Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III - 02

luoghi alti e dirupati, ed andava a battere a mezza strada tra Brissio e
Bolzano, col fine di tagliar il ritorno ai Francesi alle parti disottane
dell'Adige. Gli riusciva l'intento, perchè assaltate con impeto le
vanguardie Francesi, le faceva piegare, e s'impadroniva di Bolzano.
Fatto poscia più audace dal fortunato successo, saliva per le rive
dell'Adige per congiungersi con Kerpen, e per istringere vieppiù
Joubert, che tra l'una schiera e l'altra stanziava a Brissio. Occupava
la Chiusa, poi Steben, tanto ritirandosi i Francesi più in su, quanto
più s'avvicinava Laudon: già Brissio medesimo pericolava. Nè se ne stava
neghittoso in questo mezzo tempo Kerpen, perchè calando con le sue genti
miste di Tirolesi e di Tedeschi da Sterzing, rincacciava i repubblicani
fin sotto le mura di Brissio. Per questo modo a Joubert accerchiato da
tre parti, a tramontana da Kerpen, a ostro ed a ponente da Laudon, non
rimaneva più altro scampo, che a levante per la valle del Puster, poscia
per quella della Drava sino a Villaco. Partitosi da Brissio il dì cinque
aprile, e ritardato l'impeto di Kerpen, che lo voleva seguitare, con
aver rotto il ponte sull'Eisaco, arrivava il giorno otto a salvamento a
Linzo, dove trovava alcuni squadroni di cavalleria, che il
generalissimo, geloso di quel passo, aveva mandati ad incontrarlo.
Poscia marciando sollecitamente in giù per le rive della Drava, e rotte
alcune squadre collettizie all'Ospedale, che volevano serrargli il
passo, conduceva ad effetto a Villaco la congiunzione dei due eserciti.
Ma Laudon non si ristava; che anzi cacciando all'ingiù dall'Adige i
Francesi, entrava vittorioso in Trento e Roveredo. S'allargava anche
sulle sponde del lago a Torbole ed a Riva. Questa mossa, che già faceva
sentir il romore delle armi Tedesche nella pianura frapposta fra l'Adige
e il Mincio, partoriva effetti importanti, e ne avrebbe partorito degli
estremi, se l'imperatore Francesco avesse mostrato, in quest'ultima
fine, maggiore costanza, ed il senato Veneziano maggiore ardimento.
La guerra si avvicinava sugli estremi confini d'Italia per opera di
Massena ad un evento terminativo, per quanto spetta alla difesa degli
stati ereditari d'Austria. Già si è da noi notato, di quanta importanza
fosse il passo della Ponteba. Per questo aveva comandato l'arciduca a
Ocskay, che lo custodiva, ostinatamente il difendesse. Confidando nel
valore de' suoi, veniva in pensiero di sopraccorrere improvvisamente con
forze superiori contro Massena, e di conculcarlo prima che Buonaparte
avesse tempo di soccorrerlo. Il quale intento, se avesse avuto il suo
effetto, l'arciduca avrebbe fatto a Buonaparte quello, che Buonaparte
voleva fare a lui, cioè separare l'ala sua destra dalle genti del
Tirolo, che erano la sua sinistra. A questo fine ebbe tostamente il
generale austriaco adunato alcune truppe già venute dal Reno, e
comandava al tempo medesimo ai generali Gontreuil e Bajalitsch,
marciassero risolutamente a Tarvisio per a Ponteba; gli seguitava di
pari passo, conducendo con se le artiglierie più grosse. L'accidente era
importante, il momento fortunoso. Già marciava l'arciduca quasi sicuro
della vittoria; ma quando più confidava di un prospero fine, gli
sopravvenivano le novelle, certamente ingratissime, che Ocskay, non
facendo alla Ponteba contro Massena quella sperienza che si aspettava di
lui, si era tirato indietro fino a Tarvisio; che anzi velocemente
seguitato dal nemico, aveva anche abbandonato Tarvisio, ritirandosi più
che di passo verso Wurtzen. Quest'accidente tanto impetuoso fece
precipitar l'arciduca ai rimedi: comandava a Ocskay, che tornasse
incontanente, e cacciasse i repubblicani da Tarvisio. Ma il suo intento
non ebbe effetto, perchè Ocskay, troppo accelerando il cammino, già era
arrivato a Wurtzen, terra troppo più lontana che abbisognasse, perché ei
potesse giungere a tempo alla fazione. Non si perdeva d'animo per tanto
sinistro l'arciduca, e, non lasciata indietro diligenza od opera alcuna,
pensava a ricuperar col valore quello, che la timidità aveva perduto. A
questo fine ordinava a Gontreuil e Bajalitsch, seguitassero a marciare,
e restituissero ad ogni modo alle armi austriache il passo di Tarvisio.
Tanto velocemente marciò il primo, guidatore dell'antiguardo, che,
valicato il colle di Ober-Preth, urtava valorosamente in Tarvisio,
cacciavane i repubblicani, e perseguitandogli, gli respingeva sin oltre
al villaggio di Salfnitz, e se fosse stato presto Bajalitsch ad arrivare
per fermare i suoi nella battaglia, l'impresa aveva il suo compimento.
Ma egli, o fosse ritardato dai luoghi aspri, o dagl'impedimenti delle
artiglierìe che voleva condurre con se, non potè arrivare a tempo alla
fazione, per modo che il seguente giorno, che fu ai ventitre di marzo,
Massena, raccolti ed adunati i suoi, e già prevalendo di forze contro
Gontreuil rimasto solo, dava dentro, prima a Salnitz, poscia a Tarvisio,
e da ambi i luoghi cacciava gl'imperiali. Nè valsero il valore di
Gontreuil, che fu molto notabile, nè quello delle sue genti che
combatterono virilmente, nè la presenza dell'arciduca medesimo che era
accorso, e fece in questa battaglia le veci non meno di esperto
capitano, che di animoso soldato, ad arrestare il corso della fortuna
contraria; perchè non solamente fu rotto e ferito Gontreuil, ma fu
cagione, che rotto ancora fosse poco dopo Bajalitsch che arrivava;
conciossiachè Massena vittorioso, rivoltatosi contro questa seconda
colonna, le dava l'assalto sui confini di Raibel. Al tempo medesimo
Guyeux, che si era impossessato per una battaglia di mano del forte
passo della Chiusa di Plezzo, accostatosi ancor esso, l'assaliva alla
coda. La schiera, urtata da tutte le parti da un nemico vittorioso,
ridotta ad un'estrema lassezza pel camminare frettoloso su per quei
monti, nè avendo speranza di soccorso, deposte le armi, si arrendeva.
Quattro generali, quattromila soldati, venticinque cannoni, quattrocento
carri carichi di bagaglie e di munizioni furono i cospicui segni delle
vittorie di Tarvisio e di Raibel. Tali furono i risultamenti della mal
difesa Ponteba, e per aver il nemico preso il vantaggio dei passi, restò
vana la fatica ed il desiderio dell'arciduca.
Perduta la speranza d'offendere, pensava il generale dell'Austria ad
ordinar le difese in modo che fosse fermato quel precipizio, e fatto
abilità alle genti stanziali del Reno di arrivare, alle leve di Croazia,
di Bosnia, d'Austria e di Ungherìa di ordinarsi, ed al campo di Neustadt
di fortificarsi. Schierava a questo fine il generale Seckendorf sulla
strada di Lubiana, città chiamata con vocabolo tedesco Laybach,
acciocchè intendesse alla difesa della Carniola, e delle rive della
Sava; quest'era l'ala sua sinistra. Alloggiava il generale Mercantin
sulle sponde della Drava per sicurezza di Clagenfurt; quest'era la mezza
schiera. Finalmente il principe di Reuss col generale Keim con l'ala
destra avevano fermato le loro genti a San Vito, e nella valle della
Mura. Per tal modo si guardavano i tre principali aditi, per cui si va
dall'Italia nel cuore delle possessioni austriache in Alemagna. Sperava
l'arciduca, abborrendo dal lasciarsi stringere a far giornata, che
questi preparamenti di difesa, le genti del Reno che giungevano, i
popoli che tumultuavano tutt'all'intorno, avrebbero dato cagione di
pensare a Buonaparte, e frenato la sua audacia del volersi internare
negli stati ereditari. Ma il capitano di Francia, che voleva pure che le
sue armi rumoreggiassero in Alemagna, parte per amore di gloria, parte
per isperanza, che chi parteggiava per la pace a Vienna, si mostrerebbe
tanto più vivo quanto più ei fosse vicino, non si rimaneva, che anzi
spingendosi avanti, e già congiunto con lui Joubert, entrava vittorioso
in Villaco, Lobiana e Clagenfurt. Così non restava a superarsi più altro
ostacolo di luoghi a Buonaparte, perchè sulle sponde del Danubio vicine
a Vienna facesse sentire l'impressione delle sue armi, che la falda
settentrionale delle Noriche Alpi, che la Drava dalla Mura dividono,
debole impedimento per la facilità dei passi.
La guerra d'Italia, che prima era piccola parte dei disegni Francesi,
era divenuta, per tanto segnalate e tanto efficaci vittorie, parte
principalissima; ed inaspettatamente il far forza all'imperatore, che si
sperava pel direttorio dall'Alemagna, sorse dall'Italia; opera
certamente, che il direttorio medesimo, nè nissun governo, nè niuna
persona al mondo, se non forse Buonaparte avrebbe potuto non che
credere, immaginare, quando poco più di un anno avanti si combatteva
nella riviera di Ponente sotto l'umile scoglio di Borghetto. Ma per gli
Austriaci combatteva solamente il valore, pei Francesi l'impeto, pei
primi un voler guadagnar i paesi a palmo a palmo, pei secondi un
conquistargli a dirittura, per quelli un guerreggiare pesato, per questi
un guerreggiare audacissimo, per gl'imperiali uno spandere l'esercito
per voler esser dappertutto, pei repubblicani un serrarsi in un luogo
solo per poter irrumpere grossi ed avventati. Si aggiunge, che gli
Austriaci non andavano alle fazioni se non provvisti di tutto punto,
mentre i Francesi vi andavano sprovvisti di ogni cosa, purchè quelle
armi avessero che con se portano i soldati: ciò faceva le mosse degli
Austriaci tarde, quelle dei Francesi preste. Molto ancora nocque ai
capitani d'Alemagna l'essere, secondo il solito, abborrenti dallo
spendere per aver le spie; nel che Buonaparte non guardava a quello che
si spendesse. Nè gran momento in questo non recò il procedere
independente di Buonaparte, perchè faceva da se, e poco si curava dei
disegni e dei comandamenti del direttorio, mentre i capitani Austriaci
erano astretti ai disegni ed agli ordini del consiglio di Vienna, lento
al deliberare, geloso dell'esecuzione: quindi per questi molte buone
occasioni, che la fortuna parava loro davanti, di vincere, si perdevano,
mentre il capitano Francese, che si stimava padrone di fare ciò che
voleva, non ne trasandava nissuna. Finalmente la celerità sua, veramente
mirabile, fu cagione principalissima delle sue vittorie, e bene si può
dire con l'esempio di Buonaparte; che se il mondo è di chi se lo piglia,
molto ancora più le vittorie sono di chi se le piglia. Errò egli qualche
volta, ma compensò con l'audacia il suo errare: errarono ancor essi i
capitani Tedeschi, e si sgomentarono al loro errare. Quindi ebbe
Buonaparte maggiore probabilità di vincere, perchè non solo vinceva
quando operava bene, ma anche quando operava male, e l'audacia sua,
congiunta con un'astuzia e con una perizia straordinaria, il fecero, per
la guerra offensiva, il più compiuto capitano che sia stato mai.
Giunto a Clagenfurt, ed avuto avviso per modo segreto, che i partigiani
della pace a Vienna facevano efficace opera per venire ai fini loro,
pensava di usare il terrore impresso, perchè la parte loro prevalesse
nelle consulte dell'imperatore. A questa deliberazione fu anche indotto
dal sospetto di quello che potesse accadere alle sue spalle; perchè,
sebbene il senato Veneziano fosse debole, erano i popoli della
terraferma gagliardi per lo sdegno concetto alle conculcazioni fatte dai
repubblicani, e minacciavano di far novità contro di loro. Al che erano
anche incitati dalle rivoluzioni di Bergamo e di Brescia accadute per
instigazioni segrete e palesi dei Francesi, e dei loro partigiani. Da un
altro lato, aveva Buonaparte sentito i primi romori di Kerpen e di
Laudon nel Tirolo; e già la Croazia minacciava Trieste. Nè non
gl'importava il simulare il desiderio della pace; perciocchè, se la pace
seguiva a modo suo, otteneva l'intento, se non seguiva, sarebbe paruta
la guerra opera dell'ostinazione altrui. Scriveva adunque il dì trentuno
marzo all'arciduca, l'Europa sanguinosa desiderar la pace, desiderarla,
ed averne fatto dimostrazione il direttorio: solo l'Austria stare armata
sul continente per combattere; instigarla l'Inghilterra; dover forse
continuar ad uccidersi scambievolmente Francesi ed Austriaci, perchè si
facesse il piacer di una nazione non tocca dalle disgrazie della guerra?
«Voi foste, diceva all'arciduca, il salvatore dell'Alemagna, siate anche
il benefattore dell'umanità: anche vincendo, non potrete fare che non ne
sia lacerata l'Alemagna: se questa mia proposta fosse per divenir
cagione, che la vita di un uomo solo si salvasse, bene sarei io più
contento della meritata corona civica, che della fama acquistata in
ulteriori vittorie».
Rispondeva l'arciduca, fare la guerra per debito, desiderare la pace per
inclinazione; a nissuno più che a lui star a cuore la felicità dei
popoli, ma non aver mandato per trattare intorno ad una faccenda di
tanta importanza, ed a se non competente; aspetterebbe i comandamenti
del suo signore. Data la risposta, mandava gli avvisi a Vienna, già
molto turbata per l'avvicinarsi del nemico.
Buonaparte intanto si faceva con prestezza avanti, sperando di far certo
con la vittoria quello, che tuttavia era incerto. Ma l'arciduca, che si
era messo al fermo del voler temporeggiare, fuggendo la necessità del
combattere, si tirava indietro, solo ritardando con grosse fazioni del
retroguardo il perseguitar del nemico. Ritraevasi da San Vito, da
Fraisach, da Newmarket: ritraevasi ancora da Unzmarket sulla Mura, e da
Judenburgo. Occupava Buonaparte i luoghi abbandonati, e si vedeva avanti
le acque, che dall'estrema falda dei Norici monti se ne corrono per la
diritta nel Danubio; già le mura dell'antica ed invita Vienna erano
vicine a mostrarsi a' suoi soldati vincitori; caso veramente di tanta
maraviglia, che da molti secoli addietro non era accaduto l'uguale.
Ma già a Vienna più aveva potuto il timore che la prudenza, ancorchè la
condizione di Buonaparte fosse diventata pericolosa per la subita
comparsa di Laudon nella campagna di Brescia, per l'arrivo di un
colonnello Casimiro a Trieste mandatovi dall'arciduca, e per essere sul
mezzo della fronte l'arciduca medesimo grosso e rannodato, e con tutte
le popolazioni all'intorno, che dimostravano animo stabile nella
divozione verso l'antico signore. Arrivavano all'alloggiamento di
Judenburgo i generali Belegarde e Meerfelt con mandato di sospendere le
offese, e di comporre le differenze. Uditi benignamente dal generale di
Francia, si accordarono, il giorno sette aprile, che si sospendessero da
ambe le parti le offese per sei giorni. Poi, scoprendosi sempre più
inclinato Buonaparte a volere condizioni vantaggiose per l'Austria con
offerire compensi nei territorj Veneti alla perdita dei Paesi Bassi e
del Milanese, fu prolungata la tregua insino a che fossero accordati i
preliminari di pace, che secondo il corso di quei negoziati, si vedevano
non lontani. Infatti, essendosi dato perfezione a tutte le pratiche, si
venne fra i plenipotenziari rispettivi alla conclusione dei preliminari
nella terra di Leoben il dì diciotto del medesimo mese. Alcuni dei
capitoli furono palesi, altri segreti. Fra i primi contenevasi, cedesse
l'imperatore alla Francia i Paesi Bassi, riconoscesse le frontiere della
repubblica, quali le avevano le leggi Francesi definite, consentisse
alla creazione di una repubblica in Lombardia. Stipulavano i segreti,
desse la Francia in poter dell'imperatore l'Istria, la Dalmazia, il
Bresciano, il Bergamasco, parte del Veronese. A questo fine appunto, e
per compir questa fraude, aveva Clarke già molto avanti esortato
l'imperatore ad occupare coll'armi l'Istria e la Dalmazia, ed aveva
Buonaparte, pure molto prima, fatto rivoltar contro il senato Bergamo,
Brescia, e le Veronesi terre: promettevano peraltro i preliminari, che
la repubblica di Venezia si compenserebbe con le legazioni; il che
significava, che si destinavano, senza saputa e senza consenso del
senato Veneziano, ad altra potenza i suoi dominj, e che gli si
offerivano compensi, prima che si sapesse se a lui erano o convenienti
od onorevoli; perchè in questo, non solo si spogliava Venezia de' suoi
stati, ma le si voleva dar compenso con ispogliar di altri stati una
potenza con lei congiunta di amicizia: ed è anche da considerarsi in
queste rivolture schifose lo strazio, e lo scherno, che si faceva di
quella repubblica Cispadana, che appena nata già si voleva ridurre sotto
la sferza di un governo aristocratico, come dicevano, e tirannico, che
era una faccenda grave in quei tempi. Ma essendosi stipulato nei
preliminari, che Mantova si restituisse all'imperatore, il direttorio
non volle consentire questa condizione, certamente gravissima in se
stessa, e per gli effetti che portava con se; conciossiachè il lasciare
un sì forte nido all'Austria in Italia era un fare perpetuamente incerta
la repubblica Lombarda, o Transpadana, che la vogliam nominare, ancora
tanto tenera in quei primi principj, ed un necessitare la presenza
continua di un grosso esercito Francese nell'Italia settentrionale.
Rendevansi anche per la medesima cagione incerte tutte le mutazioni di
stato, che in Italia avevano fatto i Francesi, e questi stati nuovi, ad
una prima presa d'armi, ad un primo romore, ad un primo sospetto, ad una
prima sollevazione d'animi, sarebbero iti tutti sossopra, nè mai
avrebbero potuto por radice, per quel segnale importuno dell'Austria
vicina e forte. Il rifiuto del direttorio fe' sorgere nuovi negoziati,
pei quali finalmente fu consentita Mantova alla repubblica Transpadana,
ma nacque al tempo stesso la necessità di ricompensare quella piazza
all'imperatore col restante dello stato Veneto, colla città stessa di
Venezia, e colla distruzione totale dell'antico governo Veneziano.
Assunse l'opera barbara e frodolenta il direttorio; s'addossò Buonaparte
il carico di mandarla ad effetto, ambi sperando di colorire il
tradimento ordito contro i Veneziani con fingere tradimenti orditi dai
Veneziani contro di loro.
Già abbiamo in un precedente libro raccontato, che Bergamo era stato
occupato da Buonaparte, come istrumento potente a volgere a sua
divozione l'animo dei popoli della terraferma Veneta. Fu del tutto
violento il modo, e contrario a tutti gli usi della neutralità.
Entrarono i repubblicani in Bergamo, Baraguey d'Hilliers gli guidava,
con cannoni ordinati a modo di guerra, con le micce accese,
s'impadronirono delle porte, recaronsi in mano le artiglierìe Veneziane,
intimarono al podestà Ottolini, facesse sgombrar dalla terra tutte le
truppe Venete; se nol facesse, userebbero la forza. In tale guisa
s'insignorirono di Bergamo coloro, che accusavano Venezia della violata
neutralità. Ma questo non era che il principio, ed il fondamento delle
trame che si ordivano. Erasi per opera di Buonaparte creata in Milano
una congregazione segreta, nella quale entravano in gran numero i
repubblicani Italiani, ed il cui fine era di operare rivoluzioni nel
paese Veneziano. Alcuni Francesi vi erano mescolati, che intendevano ai
medesimi fini. Tra questi un Landrieux, capo dello stato maggiore di
cavallerìa, era stato eletto dalla congregazione, qual operator
principale a turbare le cose Venete. Ma egli, o che avesse per onestà di
natura realmente in odio quest'opere pestifere, o che per motivo meno
sincero, come ne lo sospettò Buonaparte, avesse occulto intendimento con
gl'inquisitori di stato di Venezia, fe' sapere o per mezzo loro, o
immediatamente ad Ottolini, che, ove una persona fidata a Milano
mandasse per conferir con lui, le svelerebbe cose, che massimamente
importavano alla salute della repubblica Veneziana. Mandava il
segretario Stefani: trovava in Milano un avvocato Serpieri Romano,
trovava Landrieux, alloggiavanlo segretamente in casa Albani: affermava
Landrieux a Stefani, essere onest'uomo, per questo avere in abbominio le
rivoluzioni, già averne impedito una in Ispagna, volere impedire quella
dello stato Veneto; a ciò muoverlo l'onore della nazione Francese
calpestato da Buonaparte, dal direttorio, dai consigli, orrida tutta,
come diceva, e facinorosa gente; muoverlo ancora i benefizj fatti dalla
repubblica Veneziana all'esercito di Francia, muoverlo l'umanità,
muoverlo il desiderio della pace: avere fra un mese ad esser pace con
l'Austria, se fosse impedita la rivoluzione degli stati Veneti; nel caso
contrario non esservi più modo di conciliazione, non aver più freno
l'ambizione di Buonaparte; abbracciare nell'ambizione sua la sovranità
d'Italia. Soggiungeva poscia, che la rivoluzione dello stato Veneto era
opera della congregazione segreta di Milano, alla quale partecipavano
principalmente Porro Milanese, Lecchi, Gambara, Beccalosi da Brescia,
Alessandri, Caleppio, Adelasio da Bergamo; dovere lui stesso, Landrieux,
essere l'operator principale della rivoluzione, sapere i nomi, le forze,
le macchinazioni dei congiurati, dovere aver principio la rivoluzione in
Brescia, poi dilatarsi in Bergamo ed in Crema; uomini apposta,
seminatori di denaro di ribellione, essere sparsi fra i contadini delle
valli, matura non essere ancora la trama, avere ad essere fra otto o
dieci giorni: erano i nove di marzo. Trattenessesi, esortava, in Milano
Stefani, svelasse il tutto per un procaccio fidato a Battaglia,
provveditore straordinario di Brescia; perchè, affermava, impedita la
rivoluzione in Brescia, s'impedirebbe anche negli altri luoghi; intanto
non si facessero carcerazioni di persone, perchè per questo si
ritarderebbe, non s'impedirebbe l'esito della congiura: sapere il giorno
dell'unione di tutti i congiurati, ne avvertirebbe egli, acciocchè tutti
ad un tratto potessero arrestarsi, e così intieramente si renderebbe
vana la diabolica cospirazione. Protestatosi dallo Stefani, volersene
tornare a Bergamo, rispondeva Landrieux, non convenirsi, bensì andare a
Brescia. Toccatasi dal Veneziano la gratitudine della repubblica
rispondeva il Francese, premio non desiderare per allora, doversi il suo
nome tenere segreto, finchè l'esercito fosse ridotto sulle Alpi per
restituirsi in Francia; se Venezia allora si ricordasse di Landrieux,
ciò gli sarebbe a grado. Trovava modo Stefani di tornare a Bergamo; ebbe
raccontato il fatto ad Ottolini. Scriveva il podestà prestamente al
provveditore straordinario Battaglia. Ma i congiurati, forse per aver
avuto sentore, o lingua degli avvisi dati da Landrieux, furono più
presti a fare, che Ottolini e Battaglia ad impedire.
Era la mattina dei dodici marzo, quando un moto insolito si manifestava
in Bergamo, i congiurati chiamavano il popolo a libertà; predicavano,
ajutare i Francesi l'impresa; divisi in varie squadre giravano per la
città; fermavansi tratto tratto ai capi delle strade, poi di nuovo
marciavano; guardie Francesi raddoppiate alle porte, cannoni condotti
dal castello in piazza, due rivolti al palazzo; interrogato il
comandante Francese dal podestà, che cosa volesse significar questo,
accusava pattuglie insolite di soldati Veneziani e della sbirraglia.
Erano in Bergamo due compagnìe di cavallerìa Croata, due di fanti
d'oltremare, tre d'Italiani, forse con tutto questo trenta sbirri; non
montavano fra tutti a quattrocento: i Francesi quattro mila, se non
mentivano le polizze, perchè per altrettanti forniva i viveri la
provincia. Di quei pochi, col castello in mano, con tutte le artiglierie
in suo potere temeva il comandante. Insomma nasceva il romore, atterriti
gli amatori dello stato vecchio, imbaldanziti gli amatori del nuovo.
Lefevre, comandante per Francia, fatti chiamare a se i deputati alle
provvisioni, intimava loro, avessero a sottoscrivere il voto per la
libertà, ed unione del Bergamasco alla repubblica Cispadana: se nol
facessero, ne anderebbe la vita. In questo mezzo due uffiziali
repubblicani, l'Hermite e Boussion, presiedevano ai voti per la libertà,
ed unione alla Cispadana. Sottoscrivevano, alcuni per amore, molti per
forza. Era un andare e venire, una confusione, un trambusto incredibile.
Scendeva la notte intanto, e rendeva più terribile l'aspetto delle cose.
In questo mentre si creava il municipio; toglievano i repubblicani lo
stendardo Veneto, che ancora sventolava sulle mura del castello. Era
ancor libero Ottolini, instava presso a Lefevre comandante, della
santità dei neutri ammonendolo. Ma Lefevre, deposta in tutto la visiera,
faceva udire questo suono, che il popolo di Bergamo era libero, che per
questo egli aveva fatto torre lo stendardo Veneto, ostacolo alla
libertà; che le intraprese lettere del podestà (quest'erano le lettere
con le quali Ottolini mandava agl'inquisitori di stato la nota dei
congiurati, e che erano state intercette ed aperte da Lefevre) gli
servivano di regola; che però egli, Ottolini, avesse a sgombrar tosto da
Bergamo; quando no, il manderebbe carcerato a Milano. Cacciare dalla
propria sede sotto pena di esilio e di carcere un rappresentante
pubblico di un governo, è oltraggio tale, che niun altro può esser
maggiore, e solo avrebbe bastato, non solamente a giustificare, ma
ancora a necessitare qualunque presa d'armi, ed anzi una formale
dichiarazione di guerra da parte del senato Veneziano contro la Francia,
se questa non satisfacesse, come effettivamente non satisfece. Mentre il
comandante minacciava Ottolini, sopraggiungevano l'Hermite e Boussion, e
con loro i conti Pesenti ed Alborghetti, in divisa e nappa Francese. Di
bel nuovo intimavano ad Ottolini, partisse subito, o sarebbe mandato a
Milano. Partiva il podestà alla volta di Brescia, lasciando Bergamo in
poter dei novatori, i soldati Veneti, prima disarmati, poi mandati a
Brescia.
Il nuovo magistrato municipale mandava fuori un manifesto per informare,
come diceva, il popolo sovrano, che i municipali erano entrati in
ufficio. Scriveva quindi il giorno medesimo in nome del popolo sovrano
di Bergamo alla repubblica Cispadana, avere Bergamo conquistato la
libertà, desiderare collegarla con quella della Cispadana;
l'accettassero in amicizia, dessergli quella del popolo Cispadano.
«Viviamo, continuavano, combattiamo, e moriamo, se fia d'uopo, per la
causa medesima: al medesimo modo debbono vivere i popoli liberi: viviamo
adunque uniti per sempre voi, Francesi, e noi».
Pubblicavansi frequenti scritti, parte serj, parte faceti,
parte schernevoli sul lione di San Marco, sui piombi di
Venezia, sugl'inquisitori di stato, sulla tirannide d'Ottolini,
sull'aristocrazia, sull'oligarchia, e simili altre parole greche; strana
occupazione di menti del condannare in altri ciò che era in se, perchè
dei piombi, e degl'inquisitori si può domandare, che altra cosa fossero
i ministri di polizia del direttorio e di Buonaparte, se non inquisitori
di stato, e se non abbiano fatto arrestare, e tener prigione senza
processo più gente in quindici anni, che gl'inquisitori di Venezia in
tre secoli. Si può anche domandare, se i castelli di Vincenna, di Ham, e
di Pietra Castello non fossero piombi, e se il comandante di Milano non
esercitasse maggior tirannide contro coloro che non amavano lo stato
nuovo, che Ottolini contro quei che non amavano il vecchio. Quanto
all'aristocrazia ed all'oligarchia, gli uomini dritti, e che non si
lascian prendere alle grida, sapranno ben essi con qual nome chiamare
uno stato, come quello era di queste estemporanee repubbliche Italiane,
in cui un comandante militare comandava a pochi gridatori di libertà,
questi pochi molestavano con ischerni, con tasse, con prigionie, e con
esilj l'universale dei popoli. Io temo che da tutto questo chi mi legge
creda, ch'io non sia amico della libertà; ma queste cose io dico
appunto, perchè sono; imperciocchè il peggior male che si sia fatto alla
libertà, è l'aver chiamato col suo nome la tirannide. Trovomi in questo
concorde col generoso Parini: _ed ancor io_, diceva egli, _amo la
libertà, ma non la libertà fescennina_.
Intanto i novatori, non essendo senza sospetto sugli abitatori delle
campagne, mandavano uomini fidati a predicare la libertà, rizzavano
alberi, creavano municipali, gridavano contro l'aristocrazia: i popoli
aombravano, non sapendo che cosa queste strane fogge si volessero
significare. Non si muovevano in favor dello stato nuovo, perchè non
l'intendevano, e non vedevano qual bene avesse in se: neppur si
muovevano in favor del vecchio, perchè il caso improvviso di Bergamo gli
aveva fatti attoniti e temevano i Francesi che vi erano mescolati.
Arrivavano poscia Cispadani, Transpadani, Polacchi, ogni sorte di
patriotti, e facevano un predicare, uno scrivere, un festeggiare
incredibile.
Quivi non si rimanevano le disgrazie della repubblica veneziana.
Rivoltato Bergamo, volevano far mutazione in Brescia per vieppiù