Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III - 05
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toccava rimproverando i maneggi degl'insidiatori, mandati a posta per
sommuovere le province.
Era il dì diciasette aprile, secondo giorno di Pasqua del
millesettecentonovantasette, quando alle ore quattro meridiane scoppiava
ad un tratto la terribil sollevazione Veronese. Incominciava da insulti
e da minori fatti dai soldati Veneziani e dai Veronesi armati, contro le
guardie Francesi sparse in vari luoghi della città. Il comandante
Carrere, veduto quanto il tempo fosse minaccioso, ristringeva i suoi
sulla piazza d'armi, pronto a correre dove bisogna fosse. In cotal guisa
stava armato e raccolto lo spazio di un'ora, quando Balland fece trarre,
erano le cinque della sera, qual segno di guerra, cannonate dai
castelli. A quel rimbombo si conduceva spacciatamente Carrere con la sua
schiera nel Castel-Vecchio, contro il quale già combattevano i Veronesi
dalle case vicine. Il romore inaspettato delle artiglierìe Francesi diè
cagione di credere ai Veronesi già tanto infiammati, che fosse
intenzione di Balland di trattare ostilmente Verona. Nè s'ingannarono
punto; perchè poco dopo traeva furiosamente contro il palazzo pubblico,
che ne fu lacero e guasto in molte parti. Diroccarono al primo trarre le
creste del palazzo degli Scaligeri. Cambiavasi in un momento l'aspetto
della città; perchè vi sorgeva una rabbia, un gridare, un correre contro
i Francesi da non potersi raccontare degnamente con parole. Un suonare
di campana a martello continuo e precipitoso accresceva terrore alla
cosa. Dei Francesi, coloro che si trovavano più vicini ai castelli,
massime al Castel-Vecchio, in loro si ricoveravano a tutta fretta: ma
non fu senza pericolo, perchè rabbiosamente gli seguitava il popolo, che
gli voleva ammazzare, e bersagliandogli dalle finestre con palle, con
sassi, con ogni sorte d'armi faceva loro il ritirarsi difficile e
mortale. Il furore aveva preso non solo gli uomini ed i forti, ma ancora
i vecchi, le donne, i fanciulli, ognuno volendo ricompensare con un
sangue odiato le ingiurie ed i patimenti. Molti dei Francesi in tal modo
fuggenti restarono uccisi, plaudendo all'intorno il popolo inferocito.
Chi non potè ripararsi a tempo nei castelli, cercava salvezza nei più
segreti nascondigli delle case; ma non però tutte, anzi poche erano loro
sicure; perciocchè non pochi, rottasi dai padroni la ospitalità, vi
restarono miseramente uccisi. Alcuni furon gettati nei pozzi, altri
trafitti dai pugnali, altri risospinti fuori delle porte, perchè fossero
segno alla rabbia popolare, che tuttavia fra le grida orribili, fra il
rimbombo delle artiglierìe dei castelli, fra i tocchi incessanti pel
suonare a stormo andava crescendo. Molti amministratori dell'esercito,
molte donne, molti fanciulli, molti ammalati erano in Verona, e questi
furono, la maggior parte, condotti a miserabil morte da un popolo, che
pagava con eccessiva crudeltà contro gl'innocenti le ingiurie, le
ruberìe, le fraudi, i tradimenti usati da chi aveva contro di lui
contaminato il nome di Francia. Era spettacolo pieno di compassione e di
terrore il vedere malati languenti perseguitati da sicarj sanguinosi,
donne atterrite da donne furibonde. Noi vedemmo un portico, tutto lurido
e stillante ancora di sangue di Francesi ammaccati piuttosto che
trafitti da un immenso furore; noi vedemmo spoglie sanguinose tratte da
pozzi e da fogne; noi vedemmo miserabili vestimenta serbate a gloria dai
violenti trucidatori. Ma la pressa, le minacce, la crudeltà, che il
cielo serbi condegno castigo agli autori veri di tanto infinita
barbarie, erano intorno all'ospedal militare. Degli ammalati alcuni
furono uccisi, parecchi malconci e spogliati. Nè le preghiere, nè la
debolezza, nè l'aspetto medesimo della morte già vicina in un
ferocissimo morbo potevano piegare a misericordia questi uomini, nei
quali null'altra cosa d'uomo restava che il volto. Nè veniva meno la
crudeltà per la stanchezza, o per lo sfogo; che anzi sangue chiamava
sangue, e le forze, che mancano spesso al ben fare, non mancavano al mal
fare. Se per assenza di vittime pareva un poco acquetarsi il furore,
tosto si riaccendeva più fiero che prima, ove fosse scoperto un
Francese; e di nuovo si dava mano alle stragi. Non in meno pericolosa
condizione si ritrovavano i patriotti o Veronesi, o forestieri: che anzi
maggiore contro di loro si mostrava la rabbia del popolo, che con più
diligenza gli cercava, e quanti potè aver nelle mani, tanti uccise. Ma i
più si erano ricoverati nei castelli, altri conficcati nel nascondigli
passarono fra la speranza ed il timore parecchi giorni. Ma non tutto fu
barbarie in questo lagrimevole accidente. Non pochi Veronesi, ed il
conte Nogarola medesimo, quantunque fosse uno dei capi degl'insorti,
conservarono, nascondendogli, a molti Francesi la vita, atto tanto più
degno di commendazione quanto nel salvare la vita altrui correvano
pericolo della propria; perchè non è da dubitare, che se il popolo si
fosse accorto della pietà usata, avrebbe condotto all'ultima fine
preservatori e preservati. Spargevasi intanto per le campagne il grido
del caso di Verona: incominciavasi a toccar lo stormo; i villici
accorrevano a torme armate nella tormentata città; e se il vecchio
furore già languiva, l'accostamento del nuovo il rinfrescava. Le grida e
le stragi rincominciavano, nè cessarono le uccisioni, se non quando non
vi fu più uomo da uccidere. Mancata la materia dello ammazzare, si
veniva in sul saccheggiare. Già il ghetto, essendo gli ebrei, oltre
l'antico rancore, riputati partigiani di Francia, andava a ruba: già i
fondachi del pubblico pericolavano, e non fu poco, che i provveditori
potessero impedire, che coloro, i quali sì ferocemente combattevano per
Venezia, le sostanze pubbliche di Venezia non rubassero. Tanto
facilmente passano gli uomini infuriati dalle uccisioni ai latrocinj,
dai latrocinj alle uccisioni. Correva il sangue per le case, correva per
le contrade, i castelli tuonavano, gli Schiavoni infuriavano: anzi uniti
al popolo volevano dar l'assalto a quei nidi, come dicevano, dove si
erano confinati i tiranni d'Italia. Il maggior pericolo era pel
Castel-Vecchio: posto essendo vicino alla città, potevano i soldati ed
il popolo assaltarlo più facilmente; nè le sue difese erano forti,
poichè dava adito al castello un ponte chiuso solamente da un cancello
di ferro, e la porta di debol legno era anche priva di saracinesca.
Il provveditor Giovanelli, in mezzo a tanta confusione e tanti sdegni,
avrebbe voluto, non far deporre le armi, perchè nè la tempera degli
animi Veronesi, nè il trarre continuo dei castelli il permettevano, ma
frenare la barbarie, ed introdurre ordine e misura, là dov'era solamente
confusione e trascorso. Tanto si adoperava in questo lodevole pensiero,
che per poco il popolo non l'aveva per sospetto, e si proponeva,
posposta l'autorità di lui, di voler fare da se. Importava intanto
l'impadronirsi, per aprir l'adito agli aiuti esterni, delle porte, che
tuttavia si trovavano in possessione dei Francesi. Il maggior presidio
era in quella di San Zeno. Il conte Francesco degli Emilj, che
alloggiava nella terra di Castel-Nuovo con due pezzi di cannone,
seicento Schiavoni, duemilacinquecento contadini, e fronteggiava un
grosso corpo di Francesi e d'Italiani, affinchè non corressero contro
Verona, udito il pericolo della sua patria, correva subitamente in suo
aiuto, e dopo un sanguinoso conflitto, fatto prigioniero il presidio,
recava in sua potestà la porta di San Zeno, entrando con tutti i suoi,
il che dava nuovo animo ai cittadini. Facevano lo stesso della porta
Vescovo il capitano Caldogno, e di quella di San Giorgio il conte
Nogarola. Così gli abitatori del contado potevano entrare liberamente a
soccorrere Verona. Giunto il rinforzo del conte degli Emilj, assalivano
i Veronesi più fortemente i castelli, massimamente il vecchio, e più
fortemente dentro di loro si difendevano i Francesi, certi essendo, che
in tanta rabbia popolare, per cui già erano stati morti i non
combattenti, da quella difesa non solo dipendeva la possessione dei
luoghi, ma ancora la salute, e la vita loro.
Il maggior propugnacolo che avessero, era il castello montano di San
Felice. Per questo i Veronesi, principalmente contadini, avevano fatto
un grosso alloggiamento a Pescantina, luogo opportuno per recarsi a
battere quel castello; che anzi più oltre procedendo, avevano piantato
due cannoni in san Leonardo, donde, per essere il sito sopraeminente al
castello, continuamente il fulminavano. Dalla parte loro i Francesi
uscivano frequentemente a combattere fuori dei castelli. Seguivanne
stragi, incendj e ruine. Ardeva parte della città, perchè da castel San
Felice, Balland fulminava, anche con palle roventi; ardevano le vicine
ville intorno, e la tanto florida un tempo, ed ora infelice Verona,
pareva avvicinarsi ad un estremo sterminio. Intanto i villici, che tanto
più s'infierivano, quanto più largo sangue vedevano, non confidando
intieramente nei rimedj, che potessero fare da se medesimi, avevano di
volontà propria spedito corrieri al generale Austriaco Laudon, che, come
abbiam narrato, dopo le vittorie acquistate nel Tirolo, era sceso a
mettere a romore l'alto Bresciano, pregandolo, si calasse subitamente in
soccorso loro. Balland non ometteva di provveder all'avvenire,
conoscendo di quanta importanza fosse all'esercito il conservare in
potestà di Francia quell'alloggiamento. Però aveva dato avviso a Chabran
in Brescia, ed a Kilmaine in Mantova, pregandogli, mandassero
sollecitamente gente soccorritrice al presidio pericolante. Victor
medesimo era stato avvertito da Balland del pericolo. Anche da Bologna
s'accostava una schiera per istringere la città combattente. Giovanelli,
considerato il nembo che da ogni parte gli veniva addosso, quantunque
Erizzo fosse per arrivare con un rinforzo di genti Schiavone, di armi e
di munizioni, aveva aperto una pratica d'accordo con Balland, la quale
però non ebbe effetto, perchè il generale di Francia richiedeva, per
prima ed indispensabile condizione, che i villani deponessero le armi,
si riaprissero le strade alle comunicazioni dell'esercito, il presidio
Veneziano alle poche genti di prima si riducesse. Non erano alieni i
magistrati della repubblica dall'accettar queste condizioni; ma le turbe
di campagna, tuttavia infiammate, non volevano a patto nessuno udire,
che avessero a depor le armi: viemaggiormente s'infuriavano.
Nè erano senza frutto le esortazioni degli uomini di chiesa, che
rappresentavano, essere mescolata con la causa dello stato la causa
della religione. Rammentassero, dicevano, l'oppressione di Roma, gli
scherni di Milano, le abbominazioni di Parigi: osservassero con gli
occhi loro medesimi i preti fuorusciti di Francia, ridotti esuli e
poveri da gente incredula e sfrenata, per non aver voluto contaminare
con ispergiuri e con bestemmie la fede loro: questa medesima sfrenata ed
orribil gente volere adesso fondar l'imperio loro nell'incorrotta
Italia: per questo ingannare gli spiriti, per questo pervertire i cuori,
per questo subornare i magistrati, per questo tradire i governi, per
questo finalmente avere testè conculcato la dignità della sedia
apostolica, primo splendore d'Italia, e principalissimo fondamento della
religione: guardassero qual fosse il seguito dell'irreligiosa gente;
uomini malvagi aiutarla con gli spìamenti, con le parole, con le armi,
con le aderenze; uomini tutti nemici alla religione, perchè senza fede;
nemici alle buone costumanze, perchè senza buoni costumi; nemici ai
governi provvidi, perchè impazienti di ogni freno, che gli rattenga
nelle male passioni loro. Perciò, sclamavano, difendessero fino
coll'ultimo sangue, ove d'uopo fosse, la religione protettrice degli
oppressi, i governi protettori della religione, ed aspettassero per
opera sì pia la gloria del mondo caduco, i premj del mondo sempiterno.
Generavano questi discorsi effetti incredibili; il furore diveniva zelo,
che altro non è che un furore meno fugace. Stupivano massimamente, e
s'infiammavano le genti ad uno spettacolo maraviglioso, che sorse in
mezzo a quella tanto avviluppata tempesta, e questo fu di un frate
cappuccino, che predicava ogni giorno sulla piazza, stando attentissimo
il popolo affollato ad ascoltarlo. Non desumeva questo frate i suoi
argomenti da motivi di religione, ma piuttosto da quanto havvi nella
nazionale indipendenza di più dolce, di più nobile, di più generoso; e
sebbene le sue parole fossero principalmente dirette contro i Francesi,
erano non ostante generali, e chiamando, secondo l'uso antico, barbari
tutti i forestieri, predicava contro di loro guerra, cacciamento e
morte. Preso per testo l'antico adagio, _patientia laesa fit furor_:
«Italiani, diceva egli, di qualunque paese, di qualunque condizione, di
qualunque sesso voi siate, impugnate le armi: esse son pur quelle dei
Scipioni, dei Fabj, dei Camilli; esse son pur quelle degli Sforza, degli
Alviani, dei Castrucci: Italiani, impugnate le armi, impugnate le armi,
e non le deponete, finchè questi barbari, di qualunque favella essi
siano, non siano cacciati dalle dolci terre Italiane. Vedete lo strazio,
che fanno di voi? Vedete che il danno a lor non basta? Vedete, che non
son contenti, se non aggiungono lo scherno? I rubamenti non saziano
questa gente avara; questa gente superba vuole gl'improperj, ed il
vilipendio. Sonvi le querele imputate a delitto; evvi il silenzio
imputato a congiura: o che serviate, o che non serviate, vi apprestano
gl'insulti, o le mannaie, perchè il servire chiamano viltà, il resistere
ribellione. Vi accusano di armi nascoste; vi chiamano gente traditrice,
come se non fosse maggior viltà al più forte l'usare i fucili ed i
cannoni contro i deboli, che ai deboli l'usare contro il più forte gli
stili e le coltella! Adunque poichè di stili e di coltella vi
accagionano, e poichè un risguardo di Dio, protettore degli oppressi, e
l'insopportabile superbia loro vi hanno ora posto i fucili ed i cannoni
in mano, usategli, usategli, e pruovate, che anche gl'Italiani petti
sono forti contro i rimbombi, e le guerriere tempeste. Credete voi, che
siano costoro invulnerabili? Credete voi, che siano più valorosi di voi?
Per Dio, no, non abbiate sì falso pensiero: i valorosi non son perfidi,
ed opera di perfidia sono i fatti recenti. Non sotto spezie di amicizia
fu invasa Genova, insidiata Cavi, conculcato Livorno? Non sotto spezie
di amicizia furono da lor prese le Veneziane fortezze? Non da loro si
sommovono i popoli contro i governi, non da loro si usano i governi per
tiranneggiare i popoli? Ma che parlo? Ricordatevi di Brescia, di Bergamo
e di Crema fatte ribelli al loro signore dai tradimenti di costoro. Non
avete voi testè letto i manifesti nimichevoli contro di voi mandati da
quel Landrieux, primario insidiatore, sotto colore di amicizia, di
quelle misere città? Non vedete voi qui il pubblicato scritto di un
Lahoz, pagato da loro, perchè con mani Italiane versi sangue Italiano?
Non vi muoveste pure or ora a sdegno nel leggere il manifesto inventato
da loro, ed apposto al Battaglia, a quel Battaglia, che, Dio voglia, sia
tanto puro, quanto la causa è santa? Vero, disse il manifesto, e nessuno
il sa meglio che chi lo scrisse; ma vera ancora è l'infame fraude, non a
liberare gli oppressi diretta, ma a dar cagione agli oppressori di
tradire gli oppressi; caso veramente scelerato di sommuovere prima i
popoli, poi di tradirgli per dargli in mano ad insolite tirannidi. Non
ebbimo noi qui nell'innocente Verona i scelerati subornatori venuti per
prezzo da Lonato, da Desenzano, da Brescia? Non abbiamo noi qui capitani
vili, mandati espressamente da Buonaparte sotto pretesto di reggerla, a
contaminar Verona? Non è Buonaparte stesso, non solo nido, ma covo
d'infami fraudi? Vincitore insolente in palese, insidiatore scelerato in
segreto? Sono questi i valorosi, che abbiano a farvi tremare? Tolga Dio
questa credenza, che il valore è virtù, e la perfidia fa, non soldati
valorosi, ma satelliti codardi. Fumano al cospetto vostro le campagne
poc'anzi liete e dilettose della Brenta, ed ora consumate, ed arse dai
barbari. Sono bruttati i tempii, sono spogliate le case, è ogni opera
dell'Italiano ingegno, utile o magnifica, fatta preda di soldatesche
sfrenate. Adunque pei barbari travagliarono i Raffaelli, i Tiziani, i
Paoli? Adunque i Petrarca, gli Ariosti, i Tassi scrissero, perchè i
testi loro gissero in mano di coloro, che non gl'intendono? Adunque diè
il povero l'obolo suo alla Casa santa di Loreto, perchè uomini già fatti
ricchi da tanti rubamenti lo rapissero, ed in prezzo di meretrici, in
prezzo di corruzione contro gl'Italiani stessi il convertissero? Adunque
portò il povero per incorrotta fede nei monti di pietà il risparmiato
frutto di tante veglie, perchè fosse involato da chi non veglia, che nei
bagordi, nei giuochi, nelle fraudi? Ov'è l'Italia adesso? Il suo fiore è
perduto. Dove i costumi? Contaminati da fogge forestiere. Dove le armi?
Tradite pria, poscia disperse, o serve. Dove la lingua? Lordata da
parlari strani. Dove l'arte dello scrivere, già sì famosa al mondo, e
maestra di tanti? O tace, o adula, o imita. Scrittoruzzi da insegne,
scrittoruzzi da giornali, scrittoruzzi da libercoletti son venuti ad
insegnarci lo scrivere, ed il pensare! Oh, vergogna nostra sempiterna,
se con l'armi non vendichiamo il perduto pregio dell'ingegno! Piangono
le Pavesi madri, piangono le Veronesi madri i figli uccisi nelle
battaglie contro i tiranni; piangono le Italiane madri le figlie, prima
ingannate, poscia abbandonate dai vili seduttori, e si querelano indarno
del contaminato onore. E voi ve ne starete? E voi non brandirete le
armi? E voi non spenderete l'ultimo fiato per vendicare, per liberare
Italia da tanto strazio! La vittoria vostra è vittoria comune, perchè a
tutti puzza questo barbaro dominio, ed il primo messo apportatore delle
Veronesi battaglie farà muovere a redenzione tutti i popoli. Sdegnata è
Germania dell'oscurato valor militare, sdegnata Genova della perduta
indipendenza, sdegnata Roma dell'offesa religione, sdegnata Toscana
dell'oltraggiata amicizia, sdegnata Napoli dell'esser fatta stromento
alla servitù d'Italia. Tutti aspettano un valor primo, tutti domandano
una rizzata insegna; tutti agognan sorgere in aiuto della generosa
Verona. La mole intera dell'Italica libertà nelle mani vostre sta:
perchè molti combatteran contro pochi, virtuosi contro viziosi, oppressi
contro oppressori, nè mai vano riesce l'ardor della libertà. Vinti i
Francesi, qual altro barbaro s'ardirà d'affrontare la vincitrice Italia?
Tutti saran cacciati; il sole Italiano non splenderà più che su fronti
Italiane, l'aria non udirà più le ispide favelle; i solchi di questa
terra, tanto ferace madre, non produrran più per altri, che per noi i
dolci frutti loro; le spose intatte non daran più al mondo che forti,
che sinceri, che liberi Italiani. Fu già Venezia ricovero ai liberi
Italiani contro l'inondazione d'antichi barbari; fia Venezia nuova
occasione ai liberi Italiani di cacciare i barbari moderni. Il valore
libererà l'Italia, l'unione preserveralla, e già mi s'appresentano alla
rallegrata mente nuovi secoli per quest'antica madre del mondo. Ma io vi
veggio rossi di sangue! questo è sangue di barbari. Deh, fate voi, che
sia seme di libertà. Ite, correte, uccidete quest'uomini truculenti: il
sangue loro fia segno della salute nostra, nè mai senza sangue
s'acquista la libertà. Ha il sommo Iddio, quando ordinò l'universo,
voluto, o che i tiranni versassero il sangue degli oppressi, o che la
libertà versasse il sangue degli oppressori. Ite, e scegliete tra le
mannaie e gli sparsi fiori, tra la vita e la morte, tra la gloria, e
l'ignominia, tra l'indipendenza e la servitù, tra la libertà e la
tirannide. Il principe vostro, il cielo propizio, sorti fortunate,
l'amore, il furore, le donne, i padri, i figli, l'incominciate
battaglie, queste prime vittorie vi chiamano ad un'alta e non più udita
impresa; e poichè la rotta pazienza vi fe' correre all'armi, fate che
l'armi non siano impugnate indarno».
Queste parole dette, e replicate più volte, destavano negli animi già
tanto concitati degli ascoltanti uno sdegno incredibile. Provocavansi
gli uni gli altri; già i castelli stessi parevano debole ritegno al loro
furore. Mentre tanto disperatamente si combatteva in Verona, succedeva
in Venezia un caso pieno d'insolenza ad un tempo, e di crudele
risentimento, e che se non fu espressamente ordinato da Buonaparte, come
da alcuni fu scritto, servì però molto mirabilmente a' suoi disegni
contro l'innocente repubblica. Aveva il senato comandato, seguendo un
antichissimo instituto, ed a cagione dei romori presenti, che nissuna
nave forestiera, che fosse armata, potesse entrare nell'estuario; il
quale divieto era stato significato a tutti i ministri delle potenze
estere residenti in Venezia, ed il Francese ne aveva, come tutti gli
altri, avuto notizia. Eranvisi uniformati gl'Inglesi stessi, parendo a
tutti giusta e conveniente cosa, come era veramente, che non si dovesse
turbare con la presenza di armi forestiere la sede del governo. Ma ecco
la sera dei venti aprile, avvicinarsi al Lido di san Niccolò un legno
armato in forma di corsaro con intenzione evidente di entrar nel porto.
Si scoverse legno Francese condotto dal capitano Laugier. Domenico
Pizzamano, deputato alla custodia del Lido, gli mandava significando il
divieto del senato, e lo esortava a non rompere una legge sovrana, alla
quale l'Inghilterra medesima aveva obbedito. Il capitano o per insolenza
propria, o per comandamento altrui, non curando le esortazioni del
Pizzamano, e seguitando il suo cammino, sforzava la bocca del porto, e
vi poneva l'ancora con violazione manifesta di una legge Veneziana in
Venezia. Mentre passava per la bocca, traeva di nove colpi di cannone, i
Veneziani narrano, per ingaggiar battaglia, il che non è nè vero, nè
verisimile, ma bensì per salutare, secondo gli usi di mare, la bandiera
Veneziana, pensiero veramente strano del volere con pubblica
dimostrazione rendere onore ad una potenza nel momento stesso, in cui
sotto gli occhi del suo principe la sua sovranità si oltraggiava, ed una
sua principalissima legge apertamente si violava. Il tiro dei cannoni
Francesi, giunto alla violenta entrata nel porto, diè motivo di credere
al comandante Veneziano, che si covasse qualche macchinazione o dentro o
fuori. Perlocchè, allestiti ancor esso i suoi cannoni, traeva, rendendo
fuoco per fuoco, contro il legno Francese. Insino a questo punto il
torto essere stato dal canto del capitano Francese sarà confessato da
tutti, eccettuato da quelli che credono, che i forestieri debbono esser
padroni in casa altrui; e se i Veneziani fossero stati contenti
all'arrestar il legno, e ad obbligarlo, senza fargli altro danno, ad
uscir dal porto, nissun diritto uomo è, cred'io, che non fosse per
istimare la condotta loro, non solo non biasimevole, ma ancora lodevole
e necessaria. Ma le cose non si rimasero a queste prime dimostrazioni,
nè poteva essere, ch'elleno più oltre non procedessero a cagione
degl'incredibili sdegni, che allora passavano tra una nazione e l'altra;
imperciocchè trovatosi Laugier tra legni di Schiavoni, gente avversa al
nome di Francia, e devota a Venezia, giunto il trarre nimichevole tra il
legno ed il forte Sant'Andrea, assaltavano con grandissima forza, e con
arma bianca la nave del capitano Francese, nella quale sfogando troppo
più che all'umanità si converrebbe, l'odio loro, commettevano atti di
un'estrema ferocia. Morirono in questa sanguinosa avvisaglia cinque
Francesi, fra i quali il capitano medesimo. Otto restarono feriti; che
anzi, se gli uffiziali degli Schiavoni non avessero frenato il furore
dei soldati loro, i marinari del legno sarebbero stati fino all'estremo
uccisi. Il legno divenne preda degli assalitori. Lodava il senato con
pubblico decreto Pizzamano, e gli uffiziali; largiva di un caposoldo i
gregari; mandava un sunto del fatto ai legati Donato, e Giustiniani,
acciocchè il rappresentassero a Buonaparte, temendo, non senza cagione,
che da altri gli fosse annunziato con esagerati rapportamenti. Il
ministro di Francia, mostrandosi sdegnato, ricercava il senato, che
carcerasse Pizzamano, arrestasse i complici, restituisse gli arnesi,
risarcisse il legno. Restituissi, risarcissi; delle carcerazioni si
soprassedè sino alla risposta di Buonaparte.
Terrore era in Venezia, e terrore in Verona. Le cose in quest'ultima si
avvicinavano da un funesto mezzo ad una funesta conclusione.
Combattevano tuttavìa i Veronesi col medesimo ardore; ma appunto perchè
quest'ardore era estremo, si doveva temere, che non tardasse a
raffreddarsi. Già i Francesi ingrossavano tutto all'intorno. S'accostava
Kilmaine venuto da Mantova, Chabran compariva sotto le mura verso la
porta di San Zeno, le prime squadre di Victor arrivavano in luogo, donde
presto potevano cooperare alla vittoria. La tregua di Judenburgo
toglieva ogni speranza di Laudon. Si risolvevano adunque i provveditori
a venire a parlamento, prima con Balland per mezzo del colonnello
Beaupoil: ma la pratica non ebbe perfezione, perchè il popolo non volle
udire che avesse a depor le armi, e non fossero esclusi i Francesi dai
castelli; poi con Chabran, col quale andava ad abboccarsi fuori della
porta San Zeno il provveditore Giovanelli. Erano col primo il generale
Chevalier, e Landrieux, col secondo il conte degli Emilj, il conte
Giusti, ed un Merighi, personaggio molto amato dai San Zenati.
Pervenivano intanto le novelle, che Lahoz con una banda di due mila
soldati tra Italiani e Polacchi al soldo della repubblica Cisalpina,
aveva tra Peschiera e Verona conseguito una vittoria contro le leve
campagnuole di quel distretto.
Fu l'abboccamento pieno di risentimento da ambe le parti. Rimproverava
Chabran a Giovanelli i villani armati per disegno espresso del governo
Veneto contro i Francesi, quando stavano a fronte di un nemico potente;
che per questo era stato costretto Buonaparte a fare la tregua, che i
Veneziani se ne pentirebbero. Aggiungeva Landrieux, e qui lascio che il
lettore pensi da se, che i rei disegni del senato contro i Francesi
erano pruovati dal manifesto di Battaglia. Rispondeva Giovanelli
allegando l'amicizia de' Veneziani dimostrata a tante pruove; solo
essersi armati i sudditi per amore verso il principe, e per opporsi ai
ribelli apertamente incitati, e protetti dai Francesi; l'intervenzione
dei Francesi in tutti questi moti viemaggiormente dimostrarsi da ciò,
che i turbatori della pace pubblica si ricoveravano in casa del generale
Balland, come in luogo di sicurezza; quando la città era quieta, avere
contro di lei tratto, prima a polvere, poscia a palla i castelli; per
questo aver voluto i Veronesi difendere le sedi loro, e vendicare il
loro principe in tale violenta guisa oltraggiato. Passavano dai
risentimenti ai negoziati; non si trovava modo di concordia. Chabran
sdegnato minacciava, che entrerebbe per forza, arderebbe, e
saccheggerebbe Verona. Già s'impadroniva di San Leonardo, con che
assicurava il castello San Felice: già batteva fortemente la porta di
San Zeno, dove solo il fosso il separava dal corpo della piazza.
Instavano al tempo medesimo i castelli contro la porta di San Giorgio; e
dal Castel-Vecchio uscivano spesso i Francesi con gran terrore e ruina
dei cittadini. Kilmaine si approssimava da Mantova, sbaragliando le
turbe armate, che gli contrastavano il passo. Già il romore della
Victoriana schiera ormai vicina si udiva nella desolata città. I primi
corridori di Lahoz si facevano vedere alle porte esteriori del
Castel-Vecchio, e niuna cosa poteva impedire che vi entrassero.
Ebbersi in quel momento le novelle dei preliminari di pace; il quale
accidente faceva abilità a Buonaparte di correre con tutto il suo
esercito contro lo stato Veneziano. Accresceva il terrore la sconfitta
delle genti stanziali governate dal Maffei, e che poste alla Croce
Bianca, ed a San Massimo vietavano da quella parte il passo al nemico.
Da tutto questo si vedeva, che era già vinta Verona, quando ancora
combatteva. Perlochè i provveditori pensarono ad accordarsi ad ogni
modo. Convenivasi delle seguenti condizioni: deponessero i villani le
armi, e sgombrassero da Verona; i Francesi la occupassero; tutte le armi
e munizioni si dessero in mano loro: fossero consegnati in castello,
come ostaggi per la sicurtà dei patti, Giovanelli, Erizzo, Giuliari,
sommuovere le province.
Era il dì diciasette aprile, secondo giorno di Pasqua del
millesettecentonovantasette, quando alle ore quattro meridiane scoppiava
ad un tratto la terribil sollevazione Veronese. Incominciava da insulti
e da minori fatti dai soldati Veneziani e dai Veronesi armati, contro le
guardie Francesi sparse in vari luoghi della città. Il comandante
Carrere, veduto quanto il tempo fosse minaccioso, ristringeva i suoi
sulla piazza d'armi, pronto a correre dove bisogna fosse. In cotal guisa
stava armato e raccolto lo spazio di un'ora, quando Balland fece trarre,
erano le cinque della sera, qual segno di guerra, cannonate dai
castelli. A quel rimbombo si conduceva spacciatamente Carrere con la sua
schiera nel Castel-Vecchio, contro il quale già combattevano i Veronesi
dalle case vicine. Il romore inaspettato delle artiglierìe Francesi diè
cagione di credere ai Veronesi già tanto infiammati, che fosse
intenzione di Balland di trattare ostilmente Verona. Nè s'ingannarono
punto; perchè poco dopo traeva furiosamente contro il palazzo pubblico,
che ne fu lacero e guasto in molte parti. Diroccarono al primo trarre le
creste del palazzo degli Scaligeri. Cambiavasi in un momento l'aspetto
della città; perchè vi sorgeva una rabbia, un gridare, un correre contro
i Francesi da non potersi raccontare degnamente con parole. Un suonare
di campana a martello continuo e precipitoso accresceva terrore alla
cosa. Dei Francesi, coloro che si trovavano più vicini ai castelli,
massime al Castel-Vecchio, in loro si ricoveravano a tutta fretta: ma
non fu senza pericolo, perchè rabbiosamente gli seguitava il popolo, che
gli voleva ammazzare, e bersagliandogli dalle finestre con palle, con
sassi, con ogni sorte d'armi faceva loro il ritirarsi difficile e
mortale. Il furore aveva preso non solo gli uomini ed i forti, ma ancora
i vecchi, le donne, i fanciulli, ognuno volendo ricompensare con un
sangue odiato le ingiurie ed i patimenti. Molti dei Francesi in tal modo
fuggenti restarono uccisi, plaudendo all'intorno il popolo inferocito.
Chi non potè ripararsi a tempo nei castelli, cercava salvezza nei più
segreti nascondigli delle case; ma non però tutte, anzi poche erano loro
sicure; perciocchè non pochi, rottasi dai padroni la ospitalità, vi
restarono miseramente uccisi. Alcuni furon gettati nei pozzi, altri
trafitti dai pugnali, altri risospinti fuori delle porte, perchè fossero
segno alla rabbia popolare, che tuttavia fra le grida orribili, fra il
rimbombo delle artiglierìe dei castelli, fra i tocchi incessanti pel
suonare a stormo andava crescendo. Molti amministratori dell'esercito,
molte donne, molti fanciulli, molti ammalati erano in Verona, e questi
furono, la maggior parte, condotti a miserabil morte da un popolo, che
pagava con eccessiva crudeltà contro gl'innocenti le ingiurie, le
ruberìe, le fraudi, i tradimenti usati da chi aveva contro di lui
contaminato il nome di Francia. Era spettacolo pieno di compassione e di
terrore il vedere malati languenti perseguitati da sicarj sanguinosi,
donne atterrite da donne furibonde. Noi vedemmo un portico, tutto lurido
e stillante ancora di sangue di Francesi ammaccati piuttosto che
trafitti da un immenso furore; noi vedemmo spoglie sanguinose tratte da
pozzi e da fogne; noi vedemmo miserabili vestimenta serbate a gloria dai
violenti trucidatori. Ma la pressa, le minacce, la crudeltà, che il
cielo serbi condegno castigo agli autori veri di tanto infinita
barbarie, erano intorno all'ospedal militare. Degli ammalati alcuni
furono uccisi, parecchi malconci e spogliati. Nè le preghiere, nè la
debolezza, nè l'aspetto medesimo della morte già vicina in un
ferocissimo morbo potevano piegare a misericordia questi uomini, nei
quali null'altra cosa d'uomo restava che il volto. Nè veniva meno la
crudeltà per la stanchezza, o per lo sfogo; che anzi sangue chiamava
sangue, e le forze, che mancano spesso al ben fare, non mancavano al mal
fare. Se per assenza di vittime pareva un poco acquetarsi il furore,
tosto si riaccendeva più fiero che prima, ove fosse scoperto un
Francese; e di nuovo si dava mano alle stragi. Non in meno pericolosa
condizione si ritrovavano i patriotti o Veronesi, o forestieri: che anzi
maggiore contro di loro si mostrava la rabbia del popolo, che con più
diligenza gli cercava, e quanti potè aver nelle mani, tanti uccise. Ma i
più si erano ricoverati nei castelli, altri conficcati nel nascondigli
passarono fra la speranza ed il timore parecchi giorni. Ma non tutto fu
barbarie in questo lagrimevole accidente. Non pochi Veronesi, ed il
conte Nogarola medesimo, quantunque fosse uno dei capi degl'insorti,
conservarono, nascondendogli, a molti Francesi la vita, atto tanto più
degno di commendazione quanto nel salvare la vita altrui correvano
pericolo della propria; perchè non è da dubitare, che se il popolo si
fosse accorto della pietà usata, avrebbe condotto all'ultima fine
preservatori e preservati. Spargevasi intanto per le campagne il grido
del caso di Verona: incominciavasi a toccar lo stormo; i villici
accorrevano a torme armate nella tormentata città; e se il vecchio
furore già languiva, l'accostamento del nuovo il rinfrescava. Le grida e
le stragi rincominciavano, nè cessarono le uccisioni, se non quando non
vi fu più uomo da uccidere. Mancata la materia dello ammazzare, si
veniva in sul saccheggiare. Già il ghetto, essendo gli ebrei, oltre
l'antico rancore, riputati partigiani di Francia, andava a ruba: già i
fondachi del pubblico pericolavano, e non fu poco, che i provveditori
potessero impedire, che coloro, i quali sì ferocemente combattevano per
Venezia, le sostanze pubbliche di Venezia non rubassero. Tanto
facilmente passano gli uomini infuriati dalle uccisioni ai latrocinj,
dai latrocinj alle uccisioni. Correva il sangue per le case, correva per
le contrade, i castelli tuonavano, gli Schiavoni infuriavano: anzi uniti
al popolo volevano dar l'assalto a quei nidi, come dicevano, dove si
erano confinati i tiranni d'Italia. Il maggior pericolo era pel
Castel-Vecchio: posto essendo vicino alla città, potevano i soldati ed
il popolo assaltarlo più facilmente; nè le sue difese erano forti,
poichè dava adito al castello un ponte chiuso solamente da un cancello
di ferro, e la porta di debol legno era anche priva di saracinesca.
Il provveditor Giovanelli, in mezzo a tanta confusione e tanti sdegni,
avrebbe voluto, non far deporre le armi, perchè nè la tempera degli
animi Veronesi, nè il trarre continuo dei castelli il permettevano, ma
frenare la barbarie, ed introdurre ordine e misura, là dov'era solamente
confusione e trascorso. Tanto si adoperava in questo lodevole pensiero,
che per poco il popolo non l'aveva per sospetto, e si proponeva,
posposta l'autorità di lui, di voler fare da se. Importava intanto
l'impadronirsi, per aprir l'adito agli aiuti esterni, delle porte, che
tuttavia si trovavano in possessione dei Francesi. Il maggior presidio
era in quella di San Zeno. Il conte Francesco degli Emilj, che
alloggiava nella terra di Castel-Nuovo con due pezzi di cannone,
seicento Schiavoni, duemilacinquecento contadini, e fronteggiava un
grosso corpo di Francesi e d'Italiani, affinchè non corressero contro
Verona, udito il pericolo della sua patria, correva subitamente in suo
aiuto, e dopo un sanguinoso conflitto, fatto prigioniero il presidio,
recava in sua potestà la porta di San Zeno, entrando con tutti i suoi,
il che dava nuovo animo ai cittadini. Facevano lo stesso della porta
Vescovo il capitano Caldogno, e di quella di San Giorgio il conte
Nogarola. Così gli abitatori del contado potevano entrare liberamente a
soccorrere Verona. Giunto il rinforzo del conte degli Emilj, assalivano
i Veronesi più fortemente i castelli, massimamente il vecchio, e più
fortemente dentro di loro si difendevano i Francesi, certi essendo, che
in tanta rabbia popolare, per cui già erano stati morti i non
combattenti, da quella difesa non solo dipendeva la possessione dei
luoghi, ma ancora la salute, e la vita loro.
Il maggior propugnacolo che avessero, era il castello montano di San
Felice. Per questo i Veronesi, principalmente contadini, avevano fatto
un grosso alloggiamento a Pescantina, luogo opportuno per recarsi a
battere quel castello; che anzi più oltre procedendo, avevano piantato
due cannoni in san Leonardo, donde, per essere il sito sopraeminente al
castello, continuamente il fulminavano. Dalla parte loro i Francesi
uscivano frequentemente a combattere fuori dei castelli. Seguivanne
stragi, incendj e ruine. Ardeva parte della città, perchè da castel San
Felice, Balland fulminava, anche con palle roventi; ardevano le vicine
ville intorno, e la tanto florida un tempo, ed ora infelice Verona,
pareva avvicinarsi ad un estremo sterminio. Intanto i villici, che tanto
più s'infierivano, quanto più largo sangue vedevano, non confidando
intieramente nei rimedj, che potessero fare da se medesimi, avevano di
volontà propria spedito corrieri al generale Austriaco Laudon, che, come
abbiam narrato, dopo le vittorie acquistate nel Tirolo, era sceso a
mettere a romore l'alto Bresciano, pregandolo, si calasse subitamente in
soccorso loro. Balland non ometteva di provveder all'avvenire,
conoscendo di quanta importanza fosse all'esercito il conservare in
potestà di Francia quell'alloggiamento. Però aveva dato avviso a Chabran
in Brescia, ed a Kilmaine in Mantova, pregandogli, mandassero
sollecitamente gente soccorritrice al presidio pericolante. Victor
medesimo era stato avvertito da Balland del pericolo. Anche da Bologna
s'accostava una schiera per istringere la città combattente. Giovanelli,
considerato il nembo che da ogni parte gli veniva addosso, quantunque
Erizzo fosse per arrivare con un rinforzo di genti Schiavone, di armi e
di munizioni, aveva aperto una pratica d'accordo con Balland, la quale
però non ebbe effetto, perchè il generale di Francia richiedeva, per
prima ed indispensabile condizione, che i villani deponessero le armi,
si riaprissero le strade alle comunicazioni dell'esercito, il presidio
Veneziano alle poche genti di prima si riducesse. Non erano alieni i
magistrati della repubblica dall'accettar queste condizioni; ma le turbe
di campagna, tuttavia infiammate, non volevano a patto nessuno udire,
che avessero a depor le armi: viemaggiormente s'infuriavano.
Nè erano senza frutto le esortazioni degli uomini di chiesa, che
rappresentavano, essere mescolata con la causa dello stato la causa
della religione. Rammentassero, dicevano, l'oppressione di Roma, gli
scherni di Milano, le abbominazioni di Parigi: osservassero con gli
occhi loro medesimi i preti fuorusciti di Francia, ridotti esuli e
poveri da gente incredula e sfrenata, per non aver voluto contaminare
con ispergiuri e con bestemmie la fede loro: questa medesima sfrenata ed
orribil gente volere adesso fondar l'imperio loro nell'incorrotta
Italia: per questo ingannare gli spiriti, per questo pervertire i cuori,
per questo subornare i magistrati, per questo tradire i governi, per
questo finalmente avere testè conculcato la dignità della sedia
apostolica, primo splendore d'Italia, e principalissimo fondamento della
religione: guardassero qual fosse il seguito dell'irreligiosa gente;
uomini malvagi aiutarla con gli spìamenti, con le parole, con le armi,
con le aderenze; uomini tutti nemici alla religione, perchè senza fede;
nemici alle buone costumanze, perchè senza buoni costumi; nemici ai
governi provvidi, perchè impazienti di ogni freno, che gli rattenga
nelle male passioni loro. Perciò, sclamavano, difendessero fino
coll'ultimo sangue, ove d'uopo fosse, la religione protettrice degli
oppressi, i governi protettori della religione, ed aspettassero per
opera sì pia la gloria del mondo caduco, i premj del mondo sempiterno.
Generavano questi discorsi effetti incredibili; il furore diveniva zelo,
che altro non è che un furore meno fugace. Stupivano massimamente, e
s'infiammavano le genti ad uno spettacolo maraviglioso, che sorse in
mezzo a quella tanto avviluppata tempesta, e questo fu di un frate
cappuccino, che predicava ogni giorno sulla piazza, stando attentissimo
il popolo affollato ad ascoltarlo. Non desumeva questo frate i suoi
argomenti da motivi di religione, ma piuttosto da quanto havvi nella
nazionale indipendenza di più dolce, di più nobile, di più generoso; e
sebbene le sue parole fossero principalmente dirette contro i Francesi,
erano non ostante generali, e chiamando, secondo l'uso antico, barbari
tutti i forestieri, predicava contro di loro guerra, cacciamento e
morte. Preso per testo l'antico adagio, _patientia laesa fit furor_:
«Italiani, diceva egli, di qualunque paese, di qualunque condizione, di
qualunque sesso voi siate, impugnate le armi: esse son pur quelle dei
Scipioni, dei Fabj, dei Camilli; esse son pur quelle degli Sforza, degli
Alviani, dei Castrucci: Italiani, impugnate le armi, impugnate le armi,
e non le deponete, finchè questi barbari, di qualunque favella essi
siano, non siano cacciati dalle dolci terre Italiane. Vedete lo strazio,
che fanno di voi? Vedete che il danno a lor non basta? Vedete, che non
son contenti, se non aggiungono lo scherno? I rubamenti non saziano
questa gente avara; questa gente superba vuole gl'improperj, ed il
vilipendio. Sonvi le querele imputate a delitto; evvi il silenzio
imputato a congiura: o che serviate, o che non serviate, vi apprestano
gl'insulti, o le mannaie, perchè il servire chiamano viltà, il resistere
ribellione. Vi accusano di armi nascoste; vi chiamano gente traditrice,
come se non fosse maggior viltà al più forte l'usare i fucili ed i
cannoni contro i deboli, che ai deboli l'usare contro il più forte gli
stili e le coltella! Adunque poichè di stili e di coltella vi
accagionano, e poichè un risguardo di Dio, protettore degli oppressi, e
l'insopportabile superbia loro vi hanno ora posto i fucili ed i cannoni
in mano, usategli, usategli, e pruovate, che anche gl'Italiani petti
sono forti contro i rimbombi, e le guerriere tempeste. Credete voi, che
siano costoro invulnerabili? Credete voi, che siano più valorosi di voi?
Per Dio, no, non abbiate sì falso pensiero: i valorosi non son perfidi,
ed opera di perfidia sono i fatti recenti. Non sotto spezie di amicizia
fu invasa Genova, insidiata Cavi, conculcato Livorno? Non sotto spezie
di amicizia furono da lor prese le Veneziane fortezze? Non da loro si
sommovono i popoli contro i governi, non da loro si usano i governi per
tiranneggiare i popoli? Ma che parlo? Ricordatevi di Brescia, di Bergamo
e di Crema fatte ribelli al loro signore dai tradimenti di costoro. Non
avete voi testè letto i manifesti nimichevoli contro di voi mandati da
quel Landrieux, primario insidiatore, sotto colore di amicizia, di
quelle misere città? Non vedete voi qui il pubblicato scritto di un
Lahoz, pagato da loro, perchè con mani Italiane versi sangue Italiano?
Non vi muoveste pure or ora a sdegno nel leggere il manifesto inventato
da loro, ed apposto al Battaglia, a quel Battaglia, che, Dio voglia, sia
tanto puro, quanto la causa è santa? Vero, disse il manifesto, e nessuno
il sa meglio che chi lo scrisse; ma vera ancora è l'infame fraude, non a
liberare gli oppressi diretta, ma a dar cagione agli oppressori di
tradire gli oppressi; caso veramente scelerato di sommuovere prima i
popoli, poi di tradirgli per dargli in mano ad insolite tirannidi. Non
ebbimo noi qui nell'innocente Verona i scelerati subornatori venuti per
prezzo da Lonato, da Desenzano, da Brescia? Non abbiamo noi qui capitani
vili, mandati espressamente da Buonaparte sotto pretesto di reggerla, a
contaminar Verona? Non è Buonaparte stesso, non solo nido, ma covo
d'infami fraudi? Vincitore insolente in palese, insidiatore scelerato in
segreto? Sono questi i valorosi, che abbiano a farvi tremare? Tolga Dio
questa credenza, che il valore è virtù, e la perfidia fa, non soldati
valorosi, ma satelliti codardi. Fumano al cospetto vostro le campagne
poc'anzi liete e dilettose della Brenta, ed ora consumate, ed arse dai
barbari. Sono bruttati i tempii, sono spogliate le case, è ogni opera
dell'Italiano ingegno, utile o magnifica, fatta preda di soldatesche
sfrenate. Adunque pei barbari travagliarono i Raffaelli, i Tiziani, i
Paoli? Adunque i Petrarca, gli Ariosti, i Tassi scrissero, perchè i
testi loro gissero in mano di coloro, che non gl'intendono? Adunque diè
il povero l'obolo suo alla Casa santa di Loreto, perchè uomini già fatti
ricchi da tanti rubamenti lo rapissero, ed in prezzo di meretrici, in
prezzo di corruzione contro gl'Italiani stessi il convertissero? Adunque
portò il povero per incorrotta fede nei monti di pietà il risparmiato
frutto di tante veglie, perchè fosse involato da chi non veglia, che nei
bagordi, nei giuochi, nelle fraudi? Ov'è l'Italia adesso? Il suo fiore è
perduto. Dove i costumi? Contaminati da fogge forestiere. Dove le armi?
Tradite pria, poscia disperse, o serve. Dove la lingua? Lordata da
parlari strani. Dove l'arte dello scrivere, già sì famosa al mondo, e
maestra di tanti? O tace, o adula, o imita. Scrittoruzzi da insegne,
scrittoruzzi da giornali, scrittoruzzi da libercoletti son venuti ad
insegnarci lo scrivere, ed il pensare! Oh, vergogna nostra sempiterna,
se con l'armi non vendichiamo il perduto pregio dell'ingegno! Piangono
le Pavesi madri, piangono le Veronesi madri i figli uccisi nelle
battaglie contro i tiranni; piangono le Italiane madri le figlie, prima
ingannate, poscia abbandonate dai vili seduttori, e si querelano indarno
del contaminato onore. E voi ve ne starete? E voi non brandirete le
armi? E voi non spenderete l'ultimo fiato per vendicare, per liberare
Italia da tanto strazio! La vittoria vostra è vittoria comune, perchè a
tutti puzza questo barbaro dominio, ed il primo messo apportatore delle
Veronesi battaglie farà muovere a redenzione tutti i popoli. Sdegnata è
Germania dell'oscurato valor militare, sdegnata Genova della perduta
indipendenza, sdegnata Roma dell'offesa religione, sdegnata Toscana
dell'oltraggiata amicizia, sdegnata Napoli dell'esser fatta stromento
alla servitù d'Italia. Tutti aspettano un valor primo, tutti domandano
una rizzata insegna; tutti agognan sorgere in aiuto della generosa
Verona. La mole intera dell'Italica libertà nelle mani vostre sta:
perchè molti combatteran contro pochi, virtuosi contro viziosi, oppressi
contro oppressori, nè mai vano riesce l'ardor della libertà. Vinti i
Francesi, qual altro barbaro s'ardirà d'affrontare la vincitrice Italia?
Tutti saran cacciati; il sole Italiano non splenderà più che su fronti
Italiane, l'aria non udirà più le ispide favelle; i solchi di questa
terra, tanto ferace madre, non produrran più per altri, che per noi i
dolci frutti loro; le spose intatte non daran più al mondo che forti,
che sinceri, che liberi Italiani. Fu già Venezia ricovero ai liberi
Italiani contro l'inondazione d'antichi barbari; fia Venezia nuova
occasione ai liberi Italiani di cacciare i barbari moderni. Il valore
libererà l'Italia, l'unione preserveralla, e già mi s'appresentano alla
rallegrata mente nuovi secoli per quest'antica madre del mondo. Ma io vi
veggio rossi di sangue! questo è sangue di barbari. Deh, fate voi, che
sia seme di libertà. Ite, correte, uccidete quest'uomini truculenti: il
sangue loro fia segno della salute nostra, nè mai senza sangue
s'acquista la libertà. Ha il sommo Iddio, quando ordinò l'universo,
voluto, o che i tiranni versassero il sangue degli oppressi, o che la
libertà versasse il sangue degli oppressori. Ite, e scegliete tra le
mannaie e gli sparsi fiori, tra la vita e la morte, tra la gloria, e
l'ignominia, tra l'indipendenza e la servitù, tra la libertà e la
tirannide. Il principe vostro, il cielo propizio, sorti fortunate,
l'amore, il furore, le donne, i padri, i figli, l'incominciate
battaglie, queste prime vittorie vi chiamano ad un'alta e non più udita
impresa; e poichè la rotta pazienza vi fe' correre all'armi, fate che
l'armi non siano impugnate indarno».
Queste parole dette, e replicate più volte, destavano negli animi già
tanto concitati degli ascoltanti uno sdegno incredibile. Provocavansi
gli uni gli altri; già i castelli stessi parevano debole ritegno al loro
furore. Mentre tanto disperatamente si combatteva in Verona, succedeva
in Venezia un caso pieno d'insolenza ad un tempo, e di crudele
risentimento, e che se non fu espressamente ordinato da Buonaparte, come
da alcuni fu scritto, servì però molto mirabilmente a' suoi disegni
contro l'innocente repubblica. Aveva il senato comandato, seguendo un
antichissimo instituto, ed a cagione dei romori presenti, che nissuna
nave forestiera, che fosse armata, potesse entrare nell'estuario; il
quale divieto era stato significato a tutti i ministri delle potenze
estere residenti in Venezia, ed il Francese ne aveva, come tutti gli
altri, avuto notizia. Eranvisi uniformati gl'Inglesi stessi, parendo a
tutti giusta e conveniente cosa, come era veramente, che non si dovesse
turbare con la presenza di armi forestiere la sede del governo. Ma ecco
la sera dei venti aprile, avvicinarsi al Lido di san Niccolò un legno
armato in forma di corsaro con intenzione evidente di entrar nel porto.
Si scoverse legno Francese condotto dal capitano Laugier. Domenico
Pizzamano, deputato alla custodia del Lido, gli mandava significando il
divieto del senato, e lo esortava a non rompere una legge sovrana, alla
quale l'Inghilterra medesima aveva obbedito. Il capitano o per insolenza
propria, o per comandamento altrui, non curando le esortazioni del
Pizzamano, e seguitando il suo cammino, sforzava la bocca del porto, e
vi poneva l'ancora con violazione manifesta di una legge Veneziana in
Venezia. Mentre passava per la bocca, traeva di nove colpi di cannone, i
Veneziani narrano, per ingaggiar battaglia, il che non è nè vero, nè
verisimile, ma bensì per salutare, secondo gli usi di mare, la bandiera
Veneziana, pensiero veramente strano del volere con pubblica
dimostrazione rendere onore ad una potenza nel momento stesso, in cui
sotto gli occhi del suo principe la sua sovranità si oltraggiava, ed una
sua principalissima legge apertamente si violava. Il tiro dei cannoni
Francesi, giunto alla violenta entrata nel porto, diè motivo di credere
al comandante Veneziano, che si covasse qualche macchinazione o dentro o
fuori. Perlocchè, allestiti ancor esso i suoi cannoni, traeva, rendendo
fuoco per fuoco, contro il legno Francese. Insino a questo punto il
torto essere stato dal canto del capitano Francese sarà confessato da
tutti, eccettuato da quelli che credono, che i forestieri debbono esser
padroni in casa altrui; e se i Veneziani fossero stati contenti
all'arrestar il legno, e ad obbligarlo, senza fargli altro danno, ad
uscir dal porto, nissun diritto uomo è, cred'io, che non fosse per
istimare la condotta loro, non solo non biasimevole, ma ancora lodevole
e necessaria. Ma le cose non si rimasero a queste prime dimostrazioni,
nè poteva essere, ch'elleno più oltre non procedessero a cagione
degl'incredibili sdegni, che allora passavano tra una nazione e l'altra;
imperciocchè trovatosi Laugier tra legni di Schiavoni, gente avversa al
nome di Francia, e devota a Venezia, giunto il trarre nimichevole tra il
legno ed il forte Sant'Andrea, assaltavano con grandissima forza, e con
arma bianca la nave del capitano Francese, nella quale sfogando troppo
più che all'umanità si converrebbe, l'odio loro, commettevano atti di
un'estrema ferocia. Morirono in questa sanguinosa avvisaglia cinque
Francesi, fra i quali il capitano medesimo. Otto restarono feriti; che
anzi, se gli uffiziali degli Schiavoni non avessero frenato il furore
dei soldati loro, i marinari del legno sarebbero stati fino all'estremo
uccisi. Il legno divenne preda degli assalitori. Lodava il senato con
pubblico decreto Pizzamano, e gli uffiziali; largiva di un caposoldo i
gregari; mandava un sunto del fatto ai legati Donato, e Giustiniani,
acciocchè il rappresentassero a Buonaparte, temendo, non senza cagione,
che da altri gli fosse annunziato con esagerati rapportamenti. Il
ministro di Francia, mostrandosi sdegnato, ricercava il senato, che
carcerasse Pizzamano, arrestasse i complici, restituisse gli arnesi,
risarcisse il legno. Restituissi, risarcissi; delle carcerazioni si
soprassedè sino alla risposta di Buonaparte.
Terrore era in Venezia, e terrore in Verona. Le cose in quest'ultima si
avvicinavano da un funesto mezzo ad una funesta conclusione.
Combattevano tuttavìa i Veronesi col medesimo ardore; ma appunto perchè
quest'ardore era estremo, si doveva temere, che non tardasse a
raffreddarsi. Già i Francesi ingrossavano tutto all'intorno. S'accostava
Kilmaine venuto da Mantova, Chabran compariva sotto le mura verso la
porta di San Zeno, le prime squadre di Victor arrivavano in luogo, donde
presto potevano cooperare alla vittoria. La tregua di Judenburgo
toglieva ogni speranza di Laudon. Si risolvevano adunque i provveditori
a venire a parlamento, prima con Balland per mezzo del colonnello
Beaupoil: ma la pratica non ebbe perfezione, perchè il popolo non volle
udire che avesse a depor le armi, e non fossero esclusi i Francesi dai
castelli; poi con Chabran, col quale andava ad abboccarsi fuori della
porta San Zeno il provveditore Giovanelli. Erano col primo il generale
Chevalier, e Landrieux, col secondo il conte degli Emilj, il conte
Giusti, ed un Merighi, personaggio molto amato dai San Zenati.
Pervenivano intanto le novelle, che Lahoz con una banda di due mila
soldati tra Italiani e Polacchi al soldo della repubblica Cisalpina,
aveva tra Peschiera e Verona conseguito una vittoria contro le leve
campagnuole di quel distretto.
Fu l'abboccamento pieno di risentimento da ambe le parti. Rimproverava
Chabran a Giovanelli i villani armati per disegno espresso del governo
Veneto contro i Francesi, quando stavano a fronte di un nemico potente;
che per questo era stato costretto Buonaparte a fare la tregua, che i
Veneziani se ne pentirebbero. Aggiungeva Landrieux, e qui lascio che il
lettore pensi da se, che i rei disegni del senato contro i Francesi
erano pruovati dal manifesto di Battaglia. Rispondeva Giovanelli
allegando l'amicizia de' Veneziani dimostrata a tante pruove; solo
essersi armati i sudditi per amore verso il principe, e per opporsi ai
ribelli apertamente incitati, e protetti dai Francesi; l'intervenzione
dei Francesi in tutti questi moti viemaggiormente dimostrarsi da ciò,
che i turbatori della pace pubblica si ricoveravano in casa del generale
Balland, come in luogo di sicurezza; quando la città era quieta, avere
contro di lei tratto, prima a polvere, poscia a palla i castelli; per
questo aver voluto i Veronesi difendere le sedi loro, e vendicare il
loro principe in tale violenta guisa oltraggiato. Passavano dai
risentimenti ai negoziati; non si trovava modo di concordia. Chabran
sdegnato minacciava, che entrerebbe per forza, arderebbe, e
saccheggerebbe Verona. Già s'impadroniva di San Leonardo, con che
assicurava il castello San Felice: già batteva fortemente la porta di
San Zeno, dove solo il fosso il separava dal corpo della piazza.
Instavano al tempo medesimo i castelli contro la porta di San Giorgio; e
dal Castel-Vecchio uscivano spesso i Francesi con gran terrore e ruina
dei cittadini. Kilmaine si approssimava da Mantova, sbaragliando le
turbe armate, che gli contrastavano il passo. Già il romore della
Victoriana schiera ormai vicina si udiva nella desolata città. I primi
corridori di Lahoz si facevano vedere alle porte esteriori del
Castel-Vecchio, e niuna cosa poteva impedire che vi entrassero.
Ebbersi in quel momento le novelle dei preliminari di pace; il quale
accidente faceva abilità a Buonaparte di correre con tutto il suo
esercito contro lo stato Veneziano. Accresceva il terrore la sconfitta
delle genti stanziali governate dal Maffei, e che poste alla Croce
Bianca, ed a San Massimo vietavano da quella parte il passo al nemico.
Da tutto questo si vedeva, che era già vinta Verona, quando ancora
combatteva. Perlochè i provveditori pensarono ad accordarsi ad ogni
modo. Convenivasi delle seguenti condizioni: deponessero i villani le
armi, e sgombrassero da Verona; i Francesi la occupassero; tutte le armi
e munizioni si dessero in mano loro: fossero consegnati in castello,
come ostaggi per la sicurtà dei patti, Giovanelli, Erizzo, Giuliari,
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