Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II - 13
anche le spie, e portare pubblicamente, come i fuorusciti, il bavero
verde: di questo non potersi dar pace; servir loro Wurmser, servir la
Russia, succiarsi la repubblica.
In tal modo Buonaparte riempiva di querele Italia e Francia: intanto
andava a ruba l'Italia. Nè uno era il modo del guadagno, nè alcuna
spezie di fraude si pretermetteva. I più usavano di non pagare sotto
pretesto di non aver fondi, se non con grossi sconti, le tratte, che
loro s'indirizzavano o dal governo, o dai particolari creditori; brutto
veramente, ed infame traffico era questo; perchè essi erano cagione col
non pagare, e con diffidenze artatamente sparse, che le tratte
scapitassero, poi le ricevevano a perdita, e più scapitavano, ed a
maggior perdita le ricevevano, e più grossi guadagni facevano, autori ad
un tempo, e profittatori del male. La peste penetrava più oltre, perchè
era cagione che i prezzi a bella posta s'incarissero, ed i contratti si
facessero simulati; il male del rubare era il minore, perchè il costume
si corrompeva. In queste laide involture si mescolavano anche Italiani,
e tra di questi alcuni, che avevano le cariche nei governi temporanei,
ed alcuni altresì, che facevano professione di amatori della libertà.
Queste cose facevano da se, e per se, o per mezzo d'interposte persone,
o intendendosela con gli amministratori infedeli. Con qual nome chiamare
costoro, io non saprei; so bene, come gli chiamavano, e chiamano
tuttavia, perchè son ricchi, i parasiti ed i giornali, che con parole
magnifiche gli encomiavano in quei tempi, ed encomiano ancora ai giorni
nostri; sicchè, se una volta era il proverbio, che la guerra fa i ladri
e la pace gl'impicca, ora debb'essere quest'altro, che la guerra fa i
ladri e la pace gli loda. Hanno costoro gioie, e gioielli, e palazzi in
città, e ville in contado, e statue, e quadri, e mobile prezioso, ed
ogni sorta di agio, con adulatori in quantità. Tali erano non pochi dei
gridatori di libertà dei nostri tempi, ed io ne ho conosciuto alcuni,
che stampati in fronte delle ruberie del loro paese, se ne andavano
tuttavia predicando con singolare intrepidezza la repubblica e la
libertà, anzi credevano, od almeno dicevano, esser loro i veri amatori,
ch'elleno avessero. Così, se parecchi tra i Francesi che avevano cura
dell'amministrazione involavano, si trovava anche fra gl'Italiani chi
teneva loro il sacco; e vi era allora, qual sempre vi è, una gente, che,
come i corvi intorno ai cadaveri, aliavano continuamente là dove erano i
disastri pubblici, per farne il loro pro ed arricchirsene. Costoro, ed
allora si mostrarono più che in altro tempo, sono una singolare
generazione d'uomini perchè se è stagione di libertà e' gridano libertà,
se è stagione di dispotismo, e' gridano dispotismo, e sempre ridenti, e
sempre adulatori, aiutano a spogliar con arte chi già è spogliato dalla
forza; nè abborriscono dallo spogliare e dal succiare e dallo straziare,
quand'anche il soggetto sia la patria loro, che anzi le miserande sue
grida sono incitamento alla ferina cupidigia di quest'uomini spietati.
Queste cose vedemmo con gli occhi nostri, nè la religione le impediva,
perchè era venuta a scherno, nè la giustizia, perchè era compra. Così
tra la forza che ammazzava, e l'arte che rubava, fu sobbissata l'Italia,
e peggio, ch'ella era mira di calunnie da parte degli ammazzatori e dei
ladri. Chi dava e pigliava gli appalti degli arnesi necessari alla
guerra con ingordi beveraggi, ed a prezzi più cari del doppio del
genuino valore; chi metteva, minacciando saccheggi, taglie sui paesi, e
questi denari spremuti a forza dai popoli si appropriava. Questi
prometteva di preservare dalle prede, se si desse denaro a lui:
gl'Italiani davano, e qualche volta erano preservati, e qualche volta
no: si vendeva il beneficio. Quest'altro faceva tolte di robe per gli
ospedali, le usava per se. Diè Cremona cinquantamila canne di tela fine
pei malati, e per se gli arrappatori se le pigliarono. Chi vendeva i
medicinali dell'esercito, e convertiva il prezzo in suo pro: la
corteccia tanto preziosa del Perù principalmente era divenuta materia
d'infame ladroneccio. Quanti soldati consunti dalle perniziose febbri
perirono, che sarebbero stati salvi, se i rubatori avessero avuto più a
cuore le vite loro, che le mense, i teatri, e le meretrici! Nè era cosa
che santa o sicura fosse, perchè si faceva traffico dell'asilo dei
morenti, e sonsi veduti uomini abbominevoli minacciare di porre ospedali
militari nei conventi col solo fine di costringergli a pagar denaro per
ricomperarsi da quella molestia: i soldati intanto se ne morivano per le
strade, perchè gl'insaziabili segavene s'ingrassassero, ed in ogni più
immondo, in ogni più ingordo vizio s'ingolfassero. Le polizze dei
passati si davano per chi non era passato, ed anche per chi era morto: i
magazzini si empivano di grasce finte, e nissuno aveva, se non chi non
doveva avere. I soldati perivano, i paesi pagavano, perchè a quello, che
non era somministrato dalle riposte, bisognava bene, e per forza, che i
paesi sopperissero. Così chi dava, non aveva, chi non dava, aveva; la
brutta usanza fu generale. I capisoldi poi, i premj, le indennità
largamente si davano a chi meno le meritava, nè vi era ufficiale, che di
chi ministrava fosse amico, che alla menoma rotta non si trovasse ad
aver perduto gli arnesi, e grassi compensi non toccasse, mentre gli
uomini valorosi, che combattendo virilmente contro il nemico, avevano
perduto tutto, richiedevano invano quello, a che la patria era loro
obbligata. Cuocevano infinitamente a Buonaparte i raccontati ladronecci,
e faceva formare ai rei gravissimi processi dalle diete militari,
instando perchè fossero dannati a morte, a motivo, come diceva, che non
erano ladri ordinarj, ma tali, che con le malvagie opere loro
interrompevano il corso alle sue vittorie, od erano almeno cagione che
con più sangue si acquistassero. Ma si lamentava che vi fossero in
queste diete dei segreti maneggi, onde i rei se ne andavano od assoluti,
o condannati a pene nè proporzionate al delitto, nè capaci di spaventare
i compagni. «Voi avete presupposto certamente, scriveva Buonaparte
sdegnoso al direttorio, che i vostri amministratori ruberebbero, ma
farebbero i servizi, ed avrebbero un po' di vergogna: ma e' rubano in un
modo tanto ridicolo e tanto impudente, che s'io avessi un mese di tempo,
non ve ne avrebbe un solo che non facessi impiccare. Gli fo legar dai
gendarmi, gli fo processar dai consigli militari continuamente. Ma che
giova, se i giudici sono compri? Questa è fiera, e tutti vendono. Un
impiegato accusato di aver posto una taglia di diciottomila franchi a
Salò, fu condannato a due mesi di carcere. Così, come si potran pruovare
le accuse? È un concerto: tante vili enormità fan vergogna al nome
Francese.» Così si querelava, e così inveiva Buonaparte contro i
rubatori, e questa fu l'accompagnatura della libertà in Italia.
Ma egli è oramai tempo di far passaggio dall'avarizia degl'involatori al
furore degli armati: incominciarono le armi a suonare più orribilmente
che prima sulle Italiane terre. Non aveva il direttorio pretermesso
alcun ufficio per inclinare l'imperatore alla pace, ora offerendogli
compensi di nuovi stati, ora minacciando di sterminio quelli, che ancora
gli restavano. A quest'ultimo fine scriveva Buonaparte all'imperatore
Francesco, che s'ei non si risolvesse alla pace, colmerebbe per ordine
del direttorio il porto di Trieste, e guasterebbe tutte le sue
possessioni dell'Adriatico. Ma i prosperi successi dell'arciduca Carlo
in Germania avevano ridesto nell'Austria la speranza di sostenere le
cose d'Italia, ed anzi di riconquistare gli stati perduti; però non
volle consentire agli accordi.
Il fondamento di questo nuovo moto era Mantova, perchè tutti i disegni
potevano arrivare al fine desiderato, se la sua difesa tuttavia si
sostenesse; ed all'opposto sarebbero stati disordinati, se cadesse in
possessione dei Francesi. Non era ignoto a Vienna, che il presidio era
ridotto all'estremo, dalle malattie e dalla strettezza dei viveri, e che
solo si sosteneva per la costanza veramente maravigliosa dell'antico
Wurmser. Nè solo il maresciallo vinceva con animo invitto l'urto delle
armi nemiche, ma ancora la minaccia barbara e vile fattagli dal
direttorio, che, se non desse la piazza in mano della repubblica,
sarebbe quando si arrendesse, condotto a Parigi, e giudicato qual
fuoruscito Francese. Vide l'Austria, che non era tempo da aspettar
tempo, e che il pericolo di Mantova ricercava prestissima espedizione;
perciò adunava con celerità mirabile un nuovo esercito di più di
cinquantamila combattenti pronto a calare per mettere di nuovo in forse
la fortuna Francese, che già tanto pareva stabile e sicura. Certamente
fu maraviglioso l'impeto Francese in quei tempi, ma non fu meno
maravigliosa la costanza Tedesca. Di tanta mole si mandavano venticinque
mila soldati freschi nel Tirolo e nel Friuli, e tanto era l'ardore loro,
che davano speranza di vittoria. Infatti nelle battaglie, che poco dopo
seguirono, combatterono non solo con valore, ma ancora con furore,
siccome quelli che erano cupidi non solo di ricuperare i paesi perduti,
ma ancora di scancellare l'offesa fatta alle armi imperiali dalle
precedenti sconfitte. L'emolazione altresì verso i soldati di Germania
operava efficacemente nelle menti loro, e le vittorie dell'arciduca gli
stimolavano. Fu posto al governo di queste fiorite genti il generale
d'artiglierìa Alvinzi già pratico delle guerre d'Italia, e nel colmo
della riputazione; e siccome quegli che era di natura pronta e
speditiva, si sperava che fosse per allontanare da se quella lentezza
che era stata cagione delle rotte precedenti. Aveva anche per
consigliero un Veiroter, che si era acquistato nome di perito capitano
in Germania. Era il disegno di questa nuova mossa non dissomigliante da
quello posto in opera pochi mesi prima da Wurmser, con questa differenza
però, che ove il maresciallo discese con tutto il pondo per la valle
dell'Adige, ed interpose, certamente con imprudente consiglio, tra le
due principali parti de' suoi tutta la larghezza del Lago di Garda,
Alvinzi ordinava, che una parte guidata da Davidowich scendesse dal
Tirolo con venti mila soldati, e conculcati i Francesi, che colà
stanziavano alla difesa dei passi, se ne venisse a sboccare per
Castelnuovo fra l'Adige e il Mincio. Egli poi con trenta mila
combattenti venuti dalla Carniola e dal Cadorino, si proponeva di
varcare il Tagliamento, la Piave e la Brenta, combattendo i repubblicani
ovunque gli trovasse, e quindi varcato il fiume più grosso dell'Adige
dove la occasione migliore si appresentasse, di congiungersi con
Davidowich, e di marciare unitamente alla liberazione di Mantova. Già
varcati con fatica incredibile i monti della Carniola, e traversati
torrenti grossi ed impetuosi, erano, quando il mese di ottobre si
avvicinava al suo fine, giunti gl'imperiali sulle sponde della Piave, e
si accingevano a dar principio a quella terza guerra, dalla quale
pendeva il destino della potenza Austriaca in Italia.
Non erano a tanta mole pari pel numero i Francesi; perchè certamente non
passavano i quaranta mila, noverati gli assediatori di Mantova. A questi
nondimeno debbonsi aggiungere gl'Italiani, ed i Polacchi ordinati a
Milano, e nella Cispadana, che, sebbene Buonaparte non se ne servisse
per combattere nelle battaglie giuste, erano a lui di grandissima
utilità, ed accrescevano la sua forza, perchè tenevano i presidj nelle
piazze, contenevano il papa, e facevano il paese sicuro insino alla
Romagna ed al Veneziano. Trovavansi allora i Francesi raccolti nelle
stanze, perchè Kilmaine con ottomila soldati stava attorno a Mantova,
Augereau con altrettanti custodiva le sponde dell'Adige, Massena sempre
il primo ad essere esposto alle percosse del nemico, alloggiava sulla
Brenta, Vaubois assicurava il Tirolo con dieci mila soldati. In fine una
schiera di riserbo, in cui si noveravano circa tre mila soldati tra
fanti e cavalli, era distribuita negli alloggiamenti di Brescia sotto la
condotta dei generali Macquart e Beaumont. Aveva Buonaparte comandato a
Vaubois, impedisse ad ogni modo il passo a Davidowich, e siccome gli
assalti sono sempre più fortunati pei Francesi, che le difese, volle che
Vaubois medesimo, ancorchè fosse inferiore di forze, non aspettasse il
nemico, ma lo andasse ad assaltare nei propri alloggiamenti: soprattutto
il cacciasse dai luoghi tra il Lavisio e la Brenta. Egli intanto si
apprestava ad arrestare con Massena ed Augereau l'impeto di Alvinzi, che
già arrivato sulle rive della Brenta, ed avendola passata, faceva le
viste di volersi incamminare verso Verona. Alloggiava Davidowich col
grosso delle sue genti a Newmark, mentre la vanguardia occupava il forte
sito di Segonzano, reso anche più sicuro dal posto eminente di Bedole,
custodito da Wukassowich. Guyeux, obbedendo agli ordini di Vaubois,
assaltava San Michele, terra posta oltre il Lavisio, con intento, se la
battaglia riuscisse prospera, di correre contro Newmarck. Al tempo
medesimo Fiorella urtava le terre di Cembra e di Segonzano. Fu grande la
resistenza che incontrava Guyeux a San Michele; perchè gli Austriaci
avevano chiuso l'adito alla terra con trincee, ed essendosi posti ai
merli, di cui erano guernite le case, attendevano a difendersi
virilmente. Tre volte andarono alla carica con grandissima animosità i
Francesi guidati dal capitano Jouannes, e tre volte erano con grave
uccisione risospinti. Era la fazione di grande importanza, e maggiore
anche di quanto annunziassero il numero poco notabile dei combattenti, e
la ristrettezza dei luoghi, in cui si combatteva, perchè dall'esito
pendeva la conservazione, o la conquista del Tirolo, il potere gli
Austriaci od i Francesi incamminarsi alle spalle del nemico per le valle
della Brenta, e finalmente la congiunzione, o la non congiunzione delle
due schiere Alemanne, capo principalissimo dei disegni fermati a Vienna
per la ricuperazione d'Italia. In fine, fattosi dai Francesi un ultimo
sforzo, entravano in San Michele, e se ne impadronivano a malgrado che i
Tedeschi, ajutati anche da parte dei Tirolesi, avessero continuamente
tratto contro di loro con morte di molti, e con ferita del valoroso
Jouannes.
Bene auguravano i Francesi dei fatti loro in Tirolo, ma non fu loro
ugualmente favorevole la fortuna a destra verso Segonzano; il che
interruppe tutti i pensieri loro, e da vincitori diventarono vinti.
Aveva bene Fiorella, con molta valenzia combattendo, espugnato il
castello di Segonzano, ma non avendo, o perchè abbastanza non avesse
fatto esplorare i luoghi, o qual'altra cagione che sel muovesse,
sloggiato prima l'inimico da Bedole, questi scendendo improvvisamente,
lo assaliva sul fianco destro ed alla coda, talmente che fu commessa non
poca strage dei suoi, e fu costretto a ritirarsi più che di passo verso
Trento. S'aggiunse, che Davidowich medesimo, udite le novelle
dell'assalto dato ai Francesi, si era calato col grosso de' suoi a
soccorrere la vanguardia; di modo che non fu lasciato altro scampo ai
repubblicani, se non volevano essere tagliati tutti fuori, ed a pezzi,
che quello di ritirarsi più sotto, lasciando, dopo breve contrasto sotto
le mura, la città stessa di Trento in balìa degli antichi signori.
Successe questo fatto ai due novembre. Due giorni dopo entrava
Davidowich in Trento; rallegrandosene gli abitanti, amatori del nome
Austriaco, ed asperati dalle intemperanze dei conquistatori.
Vaubois dopo di aver combattuto infelicemente a Segonzano, andava a
porsi alla bocca delle strette di Calliano, alloggiamento, intorno al
quale si era persuaso, per la sua fortezza, doversi fermare l'impeto dei
vincitori. Assicurava alla sinistra il fianco dei Francesi il fiume
Adige, la destra custodivano due colli eminenti, sui quali sorgono i due
castelli della Pietra, e di Bezeno. Dava fortezza alla fronte un rivo
assai profondo, sulle sponde del quale avevano i repubblicani eretto
parapetti, e cannoniere munite di artiglierìe. Tenevano in guardia
questo forte luogo quattromila soldati eletti, che aspettavano
confidentemente l'incontro del nemico. Marciava Davidowich enfiato dalla
prosperità della fortuna, grosso, e minaccioso, dopo l'occupazione di
Trento, all'ingiù dell'Adige, avendo talmente diviso i suoi che
Wukassowich scendeva sulla sinistra del fiume, Ocskay sulla destra.
Laudon, condottosi ancor esso sulla destra con soldati più leggieri,
camminava più alla larga verso Torbole, con intenzione di dar timore al
nemico per la possessione di Brescia. Arrivavano Wukassowich a fronte di
Calliano, Ocskay a Nomi. Avrebbe potuto, come alcuni credono,
Davidowich, in vece di assaltar di fronte quel luogo tanto munito di
Calliano, girato prima alla larga per le eminenze, scendere poscia, e
riuscire per la valle di Leno alle spalle del nemico. Ma, qual si fosse
la cagione, amò meglio venirne alle mani in una battaglia giusta,
confidando nel valore e nella grossezza delle sue genti, massimamente
nei feritori Tirolesi, che pratichi dei luoghi più inaccessi, e
peritissimi nel trarre di lontano; avrebbero efficacemente ajutato lo
sforzo Austriaco. Combattessi il giorno sei di novembre con incredibile
audacia, e vario evento da ambe le parti, sforzandosi gl'imperiali di
superare il passo, ed insistendo principalmente contro i castelli della
Pietra, e di Bezeno. Restarono i repubblicani superiori, fu l'assalto
degli Alemanni infruttuoso. Davidowich, veduto che l'impresa si mostrava
più dura di quanto aveva pensato, mandava in rinforzo di Wukassowich il
generale Spork ed il principe di Reuss, ed operava di modo che per
diligenza di Ocskay, si piantassero artiglierìe presso a Nomi sulla
destra dell'Adige, ed anche a fronte della strada che da Trento porta a
Roveredo. Al tempo medesimo i feritori Tirolesi, postisi qua e là sui
vicini gioghi, si apparecchiavano a bersagliare l'inimico. Cominciavasi
il giorno sette una ferocissima battaglia, in cui come fu il valore
uguale da ambe le parti, così fu varia la fortuna, perchè ora
prevalevano i repubblicani, ed ora gl'imperiali. Venne verso le cinque
ore della sera il castello di Bezeno in poter dei Croati dopo un lungo
ed ostinato combattimento, in cui i Francesi si difesero con sommo
valore, e con tutte sorti di armi, perfino coll'acqua bollente, che
furiosamente versavano contro gli assalitori. Fu il presidio parte
preso, parte tagliato a pezzi. Poco stante cedeva anche il castello
della Pietra; ma di nuovo i Francesi se ne impadronivano, e di nuovo
ancora lo perdevano. Con lo stesso furore si combatteva nei luoghi più
bassi verso Calliano, e fu quel forte passo preso, ripreso, perduto, e
riconquistato più volte ora da questi, ora da quelli. Era tuttavìa
dubbia la vittoria, quantunque le artiglierìe di Ocskay, ed i feritori
Tirolesi non cessassero di fare scempio dei Francesi, quando
improvvisamente udissi fra di loro, se per paura, o per tradimento non
bene si sa, un gridare, salva, salva, per cui ad un tratto si
scompigliava tutto il campo, e si metteva in rotta. Non si perdeva per
questo d'animo Vaubois, e raccolti, meglio che potè, i suoi e calatosi
vieppiù per le rive dell'Adige, andava ad alloggiare nei siti forti
della Corona e di Rivoli. Roveredo intanto, e tutte le terre circostanti
tornavano sotto la divozione dell'antico signore. Perdettero in questo
fatto i Francesi sei pezzi d'artiglierìa, e nella ritirata per a Rivoli,
essendo seguitati dai Tedeschi, altri sei. Perdettero, oltre a questo,
non poche munizioni; noverarono due mila soldati uccisi, e mille
prigionieri con qualche ufficiale di conto. Furono dalla parte degli
Austriaci molto lodati i Croati, e principalmente i cacciatori Tirolesi,
ai quali fu l'imperatore obbligato dell'acquisto dei castelli di Bezeno
e della Pietra. Mancarono fra gli Austriaci circa cinquecento soldati
fra morti, feriti, e prigionieri; desiderarono due cannoni. Questa fu la
seconda battaglia di Calliano, non inferiore alla prima, nè a nissuna
pel valore, e per l'ostinazione mostrata da ambe le parti.
Questa vittoria avrebbe potuto partorire la ruina dei repubblicani, se
Davidowich tanto fosse stato pronto a seguitare il corso della fortuna
prospera, quanto erano stati valorosi i suoi soldati al combattere;
conciossiachè, se pressato avesse, senza mai dargli posa, ed incalzato
l'inimico innanzi che avesse avuto tempo di respirare, e di rannodarsi,
verisimile cosa è, che avrebbe prevenuto tutti gl'impedimenti, e,
superato facilmente la Corona e Rivoli, sarebbe comparso improvvisamente
grosso e vittorioso sulle rive del Mincio: il che avrebbe posto in
gravissimo pericolo Buonaparte, che era alle mani sulla Brenta con
Alvinzi, e dato comodità al generalissimo d'Austria di farsi avanti a
congiungere le due parti per correre grosso, ed intiero alla liberazione
di Mantova. Ma Davidowich per una tardità o negligenza certamente
inescusabile, se ne stava più di dieci giorni alle stanze di Roveredo,
con lasciare quasi quiete le armi, e non si moveva per alle fazioni del
Mincio, se non quando la fortuna, per la perizia e velocità di
Buonaparte, aveva già fatto una grandissima variazione tra la Brenta e
l'Adige.
Erasi il generalissimo Alvinzi fatto signore del passo della Brenta con
occupare Bassano, Cittadella, e Fontaniva, ed avendo avuto avviso delle
prime vittorie di Davidowich nel Tirolo, aveva ordinato, che i suoi
varcassero il fiume. Sboccava Quosnadowich nella parte superiore da
Bassano, e posava le sue stanze a Marostica, ed alle Nove. Liptay
correva ad alloggiarsi più sotto tra Carmignano, e l'Ospedal di Brenta:
ma siccome quegli, che solo guidava la vanguardia, fu stimato troppo
debole, e però fu fatto seguitare dalla battaglia condotta da Provera,
che aveva varcato il fiume a Fontaniva. Al tempo stesso Mitruski,
padrone del castello della Scala, mandava guardie insino a Primolano per
sopravvedere quello, che fosse per succedere nella valle della Brenta,
della quale stavano le due parti in grandissima gelosìa. Buonaparte,
confidando di compensare con la celerità quello, che gli mancava per la
forza, aveva fatto venire a se, oltre le schiere tanto valorose di
Massena e di Augereau, le guernigioni di Ferrara, Verona, Monbello e
Legnago. Era suo pensiero di assaltare Alvinzi, di romperlo, e,
camminando quindi con somma celerità per la valle verso le fonti della
Brenta, di riuscire alle spalle di Davidowich, e di sgombrare per tal
modo e al tempo stesso, l'Italia ed il Tirolo dalla presenza degli
Austriaci; pensiero certamente molto audace, e da non venir in capo, che
a lui, che tutto era, per la gioventù e pel vigor dell'animo, coraggio e
prestezza. Urtava Augereau Quosnadowich, Massena Provera: ne nasceva il
dì sei novembre una sanguinosa zuffa. Dure furono le prime Italiche
battaglie, ma questa è stata molto più. Si attaccavano con grandissimo
furore Augereau e Quosnadowich, ambi capitani esperti, ambi valorosi:
ora cedeva l'uno, ora cedeva l'altro; Alvinzi, che conosceva
l'importanza del fatto, mandava continuamente alla sua parte nuovi
rinforzi. Fu preso, perduto, ripreso, e riconquistato più volte il
villaggio delle Nove, e sempre con uccisione orribile delle due parti.
Si combattè, prima con le artiglierìe, poi con la moschetterìa, poi con
le bajonette, poi con le sciable, finalmente con le mani e con gli urti
dei corpi; valore veramente degno della fama Francese ed Austriaca.
Infine restarono i Francesi signori del combattuto villaggio; ma seppe
tanto acconciamente Quosnadowich schierare i suoi, che grossi e
minacciosi si erano ritirati dal campo di battaglia, nell'alloggiamento
che dai monti dei sette comuni si distende per Marostica sino alla
Punta, che quantunque urtato e riurtato da Augereau, si mantenne unito,
e rendè vano ogni sforzo del suo animoso avversario. Ma dall'altro lato
non si combattè tanto felicemente per Provera contro Massena; perchè,
sebbene l'Austriaco non fosse rotto, sentissi non ostante tanto
gravemente pressato, che stimò miglior partito il ritirarsi sulla
sinistra del fiume, rompendo anche il ponte di Fontaniva, acciocchè il
nemico nol potesse seguitare. Fessi notte intanto; l'oscurità e la
stanchezza, poichè si era combattuto tutto il giorno, piuttosto che la
volontà, pose fine al combattere che fu mortalissimo; perchè tra morti,
feriti, e prigionieri desiderò ciascuna delle parti circa quattromila
soldati. Il generale francese Lanusse, ferito da colpo di arma bianca,
cadde in potere dei Tedeschi.
Il non aver potuto rompere gl'imperiali in questo fatto, diede a pensare
a Buonaparte. Vano era lo sperare di poter riuscire a montare per la
valle di Brenta verso il Tirolo. La perdita di Segonzano e di Trento, di
cui egli aveva avuto notizia, dava giustificato timore per Verona e per
Mantova, e l'ostinarsi a voler combattere un nemico grosso, avvertito,
ed insistente in un sito forte, non sarebbe stato senza grave danno;
perchè ponendo anche il caso, che la battaglia succedesse prosperamente,
il perdere ugual numero di soldati era più pernizioso ai Francesi manco
numerosi, che agli Austriaci più numerosi. Dal che si vede, quanto
momento avrebbe recato in tanta incertezza di fortuna Davidowich, se si
fosse spinto avanti con quel medesimo vigore, col quale aveva combattuto
a Galliano, e fosse andato a dirittura a ferire Corona, e Rivoli. Mosso
da queste considerazioni si deliberava Buonaparte a levar il campo dalle
rive della Brenta per andarlo a porre su quelle dell'Adige nel sito
centrale di Verona. Per la qual cosa il dì sette novembre molto per
tempo mosse l'esercito verso Vicenza, e non fece fine al ritirarsi, se
non quando arrivò sotto le mura di Verona. Il seguitavano il giorno
medesimo i Tedeschi, succedeva un aspro combattimento a Scaldaferro.
Entravano gl'imperiali il dì otto in Vicenza, il nove alloggiavano a
Montebello. Quivi pervenivano ad Alvinzi le desideratissime novelle
della vittoria di Calliano; perciò spingendosi più oltre andava a porre
il campo a Villanova, terra posta a mezzo cammino tra Vicenza e Verona.
Intenzion sua era di aspettare in quest'alloggiamento, che cosa
portassero le sorti in Tirolo, e massimamente che Davidowich, superati i
forti passi della Corona e di Rivoli, si fosse fatto vedere a Campara ed
a Bussolengo; perchè allora si sarebbe mosso egli medesimo verso quella
parte che più sarebbe stata conveniente per congiungersi col vincitore
del Tirolo. Ordinava intanto varie mosse per dare diversi riguardi al
nemico, e per tenerlo sospeso del dove volesse andar a ferire.
Apprestava eziandio quantità grande di scale, come se fosse per dare la
scalata a Verona. Già aveva mosso la vanguardia, e fatta posare
nell'alloggiamento di Caldiero più vicino alla città.
Minacciato Buonaparte a stanca ed alle spalle da un generale vittorioso,
a fronte da un generale, se non vittorioso, almeno più forte di lui,
aveva tutti i partiti difficili: perchè l'aspettare era dar tempo a
Davidowich di assalirlo alle spalle, e di far allargare ad un tempo
l'assedio di Mantova; l'assaltare era un commettersi all'ultimo cimento
per la salute de' suoi, e per la conservazione della sua gloria. Ma non
istette lungo tempo in pendente, perchè sapeva, che i consigli timidi
fanno i Francesi meno che femmine, i generosi, più che uomini. Si
risolveva adunque a voler pruovare a Caldiero, se la fortuna volesse
perseverare a mostrarsi benigna verso di lui, ed a cangiarsi in
contraria. Usciva da Verona; guidava Massena l'ala sinistra, Augereau la
destra. Incontrati i primi corridori nemici a San Michele ed a San
Martino, facilmente gli fugava: il giorno dodici novembre era destinato
alla battaglia. Eransi molto acconciamente accampati i Tedeschi; perchè
l'ala loro stanca s'appoggiava a Caldiero, ed alla strada maestra, che
da questa terra si volge a Verona. La destra era schierata sul monte
Oliveto, ed occupava il villaggio di Colognola, sito erto, e difficile
ad espugnarsi. Le restanti genti di Alvinzi continuavano a stanziare a
Villanova in ordine di spignersi avanti, come prima si fosse
incominciato a menar le mani a Caldiero. Non così tosto il giorno
appariva, che andavano i repubblicani all'assalto. Già Augereau aveva
conquistato Caldiero, e preso al nemico cinque cannoni: già Massena si
distendeva a sinistra, e, fatti dugento prigionieri, aveva circuito la
verde: di questo non potersi dar pace; servir loro Wurmser, servir la
Russia, succiarsi la repubblica.
In tal modo Buonaparte riempiva di querele Italia e Francia: intanto
andava a ruba l'Italia. Nè uno era il modo del guadagno, nè alcuna
spezie di fraude si pretermetteva. I più usavano di non pagare sotto
pretesto di non aver fondi, se non con grossi sconti, le tratte, che
loro s'indirizzavano o dal governo, o dai particolari creditori; brutto
veramente, ed infame traffico era questo; perchè essi erano cagione col
non pagare, e con diffidenze artatamente sparse, che le tratte
scapitassero, poi le ricevevano a perdita, e più scapitavano, ed a
maggior perdita le ricevevano, e più grossi guadagni facevano, autori ad
un tempo, e profittatori del male. La peste penetrava più oltre, perchè
era cagione che i prezzi a bella posta s'incarissero, ed i contratti si
facessero simulati; il male del rubare era il minore, perchè il costume
si corrompeva. In queste laide involture si mescolavano anche Italiani,
e tra di questi alcuni, che avevano le cariche nei governi temporanei,
ed alcuni altresì, che facevano professione di amatori della libertà.
Queste cose facevano da se, e per se, o per mezzo d'interposte persone,
o intendendosela con gli amministratori infedeli. Con qual nome chiamare
costoro, io non saprei; so bene, come gli chiamavano, e chiamano
tuttavia, perchè son ricchi, i parasiti ed i giornali, che con parole
magnifiche gli encomiavano in quei tempi, ed encomiano ancora ai giorni
nostri; sicchè, se una volta era il proverbio, che la guerra fa i ladri
e la pace gl'impicca, ora debb'essere quest'altro, che la guerra fa i
ladri e la pace gli loda. Hanno costoro gioie, e gioielli, e palazzi in
città, e ville in contado, e statue, e quadri, e mobile prezioso, ed
ogni sorta di agio, con adulatori in quantità. Tali erano non pochi dei
gridatori di libertà dei nostri tempi, ed io ne ho conosciuto alcuni,
che stampati in fronte delle ruberie del loro paese, se ne andavano
tuttavia predicando con singolare intrepidezza la repubblica e la
libertà, anzi credevano, od almeno dicevano, esser loro i veri amatori,
ch'elleno avessero. Così, se parecchi tra i Francesi che avevano cura
dell'amministrazione involavano, si trovava anche fra gl'Italiani chi
teneva loro il sacco; e vi era allora, qual sempre vi è, una gente, che,
come i corvi intorno ai cadaveri, aliavano continuamente là dove erano i
disastri pubblici, per farne il loro pro ed arricchirsene. Costoro, ed
allora si mostrarono più che in altro tempo, sono una singolare
generazione d'uomini perchè se è stagione di libertà e' gridano libertà,
se è stagione di dispotismo, e' gridano dispotismo, e sempre ridenti, e
sempre adulatori, aiutano a spogliar con arte chi già è spogliato dalla
forza; nè abborriscono dallo spogliare e dal succiare e dallo straziare,
quand'anche il soggetto sia la patria loro, che anzi le miserande sue
grida sono incitamento alla ferina cupidigia di quest'uomini spietati.
Queste cose vedemmo con gli occhi nostri, nè la religione le impediva,
perchè era venuta a scherno, nè la giustizia, perchè era compra. Così
tra la forza che ammazzava, e l'arte che rubava, fu sobbissata l'Italia,
e peggio, ch'ella era mira di calunnie da parte degli ammazzatori e dei
ladri. Chi dava e pigliava gli appalti degli arnesi necessari alla
guerra con ingordi beveraggi, ed a prezzi più cari del doppio del
genuino valore; chi metteva, minacciando saccheggi, taglie sui paesi, e
questi denari spremuti a forza dai popoli si appropriava. Questi
prometteva di preservare dalle prede, se si desse denaro a lui:
gl'Italiani davano, e qualche volta erano preservati, e qualche volta
no: si vendeva il beneficio. Quest'altro faceva tolte di robe per gli
ospedali, le usava per se. Diè Cremona cinquantamila canne di tela fine
pei malati, e per se gli arrappatori se le pigliarono. Chi vendeva i
medicinali dell'esercito, e convertiva il prezzo in suo pro: la
corteccia tanto preziosa del Perù principalmente era divenuta materia
d'infame ladroneccio. Quanti soldati consunti dalle perniziose febbri
perirono, che sarebbero stati salvi, se i rubatori avessero avuto più a
cuore le vite loro, che le mense, i teatri, e le meretrici! Nè era cosa
che santa o sicura fosse, perchè si faceva traffico dell'asilo dei
morenti, e sonsi veduti uomini abbominevoli minacciare di porre ospedali
militari nei conventi col solo fine di costringergli a pagar denaro per
ricomperarsi da quella molestia: i soldati intanto se ne morivano per le
strade, perchè gl'insaziabili segavene s'ingrassassero, ed in ogni più
immondo, in ogni più ingordo vizio s'ingolfassero. Le polizze dei
passati si davano per chi non era passato, ed anche per chi era morto: i
magazzini si empivano di grasce finte, e nissuno aveva, se non chi non
doveva avere. I soldati perivano, i paesi pagavano, perchè a quello, che
non era somministrato dalle riposte, bisognava bene, e per forza, che i
paesi sopperissero. Così chi dava, non aveva, chi non dava, aveva; la
brutta usanza fu generale. I capisoldi poi, i premj, le indennità
largamente si davano a chi meno le meritava, nè vi era ufficiale, che di
chi ministrava fosse amico, che alla menoma rotta non si trovasse ad
aver perduto gli arnesi, e grassi compensi non toccasse, mentre gli
uomini valorosi, che combattendo virilmente contro il nemico, avevano
perduto tutto, richiedevano invano quello, a che la patria era loro
obbligata. Cuocevano infinitamente a Buonaparte i raccontati ladronecci,
e faceva formare ai rei gravissimi processi dalle diete militari,
instando perchè fossero dannati a morte, a motivo, come diceva, che non
erano ladri ordinarj, ma tali, che con le malvagie opere loro
interrompevano il corso alle sue vittorie, od erano almeno cagione che
con più sangue si acquistassero. Ma si lamentava che vi fossero in
queste diete dei segreti maneggi, onde i rei se ne andavano od assoluti,
o condannati a pene nè proporzionate al delitto, nè capaci di spaventare
i compagni. «Voi avete presupposto certamente, scriveva Buonaparte
sdegnoso al direttorio, che i vostri amministratori ruberebbero, ma
farebbero i servizi, ed avrebbero un po' di vergogna: ma e' rubano in un
modo tanto ridicolo e tanto impudente, che s'io avessi un mese di tempo,
non ve ne avrebbe un solo che non facessi impiccare. Gli fo legar dai
gendarmi, gli fo processar dai consigli militari continuamente. Ma che
giova, se i giudici sono compri? Questa è fiera, e tutti vendono. Un
impiegato accusato di aver posto una taglia di diciottomila franchi a
Salò, fu condannato a due mesi di carcere. Così, come si potran pruovare
le accuse? È un concerto: tante vili enormità fan vergogna al nome
Francese.» Così si querelava, e così inveiva Buonaparte contro i
rubatori, e questa fu l'accompagnatura della libertà in Italia.
Ma egli è oramai tempo di far passaggio dall'avarizia degl'involatori al
furore degli armati: incominciarono le armi a suonare più orribilmente
che prima sulle Italiane terre. Non aveva il direttorio pretermesso
alcun ufficio per inclinare l'imperatore alla pace, ora offerendogli
compensi di nuovi stati, ora minacciando di sterminio quelli, che ancora
gli restavano. A quest'ultimo fine scriveva Buonaparte all'imperatore
Francesco, che s'ei non si risolvesse alla pace, colmerebbe per ordine
del direttorio il porto di Trieste, e guasterebbe tutte le sue
possessioni dell'Adriatico. Ma i prosperi successi dell'arciduca Carlo
in Germania avevano ridesto nell'Austria la speranza di sostenere le
cose d'Italia, ed anzi di riconquistare gli stati perduti; però non
volle consentire agli accordi.
Il fondamento di questo nuovo moto era Mantova, perchè tutti i disegni
potevano arrivare al fine desiderato, se la sua difesa tuttavia si
sostenesse; ed all'opposto sarebbero stati disordinati, se cadesse in
possessione dei Francesi. Non era ignoto a Vienna, che il presidio era
ridotto all'estremo, dalle malattie e dalla strettezza dei viveri, e che
solo si sosteneva per la costanza veramente maravigliosa dell'antico
Wurmser. Nè solo il maresciallo vinceva con animo invitto l'urto delle
armi nemiche, ma ancora la minaccia barbara e vile fattagli dal
direttorio, che, se non desse la piazza in mano della repubblica,
sarebbe quando si arrendesse, condotto a Parigi, e giudicato qual
fuoruscito Francese. Vide l'Austria, che non era tempo da aspettar
tempo, e che il pericolo di Mantova ricercava prestissima espedizione;
perciò adunava con celerità mirabile un nuovo esercito di più di
cinquantamila combattenti pronto a calare per mettere di nuovo in forse
la fortuna Francese, che già tanto pareva stabile e sicura. Certamente
fu maraviglioso l'impeto Francese in quei tempi, ma non fu meno
maravigliosa la costanza Tedesca. Di tanta mole si mandavano venticinque
mila soldati freschi nel Tirolo e nel Friuli, e tanto era l'ardore loro,
che davano speranza di vittoria. Infatti nelle battaglie, che poco dopo
seguirono, combatterono non solo con valore, ma ancora con furore,
siccome quelli che erano cupidi non solo di ricuperare i paesi perduti,
ma ancora di scancellare l'offesa fatta alle armi imperiali dalle
precedenti sconfitte. L'emolazione altresì verso i soldati di Germania
operava efficacemente nelle menti loro, e le vittorie dell'arciduca gli
stimolavano. Fu posto al governo di queste fiorite genti il generale
d'artiglierìa Alvinzi già pratico delle guerre d'Italia, e nel colmo
della riputazione; e siccome quegli che era di natura pronta e
speditiva, si sperava che fosse per allontanare da se quella lentezza
che era stata cagione delle rotte precedenti. Aveva anche per
consigliero un Veiroter, che si era acquistato nome di perito capitano
in Germania. Era il disegno di questa nuova mossa non dissomigliante da
quello posto in opera pochi mesi prima da Wurmser, con questa differenza
però, che ove il maresciallo discese con tutto il pondo per la valle
dell'Adige, ed interpose, certamente con imprudente consiglio, tra le
due principali parti de' suoi tutta la larghezza del Lago di Garda,
Alvinzi ordinava, che una parte guidata da Davidowich scendesse dal
Tirolo con venti mila soldati, e conculcati i Francesi, che colà
stanziavano alla difesa dei passi, se ne venisse a sboccare per
Castelnuovo fra l'Adige e il Mincio. Egli poi con trenta mila
combattenti venuti dalla Carniola e dal Cadorino, si proponeva di
varcare il Tagliamento, la Piave e la Brenta, combattendo i repubblicani
ovunque gli trovasse, e quindi varcato il fiume più grosso dell'Adige
dove la occasione migliore si appresentasse, di congiungersi con
Davidowich, e di marciare unitamente alla liberazione di Mantova. Già
varcati con fatica incredibile i monti della Carniola, e traversati
torrenti grossi ed impetuosi, erano, quando il mese di ottobre si
avvicinava al suo fine, giunti gl'imperiali sulle sponde della Piave, e
si accingevano a dar principio a quella terza guerra, dalla quale
pendeva il destino della potenza Austriaca in Italia.
Non erano a tanta mole pari pel numero i Francesi; perchè certamente non
passavano i quaranta mila, noverati gli assediatori di Mantova. A questi
nondimeno debbonsi aggiungere gl'Italiani, ed i Polacchi ordinati a
Milano, e nella Cispadana, che, sebbene Buonaparte non se ne servisse
per combattere nelle battaglie giuste, erano a lui di grandissima
utilità, ed accrescevano la sua forza, perchè tenevano i presidj nelle
piazze, contenevano il papa, e facevano il paese sicuro insino alla
Romagna ed al Veneziano. Trovavansi allora i Francesi raccolti nelle
stanze, perchè Kilmaine con ottomila soldati stava attorno a Mantova,
Augereau con altrettanti custodiva le sponde dell'Adige, Massena sempre
il primo ad essere esposto alle percosse del nemico, alloggiava sulla
Brenta, Vaubois assicurava il Tirolo con dieci mila soldati. In fine una
schiera di riserbo, in cui si noveravano circa tre mila soldati tra
fanti e cavalli, era distribuita negli alloggiamenti di Brescia sotto la
condotta dei generali Macquart e Beaumont. Aveva Buonaparte comandato a
Vaubois, impedisse ad ogni modo il passo a Davidowich, e siccome gli
assalti sono sempre più fortunati pei Francesi, che le difese, volle che
Vaubois medesimo, ancorchè fosse inferiore di forze, non aspettasse il
nemico, ma lo andasse ad assaltare nei propri alloggiamenti: soprattutto
il cacciasse dai luoghi tra il Lavisio e la Brenta. Egli intanto si
apprestava ad arrestare con Massena ed Augereau l'impeto di Alvinzi, che
già arrivato sulle rive della Brenta, ed avendola passata, faceva le
viste di volersi incamminare verso Verona. Alloggiava Davidowich col
grosso delle sue genti a Newmark, mentre la vanguardia occupava il forte
sito di Segonzano, reso anche più sicuro dal posto eminente di Bedole,
custodito da Wukassowich. Guyeux, obbedendo agli ordini di Vaubois,
assaltava San Michele, terra posta oltre il Lavisio, con intento, se la
battaglia riuscisse prospera, di correre contro Newmarck. Al tempo
medesimo Fiorella urtava le terre di Cembra e di Segonzano. Fu grande la
resistenza che incontrava Guyeux a San Michele; perchè gli Austriaci
avevano chiuso l'adito alla terra con trincee, ed essendosi posti ai
merli, di cui erano guernite le case, attendevano a difendersi
virilmente. Tre volte andarono alla carica con grandissima animosità i
Francesi guidati dal capitano Jouannes, e tre volte erano con grave
uccisione risospinti. Era la fazione di grande importanza, e maggiore
anche di quanto annunziassero il numero poco notabile dei combattenti, e
la ristrettezza dei luoghi, in cui si combatteva, perchè dall'esito
pendeva la conservazione, o la conquista del Tirolo, il potere gli
Austriaci od i Francesi incamminarsi alle spalle del nemico per le valle
della Brenta, e finalmente la congiunzione, o la non congiunzione delle
due schiere Alemanne, capo principalissimo dei disegni fermati a Vienna
per la ricuperazione d'Italia. In fine, fattosi dai Francesi un ultimo
sforzo, entravano in San Michele, e se ne impadronivano a malgrado che i
Tedeschi, ajutati anche da parte dei Tirolesi, avessero continuamente
tratto contro di loro con morte di molti, e con ferita del valoroso
Jouannes.
Bene auguravano i Francesi dei fatti loro in Tirolo, ma non fu loro
ugualmente favorevole la fortuna a destra verso Segonzano; il che
interruppe tutti i pensieri loro, e da vincitori diventarono vinti.
Aveva bene Fiorella, con molta valenzia combattendo, espugnato il
castello di Segonzano, ma non avendo, o perchè abbastanza non avesse
fatto esplorare i luoghi, o qual'altra cagione che sel muovesse,
sloggiato prima l'inimico da Bedole, questi scendendo improvvisamente,
lo assaliva sul fianco destro ed alla coda, talmente che fu commessa non
poca strage dei suoi, e fu costretto a ritirarsi più che di passo verso
Trento. S'aggiunse, che Davidowich medesimo, udite le novelle
dell'assalto dato ai Francesi, si era calato col grosso de' suoi a
soccorrere la vanguardia; di modo che non fu lasciato altro scampo ai
repubblicani, se non volevano essere tagliati tutti fuori, ed a pezzi,
che quello di ritirarsi più sotto, lasciando, dopo breve contrasto sotto
le mura, la città stessa di Trento in balìa degli antichi signori.
Successe questo fatto ai due novembre. Due giorni dopo entrava
Davidowich in Trento; rallegrandosene gli abitanti, amatori del nome
Austriaco, ed asperati dalle intemperanze dei conquistatori.
Vaubois dopo di aver combattuto infelicemente a Segonzano, andava a
porsi alla bocca delle strette di Calliano, alloggiamento, intorno al
quale si era persuaso, per la sua fortezza, doversi fermare l'impeto dei
vincitori. Assicurava alla sinistra il fianco dei Francesi il fiume
Adige, la destra custodivano due colli eminenti, sui quali sorgono i due
castelli della Pietra, e di Bezeno. Dava fortezza alla fronte un rivo
assai profondo, sulle sponde del quale avevano i repubblicani eretto
parapetti, e cannoniere munite di artiglierìe. Tenevano in guardia
questo forte luogo quattromila soldati eletti, che aspettavano
confidentemente l'incontro del nemico. Marciava Davidowich enfiato dalla
prosperità della fortuna, grosso, e minaccioso, dopo l'occupazione di
Trento, all'ingiù dell'Adige, avendo talmente diviso i suoi che
Wukassowich scendeva sulla sinistra del fiume, Ocskay sulla destra.
Laudon, condottosi ancor esso sulla destra con soldati più leggieri,
camminava più alla larga verso Torbole, con intenzione di dar timore al
nemico per la possessione di Brescia. Arrivavano Wukassowich a fronte di
Calliano, Ocskay a Nomi. Avrebbe potuto, come alcuni credono,
Davidowich, in vece di assaltar di fronte quel luogo tanto munito di
Calliano, girato prima alla larga per le eminenze, scendere poscia, e
riuscire per la valle di Leno alle spalle del nemico. Ma, qual si fosse
la cagione, amò meglio venirne alle mani in una battaglia giusta,
confidando nel valore e nella grossezza delle sue genti, massimamente
nei feritori Tirolesi, che pratichi dei luoghi più inaccessi, e
peritissimi nel trarre di lontano; avrebbero efficacemente ajutato lo
sforzo Austriaco. Combattessi il giorno sei di novembre con incredibile
audacia, e vario evento da ambe le parti, sforzandosi gl'imperiali di
superare il passo, ed insistendo principalmente contro i castelli della
Pietra, e di Bezeno. Restarono i repubblicani superiori, fu l'assalto
degli Alemanni infruttuoso. Davidowich, veduto che l'impresa si mostrava
più dura di quanto aveva pensato, mandava in rinforzo di Wukassowich il
generale Spork ed il principe di Reuss, ed operava di modo che per
diligenza di Ocskay, si piantassero artiglierìe presso a Nomi sulla
destra dell'Adige, ed anche a fronte della strada che da Trento porta a
Roveredo. Al tempo medesimo i feritori Tirolesi, postisi qua e là sui
vicini gioghi, si apparecchiavano a bersagliare l'inimico. Cominciavasi
il giorno sette una ferocissima battaglia, in cui come fu il valore
uguale da ambe le parti, così fu varia la fortuna, perchè ora
prevalevano i repubblicani, ed ora gl'imperiali. Venne verso le cinque
ore della sera il castello di Bezeno in poter dei Croati dopo un lungo
ed ostinato combattimento, in cui i Francesi si difesero con sommo
valore, e con tutte sorti di armi, perfino coll'acqua bollente, che
furiosamente versavano contro gli assalitori. Fu il presidio parte
preso, parte tagliato a pezzi. Poco stante cedeva anche il castello
della Pietra; ma di nuovo i Francesi se ne impadronivano, e di nuovo
ancora lo perdevano. Con lo stesso furore si combatteva nei luoghi più
bassi verso Calliano, e fu quel forte passo preso, ripreso, perduto, e
riconquistato più volte ora da questi, ora da quelli. Era tuttavìa
dubbia la vittoria, quantunque le artiglierìe di Ocskay, ed i feritori
Tirolesi non cessassero di fare scempio dei Francesi, quando
improvvisamente udissi fra di loro, se per paura, o per tradimento non
bene si sa, un gridare, salva, salva, per cui ad un tratto si
scompigliava tutto il campo, e si metteva in rotta. Non si perdeva per
questo d'animo Vaubois, e raccolti, meglio che potè, i suoi e calatosi
vieppiù per le rive dell'Adige, andava ad alloggiare nei siti forti
della Corona e di Rivoli. Roveredo intanto, e tutte le terre circostanti
tornavano sotto la divozione dell'antico signore. Perdettero in questo
fatto i Francesi sei pezzi d'artiglierìa, e nella ritirata per a Rivoli,
essendo seguitati dai Tedeschi, altri sei. Perdettero, oltre a questo,
non poche munizioni; noverarono due mila soldati uccisi, e mille
prigionieri con qualche ufficiale di conto. Furono dalla parte degli
Austriaci molto lodati i Croati, e principalmente i cacciatori Tirolesi,
ai quali fu l'imperatore obbligato dell'acquisto dei castelli di Bezeno
e della Pietra. Mancarono fra gli Austriaci circa cinquecento soldati
fra morti, feriti, e prigionieri; desiderarono due cannoni. Questa fu la
seconda battaglia di Calliano, non inferiore alla prima, nè a nissuna
pel valore, e per l'ostinazione mostrata da ambe le parti.
Questa vittoria avrebbe potuto partorire la ruina dei repubblicani, se
Davidowich tanto fosse stato pronto a seguitare il corso della fortuna
prospera, quanto erano stati valorosi i suoi soldati al combattere;
conciossiachè, se pressato avesse, senza mai dargli posa, ed incalzato
l'inimico innanzi che avesse avuto tempo di respirare, e di rannodarsi,
verisimile cosa è, che avrebbe prevenuto tutti gl'impedimenti, e,
superato facilmente la Corona e Rivoli, sarebbe comparso improvvisamente
grosso e vittorioso sulle rive del Mincio: il che avrebbe posto in
gravissimo pericolo Buonaparte, che era alle mani sulla Brenta con
Alvinzi, e dato comodità al generalissimo d'Austria di farsi avanti a
congiungere le due parti per correre grosso, ed intiero alla liberazione
di Mantova. Ma Davidowich per una tardità o negligenza certamente
inescusabile, se ne stava più di dieci giorni alle stanze di Roveredo,
con lasciare quasi quiete le armi, e non si moveva per alle fazioni del
Mincio, se non quando la fortuna, per la perizia e velocità di
Buonaparte, aveva già fatto una grandissima variazione tra la Brenta e
l'Adige.
Erasi il generalissimo Alvinzi fatto signore del passo della Brenta con
occupare Bassano, Cittadella, e Fontaniva, ed avendo avuto avviso delle
prime vittorie di Davidowich nel Tirolo, aveva ordinato, che i suoi
varcassero il fiume. Sboccava Quosnadowich nella parte superiore da
Bassano, e posava le sue stanze a Marostica, ed alle Nove. Liptay
correva ad alloggiarsi più sotto tra Carmignano, e l'Ospedal di Brenta:
ma siccome quegli, che solo guidava la vanguardia, fu stimato troppo
debole, e però fu fatto seguitare dalla battaglia condotta da Provera,
che aveva varcato il fiume a Fontaniva. Al tempo stesso Mitruski,
padrone del castello della Scala, mandava guardie insino a Primolano per
sopravvedere quello, che fosse per succedere nella valle della Brenta,
della quale stavano le due parti in grandissima gelosìa. Buonaparte,
confidando di compensare con la celerità quello, che gli mancava per la
forza, aveva fatto venire a se, oltre le schiere tanto valorose di
Massena e di Augereau, le guernigioni di Ferrara, Verona, Monbello e
Legnago. Era suo pensiero di assaltare Alvinzi, di romperlo, e,
camminando quindi con somma celerità per la valle verso le fonti della
Brenta, di riuscire alle spalle di Davidowich, e di sgombrare per tal
modo e al tempo stesso, l'Italia ed il Tirolo dalla presenza degli
Austriaci; pensiero certamente molto audace, e da non venir in capo, che
a lui, che tutto era, per la gioventù e pel vigor dell'animo, coraggio e
prestezza. Urtava Augereau Quosnadowich, Massena Provera: ne nasceva il
dì sei novembre una sanguinosa zuffa. Dure furono le prime Italiche
battaglie, ma questa è stata molto più. Si attaccavano con grandissimo
furore Augereau e Quosnadowich, ambi capitani esperti, ambi valorosi:
ora cedeva l'uno, ora cedeva l'altro; Alvinzi, che conosceva
l'importanza del fatto, mandava continuamente alla sua parte nuovi
rinforzi. Fu preso, perduto, ripreso, e riconquistato più volte il
villaggio delle Nove, e sempre con uccisione orribile delle due parti.
Si combattè, prima con le artiglierìe, poi con la moschetterìa, poi con
le bajonette, poi con le sciable, finalmente con le mani e con gli urti
dei corpi; valore veramente degno della fama Francese ed Austriaca.
Infine restarono i Francesi signori del combattuto villaggio; ma seppe
tanto acconciamente Quosnadowich schierare i suoi, che grossi e
minacciosi si erano ritirati dal campo di battaglia, nell'alloggiamento
che dai monti dei sette comuni si distende per Marostica sino alla
Punta, che quantunque urtato e riurtato da Augereau, si mantenne unito,
e rendè vano ogni sforzo del suo animoso avversario. Ma dall'altro lato
non si combattè tanto felicemente per Provera contro Massena; perchè,
sebbene l'Austriaco non fosse rotto, sentissi non ostante tanto
gravemente pressato, che stimò miglior partito il ritirarsi sulla
sinistra del fiume, rompendo anche il ponte di Fontaniva, acciocchè il
nemico nol potesse seguitare. Fessi notte intanto; l'oscurità e la
stanchezza, poichè si era combattuto tutto il giorno, piuttosto che la
volontà, pose fine al combattere che fu mortalissimo; perchè tra morti,
feriti, e prigionieri desiderò ciascuna delle parti circa quattromila
soldati. Il generale francese Lanusse, ferito da colpo di arma bianca,
cadde in potere dei Tedeschi.
Il non aver potuto rompere gl'imperiali in questo fatto, diede a pensare
a Buonaparte. Vano era lo sperare di poter riuscire a montare per la
valle di Brenta verso il Tirolo. La perdita di Segonzano e di Trento, di
cui egli aveva avuto notizia, dava giustificato timore per Verona e per
Mantova, e l'ostinarsi a voler combattere un nemico grosso, avvertito,
ed insistente in un sito forte, non sarebbe stato senza grave danno;
perchè ponendo anche il caso, che la battaglia succedesse prosperamente,
il perdere ugual numero di soldati era più pernizioso ai Francesi manco
numerosi, che agli Austriaci più numerosi. Dal che si vede, quanto
momento avrebbe recato in tanta incertezza di fortuna Davidowich, se si
fosse spinto avanti con quel medesimo vigore, col quale aveva combattuto
a Galliano, e fosse andato a dirittura a ferire Corona, e Rivoli. Mosso
da queste considerazioni si deliberava Buonaparte a levar il campo dalle
rive della Brenta per andarlo a porre su quelle dell'Adige nel sito
centrale di Verona. Per la qual cosa il dì sette novembre molto per
tempo mosse l'esercito verso Vicenza, e non fece fine al ritirarsi, se
non quando arrivò sotto le mura di Verona. Il seguitavano il giorno
medesimo i Tedeschi, succedeva un aspro combattimento a Scaldaferro.
Entravano gl'imperiali il dì otto in Vicenza, il nove alloggiavano a
Montebello. Quivi pervenivano ad Alvinzi le desideratissime novelle
della vittoria di Calliano; perciò spingendosi più oltre andava a porre
il campo a Villanova, terra posta a mezzo cammino tra Vicenza e Verona.
Intenzion sua era di aspettare in quest'alloggiamento, che cosa
portassero le sorti in Tirolo, e massimamente che Davidowich, superati i
forti passi della Corona e di Rivoli, si fosse fatto vedere a Campara ed
a Bussolengo; perchè allora si sarebbe mosso egli medesimo verso quella
parte che più sarebbe stata conveniente per congiungersi col vincitore
del Tirolo. Ordinava intanto varie mosse per dare diversi riguardi al
nemico, e per tenerlo sospeso del dove volesse andar a ferire.
Apprestava eziandio quantità grande di scale, come se fosse per dare la
scalata a Verona. Già aveva mosso la vanguardia, e fatta posare
nell'alloggiamento di Caldiero più vicino alla città.
Minacciato Buonaparte a stanca ed alle spalle da un generale vittorioso,
a fronte da un generale, se non vittorioso, almeno più forte di lui,
aveva tutti i partiti difficili: perchè l'aspettare era dar tempo a
Davidowich di assalirlo alle spalle, e di far allargare ad un tempo
l'assedio di Mantova; l'assaltare era un commettersi all'ultimo cimento
per la salute de' suoi, e per la conservazione della sua gloria. Ma non
istette lungo tempo in pendente, perchè sapeva, che i consigli timidi
fanno i Francesi meno che femmine, i generosi, più che uomini. Si
risolveva adunque a voler pruovare a Caldiero, se la fortuna volesse
perseverare a mostrarsi benigna verso di lui, ed a cangiarsi in
contraria. Usciva da Verona; guidava Massena l'ala sinistra, Augereau la
destra. Incontrati i primi corridori nemici a San Michele ed a San
Martino, facilmente gli fugava: il giorno dodici novembre era destinato
alla battaglia. Eransi molto acconciamente accampati i Tedeschi; perchè
l'ala loro stanca s'appoggiava a Caldiero, ed alla strada maestra, che
da questa terra si volge a Verona. La destra era schierata sul monte
Oliveto, ed occupava il villaggio di Colognola, sito erto, e difficile
ad espugnarsi. Le restanti genti di Alvinzi continuavano a stanziare a
Villanova in ordine di spignersi avanti, come prima si fosse
incominciato a menar le mani a Caldiero. Non così tosto il giorno
appariva, che andavano i repubblicani all'assalto. Già Augereau aveva
conquistato Caldiero, e preso al nemico cinque cannoni: già Massena si
distendeva a sinistra, e, fatti dugento prigionieri, aveva circuito la
- Parts
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II - 01
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II - 02
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II - 03
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II - 04
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II - 05
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II - 06
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II - 07
- Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II - 08
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