Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II - 12

consiglio di condurre il principe fu dato dal provveditor delle lagune
Nani, e che questo consiglio era già stato rifiutato, non già dal
senato, al quale non fu mai riferito dai Savi, ma sibbene dai Savi
medesimi molto innanzi che l'imperator d'Austria manifestasse il suo
desiderio. Mal volentieri mi sono io indotto a parlar di questo fatto,
perchè quando anche fosse vero ciò che è falso, non si vede come per una
condiscendenza di Venezia verso l'imperatore si dovesse venire alla
distruzione e vendita di lei.
Al tempo stesso, in cui il senato ordinava l'apparato militare delle
lagune, temendo che la Francia s'insospettisse con credere, ch'ei
pensasse di portar più oltre di una legittima difesa, in caso di
assalto, i suoi provvedimenti, scriveva un dispaccio al governo
Francese, col quale andava esponendo, che mentre la repubblica di
Venezia se ne viveva tranquilla all'ombra della più puntuale neutralità,
e della sincera e costante sua amicizia verso la repubblica Francese,
erano gli animi del senato rimasti vivamente traffitti dal colloquio
avuto dal generale Buonaparte col provveditor generale Foscarini, dal
quale si poteva argomentare un'alterazione nell'animo del direttorio
verso Venezia che dal canto suo il senato si persuadeva di non aver dato
occasione a tale alterazione che era conscio specialmente di non
meritare alcun rimprovero per l'occupazione violenta fatta dall'armi
Austriache di Peschiera, contro di cui non era restato alla repubblica
disarmata, e solo fondantesi sulla buona fede delle nazioni sue amiche,
altro rimedio che la più ampia e solenne protesta, e la più efficace
domanda della restituzione, siccome infatti non aveva omesso nel momento
stesso di fare; potere lo stesso general Buonaparte rendere testimonio
dello aver trovato inermi e tranquille le città Venete, e della
prontezza, con la quale i governatori Veneti ed i sudditi
somministravano, anche in mezzo alle angustie dei viveri, quanto era
necessario al suo esercito. Aggiungeva a tutto questo il senato, essere
suo costante volere il conservare la più sincera amicizia colla Francia,
e pronto a dare quelle spiegazioni, ed a fare quelle dimostrazioni dei
sentimenti propri, che fossero in suo potere per confermare quella
perfetta armonìa che felicemente sussisteva fra le due nazioni.
Frattanto il ministro Lallemand, e questa fu una nuova ingiuria fatta a
Venezia, domandava al senato, perchè ed a qual fine si apprestassero
quelle armi, come s'ei non sapesse, che il perchè erano gl'improperj e
le minacce di Buonaparte a Foscarini, e che il fine era il difendersi in
una guerra, che lo stesso Buonaparte aveva dichiarato voler fare fra
pochi giorni a Venezia. Si maravigliava inoltre il ministro, che simili
apprestamenti guerrieri allora non si fossero fatti, quando instavano
presenti gli Austriaci sul territorio della repubblica, come se egli non
sapesse, che l'Austria non aveva mai minacciato di guerra Venezia, come
la Francia per mezzo di Buonaparte, aveva fatto. Richiedeva finalmente,
si cessassero quelle armi dimostratrici di una diffidenza ingiuriosa, e
contraria agl'interessi ed alla dignità della repubblica Francese: il
che significava, che si voleva far guerra a Venezia, e che non si voleva
ch'ella si difendesse.
Rispondeva pacificamente il senato, le armi, che si apprestavano, essere
a difesa, non ad offesa; voler solo tutelare l'estuario, non correre la
terraferma; pacifica essere Venezia, volere vivere in amicizia con
tutti; in mezzo a tanto moto, ad opinioni tanto diverse, a discorsi
tanto infiammativi, a moltitudine sì grande di forestieri non
conosciuti, che abbondavano nella città, dovere il governo pensare alla
quiete ed alla sicurezza del pubblico: a questo fine essere indirizzati
i nuovi presidj, ed a fare, che siccome l'intento suo era di non
offendere nissuno, così ancora nissuno il potesse offendere sperare, che
il governo Francese meglio informato dei veri sensi della repubblica,
deporrebbe qualunque pensiero ostile contro di lei, e persevererebbe,
ora che la Francia tanto era divenuta potente, in quella stessa amicizia
che il senato le aveva costantemente, ed a malgrado di tutte le
suggestioni ed instigazioni contrarie, conservata, quando la Francia
medesima era pressata da tutte le potenze d'Europa; che finalmente pel
senato non istarebbe, che un sì desiderato fine si conseguisse a questo
tutti i suoi pensieri, a questo tutti i suoi consigli, a questo tutte le
sue operazioni dirizzare.
Mostravasi il ministro di Francia appagato della risposta, avendo
affermato a Francesco Pesaro, destinato dalla repubblica a conferire con
esso lui sulle faccende comuni, ch'egli era grato al senato per la
gentile, e soddisfacente risposta fattagli; ch'ella non poteva essere nè
più sincera, nè più appagante; che incontanente l'aveva spedita a
Buonaparte, e che sperava che una sì solenne manifestazione dei pubblici
sentimenti avesse ad essere una pruova irrefragabile di quanto egli
aveva sempre rappresentato: insomma ei si chiamò contento intieramente,
e tranquillo. A questo modo parlava Lallemand il dieci luglio; eppure
questo medesimo giorno, noi lo diremo, giacchè siamo serbati a
raccontare queste contraddizioni fastidiose, egli scriveva al ministro
degli affari esteri a Parigi, che il senato armava gli stagni col fine
di far odiare dal popolo i Francesi; che il generale Buonaparte,
richiesto di rimborsi, aveva con ragione risposto, che i Francesi erano
entrati nei diritti dei Ferraresi sopra i paesi della repubblica, e che
tenevano per cosa propria Peschiera, Brescia e gli altri luoghi
occupati. Tanta poi è la forza della verità anche in coloro che
vorrebbero servire ad interessi contrari, che il medesimo Lallemand,
scrivendo pochi giorni dopo a Buonaparte, affermava che era verissimo,
che il governo Veneziano si era mostrato molto avverso alla rivoluzione
Francese, ed aveva nutrito con molta cura nel cuore dei sudditi l'odio
contro i Francesi; ma che in quel momento era vero del pari, che sincere
erano le sue protestazioni di neutralità e di buona amicizia verso la
Francia; che le male impressioni lasciando luogo alla considerazione de'
suoi veri interessi, lealmente desiderava veder rotto quel giogo
Austriaco tanto grave a lui ed a tutta Italia; che per verità non si
poteva sperare che si ajutasse con le proprie mani, ma che questo poteva
bene la Francia promettersi di Venezia, che non tanto che ella
contrariasse coloro che ne la volevano liberare, desidererebbe
nell'animo suo felice compimento all'impresa loro; che, quanto
all'armare, quantunque dubbiosi potessero esserne i motivi, pareva a
lui, che tale qual era, non potesse far diffidare della fede Veneziana;
che troppo le armi apprestate erano deboli da dare giustificata cagione
di temere; che con gli occhi suoi propri vedeva, che i preparamenti che
si facevano, non avevano altro fine, che quello di custodire le lagune
ed i lidi vicini, e che insomma tutto quell'apparato non aveva in se
cosa, che fosse ostile contro la Francia. Quest'era il testimonio di
Lallemand, che ocularmente vedeva. Pure gridossi per questo medesimo
fatto dell'armamento delle lagune, guerra e distruzione a Venezia. Così
Venezia, segno di tanti inganni, se armava, era stimata nemica, se non
armava, perfida; i tempi tanto erano perversi, che anche in chi
conosceva la verità, si annidava la calunnia; la pace non le era più
sicura della guerra, nè la guerra della pace, e l'estremo fato già la
chiamava.
Tali quali abbiam narrato, erano i pensieri e le opere di Buonaparte e
del direttorio verso la repubblica di Venezia; ma questi insidiosi
disegni furono interrotti da una nuova inondazione di armi imperiali in
Italia.


LIBRO NONO
SOMMARIO
Negoziati inutili di pace. Stato della repubblica Cispadana:
nuovo congresso dei popoli dell'Emilia. Squallore dei soldati
francesi in Italia, e ruberie dei pubblicani. Lamenti di
Buonaparte in questo proposito. L'Austria ingrossa di nuovo, e
fa impresa di riconquistare le sue possessioni d'Italia.
Alvinzi suo generalissimo. Nuova e terribil guerra. Feroci
battaglie nel Tirolo con la peggio dei repubblicani: lentezza
molto fatale all'Austria del generale Davidovich dopo le sue
vittorie in questo paese. Disegni di Buonaparte per opporsi a
questa nuova inondazione di Tedeschi. Fatti d'arme sulla
Brenta. Battaglia di Caldiero. Condizione assai pericolosa di
Buonaparte: arte mirabile, colla quale se ne riscuote.
Prodigiosa battaglia di Arcole. Battaglia moltiforme di
Rivoli. Gli Alemanni rincacciati del tutto dall'Italia. Il
generale austriaco Provera fatto prigione con tutti i suoi
sotto le mura di Mantova. Celerità maravigliosa di Buonaparte
in tutti questi fatti. Guerra contro il Pontefice. Battaglia
del Senio. Pace di Tolentino, e sue gravi condizioni a' danni
di Roma. Mantova si arrende alle armi repubblicane: lodi di
Wurmser. Lusinghe di Buonaparte alla repubblica di San Marino:
risposte dei Sanmariniani.

Noi dobbiamo continuar nel fastidio di raccontar governi non così tosto
creati che spenti, secondochè portava l'utilità od il capriccio del
vincitore, di cui sempre più si scoprivano i pensieri indiritti a
turbare tutta l'Italia. Abbiamo nel precedente libro descritto, come per
quel principal fine dell'aver la pace coll'imperatore, il direttorio di
Parigi, e Buonaparte, mandato Clarke, offerivano patti di diversa natura
ora all'imperatore medesimo, ora alla repubblica di Venezia, ora a
quella di Genova, ed ora al re di Sardegna. L'Austria spaventata dalle
calamità, a cui era stata sottoposta, non si mostrava aliena, se non di
concludere, almeno di negoziare, e per questo aveva mandato a Vicenza il
generale San Giuliano, acciocchè si abboccasse con Clarke. Anche
l'Inghilterra, mossa dal pericolo dell'imperatore, e dalla forza della
repubblica francese, che ogni dì più pareva insuperabile, si era
piegata, benchè mal volentieri, a voler trattare, ed aveva mandato a
questo fine lord Malmesbury in Francia. Tutti pretendevano voci di voler
rimuovere tanto incendio dall'Europa afflitta, e di aver a cuore lo
stato salutifero dell'umanità. Ruppero questi negoziati le vittorie
dell'arciduca Carlo in Germania, che compensarono le sconfitte di
Beaulieu e di Wurmser in Italia. Imperò gli alleati si fecero più
renitenti, e di nuovo convenne venirne al cimento delle armi. Solo la
Sardegna, che era ridotta piuttosto in potestà della Francia, che nella
propria, aveva concluso un trattato di lega difensiva, avendo il re
costantemente ripugnato ad una lega offensiva a motivo della guerra
imminente col papa; al quale trattato il direttorio non volle ratificare
a cagione della cessione, che vi si stipulava di alcuni territorj
imperiali; perchè il re opportunamente valendosi della condizion sua
armata, e dell'esser posto alle spalle dell'esercito francese, non
cessava di addomandare o restituzione, o ricompenso delle perdute Savoja
e Nizza. Il che pazientemente non poteva udire il governo di Francia,
per essere quelle province unite per legge di stato alla repubblica.
Adunque il direttorio, trovata tanta durezza nell'Austria,
nell'Inghilterra, e nel papa, che continuamente si preparava alla
guerra, e dubitando che questo modo potesse estendersi più oltre, perchè
non si fidava di Napoli, si consigliava di voler provare, se il timore
delle rivoluzioni potesse sforzare i potentati a far quello che il
timore delle armi non aveva potuto.
A questo fine erano indirizzati i moti dell'Emilia, e le instigazioni di
Trento. Ma per parlar dei primi, si voleva da Buonaparte, che a quello
che da principio aveva potuto parere frutto disordinato della guerra,
succedesse uno stato regolato ed un assetto più giusto di constituzione,
perchè lo stato disordinato, siccome quello che è temporaneo di natura,
lascia da per sè stesso appicco a cambiamento di signoria nativa a
signoria forestiera, mentre lo stato ordinato e riconosciuto non può
darsi ad altrui senza nota d'infamia. Oltre a ciò sperava il
generalissimo di accendere con questo allettativo d'independenza
talmente quei popoli già di per se stessi tanto accendibili, che un
fanatismo politico avesse a pareggiare gli effetti di quel fanatismo
religioso, che per difesa propria s'ingegnava il pontefice di far
sorgere in Italia contro i conquistatori. Sapeva che queste opere erano
facili ad eseguirsi, perchè in alcuni ingannati operava l'amor della
libertà, in altri consapevoli la peste dell'ambizione. Tanta paura aveva
quel capitano vittorioso di coloro, che chiamava per isprezzo, non so se
mel debba dire per la dignità della storia, pretacci. Bene ordinato era,
quanto all'effetto, questo consiglio di opporre popoli accesi a popoli
accesi. Ma ei conosceva bene il paese, e gli umori che vi correvano;
perchè era solito dire, che in quella Cispadana repubblica erano tre
sorti d'uomini: amatori dell'antico governo; partigiani di una
constituzione independente, ma pendente all'aristocrazia, e quest'era il
patriziato; finalmente partigiani della constituzione francese o della
democrazia. Aggiungeva, che egli era intento a frenare i primi, a
fomentare i secondi, a moderare i terzi, perchè i secondi erano i
proprietari ricchi ed i preti, ch'ei credeva doversi conciliare, perchè
rendessero i popoli partigiani di Francia. Quanto ai terzi affermava,
esser giovani scrittori, uomini, che, come in Francia, così in tutti i
paesi cambiavano di governo, ed amavano la libertà solamente, come
diceva, per fare una rivoluzione. Dal che si vede in quale stima egli
avesse quelli che professavano la libertà; e per verità non pochi fra di
loro diedero tali segni al mondo, che fu manifesto come il giovane di
ventott'anni con insolita sagacità avesse bene penetrato la natura loro:
questo conoscere gli uomini fu cagione, ch'ei potè fare tutto quello che
volle.
Erasi inditto il congresso dei quattro popoli dell'Emilia, Modenesi,
Reggiani, Bolognesi, Ferraresi il dì venzette decembre, malgrado di
Buonaparte, che avrebbe desiderato, che più presto si adunassero per dar
cagione di temere al papa in tempo, in cui, bollendo ancora le pratiche,
non aveva ancora il pontefice rifiutato la pace. Convennero in Reggio i
legati dei quattro Cispadani popoli, trentasei Bolognesi, venti
Ferraresi, ventidue Modenesi, ventidue Reggiani. Avevano mandato
amplissimo di fare quanto alla salute della repubblica si appartenesse;
l'unione massimamente dei quattro popoli in un solo stato procurassero.
Solo i Bolognesi avevano nel mandato loro qualche clausola di
restrizione, o fosse che Bologna amasse di serbare, per la sua
grandezza, qualche superiorità, o fosse che non volesse allontanarsi da
quella forma di governo che con tanta solennità aveva pocanzi accettata,
perchè prevedeva, che l'accomunarsi nello stato importava l'accomunarsi
nelle leggi. Grande era il calore, grande l'entusiasmo di quelli spiriti
repubblicani: pareva a tutti essere rinati a miglior secolo. Ordinarono,
non potendo capire in se stessi dall'allegrezza, ad alta voce, non a
voti segreti si squittinasse. Poi fecero una congregazione d'uomini
eletti dalle quattro province, affinchè proponessero i capitoli
dell'unione. Fu l'unione accettata con tutti i voti favorevoli.
Accrebbero la giubbilazione gli uomini deputati di Lombardia Milanese
venuti ad affratellarsi, erano Porro, Sommariva, Vismara da Milano,
Visconti da Lodi, Gallinetti da Cremona, Mocchetti da Casalmaggiore,
Lena da Como, Beccaria da Pavia: «Poichè erano venuti i buoni tempi
Italici, orarono, essere venuti gli uomini Lombardi a congratularsi coi
Cispadani popoli dell'acquistata libertà; pari essere i desiderj, pari
il destino; chiamare le Francesi vittorie a nuove sorti l'Italia; dovere
i popoli Eridanici infiammare con l'esempio loro a nuova vita le altre
Italiche genti; l'Italiana patria avere ad essere, non più serva di
pochi, ma comune a tutti: ogni giusto desiderio dover sorgere con la
libertà, e tanti secoli di crudele servitù concludere una inaspettata
felicità: non dubitassero i Cispadani dello aver per amici e per
fratelli i Transpadani; una essere la mente, come uni gli animi, ed uni
gl'interessi: dimostrerebbero al mondo, che non invano aveva dato il
cielo a quei popoli testè pure divisi sotto molesti dominj, ed ora
congiunti per l'amore di una comune libertà, il medesimo aere, le
medesime terre, le medesime città magnifiche con un forte volere, con un
alto immaginare, con un maturo pensare, e se felicissima era la
occasione, sarebbe il modo di usarla generoso.»
Fu fatto risposta da Facci presidente con gratissime parole:
«Corrispondere i Cispadani con pari amore ai benevoli Transpadani;
accettare i felici augurj; avere la libertà spento il parteggiare fra i
Cispadani, dovere spegnerlo fra tutti gl'Italiani; fuggirebbe
dall'Italia la tirannide con tutto il satellizio suo; e poichè era
piacciuto a chi regge con supremo consiglio queste umane cose, che
principiasse un libero vivere sul Po, dovere gli Eridanici allettare i
compagni coll'esempio di una incontaminata felicità».
Aprivansi in questo le porte del consesso; il Reggiano popolo, bramoso
di vedere e di udire, lietamente entrava. Gravemente Fava da Bologna a
nome della congregazione degli uomini eletti intorno all'unione dei
quattro popoli favellava. Chiamarono di nuovo con segni d'inudita
allegrezza la Cispadana confederazione, chiamarono la unità della
repubblica. Fu piena la città di giubbilo; credevano che quel giorno
fosse per essere principio di felici sorti. Ed ecco in mezzo a tanta
allegrezza sopraggiungere l'aiutante generale Marmont, mandato da
Buonaparte ad incitare ed a sopravvedere. Introdotto al cospetto del
congresso, gli applausi, le grida, le esultazioni montarono al colmo.
Postergata la dignità, tanta era l'ardenza, avevano i legati piuttosto
sembianza di energumeni, che di uomini gravi chiamati a far leggi.
L'entusiasmo dei Cispadani piaceva a Buonaparte, perchè sperava di
cavarne denaro, gente armata, spavento al papa. Infatti aveva il
congresso statuito, che una prima legione Italica si formasse; nè questa
truppa oziosamente si ordinava: correvano gli uomini volentieri sotto le
insegne; il generalissimo gli squadronava, e faceva reggere da' suoi
uffiziali. Ma se dall'un lato egli era contento della disposizione degli
animi nella repubblica Cispadana, dall'altro non si soddisfaceva della
composizione del congresso; perchè avrebbe voluto vedere in lui per quel
suo intento di far paura al papa, nobili, preti, cardinali, ed altri
cittadini di maggior condizione, che patriotti fossero stimati; e
quantunque alcuni e nobili e preti vi sedessero, non era il numero nè il
nome di quella importanza ch'egli desiderava. Per questo si lamentava,
che Garreau e Saliceti, commissari del direttorio, gli guastassero i
suoi disegni, procedendo con soverchio calore in queste instigazioni, e
chiamando al reggimento dello stato uomini di poca entità, o troppo
risentitamente repubblicani. Spesso ei si querelava con questi
commissari, e gli ammoniva con forti riprensioni; ma essi se non
apertamente, almeno nascostamente continuavano ad incitare ogni sorte di
persone.
Scriveva il congresso il dì trenta decembre a Buonaparte: i Cispadani
popoli chiamati per amore di lui, e per le sue vittorie a libertà,
essersi constituiti in repubblica; direbbegli Marmont suo, quanto
fossero degni del nuovo stato; direbbegli quanta forza il nome di lui
alla loro risoluzione, ed alla loro allegrezza aggiugnesse. «Accettate,
continuavano, o generale invitto, questa nuova repubblica, primo frutto
del vostro valore, e della vostra magnanimità. Voi ne siete il padre,
voi il protettore: sotto gli auspicj vostri ella sarà salva, sotto gli
auspicj vostri non s'attenteranno i tiranni di danneggiarla: noi
cominciammo il mandato dei popoli, noi presto il compiremo; ma fate voi,
che l'opera nostra sia, come il vostro nome, immortale».
Queste lettere del congresso Cispadano furono con lieta fronte ricevute
dal conquistatore. Rispondeva, avere con molto contento udito la unione
delle quattro repubbliche; l'unione sola poter dare la forza, bene avere
avvisato il congresso dello aver assunto per divisa un turcasso: già da
lungo tempo l'Italia non aver seggio fra le potenze d'Europa; se
gl'Italiani degni sono di rivendicarsi in libertà, se abili sono di
ordinare a se stessi un libero governo, verrebbe giorno, in cui la
patria loro risplenderebbe fra i potentati d'Europa gloriosamente: pure
pensassero, che senza la forza non valgono le leggi; si ordinassero
pertanto all'armi; savie essere, ed unanimi le deliberazioni loro;
null'altro mancare, se non battaglioni agguerriti, e mossi dall'amor
santo della patria; aver loro miglior condizione del popolo Francese,
libertà senza rivoluzione, ordini nuovi senza delitti; la unità della
Cispadana repubblica simboleggiare la concordia degli animi, i frutti,
se avessero per compagna la forza, avere ad essere una repubblica
vivente, una libertà benefica, una felicità di tutti.
Il congresso annunziava ai popoli la creazione della repubblica: lodava
la Francia institutrice di libertà; lodava Marmont testimonio benigno di
popoli non indegni dell'amore della sua generosa nazione, annunziatore
benevolo delle cose fatte al glorioso capo dell'esercito Italico:
esortava i popoli della Cispadana a deporre le antiche invidie ed
emolazioni, frutto infausto di funesta ambizione: in petto ed in fronte
la libertà, la equalità, la virtù portassero, dell'ajuto della potente
repubblica, che gli aveva chiamati a libertà, non dubitassero;
guardargli attentamente il mondo, aspettare ansiosamente l'Italia, che a
quell'antico splendore, che l'aveva fatta tanto grande, ed onorata
presso le nazioni, la restituissero. Così parlava a concitazione degli
animi il vincitor Buonaparte.
L'esempio della Cispadana partoriva mutazioni notabili in Lombardia;
perchè i Milanesi, non volendo parer da meno che i popoli dell'Emilia,
facevano un moto, correndo sulla piazza, ed intorno all'albero della
libertà affollandosi: gridavano sovranità, e indipendenza, e volevano
constituirsi in repubblica Transpadana. Dispiacque il moto
all'amministrazione generale di Lombardia, non che ella non amasse
l'indipendenza, ma le cose non le parevano ancora di tale maturità, che
si potesse venire ad un partito tanto determinativo. Il sentirono peggio
ancora il generalissimo, e gli altri capi Francesi. Tanto fu loro
molesto questo moto, che Baraguey d'Hillires, generale che comandava
alla piazza di Milano, e che conosceva la mente di Buonaparte, ne faceva
carcerare gli autori principali, che erano i patriotti più ardenti.
Intanto ogni dì più cresceva lo squallore dei soldati vincitori
d'Italia; tanta era la voragine, non dirò della guerra, ma dei
depredatori. Per rimediarvi andava Buonaparte immaginando nuovi modi per
trar denaro dai popoli già sì grandemente smunti ed impoveriti; scosse
l'Emilia, scosse la Lombardia; traeva le intime sostanze dalle viscere
delle nazioni: pure il peculato era più forte di queste estreme fonti di
denaro.
Infatti i rubatori, gente frodolenta ed avara, erano una peste
invincibile. Buonaparte, che per la mancanza delle cose necessarie
vedeva in pericolo le sue operazioni, ne arrabbiava: gli chiamava ladri,
traditori, spie; ora ne faceva pigliar uno, ora cacciare un altro; ma
nulla giovava, perciocchè tornavano, essendo protetti, perchè molti; e
si liberavano, essendo i giudici corrotti, perchè mescolati. L'Italia
pativa, i soldati pativano, gli amministratori infedeli trionfavano. In
un paese opimo, e da lungo tempo immune da guerra, era penuria di soldo,
di pane, di abiti, di scarpe, di strame. Al tempo stesso i provveditori
ed i canovieri, incitati dall'ambizione e dalla libidine, tenevano, la
maggior parte, gran vita con mense lautissime, e con cavalli pomposi,
con cocchi dorati, con caterve di servitori; e ballerine e cantatrici
mantenevano, strana foggia di repubblicani. Sapevaselo Buonaparte, che
non ne capiva in se stesso dallo sdegno. Scriveva, che il lusso, la
depravazione, il peculato avevano colmo la misura. Un solo rimedio ei
trovava, e, come credeva, conforme alla sperienza, alla storia, alla
natura del governo repubblicano, e quest'era un sindacato, magistrato
supremo, che, composto di una o di tre persone, solo due o cinque giorni
durasse, ed in questo tempo autorità amplissima avesse di far uccidere
un amministratore, qualunque fosse, o con qual nome si chiamasse. «Potè,
sclamava dispettosamente Buonaparte, il maresciallo di Berwick far
impiccar l'amministrator supremo del suo esercito, perchè vi erano
mancati i viveri, ed io non potrò in mezzo all'Italia, paese di tanta
abbondanza, quando i miei soldati sono penuriosi, e stremi di ogni cosa,
spaventar con le opere, poichè le parole non giovano, questo nugolo di
ladri?» Così dentro se stesso si rodeva: ma eran novelle, perchè l'oro
d'Italia si dispensava anche a Parigi; perciò i rubatori erano indenni.
Solo si soddisfaceva il capitano Italico dei servigi di Collot,
abbondanziere delle carni, e di Pesillico, agente della compagnia
Cerfbeer. Poi alcuni commissari erano facili alle signature, caso
veramente orribile. Affermava Buonaparte nel mese di ottobre, che,
eccettuati Deniée, Boinod, Mazade, e due o tre altri, gli altri
commissari erano tutti ladri: pregava il direttorio, gliene mandasse dei
probi, aggiungendo però la clausola, se fosse possibile trovarne:
soprattutto già fossero provvisti di beni di fortuna; desiderava
Villemanzy. Aveva particolarmente in grande stima il commissario Boinod,
certamente a giusta ragione, perchè era Boinod uomo di costumi
integerrimi; ed eziandio con ragione scriveva Buonaparte, che se
quindici commissari di guerra, come Boinod, fossero all'esercito,
potrebbe la repubblica far un presente di cento mila scudi a ciascuno di
loro, e guadagnerebbevi ancora quindici milioni. Tanta era l'ingluvie di
coloro, che per ufficio dovevano impedire, che altri non involasse le
sostanze dei soldati! L'ira di Buonaparte particolarmente mirava contro
un Haller, che credeva mescolato in questi traffichi. Scriveva
sdegnosamente il dì diecinove novembre al commissario del direttorio
Garreau: essere i soldati senza scarpe, senza presto, senz'abiti; gli
ospedali penuriosissimi; giacere i feriti orribilmente nudi sulla nuda
terra; pure essersi testè trovati quattro milioni in Livorno; essere in
pronto merci di gran valore a Tortona ed a Milano; avere Modena dato due
milioni, Ferrara gran valute; ma non essere nè ordine, nè buono
indirizzo nella bisogna delle contribuzioni, di cui esso Garreau aveva
carico; grave essere il male, dover esser pronto il rimedio:
rispondessegli il giorno stesso, se potesse, sì o no, provvedere ai
soldati: se no, comandasse all'Haller, spezie di furbo, come diceva, non
per altro venuto in Italia, che per rubare, e che si era fatto
sovrantendente delle finanze dei paesi conquistati, rendesse conto
dell'amministrazion sua al commissario supremo, che era in Milano, e
provvedessesi il bisognevole ai soldati volere il governo, che i
commissari nei bisogni dell'esercito si occupassero; veder mal
volentieri, ch'egli, Garreau, non se ne prendeva cura, lasciando la
bisogna in mano di un forestiero, di natura, e d'intento sospetto;
Saliceti far decreti da una parte, Garreau farne da un'altra, e con
tutto questo non esservi accordo, e manco denaro: soli quindici
centinaia di soldati, che sono a Livorno, costare più di un esercito;
esservi penuria estrema fra estrema abbondanza. Questi erano i
risentimenti del capitano generale.
Nè era minore lo sdegno di lui contro la compagnia Flachat, ch'ei
qualificava coi più odiosi nomi, senza credito, senza danaro, e senza
probità chiamandola; avere, affermava, lei ricevuto quattordici milioni,
avere somministrato solamente per sei, e ricusare i pagamenti; per lei
essere sequestrate le mercatanzie pubbliche in Livorno; volere, che si
vendessero; ma essere sicuro, che per le mene di costoro, quello che
sette milioni valeva, sarebbe dato per due: insomma, aggiungeva tutto
sdegnoso, essere gli agenti di essa compagnia i più bravi eruscatori
d'Europa. Di più, alcuni fra gl'impiegati, non contenti al peculato, far