Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III - 03

stabilire nella divozione altrui quelle provincie. Non aveva omesso
Ottolini, quando ancora era in ufficio, d'informare il provveditore
straordinario Battaglia della trama che si macchinava contro di questa
città e gli aveva mandato il nome dei congiurati, dei quali non si era
punto ingannato, consigliandolo ad aspettare che tutti fossero uniti, il
che doveva accadere, secondo gli avvisi di Landrieux, il ventuno del
mese, e ad arrestargli, e ad uccidergli. Inoltre il rappresentante
Veneto a Milano Vincenti scriveva continuamente al provveditore
straordinario, stesse avvertito, perchè la congiura era vicina ad aver
effetto; si armasse, non si fidasse del comandante Francese del castello
di Brescia, perchè s'intendeva coi congiurati. Tutte queste cose
turbavano l'animo del provveditore, e lo tenevano sospeso, perchè
l'uccidere i congiurati non gli pareva sicuro in tanta contaminazione di
spiriti, massimamente pensando ch'essi appartenevano alle più principali
famiglie di Brescia. Da un'altra parte il far venire soldati da Verona
gli pareva dar troppo sospetto, temendo dei Francesi; nè anco quei
soldati potevano esser molti. Ristringeva in Brescia le squadre di
cavallerìa sparse nel contado; ma erano poche genti. Chiamava a se i
Lecchi, i Gambara, i Fenaroli, e gli altri amatori di novità, e gli
accarezzava, ma senza frutto. Non sapeva a qual partito appigliarsi; le
artiglierìe in mano dei Francesi; il castello poteva fulminare la città.
Scriveva Battaglia a Buonaparte, col quale aveva qualche entratura
d'amicizia, macchinarsi in Brescia contro lo stato da gente scellerata
sotto nome di protezione Francese; e stantechè tutte le artiglierìe
Venete erano in poter suo, richiederlo, che lo accomodasse di sei od
otto, perchè si potesse difendere: richiederlo, oltre a ciò, vietasse ai
soldati Lombardi il passo per la città, frenasse chi si vantava della
protezione di Francia. Dei cannoni nulla rispondeva Buonaparte; dei
Lombardi e del frenare rescriveva, non doversi perseguitar gli uomini in
grazia delle loro opinioni, non esser delitto se uno inclinava più ai
Francesi che ai Tedeschi, come se in questo caso si trattasse tra
Francesi e Tedeschi, e non tra ribelli ed uno stato al quale egli aveva
tolto i mezzi di difesa: e come se ancora si trattasse di opinioni e non
di fatti, e di congiure contro lo stato. Desiderava finalmente di veder
il provveditore. Accrescevano il pericolo ed il terrore la rivoluzione
di Bergamo. Le cose si avvicinavano all'estremo fine.
Ecco la sera dei diciasette marzo arrivare improvvisamente le novelle,
essere giunti a Cocaglio circa sessanta ufficiali Francesi condotti da
un Antonio Nicolini, Bresciano, ajutante di Kilmaine, ed impedire il
passo ad una squadra di cavallerìa, che da Brescia mandava il
provveditore a Chiari. S'aggiungevano poco stante altri perturbatori,
perchè una massa di circa cinquecento tra Lombardi e Bergamaschi,
guidati da capi Francesi, si erano congiunti coi primi, ed armati con
due cannoni, certamente avuti dai Francesi, perciocchè portavano lo
stemma imperiale d'Austria, viaggiavano verso Brescia. La mattina dei
diciotto già erano vicini: il comandante di Francia faceva in questo
punto aprir le cannoniere del castello, che miravano al palazzo. Dei
congiurati, quasi tutti nobili, chi si era ritirato in castello, chi
andato all'incontro dei Lombardi, e chi sparso in varj luoghi eccitava
il popolo a ribellarsi. Voleva Mocenigo podestà, che si armassero i
soldati della repubblica, e con la forza si resistesse ai ribelli;
Battaglia titubava per paura dei Francesi, dei nobili, e di tutto:
certo, il minor male che si possa dire di lui, è, che ebbe paura: ma
forse l'amicizia che aveva con Buonaparte nocque alla repubblica.
Mandava due uffiziali ai ribelli per udire quello, che si volessero.
Rispondevano, Lecchi il primo, volere per amore o per forza liberare il
popolo Bresciano dalla tirannide Veneta, aspettare in ajuto loro
diecimila soldati, e molti Francesi: badasse bene il provveditore a
quello che si facesse, perchè se resistesse, andrebbe Brescia a fuoco ed
a sangue. A questo suono Battaglia, non so se mi debba dire intimorito,
o peggio, raccoglieva tutti i suoi soldati nei quartieri, e dava ordine
che non resistessero; licenziava al tempo stesso le guardie del palazzo,
e si metteva in tutto a discrezione di coloro che volevano spegnere il
dominio di quel principe, che aveva in lui collocato tanta fede.
Mocenigo, veduto la terra abbandonata da quello che poteva più di lui,
si fuggiva. Intanto il popolo stimolato dai congiurati, e già essendosi
avvicinati alle mura i novatori di fuori, tumultuava, gridando libertà.
Accresceva l'impeto l'apparire di un Pisani, stato molto tempo nei
piombi: le grida contro i Veneziani tiranni montavano al cielo.
Sottomessi gli amatori dell'antica repubblica dal popolo tumultuante,
dalla gente armata che veniva di fuori, dalla connivenza manifesta dei
repubblicani di Francia, dall'attitudine minacciosa del castello pronto
a fulminare, poche, chiuse, ed ordinate a non resistere le soldatesche
Veneziane, fu in poco d'ora Brescia ridotta in potestà dei novatori.
Cercavano Mocenigo per maltrattarlo; ma non fu trovato. Arrestavano
Battaglia, e per poco stette che non Io uccidessero. Lo serravano poscia
in castello, dove era custodito da soldati Francesi, opera certamente
meritevole di ogni riprensione; perchè se era brutta cosa il secondare
la ribellione, bene era peggiore il farsi complice dei ribelli col tener
carcerato un magistrato principalissimo di una repubblica, alla quale la
Francia continuava a protestare amicizia.
Udivansi con grandissimo terrore le novelle di Bergamo e di Brescia a
Venezia. Scriveva il senato, di cui queste cose molto angustiavano
l'animo, le sue querele al ministro Lallemand; le scriveva al nobile
Querini in Francia. Si rispondeva, che non si sapeva capire, che i
Francesi non s'ingerivano, che la Francia era amica a Venezia, che
qualche cosa si doveva pur dare alla natura delle soldatesche. Ma
l'importanza era in Buonaparte, divenuto padrone della somma delle cose
in Italia. Però mandava il senato appresso a lui i due Savj del collegio
Francesco Pesaro, e Gian Battista Corner, affinchè gli dimostrassero,
quanto offendessero la neutralità e la sovranità della repubblica le
cose accadute in Bergamo ed in Brescia per opera dei comandanti
Francesi, e quanto fossero contrarie alle protestazioni di amicizia, che
la repubblica di Francia continuamente, ed anche recentemente aveva
fatte a quella di Venezia. Oltre a ciò di nuovo, ed asseverantemente
protestassero dell'incorrotta fede, e della costante amicizia del senato
verso la Francia; stringesserlo a disappruovare pubblicamente la
condotta dei comandanti delle due città ribellate, ed a restituire i due
castelli, fonti evidenti della ribellione; richiedesserlo in fine, che
consentisse, che il senato con le armi in mano rimettesse sotto
l'obbedienza i ribelli. Trovato in Gorizia il generale repubblicano,
espostogli il fatto dai legati, rispondeva, non abbastanza ancora essere
sicure le sorti della guerra, perchè potesse restituire alla repubblica
i castelli occupati: potrebbe il senato fare quanto gli sarebbe a grado
per sottomettere i ribelli, purchè le genti Francesi, e gl'interessi
loro non ne fossero offesi: del comandante di Bergamo, perchè questi più
di quel di Brescia si era mescolato nella rivoluzione, ordinerebbe,
fosse condotto a Milano e processato; sarebbe, se colpevole, castigato:
allegava essere sincera la fede della Francia verso Venezia. Trapassando
poscia più oltre, si offeriva ad usare le proprie forze per ridurre i
novatori a divozione del senato, e che ove ne fosse richiesto, il
farebbe. Toccava finalmente, che sarebbe bene, che Venezia più
strettamente si congiungesse in amicizia colla Francia.
Covava in tutto questo una insidia: perchè mentre affermava Buonaparte,
essere in potestà del senato il fare quanto gli parrebbe conveniente per
ridurre all'ordine i ribelli, pubblicava Landrieux a Bergamo, forse
volendo, per essersi effettuato quello che forse egli aveva voluto
impedire, ricoprire con mostrar severità i sospetti, che potevano
concepirsi di lui dai repubblicani di Francia e d'Italia, che nissuna
gente armata sarebbe lasciata entrare nè in Brescia, nè in Bergamo, e
che se alcuna vi si appresentasse, questa avrebbe assalito, come nemico,
con tutte le sue forze. Ma le cose da più alta sede pendevano che da
Landrieux, perchè visitato a Parigi dal nobile Querini uno dei cinque
del direttorio, e dettogli, che poichè i Francesi protestavano, non
volersi mescolare nel governo interno delle città Venete, doveva
riuscire cosa indifferente al direttorio, se il senato rimettesse nel
dovere i Bergamaschi, rispondeva risolutamente il quinqueviro, non lo
sperasse, e che finchè fossero in Bergamo truppe Francesi, non l'avrebbe
mai il direttorio permesso. Replicato dal Querini, che di tale divieto
non comprendeva la ragione, soggiungeva il quinqueviro, ciò esser
chiaro, perchè i Francesi essendo più forti dei Veneziani, a loro stava
a comandare in quei luoghi; le quali voci certamente sono da stimarsi
barbare; perchè bene si sa, e pur troppo, che queste cose spesso si sono
fatte; ma l'asseverare con tanta fronte, che sia diritto e giusto farle,
è nuovo del tutto. Terminava il quinqueviro dicendo, che infine non
toccava alla repubblica di Venezia a comandare alla Francese, e che
vedeva bene, che i discorsi del Quirini dimostravano, che il governo
Veneto non si fidava nella lealtà del direttorio, ma che se così fosse,
avrebbe potuto farlo pentire. Da ciò si vede, quale concetto si debba
fare della condiscendenza di Buonaparte. In tale modo si sollevavano dai
capi dell'esercito repubblicano i sudditi contro Venezia, ed a Venezia
si vietava che gli sottomettesse.
Alle gravissime proposte del capitano di Francia si scuotevano i legati,
parendo loro, come era veramente, cosa enorme, pericolosa, e di pessimo
esempio, che soldati forestieri si adoperassero per tornare a divozione
i ribelli della repubblica. Per la qual cosa negavano la offerta,
restringendosi con dire, che poichè i castelli erano in mano dei
Francesi, e servivano di appoggio ai turbatori dell'antico stato, ragion
voleva, acciocchè si pareggiassero le partite, ch'ei facesse qualche
dimostrazione pubblica per disappruovare i moti, che si erano suscitati.
Al che non consentendo rispondeva, che in mezzo all'ardore di quelle
nuove opinioni che molto avevano ajutato le sue armi, sarebbe certamente
incolpato, se ora si dimostrasse avverso a coloro, che si erano scoperti
fautori del nome e delle massime di Francia; che solo a ciò fare si
sarebbe piegato, quando il direttorio precisamente glie l'avesse
comandato. Tornava poscia sul parlare di più stretti vincoli d'amicizia
colla Francia, proponendo per esempio il re di Sardegna, ed affermava,
esser questo il mezzo migliore per frenar le rivoluzioni. Le quali
esibizioni ed esortazioni, chi si farà a considerare fino a qual termine
già fossero trascorse le cose, e le offerte fatte all'imperatore
Francesco, saranno testimonio certo, ch'elle avevano tutt'altro fine,
che la salute di Venezia. Del resto, senza tanti giri di parole, e
serbando anche in sua potestà, per sicurezza del suo esercito, i
castelli di Bergamo e di Brescia, bastava bene che il generalissimo
ordinasse, o che con un cenno solo significasse, che Bergamo e Brescia
ritornassero all'obbedienza di Venezia, che i magistrati instituiti dai
novatori cessassero l'ufficio, e che quei del senato fossero restituiti
al loro, perchè tutte queste cose avessero incontanente la loro
esecuzione. Anzi il solo dichiarare, ch'egli disappruovava quelle due
rivoluzioni, e che contro la sua volontà erano state effettuate, avrebbe
rintegrato subitamente nelle due città ribelli il consueto dominio. Il
non averlo voluto fare dimostra viemaggiormente i disegni sinistri.
Strana esibizione di Buonaparte era questa di voler far tornare
all'obbedienza quelle terre, ch'egli stesso aveva incitato a ribellione;
imperciocchè, senza andar più vagando in questa materia, certa cosa è,
che per ordine espresso di lui furono fatte ribellare ai Veneziani le
città Veneziane, di cui si tratta. Rispondevano i legati della
repubblica, volere il senato l'amicizia di Francia, dell'alleanza
risolverebbe quando, ritratta l'Europa da quell'immenso disordine, e
ricomposta in quieto stato, potrebbe con sicurezza di consiglio
deliberare. A queste parole si alterava gravemente il vincitore; poi
tornando sull'antiche querele, acerbamente rimproverava ai Veneziani il
ricovero dato al conte di Provenza ed al duca di Modena, e l'aver
ricettato i tesori di Modena e d'Inghilterra; a questo passo dimostrava
voglia di por mano su di questi tesori; il che palesava, quanto fosse in
lui lo sprezzo della neutralità.
Mentre il generalissimo di Francia, parte accarezzava, parte minacciava
a Gorizia i legati di Venezia, lusinghiere parole pubblicava Kilmaine,
generale, che reggeva la Lombardia. Biasimava il comandante di Bergamo
del non averlo fatto consapevole degli accidenti seguiti, sperava, non
ne fosse partecipe, gli proibiva di mescolarsene; se il facesse, il
punirebbe, essere neutralità fra le due repubbliche, volere il
generalissimo, volere lui stesso, che se le portasse rispetto. Se questa
lettera di Kilmaine fosse vera o finta, non si sa, perchè è di data
incerta. Del resto l'opera del comandante nell'ajutare la ribellione di
Bergamo, era notoria, non solo in questa città, ma ancora in tutta
Lombardia, e metterla in dubbio era un'astuzia ridicola; nè il
comandante medesimo fu mai tradotto in giudizio.
Come i fatti rispondessero alle parole di Kilmaine, o vere o finte che
si fossero, il dimostrava pochi giorni dopo la rivoluzione di Crema,
opera non solo certa, ma anche evidente delle truppe Francesi; perchè il
giorno ventisette marzo, appresentatasi una squadra di cavallerìa di
Francia alla porta, chiedeva il comandante l'entrata, promettendo di non
inferire molestia, e sarebbe dimani partito per Soncino. Introdotti, si
portarono quietamente quel giorno. Ma il dì seguente comparivano due
compagnie armate della medesima nazione; una verso la porta Ombriano,
l'altra verso quella del Serio, nè così tosto si erano avvicinate alle
mura, che le truppe di dentro aprivano le porte, per modo che, dato il
varco, e per far più presto, scalando alcuni le mura, si facevano
padroni della terra. Correvano quindi a disarmare i soldati Veneziani:
s'impossessavano dei quartieri, occupavano il palazzo pubblico,
minacciavano nella vita con l'armi inarcate il podestà, e, disarmato,
costringevano a dismettere l'ufficio. Occupavano al tempo stesso la
camera, il monte, il fondaco, gli uffici, le cancellerie. Taciute tutte
le altre iniquità usate a Venezia, se questa sola della violenta
occupazione di Crema non bastasse per giustificare il senato a sorgere
subitamente con l'armi in mano contro i Buonapartiani, il diranno tutti
coloro, ai quali sta più a cuore la giustizia, che la forza.
Arrivava a Crema l'Hermite già partecipe del rivolgimento di Bergamo, e
si metteva all'atto di blandire il podestà con parole soavi,
dell'ufficio dolcemente esercitato lodandolo. Somiglianti parole usava
l'ufficiale del direttorio, che, distrutta per forza e per inganno
l'autorità sovrana di Venezia sopra Crema, se ne giva affermando, che i
Francesi erano buoni amici della repubblica di Venezia. Mescolaronsi in
questo moto pochi uomini del paese, fra i quali principalmente
comparirono il marchese Gambazocca, ed i conti Asperti, Locatelli, e
Romini venuti da Bergamo. Creavasi il municipio, piantavasi l'albero,
ballavavisi intorno, appiccavasi una fune al collo del lione di San
Marco, come se fosse tempo da ridere; facevasi la luminaria, gridavasi
libertà. Il podestà fu lasciato partire senza offesa. Così Crema per
opera dei soldati Buonapartiani fu ridotta a divozione dei novatori.
Kilmaine, che aveva scritto la bella lettera pel fatto di Bergamo, se ne
stette tacendo per quel di Crema.
Le rivoluzioni di Bergamo, di Brescia e di Crema facevano sorgere nuovi
pensieri tanto nei capi Francesi, quanto nel senato Veneziano, così come
ancora fra i sudditi, che si conservavano fedeli. Vedevano i primi, che
l'accessione di quelle tre principali città d'Oltremincio era di somma
importanza ai loro ulteriori disegni; perchè oltre al più facile vivere
per la ricchezza di quei territorj, i novatori, che gli secondavano,
divenivano e più audaci e più numerosi. Faceva in questo loro esempio
grandissimo frutto, e nuova gente novatrice, siccome un nembo ne tira un
altro, si accostava. Principale fondamento a tutto questo moto era
Brescia, città ricca, popolosa, abbondante d'uomini fieri e bellicosi.
Quivi ancora gli ottimati, o che amassero la libertà, o che avessero
gelosia contro i patrizi Veneti, o che solamente si fossero lasciati
stravolgere dalla vertigine comune, favorivano la rivoluzione. Nel che
Brescia si diversificava da Bergamo, dove i più fra i ricchi si
mostravano avversi. Accorrevano poi a Brescia Dombrowski co' suoi
Polacchi, Lahoz co' suoi Italiani, e davano incentivi con le parole,
animo con le forze, esempio con l'ordinate schiere. Pavesi, Lodigiani,
Milanesi, Bergamaschi, Napolitani vi arrivavano continuamente, chi con
lingue pronte per orare, chi con penne per iscrivere, chi con armi per
combattere. La sollevazione, l'impeto, la concitazione andavano al
colmo; le minacce e gli scherni che facevano contro i patrizi, erano
incredibili. Già si persuadevano, che alla loro prima giunta dovesse
andar sossopra tutta, ed a ruina la Veneziana repubblica. Lahoz,
Gambara, Lecchi, ed un Mallet, generale di Francia, anch'egli mescolato
in questi moti, trionfavano. Queste cose vedevano con gli occhi loro i
capi dell'esercito Francese, e le passavano: se le sapeva Buonaparte, e
le passava con troppa più sopportazione, che si convenisse alla sincera
fede.
Preparata la strada alla rivoluzione delle altre parti della terraferma
Veneta situate sulla destra del Mincio, per mezzo massimamente della
potente Brescia, innalzavano i sollevati l'animo a maggiori cose,
proponendosi di turbare anche i paesi posti sulla riva destra
dell'Adige, principalmente Verona tanto importante per la sua grandezza,
e per essere passo del fiume. Questo era anche risolutamente l'intento
di Buonaparte; perciocchè più di un mese prima che sorgesse la
sollevazione di Verona, aveva dato ordine a' suoi comandanti in questa
città, che procurassero la rivoluzione medesima con tutte le forze, e
con tutte le arti loro. Nel che con maneggi, parte segreti, parte palesi
il secondavano. Mentre tutti quest'inganni si tramavano, non erano
ancora le cose sicure pei Francesi, che tuttavia si trovavano a fronte
dell'arciduca sulle rive del Tagliamento. Il capitano Pico, che aveva
anche avuto al medesimo tempo carico da Buonaparte di macchinare in
Verona contro i Veneziani, gli rappresentava, che il moto in lei sarebbe
riuscito pericoloso, e di esito molto incerto, stantechè l'arciduca gli
stava ancora davanti molto poderoso: esortava pertanto, aspettasse tempo
più propizio. Rispondeva, gisse pure, e sommuovesse Verona. Poi
soggiungeva, che se la sommossa andasse bene sarebbe libera l'Italia, se
male, la Cisalpina repubblica (con tal nome dopo la conquista di Mantova
aveva chiamato la Transpadana) almeno resterebbe. Dette queste parole,
accommiatava Pico, raccomandandogli, s'intendesse con Beaupoil e con
Kilmaine, e gli desse ragguaglio di tutto che accadesse: desse intanto
ricovero in Mantova ai patriotti che fossero in pericolo, e gli rendesse
sicuri, che sarebbero liberi. Nè in Brescia stavano oziosi i novatori
rispetto a Verona; perchè colà mandavano agenti segreti, parte da
Brescia medesima, parte da Desenzano, parte da Lonato, affinchè
cooperassero alla sollevazione. Così Verona era insidiata da Buonaparte,
da' suoi capitani, dai novatori armati, dai novatori non armati,
Italiani, Polacchi, Svizzeri, e Francesi. Non ostante tutto questo il
canuto Lallemand, ed il giovane Buonaparte sempre protestavano a nome di
Francia dell'incontaminata fede, e della sincera amicizia verso la
repubblica Veneziana.
Le insidie ordite per ribellar Verona erano venute a notizia del governo
Veneto, non solamente per le dimostrazioni tanto palesi dei Bresciani
sollevati, ma ancora per segreti avvisi di alcuni fra quelli stessi che
macchinavano. Pensava pertanto al rimedio contro sì grave pericolo. Vi
mandava, con dar voce di cagioni diverse dai sospetti, parecchi
reggimenti di Schiavoni: vi mandava due provveditori straordinari,
Giuseppe Giovanelli, giovane animoso e prudente, e Niccolò Erizzo, uomo
di natura molto calda, ed amantissimo del nome Veneziano. Ma perchè le
radici della forza erano nel paese, dava facoltà amplissima al conte
Francesco degli Emilj, personaggio ricchissimo e di molto seguito,
acciocchè armasse la gente del contado, promettesse e desse soldi, ogni
e qualunque cosa, che in poter suo fosse, facesse, per isventare le
macchinazioni dei repubblicani. Accettava volentieri il carico il conte
Emilio, e tra l'autorità del suo nome, e l'efficacia delle sue
ricchezze, faceva non poco frutto, soldando gente, provvedendo armi,
ammassando munizioni, traendo a se buoni e cattivi per tenere in piede
l'insidiata repubblica. Faceva compagni alla sua impresa il conte
Verità, ed il conte Malenza co' suoi due figliuoli, uomini anch'essi
molto infiammati nel difendere l'antico dominio dei Veneziani. Il
secondavano efficacemente i preti ed i frati con le esortazioni loro,
alle quali maggior forza accrescevano lo strazio testè fatto del papa, e
lo spoglio di Loreto: gli animi già infieriti per tante ingiurie, di
maggior veleno s'imbevevano per l'oltraggiata religione. Accresceva lo
sdegno l'orribile governo, che facevano delle province le truppe
repubblicane, sì quelle che stanziavano, come quelle che viaggiavano.
Vieppiù innaspriva i popoli una ingiustizia manifesta, perchè i bagagli
rapiti dai Tedeschi in guerra, eran fatti pagare dai comuni. Quel dei
Due Castelli, situato sull'agro Veronese, e composto appena di
cinquecento abitatori, per esservi stato in una sortita da Mantova
rapito dai Tedeschi non so che carro di bagaglio di generali, fu posto
da Buonaparte ad una taglia di cencinquanta mila franchi, taglia tanto
esorbitante per quello piuttosto casale che villaggio, che era anche
ridicola. Perchè poi non la potevano pagare, vi mandava Junot con un
grosso di cavalleria a vivervi a discrezione. Queste enormità si
moltiplicavano; i popoli, che non vedevano altra cagione, che una
insolenza fantastica, od una sete di rapire insaziabile si riempivano di
sdegno. Giuravano di andar all'incontro di ogni più grave pericolo, di
sopportare ogni più crudele disgrazia piuttostochè non vendicarsi, e non
tentare di sottrarsi a sì orribile dominazione. Molto sangue Francese fu
certamente versato, e pur troppo barbaramente a Verona, e fu sangue, la
maggior parte, d'innocenti. Ma gli autori veri e primi di sì cruda
carnificina, non inganneranno punto la giustizia divina, nè il giudizio
dei posteri. Sa Dio, e sapranno i posteri, se contro il Veneziano
governo, o contro Buonaparte, se contro i conculcati o contro i
conculcatori, se contro il conte Francesco degli Emilj, o contro coloro,
che il generalissimo di Francia secondavano nell'opera rea prima di far
ribellar Verona contro il senato, poi di vendere Venezia, se contro chi
non voleva essere tradito, o contro chi voleva tradire sia quel sangue
sparso, e contro chi gridi vendetta.
Dava nuovo animo ai Veronesi il fatto di Salò, perchè, andata contro
questa terra una grossa squadra di Bresciani, mista di Polacchi e di
qualche Francese, fu rotta con non poca strage dai Salodiani, aiutati
dagli abitatori della valle di Sabbia; i quali, siccome quelli che erano
molto affezionati al nome Veneziano, erano accorsi per conservare la
città sotto la divozione dell'antico principe. Quest'erano le masse
ordinate dall'Ottolini ai tempi del suo ufficio in Bergamo. Lodevole
esempio di fedeltà e di ardire dava nella fazione di Salò il
provveditore Francesco Cicogna; dal che si può argomentare quale
mutazione avrebbero fatto le cose di Venezia, se il senato avesse
permesso, che Ottolini desse dentro, quando ancora era tempo, col suo
stormo, e se Battaglia tale fosse stato quali furono Ottolini e Cicogna.
I prigioni fatti a Salò, che arrivarono a più di ducento, furono
condotti a trionfo per Verona, i sudditi carcerati, come rei di stato.
La vittoria dei Salodiani rinvigoriva gli animi sbigottiti in tutta la
terraferma Veneta. Armavansi a gara i popoli, e protestavano della fede
loro verso il senato. Questo moto fu apposto a delitto ai Veneziani da
Buonaparte, e dagli storici adulatori di lui, i quali per altro
confessano, che in quel momento stesso, e già da lungo tempo prima si
trattava di far indenne l'Austria a spese di Venezia. Adunque doveva
Venezia darsi di per se stessa vinta, e disarmata in mano di chi sotto
colore di amicizia la tradiva? Certamente doveva Venezia in
quell'estremo frangente, in cui era caduta, non per colpa propria, ma
d'altrui, difendersi: bene gli uomini generosi, gli amatori massimamente
del nome e del costume Italiano le daranno eterno biasimo del non
essersi abbastanza, ed a tempo difesa, e con dolore vedranno nei ricordi
delle storie scritto i posteri, che l'opera della sua distruzione sia
stata frutto, tanto della debolezza de' suoi reggitori, quanto della
malvagità di amici fraudolenti; poichè fuori di dubbio è, che, passando
anche sotto silenzio le passate occasioni, se dopo la vittoria dei
Salodiani, le disposizioni tanto incitate dei Veronesi, ed i
preparamenti fatti nell'estuario, in un con le vittorie di Laudon nel
Tirolo e con le masse Tirolesi e Croate, avesse il senato fatto una
forte risoluzione coll'unirsi all'Austria, e col dichiarare la guerra
alla repubblica di Francia, si sarebbe trovato Buonaparte in gravissimo
pericolo, e l'antico dominio dei Veneziani sarebbe stato preservato. Ma
l'aver voluto aspettare l'estrema ingiuria, quando già le ingiurie
avevano oltrepassato l'estremo, e l'aver abbandonato i sudditi, quando
volevano difenderla, fu cagione della ruina della repubblica.
Le insidie contro Venezia alle raccontate cose non si rimanevano. I moti
della terraferma erano spontanei, e solo cagionati dalla rabbia concetta
dai popoli infastiditi delle insolenze, e sdegnati dalle ingiurie dei
forestieri. Perciò il senato gli poteva qualificare come opera non sua,
e sempre protestare, quanto spetta alla direzione del governo, della
perfetta neutralità. Ma i capi delle rivoluzioni in Italia, secondando
il talento proprio, e credendo di far cosa grata al generalissimo,
pensarono di fabbricare una menzogna, ed apponendo un atto falso ad uno
dei magistrati più principali far in modo, che il governo Veneziano egli
medesimo paresse colpevole di ree instigazioni contro i Francesi; della
qual fraude nissuna si può immaginare nè più brutta, nè più diabolica.
Inventarono adunque e pubblicarono un manifesto, attribuendolo a
Battaglia, provveditore straordinario per la repubblica in terraferma,
col quale si stimolavano i popoli a correre contro i Francesi, e ad
uccidergli. Fu questo manifesto composto per opera di un Salvadori,
novatore molto operativo di Milano, e rapportatore palese e segreto di
Buonaparte, che poscia creatosi imperatore, l'abbandonò in miseria tale,
che gittatosi in fiume a Parigi terminò con fine disperato una vita poco
onorevole. Tornando al manifesto, fu egli stampato in un giornale a
Milano, intitolato il Termometro politico, giornale che si scriveva in
casa del Salvadori da patriotti molto migliori di lui, ma portati ancor
essi dalla illusione e dalla vertigine di quell'età. Quantunque
astutamente gli sia stata apposta la data dei venti marzo, uscì
veramente ai cinque aprile, tempo opportuno perchè Buonaparte arrivato a
Judenburgo a questo tempo, già offeriva gli spogli della repubblica, e
già fatto sicuro della pace con l'imperatore, non aveva più timore delle
masse Veneziane. Così l'incitare contro i Francesi era pretesto di far
uccidere i Francesi dai Veneziani, i Veneziani dai Francesi, e per
trovar compensi all'imperatore a danni di Venezia. Il non aver fatto il