano un romore incredibile contro
l'aristocrazìa, come se ella fosse la maggior peste che sia al mondo,
esaltavano la democrazia, accennavano che il solo mezzo di placare lo
sdegno di Buonaparte era di ridurre il governo alla democrazìa: a questo
fine altresì dai medesimi continuamente si animavano, e si concitavano
contro le antiche forme gli amatori di novità, ed eglino confortati
dall'aspetto delle cose ai disegni loro tanto favorevoli, più
apertamente insidiavano, e minacciavano lo stato: al medesimo intento
finalmente si spargevano ad arte voci di congreghe segrete, di congiure
occulte, di armi preparate. Il terrore era grande, le fazioni accese, i
malvagi trionfavano; dei buoni, i più si ristavano per timor
dell'avvenire, volendo accomodarsi al cambiamento, che si vedeva in
aria; pochi coraggiosi procuravano la salute della repubblica.
Non ostante tutto questo, le trame ordite facevano poco frutto nel
senato, in cui sedeva la somma dell'autorità, perchè egli era o per
prudenza, o per consuetudine, o per ostinazione risoluto a voler
perseverare nelle massime dell'antico stato; già aveva ordinato, che
diligentemente, e fortemente si munisse l'estuario. Prevedevano i
novatori, che ove fosse commesso al senato di proporre alterazioni negli
antichi ordini della constituzione al consiglio grande, in cui si era
investita la sovranità, e dal quale solo simili alterazioni dipendevano,
non mai il senato vi si sarebbe risoluto. Per la qual cosa coloro, che
indirizzavano tutti questi consigli segreti, si deliberarono di trovar
modo per evitare l'autorità del senato, allegando, che ad accidenti
straordinari abbisognavano rimedj straordinari. I savi attuali, dei
quali Pietro Donato aveva qualche entratura con Villetard, operarono in
modo che si facesse un'adunanza illegale, e contraria agli ordini della
repubblica nelle stanze private del doge, la sera dei trenta aprile.
Interveniva il doge Manin, i suoi consiglieri, i tre capi delle
quarantie, i savi attuali, i savi di terraferma, i savi usciti, ed i tre
capi del consiglio dei Dieci. Si trattava in quest'adunanza di ciò, che
si convenisse fare in sì luttuosa occorrenza per la salute della
repubblica. Il principal fine era di rappresentar le cose in maniera,
che il consiglio grande autorizzasse l'alterazione degli ordini antichi.
Il doge venezianamente favellando, cominciava il suo discorso in questi
termini: «La gravità, e l'angustia delle presenti circostanze chiama
tutte elle a proponer el miglior mezzo possibile per presentar al
supremo maggior conseio el stato, nel qual se trovemo per le notizie,
che sta sera ne avanza Alessandro Marcello, savio de settimana. Prima
peraltro, ch'elle fazza palese la loro opinion, le abbia la bontà de
raccoglier brevemente quel che xe per esponerghe el cavalier Dolfin».
Assumendo le parole il cavalier Dolfin, ragionava, che fosse molto a
proposito alle cose della repubblica l'obbligarsi Haller, col quale egli
aveva amicizia, ed era, secondo che egli opinava, molto innanzi
nell'animo di Buonaparte, per mitigare il vincitore. La quale proposta
dimostra a quanto abbassamento fosse condotta quell'antica, e gloriosa
repubblica; poichè era parere di uno dei principali statuali, già
ambasciadore in Parigi, che si aspettasse la sua salute in sì ponderoso
momento dall'intercessione di un pubblicano.
Non erano ancora gli animi dei circostanti tanto abietti, che non
deridessero la vanità del partito posto dal Dolfin. Seguitavano diversi
pareri. Voleva Francesco Pesaro, generosamente opinando, che non si
alterasse a modo alcuno la constituzione, e si facessero le più efficaci
risoluzioni per difender fino all'estremo quell'ultimo ridotto della
potenza Veneziana. Disputava dall'altra parte Zaccaria Vallaresso, si
desse autorità ai legati di trattare con Buonaparte dell'alterazione
degli ordini. Mentre si stavano esaminando i partiti posti, ecco per
Tommaso Condulmer, sopraintendente alle difese dell'estuario, arrivar
novelle, che già i Francesi dalle rive dell'estuario tentavano di
avvicinarsi a Venezia. Parve, s'udisse il romor dei cannoni. Si
suscitava gran terrore fra gli adunati: il serenissimo principe, tutto
paventoso più volte su e giù per la camera passeggiando, lasciava
intendere queste parole: _sta notte no semo sicuri nè anche nel nostro
letto_. Per poco stava, che per suggerimento di Pietro Donato, e di
Antonio Ruzzini, non si cedesse, e non si trattasse della dedizione;
cosa, che farebbe credere, che i Veneziani fossero divenuti meno che
uomini, se veramente in questo fatto solo operava la paura. Vinceva
peraltro ancora in questo la fortuna della repubblica; perchè
opponendosi gagliardamente al partito Giuseppe Priuli, e Niccolò Erizzo,
si mandava al Condulmer resistesse alla forza con la forza. Non ostante,
operando il timore e le instanze dei novatori, fu preso partito, che il
doge medesimo esponesse al maggior consiglio la condizione della
repubblica; proponesse la facoltà di alterar la constituzione, si
convocasse il maggior consiglio il dì seguente primo di maggio. Fatta
questa risoluzione, desiderio principale di Buonaparte, e mentre ella
tuttavia si stava dal segretario Alberti distendendo, il procurator
Pesaro lagrimando disse in dialetto Veneziano queste memorande parole:
_vedo, che per la mia patria le xe finìa: mi non posso sicuramente
prestarghe verun ajuto: ogni paese per un galantuomo xe patria, nei
Svizzeri se pol facilmente occuparse_. Poi cesse da Venezia, sapendo,
che Buonaparte domandava la sua morte. Felice Francesco Pesaro, se, come
disse, così avesse fatto, e se trapassando ritirato e dolente la
restante sua vita nell'Elvetiche montagne, avesse lasciato al mondo
l'esempio di un amore di patria, scevro da ambizione, che se stesso,
Venezia, Italia avrebbe perpetuamente onorato!
Era la mattina del primo maggio, quando la repubblica Veneziana doveva
cadere da per se stessa nell'agguato, che le era teso. Era il palazzo
pubblico circondato per ogni parte da genti armate, i cannoni presti, le
micce accese, apparato insolito da tanti secoli in quella quieta
repubblica. Custodivano per antico rito gli arsenalotti le interiori
stanze del palazzo: i capi di strada pieni d'uomini in armi. Si
maravigliava il popolo, ignaro della cagione, a quel romor soldatesco;
la città tutta occupava un grandissimo terrore: quei luoghi medesimi,
che per sapienza di governo, per benignità di cielo, per fortezza di
sito erano stati sempre pieni di gente allegrissima per natura,
civilissima per costumi, ora risuonavano d'armi e d'armati, e quelle
armi, e quegli armati accennavano, non a salvamento, ma a distruzione
della patria.
Convocati i padri al suono delle solite campane (non senza lagrime io
queste cose racconto) e adunatisi in maggior consiglio, rappresentava
con gravissime parole il doge la funesta condizione, a cui era ridotta
la repubblica, infelicissima, ma innocente; avere ella sempre, dappoichè
la rivoluzione Francese aveva spaventato il mondo, vissuto in uguali
termini d'amicizia con tutti; nè mai aver voluto pendere più da questa
parte, che da quella; ciò aver richiesto da lei l'antica sua
consuetudine; ciò gl'interessi suoi più preziosi, perchè se si fosse
fatta aderente ai principi confederati contro la Francia, le navi
Francesi avrebbero messo a ruba il commercio tanto florido dei
Veneziani, e se avesse prestato le orecchie alle proposte Francesi, la
potentissima casa d'Austria confinante con Venezia per terra e per mare,
da Crema fino all'Albanìa, avrebbe potuto occupar gli stati
dell'imprudente repubblica, sarebbesi in ambi i casi turbata quella
quiete, per cui tanto fiorivano l'agricoltura ed il commercio: essersi
avuto speranza, che le forze unite dell'Austria stessa, del re di
Sardegna, e degli ausiliari Napolitani impedissero la venuta dei
Francesi in Italia, e però non essersi seguitati gli esempi dei maggiori
dell'apprestar armi ed armati per allontanar dalle province Venete
perturbazioni, che non si mostravano probabili. A questa medesima
risoluzione aver dato forza lo stato dell'erario, ancor consunto dalla
guerra col Turco, dalle tre neutralità armate in Italia, dai contagi di
Dalmazia, dalle riparazioni dei fiumi, dalla spedizione contro Tunisi:
essersi creduto pericoloso l'impor nuove gravezze in un tempo
massimamente, in cui ognuno si faceva lecito di esaminare, e di
censurare ogni azione di chi comanda: da questi fondamenti essere
derivate le risoluzioni fatte, la blandizie usata, il riconoscimento
della repubblica Francese, l'avere accolto un suo ministro a Venezia, e
mandato un ministro Veneziano a Parigi, le provvisioni apprestate agli
eserciti d'ambe le parti; dai medesimi essere anche proceduta la
moderazione raccomandata ai sudditi, anche in mezzo a tante cagioni di
sdegno, quando già i Francesi, rotta ogni barriera, avevano inondato le
terre della repubblica: per questo avere mandato sovente al supremo
comandante dei Francesi ragguardevoli cittadini, acciocchè il tenessero
bene edificato, e difendessero la repubblica presso a lui contro le
accuse, e le minacce continue de' suoi soldati. Qui, alteratasi dal
dolore la voce del serenissimo principe, fu da lui continuato a dirsi,
essere oramai giunto il fatale momento, in cui la Francia, cacciati con
replicate vittorie gli Austriaci dall'Italia, e costrettigli alla pace,
chiusi i porti del Mediterraneo agl'Inglesi per mezzo della pace con
Napoli, trionfato sul Reno, avendo per alleate la Olanda e la Spagna,
poteva senza risguardo alcuno, e senza diversione usare tutte le sue
forze contro i Veneziani: debole, ed umile nazione essere i Veneziani a
paragone di tante altre nazioni vinte, e soggiogate dalla Francia:
quando bene il profondo segreto, in cui si tenevano i preliminari di
Leoben, non desse giusta cagione di sospettare di qualche grande
calamità contro gli stati della repubblica, non potere lei ingannar se
stessa a segno di sperare potersi difendere o contro assalti vivi, o
contro lungo assedio; già stringersi per mare Venezia, già legni armati
Francesi correre l'Adriatico; invano credersi, le difese apprestate
nell'estuario, avutosi anche riguardo al sito naturale di Venezia,
quando ogni sussidio, ogni soccorso da ogni parte mancasse, potessero
durar lungo tempo contro un nemico tanto audace e tanto fortunato; una
resa inevitabile dover concludere un assedio lungo, e misto di mali
estremi per un popolo avvezzo ad abbondar di tutto. Tale essere la
condizione della repubblica, combattuta da un amico divenuto nemico dopo
tanta ospitalità usata verso di lui, appetita da un amico, per cui si
erano sofferte tante disgrazie, insidiata forse da cittadini perversi,
per cui il sovvertire era uso, piacere, massima, e speranza; essersi
abbattuta in un secolo, in cui l'innocenza è derisa, la fede non
creduta, i diritti nulla, la forza tutto; solo le stragi e le vittorie
aversi in onore; la virtù non attendersi, se non per contaminarla. Che
potere Venezia, a cui solo erano scudo l'innocenza e la virtù? Cedessero
adunque, cedessero, esortava, ad una necessità ineluttabile, e poichè
l'estremo dei tempi era giunto, in quell'estremo tempo pensassero, che
meglio era recidere qualche ramo, sebbene essenziale, che l'albero
tutto; che cosa di poco momento era una modificazione, purchè si
conservasse la repubblica; che bisognava a guisa di provvidi marinari
far getto di una parte del carico per salvar la nave. Gli pregava
pertanto, e scongiurava, per quanto avessero cara la patria, per quanto
avessero care le famiglie, per quelle mura stesse tanto magnifiche e
tanto dilette, per la nobile Venezia, per la salute di lei, per quanto
aveva in se di dolce, d'augusto, e di reverendo un'antica congiunzione
d'amore e d'interessi, udissero benignamente quello, che erano per
proporre alla sapienza loro i savi a fine di far abilità ai zelanti
legati eletti a trattare col supremo dispositore delle cose Francesi in
Italia, di qualche alterazione negli ordini fondamentali della
repubblica.
Queste compassionevoli parole del doge ingenerarono terrore, dolore, e
pianto negli ascoltanti. Favellava nella medesima sentenza Pietro
Antonio Bembo, che fu poi uno dei municipali eletti da Villetard. Posto
il partito, e raccolti i voti, fu appruovato con cinquecento novantotto
favorevoli, e ventuno contrari. Lodava il doge la virtù del maggior
consiglio, esortava ad aver costanza, a non disperare della repubblica,