Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II - 11

province, divenute campo e bersaglio di una crudele guerra; lodò il
consiglio del senato dello aver saputo conservare in mezzo a tanto
turbine e con tanto costo la sincera neutralità; che migliore contegno
non poteva nè immaginare, nè tenere il senato: soggiunse poi però, che
non doveva il senato aspettare i tempi sprovveduto d'amici, e collegato
con nissuno, nè abbandonare gl'interessi dello stato ad un avvenire
certamente molto incerto, e probabilmente tempestoso; che il governo che
facevano i Francesi delle terre veneziane con aver violato le leggi le
più sante della neutralità, poteva facilmente dar pretesto agli
Austriaci di turbare l'attuale quiete e sicurezza della repubblica; che
perciò gli pareva, che la prudenza del senato il dovesse indurre a
premunirsi di qualche sostegno valevole a guarentire le sue possessioni
contro qualunque tentativo della casa d'Austria; che bene conosceva, che
non poteva la repubblica collegarsi con la Francia, quando questa non
fosse per mantener sempre in Italia ai comandamenti del senato
cinquantamila soldati, pronti a difenderla da ogni improvviso assalto;
la quale supposizione, soggiungeva, era impossibile a verificarsi. Detto
tutto questo, passava Sandoz-Rollin a dire, ch'ei credeva, che la sola
potenza con la quale la repubblica avrebbe utilmente e sicuramente
potuto stringersi in alleanza, fosse la Prussia, perchè gl'interessi
politici del re tanto erano lontani da quei di Venezia, che il senato
non poteva a modo nissuno sospettare, ch'ei volesse una tale alleanza
procurarsi per qualche sua mira particolare; che anzi era la Prussia la
sola potenza, che potesse por freno agli appetiti ambiziosi
dell'Austria, e conservare l'incolumità e l'integrità dei dominj veneti;
che a lui pareva, tale essere la opportunità e la necessità di
quest'alleanza, che non fosse nemmeno da tenersi segreta; perchè la casa
d'Austria non poteva recarsi a male, che la repubblica cercasse di
guarentirsi da quei sinistri effetti, che a lei potevano derivare dal
cambiamento di quei principj che fino allora avevano conservato la buona
corrispondenza fra i due stati; che finalmente, quando l'imperatore
vedesse, essersi la repubblica collegata veramente con la Prussia,
avrebbe deposto il pensiero di tentare cosa alcuna contro di lei.
Insistè finalmente il prussiano ministro affermando, che doveva il
senato con la sapienza e prudenza sua internar la vista in un avvenire,
che non si poteva ben prevedere quale fosse per essere, poichè
fatalmente la presente guerra poteva aver dato motivo all'imperatore di
chiamarsi scontento dei Veneziani, e di recar loro col tempo qualche
grave molestia.
Questo parlare profetico, e questa profferta tanto secondo il bisogno,
potevano essere la salvazione dell'insidiata Venezia, ed ogni motivo di
stato concorreva a far deliberare che si accettasse; perchè nè gli
Austriaci, nè i Francesi potevano far peggio attualmente di quel che
facevano alla repubblica, nè peggiori disegni macchinare contro di lei,
di quelli che macchinavano; il che dimostra, che la lega con la Prussia
poteva solo causar bene, non male a Venezia, e che sola poteva medicare
i mali presenti. Ben si era fino allora consigliato il senato,
seguitando il suo antico costume di non congiungersi nè con questa nè
con quella parte; ma certamente fu pur troppo timorosa risoluzione
quella di non aver voluto accettare la lega tanto necessaria, e tanto
opportunamente esibita dalla Prussia; abbenchè, come trovo scritto,
questo fatale rifiuto non sia stato colpa del senato, ma sì piuttosto
degl'inquisitori di stato, checchè a ciò fare gli muovesse, e dei Savi,
che avuto il dispaccio del Querini, nol rappresentarono, avendo da loro
medesimi deliberato di scrivergli, che non entrasse in questo trattato.
Della quale deliberazione la posterità tutta, e massimamente la patria
loro diventata suddita, da sovrana ch'ella era, gliene avranno biasimo
ed indegnazione eterna. Forse a sì strano partito, e ad impedire sì
salutifero consiglio si mossero pel rispetto di non volere offendere la
Francia, e principalmente l'Austria, e per la speranza, che la sincerità
e l'imparzialità della repubblica avessero a condurla a salvamento;
semplicità certamente maravigliosa in una Venezia, ed in tempi tanto
scapestrati. Bene gli aveva avvertiti Lallemand, con verità dicendo, che
la probità politica non era più al mondo.
Intanto prima che si tradisse lo stato, si laceravano i sudditi sì dai
Francesi che dai Tedeschi con ogni maniera di più immoderata barbarie.
Nè più si vanti la libertà di frutti dolci, nè la regolarità degli
antichi governi di frutti moderati, nè il secolo decimottavo di umanità;
poichè e repubblicani ed imperiali, pretendendo parole soavi di
amicizia, rapivano nei miserandi territorj veneti, non solo per
necessità, ma anche per capriccio, non solo per forza, ma anche con
violenza, non solo con comando, ma anche con ischerno le vite, l'onore,
e le sostanze di coloro, che amici chiamavano. Nè più si portava
rispetto ad una età che ad un'altra, nè ad un sesso che ad un altro; e
quello che non periva per sangue, era contaminato per bruttura; spesso
anche il sangue succedeva alla bruttura; perciocchè e' furono veduti
vecchi e fanciulli uccisi, perchè non pronti a discoprire dove fossero
riposte le sostanze, o le madri, o le figliuole loro, e se gli uomini
stati fossero fiere, non sarebbero stati trattati peggiormente dai
crudeli dominatori, come i Veneziani furono. Quello poi che era involato
per forza, era profuso per iscialacquo; il paese desolato, i soldati sì
vincitori che vinti si consumavano per mancamento di ogni genere
necessario; chi per ufficio, o per grado aveva debito di provvedere ai
soldati, e di ritirargli dalla barbarie, si arricchiva; il perchè si
vedevano capi ricchi, soldati squallidi, abitatori spogliati: non che
non vi fossero nell'uno esercito e nell'altro uomini incorrotti, che
anzi ve n'erano molti, ma non avevano autorità, perchè il malo esempio
dominava, e tra i repubblicani erano chiamati aristocrati, come se gli
amatori della libertà si debbano conoscere dagli stupri e dalle rapine.
Le case s'incendevano, gli alberi fruttiferi si atterravano, le ricolte
preziose si sperdevano dagli sfrenati forestieri: i cavalli dei ricchi
si rubarono dai repubblicani, perchè, come dicevano, erano cavalli di
aristocrati; i cavalli, e gli altri animali da tiro e da soma
appartenenti ai villici s'involavano dai repubblicani e dagl'imperiali,
perchè erano, come dicevano, animali di spie; e tant'oltre procedè
questa rapina, che le mosse militari ne divennero tarde e difficili per
la mancanza di bestie. Il male era ancora peggiore nelle bovine, parte
scialacquate dalla licenza, parte consumate da un morbo epidemico
gravissimo. Pubblicavansi dai generali ordini e regole per frenare tanta
rabbia, ma vano era il proposito, perchè quando si veniva alla
esecuzione, si andava molto rimessamente, essendo i capi intinti.
Buonaparte poi, quantunque facesse qualche dimostrazione in contrario,
dava a' suoi la briglia sul collo, e comportava loro ogni cosa, per
farsegli più suoi pei disegni avvenire. A questo tempo medesimo gli
eserciti di Francia governati sul Reno da Moreau e da Jourdan, assai
diversi dal buonapartiano erano per moderazione, e per rispetto ai
vinti. In fatti venne in Italia dal Reno la schiera di Bernadotte, che
temperatamente portandosi, e con maggior disciplina delle altre
procedendo, era cagione, che a gara le città italiche in presidio la
chiamassero. Per questo le compagne la chiamavano la schiera
aristocratica, e vi furono delle male parole, e dei peggiori fatti in
questo proposito. Di tante enormità si lamentava il veneziano senato a
Vienna, si lamentava a Parigi; estorquere, gridava a Francesco
imperatore, i comandanti imperiali dai sudditi veneti con minacce nella
vita, e con dar in cambio semplici ricevute, quantità esorbitanti di
provvisioni; avere saccheggiato Villanova con uccisione di parecchi
abitatori, avere saccheggiato Salò e Fontanaviva, e molte altre terre
del Veronese e del Vicentino; essere la licenza dell'imperiale esercito,
ovunque passava, incomportabile, e se nella sua prima giunta a Bassano
aveva mostrato qualche moderazione, sapere le desolate sponde
dell'inferiore Brenta in quanta sfrenatezza si fosse cangiata la prima
temperanza. Nè portarsi da lui maggior rispetto ai particolari
innocenti, che allo stato amico: avere ad onta della professata
neutralità assaltato i Francesi in Brescia, uccisone alcuni,
imprigionatone molti, cacciato i restanti con forza, e con pericolo
d'incendio e di sacco di quella popolosa città; avere minacciato di
atterrare violentemente le porte di Verona, se presto non gli fossero
aperte; avere altresì con volere resistervi dentro ai Francesi fatti più
forti, posto a gravissimo ripentaglio tutta la terra; vincitore,
saccheggiare per insolenza, vinto per rabbia; se aveva, domandare per
ladroneccio; se non aveva, domandare per bisogno: in ambi i casi rapire
con violenza; accusare i Francesi per imitargli, accusare i Veneziani,
come partigiani dei Francesi per rubargli: le opinioni non fare; segno
essere alle cupide soldatesche così i pacifici cittadini, come i
parziali di Francia: non fare la dignità; le chiese contaminate, i
parochi insultati, le municipali sedi spogliate e rotte, nè sapersi più
discernere, se gl'Imperiali volessero la salute, o la perdizione di
Venezia; cotali essere le opere degl'imperiali soldati. Le giustissime
querele del senato Veneziano porte a Vienna non fruttarono, perchè
furono passate o con silenzio sprezzatore, o con promesse inutili.
Nè meno lamentevoli voci, nè meno vere gittava per mezzo del nobile
Querini a Parigi, i detestabili fatti del buonapartiano esercito nella
terraferma veneta narrando: avere saccheggiato la dogana pubblica in
Desenzano; avere a Castello Lagusaro rapacemente spogliato le stanze
della guardia veneta, minacciato barbaramente nella vita il paroco,
ucciso una miseranda vecchia, saccheggiate le case, violate le donne;
sperperate essere in fondo le provincie Bresciana e Veronese; Bassano
non aver più da vivere; pure non cessare le sforzate tolte, e chi
s'indugiava alla Francese impazienza, essere ucciso; fumare da ambi i
lati le terre arse dei Lezini monti; Lubiara, Corrodetto, Albarè di
Gardezzana, il contado tutto di Verona essere desolati; andare raminghe
le genti fameliche per la rapina violenta dei loro averi; trecento
famiglie all'estremo ridotte dal sacco errare squallide e nude per
iscoscese montagne; Este, e Montagnana soprattutto portare i segni del
repubblicano furore; ivi una povera donna, a cui la natura aveva fatto
dono infausto di bellezza, e vicina al termine della sua gravidanza
essendo, chiamata da soldati brutalissimi agli ultimi oltraggi, avere
fra doglie orribili cessato di vivere; il misero marito desideroso di
sottrarla dalla sfrenata cupidigia, avere avuto un braccio reciso dagli
oltraggiatori dell'infelice moglie; avere il repubblicano esercito di
Francia, quale furiosa tempesta, calpestato ogni cosa ad Arcole, a
Ronco, a Tomba, a Villafranca, le terre tutte fra l'Adige e il lago;
campagne devastate, granai dispersi, cantine vuotate, cavalli, buoi,
animali d'ogni spezie rapiti, mobili involati o distrutti, case rovinate
od arse, vergini violate, santuarj profanati, vasi sacri rubati,
abitanti, alcuni uccisi, inumerabili spogliati e ridotti ad errare
raminghi, coi teneri figliuoli loro asilo e sussistenza mendicando.
Questi essere gli effetti della presente guerra, i quali parrebbero
anche incredibili, se le voci stesse di tutto il Francese esercito non
gli attestassero: eppure non esser mai mancata qualunque comodità alle
genti Francesi; l'ospitalità la più amichevole essersi per la parte
Veneta e sempre, ed in ogni luogo mostrata; avere i generali, gli
ufficiali, i commissarj, i famigliari loro, i soldati stessi trovato le
case aperte per accorgli amorevolmente, per trattargli umanamente;
essersi vedute intiere famiglie di regolari, di vergini sacre, ed anche
di semplici particolari cedere ai nuovi ospiti il proprio tetto;
chiamargli a parte delle mense e di ogni comodo loro; avere sempre
abbondato ogni sorte di provvisioni; avere il governo sempre, e non
invano esortato i sudditi a sopportare pazientemente tante calamità;
essersi i sudditi con rassegnazione incredibile mostrati obbedienti alle
esortazioni, ma ciò non giovare; più si concedeva, più domandarsi;
maggior cortesia si usava, maggiore violenza adoperarsi; le più gentili
persone svillaneggiate da una soldatesca insolente; ai modi più ingenui
corrispondersi con inumani oltraggi; la nobile Verona diventata un
quartier sucido di soldati tutta, venire per la forestiera
contaminazione a schifo ai Veronesi stessi le antiche e dilette stanze
loro: certamente, dappoichè i miserabili uomini trattano la guerra, non
mai essersi dimostrata dall'un canto tanta pazienza, non mai dall'altro
tanta barbarie, e peggio, che gli oppressori chiamavano la pazienza
perfidia, la barbarie libertà. Così periva sotto nome di amicizia la
misera Venezia, non solo senza gratitudine da parte di coloro che si
succiavano le sue sostanze, ma ancora senza compassione; e per ristoro
finalmente fu fatto vendita e compra di lei dai feroci saccheggiatori,
non meno cupidi di rapire, che vogliosi di tradire. Dolevasi il senato
al direttorio; dolevansi i magistrati a Buonaparte, dolevansi ai
Tedeschi capitani: rispondevasi per gli uni e per gli altri non solo
freddamente, ma anche ironicamente, esser questi mali inseparabili dalla
guerra: esser veramente Venezia infelice; si ordinerebbe, si
provvederebbe, e gli ordini, e le provvisioni erano, che diveniva ogni
dì più insopportabile l'insolentire dei soldati. Io non so quello, che
il mondo corrompitore o corrotto sarà per dire di queste mie narrazioni;
questo so bene, che l'universale dei Francesi e degli Austriaci, anzi
tutti, eccettuatone solamente quelli, che credono che la gloria consista
nell'opprimere le nazioni forestiere, danneranno con tutti i buoni sì
detestabili eccessi, e di perpetuo biasimo noteranno coloro che vi
ebbero colpa.
Nè meglio erano rispettate da coloro, che accusavano Venezia di non
esser neutrale, le sostanze pubbliche che le private, come se chi reca
ingiuria, avesse a stimarsi offeso, e chi la riceve, offenditore. Verona
massimamente era segno alla repubblicana furia. Vi rompeva a capriccio
suo Buonaparte le porte delle fortificazioni, toglieva per forza le
chiavi della porta di San Giorgio all'uffiziale Veneto, portava via
dalle mura le artiglierie di San Marco, poneva le sue là dove voleva,
prendeva le armi, prendeva le munizioni ammassate nell'armerìa e nelle
riposte Veneziane, demoliva i molini, ardeva le ville della campagna di
Verona, quando credeva che a' suoi bisogni importasse; occupava
finalmente i forti, vi ordinava mutazioni e lavori, e vi piantava le
insegne Francesi. Chiodava poi a Porto-Legnago le artiglierie Veneziane,
tagliava i ponti levatoi, rompeva i ponti del fiume; occupava
forzatamente il castello di Brescia, e postovi presidio a grado suo il
fortificava. Quindi, mandato innanzi a Bergamo Cervoni per ispiare e per
sopravvedere i luoghi, quantunque nessuna strada fosse aperta per quelle
valli a calate di Tedeschi, occupava improvvisamente con sei mila
soldati la città ed il castello di Bergamo, dove attese, come a Brescia,
a fortificarsi. Involava, armata mano, una cassa dell'arciduca di Milano
depositata in casa del marchese Terzi sul territorio Bergamasco, e
finalmente levava le lettere dalle poste Veneziane, aprendole per vedere
che cosa portassero; le quali cose tutte erano forse utili alla
sicurezza dei Francesi, ma certamente rompevano la neutralità di
Venezia, ed autorizzavano questa repubblica a romperla dal canto suo, ed
a fare una subita presa d'armi contro chi con tanta violenza, e con
violazione sì manifesta del diritto delle genti, turbava il suo vivere
quieto.
Considerando io l'aspro governo fatto degli stati Veneziani, non so con
qual nome chiamare l'enormità di quel Rewbel, uno dei quinqueviri di
Parigi, il quale si lamentava che i Veneziani non amassero i Francesi:
il che vuol dire, che a posta di quei repubblicani e' bisognava non solo
ringraziare, ma anche amare chi crudelissimamente vi straziava.
Trattati a questo modo gli stati della repubblica di Venezia sì dagli
Austriaci che dai Francesi, apparivano intieramente mutati da quello che
erano prima che quella feroce illuvie gli sobbissasse. Le opere più
pregiate della umanità perivano perchè divenute segno di scherni
barbari; quello che s'era durato un secolo a edificare, un solo momento
distruggeva; quello che dalle più estreme regioni si veniva curiosamente
visitando, come fregi eccellenti della rispettata Italia, era guasto da
chi si vantava di avere a cuore questi preziosi ornamenti del vivere
civile; nè la necessità serviva di scusa, perchè per giuoco si guastava,
non per vivere, nè per difesa. Quanti sontuosi palazzi sconciati per
bruttura, o laceri per ruina! quanti nobili arredi involati o guasti!
quante onorate statue mutilate o rotte! Quanti alberi o di dolci frutti
carichi, o di peregrina bellezza risplendenti, per trastullo atterrati
dalle sfrenate soldatesche venute d'oltre Alpi, o d'oltre il Norico a
conculcare l'innocente Italia! Là dove nacque Virgilio, là dove nacque
Catullo, là dove nacque l'infelice Bonfadio, là dove in dolce filosofia
se n'era stato meditando il dolcissimo Bembo, erano i maggiori segni
della moderna barbarie, stampati da chi pretendeva di riformare, o da
chi pretendeva di mantenere il vivere sociale. Peggio poi, che a chi si
lamentava, si rispondeva che la guerra è migliore della pace, la
distruzione della conservazione, la disperazione della tranquillità, e
se non si rispondeva con pessime parole, si rispondeva con peggiori
fatti; il sangue si mescolava alle ruine. Sorgevano in ogni lato pianti
e lamenti, donde poco innanzi solo si udivano i canti di un popolo
felicissimo, del quale se di tanto era cambiata la condizione, non era
in lui colpa alcuna, poichè la colpa era tutta in una feroce querela
nata in lontani paesi fra popoli amatori della guerra. Le amene spiagge
del Benaco, le molli sponde della Brenta, ornate le une e le altre di
quanto hanno la natura e l'arte di più grazioso e di più magnifico,
giacevano ora desolate ed arse. Nè si poteva mostrar compassione, perchè
chi la mostrava, era stimato nemico d'Austria o di Francia: le preghiere
cagionavano le ingiurie, i pianti gli scherni, la bellezza gli oltraggi,
la forza le uccisioni. In mezzo a sì orribile strazio di sostanze e di
persone, chiamavansi, per aggiunta, gl'Italiani perfidi e vili, come se
sincerità fosse il rubare e l'ammazzare sotto titolo d'amicizia, e se
coraggio fosse l'uccidere i deboli ed i traditi. Certo stupiranno i
posteri dei mali fatti commessi, ma stupiranno vieppiù delle promesse
fatte, e se il secolo avrà nome di crudele, lo avrà ancora più
d'ingannatore. Così periva Venezia: che s'ella poi, per un qualche
sussidio al suo estremo caso, voleva chiamare a' suoi stipendi un
capitano riputato in Europa, se ne sdegnava Vienna, e se voleva ranuare
quattro cannoni sul lido, se ne sdegnava Parigi: le accuse di perfidia
tosto si proferivano da coloro, che si facevano mezzo principale per
distruggere a Venezia la perfidia.
Intanto gli atroci fatti inasprivano gli animi, e gli riempivano di
sdegno, parte contro il senato, come se senza difesa desse in preda i
popoli a nemici crudeli, parte contro i commettitori di tanti scandali.
Non mai dai Veneziani si erano amati i Tedeschi, troppo diversi per
indole e per lingua, ed anche la prossimità, come suole avvenire, gli
alienava: ma in ogni tempo erano stati amatori del nome Francese, ed è
certo, che fra tutte le nazioni del mondo la Francese era quella, che la
Veneziana con più benevolenza abbracciava. Ma per l'opere ree di
Buonaparte, e di chi a lui aderiva, molto si era rimutata questa
inclinazione dei Veneziani, e se odiavano i Tedeschi, certamente non
amavano i Francesi. Da tutto questo ne nacque, che le popolazioni della
terraferma, tocche da quel turbine insopportabile domandavano al senato
ordini, armi e munizioni per difendersi con la forza da coloro, presso
ai quali l'amicizia era mezzo, non impedimento al danneggiare. Il
senato, piuttosto rispettivo che prudente, cercava di mitigar gli animi,
e quanto alle armi andava temporeggiando, perchè sperava, che qualche
caso di fortuna libererebbe i dominj da ospiti tanto importuni, e perchè
temeva che chiamati i popoli all'armi, non fosse più padrone di regolare
e frenare i moti incominciati, con grave pregiudizio e pericolo della
repubblica. Solo accettava le offerte della provincia Bergamasca, la
quale in questo procedeva con più calore delle altre, sì per la natura
ardita de' suoi abitatori, e sì per l'autorità del potestà Ottolini.
Offeriva trenta mila armati pronti a mettersi a qualunque pericolo per
la patria, ov'ella della opera loro abbisognasse. Ma il senato, che
conosceva bene la natura dei popoli armati, massimamente in mezzo a
tante occasioni di sdegno, temendo che più oltre procedessero, che
l'umanità ed il bisogno della patria richiedevano, aveva sottoposto a
certo ordine quella moltitudine, partendola in compagnie, e ponendo a
reggerle uomini prudenti. Raccomandava al tempo medesimo la moderazione,
e non si muovessero, se non quando la necessità e gli ordini del senato
gli chiamassero. La quale raccomandazione fu poi imputata al senato
dagli storici parziali, come pruova di perfidia, come se avesse dovuto
abbandonar senza freno all'impeto suo una moltitudine armata, e
giustamente irritata da tante ingiurie. Queste sono deliberazioni, che
in ogni tempo, in ogni luogo, in ogni caso si fanno dai governi, nè si
può comprendere come possano fare diversamente. Ma il secolo, e chi loda
il secolo, volevano e vogliono, che quello che deliberava il senato
Veneziano, o che armasse o che non armasse, o che parlasse o che
tacesse, tutto gli fosse imputato a delitto; e più volte Buonaparte gli
disse, voi dovete armare, e più volte ancora, voi non dovete armare.
Contro chi poi fosse allestito tutto quell'apparato delle Bergamasche
armi, facile è il giudicare, poichè certamente era contro coloro, che
sotto spezie di amicizia trattavano Venezia da barbari, e sotto spezie
anche d'amicizia la volevano tradire. Ma queste armi si apprestarono
dopo venuta la barbarie, ed a questa unicamente, ed agli autori suoi
debbonsi imputare, se non forse si voglia credere, come odo che alcuni
uomini schifosi credono, che Venezia fosse obbligata, per far piacere ai
forestieri, di lasciarsi straziare e distruggere, non solo senza difesa,
ma ancora senza lamento. Intenzione poi del senato era di non
adoperarle, se non quando i distruttori si fossero accinti a mandar ad
effetto il pensier loro. Adunque se alcuno sarà per biasimarle, farà
segno, ch'ei non sa che cosa siano nè giustizia nè patria.
Ritornando ora al filo della storia, seguiteremo a raccontare, che non
così tosto il senato ebbe avviso delle minacce fatte da Buonaparte il dì
trentuno maggio in Peschiera al provveditor generale Foscarini, si
accorse che non vi era più tempo da perdere per apprestar le difese, non
già per la terra ferma quasi tutta disarmata ed occupata dai
repubblicani, ma almeno pel cuore stesso della repubblica, con
assicurare tutte le parti dell'estuario con armi sì terrestri che
marittime. Abbiamo narrato, come il generale repubblicano avesse
affermato con modi peggio che amichevoli, perchè erano incivili, che
aveva ordine dal direttorio di ardere Verona, e d'intimare la guerra ai
Veneziani. A tale gravissimo annunzio pervenuto celerissimamente per
messo a posta spedito da Foscarini, si adunava il senato a tutta fretta,
e con voti unanimi decretava, si comandasse al capitano in golfo, che si
riducesse tosto con tutta l'armata della repubblica nelle acque di
Venezia; si levassero incontanente in Istria, in Dalmazia, ed in
Albania, in quanto maggior numero si potessero, le cerne, ed ai
Veneziani lidi si avviassero; i reggimenti stessi già ordinati, che
avevano le stanze in quelle province, senza indugio alcuno alla volta di
Venezia s'indirizzassero; si chiamassero nelle acque dell'Istria tutte
le navi che si trovavano nell'Ionio sotto il governo del provveditor
generale da mare, e con queste anche le due destinate a portare il nuovo
bailo della repubblica a Costantinopoli. Queste deliberazioni furono
prese il dì primo di giugno. Siccome poi l'unità dei consigli è il
principale fondamento dei casi prosperi, così trasse il senato, il dì
due dello stesso mese, a provveditor delle lagune e lidi Giacomo Nani,
dandogli autorità e carico di armare nel modo che più acconcio gli
paresse, tutto l'estuario. Gli diede per luogotenente Tommaso Condulmer,
affinchè avesse cura particolare delle navi sottili allestite per
custodia dei lidi, e delle bocche dei fiumi. Ebbero queste provvisioni
del senato presto effetto; perchè in poco tempo si videro fortificati, e
presidiati i posti principali di Brondolo, Chiozza, Portosecco, San
Pietro della Volta, lido di San Niccolò, Malamocco. A Brondolo
specialmente, dove mettono foce i fiumi Adige, Po, e Brenta, furono
fatti stanziare i bastimenti più sottili. Già arrivavano, siccome quelle
che erano state mandate con molta sollecitudine, in Venezia e nei
circonvicini luoghi le soldatesche del mare Ionio, dell'Albania, e della
Dalmazia; piene ne erano le case, pieni i conventi dei lidi, piene le
isole vicine alla metropoli. Perchè poi l'erario potesse bastare a
questo nuovo stipendio, fu posta una tassa sui beni stabili di Venezia,
e del dogado a cui diedero il nome di Casatico. Per cotal modo Venezia
spinta dalla vicina guerra intimatale da Buonaparte, si apprestava a
difendere l'estuario, nel quale consisteva la vita della repubblica.
Noi siamo abborrenti per consuetudine e per natura dal biasimare chi
scrive, e meno ancora chi scrive storie. Ma l'amore della verità, e la
innocenza di Venezia ci spinge a notare, che uno storico dei nostri
tempi, lasciandosi trasportare ad una parzialità tanto più degna di
riprensione, quanto è diretta contro il tradito ed il misero, si lasciò
uscir dalla penna, troppo incomportabilmente scrivendo, che queste
provvisioni del senato Veneziano furono fatte prima delle minacce dei
Francesi. Eppure è chiaro e manifesto a chi vorrà solamente riscontrar
le date, che le provvisioni medesime furono fatte dopo, ed a cagione
delle minacce intimate da Buonaparte al provveditor generale Foscarini;
imperciocchè minacciò Buonaparte il dì trentuno maggio, deliberò il
senato il dì primo, e secondo giugno. Il perchè l'allegazione dello
storico è contraria alla verità, e crudele a Venezia; che se poi egli
pretendesse che Venezia, sentite le mortali minacce di Buonaparte, non
doveva armarsi, staremo a vedere s'ei dirà, che la Francia non doveva
armarsi, sentite le minacce di Brunswick e di Suwarow. Quanto poi ai
sommi geografi così Francesi, come Italiani, i quali sostengono
l'opinione del citato storico, saria bene, che ci dicessero quale
maggiore distanza vi sia, o qual maggiore difficoltà di strade tra
Peschiera e Venezia che tra Parigi e Roano. Saria anche bene, che ci
dicessero, caso che nascesse oggi in Roano un accidente, che minacciasse
di totale ruina lo stato della Francia, se il governo non delibererebbe
in proposito il dimane a Parigi. Veramente, quando l'uomo vuol impugnare
la verità conosciuta, diventa ridicolo. La distruzione della repubblica
di Venezia è stata una grandissima sceleraggine, e non fa onore al
secolo il volerla giustificare. Sonci poi alcuni in Italia, che dicono,
e credo eziandio, che stampano, che Venezia perì, e meritava di perire
perchè seguitò le massime del Sarpi. A questo io non so che cosa
rispondere, se non forse, che ella ha avuto torto di voler punire colle
patrie leggi due ecclesiastici sceleratissimi, e che là doveva esser
lecito a chi portava chierica, l'infamare le rispettabili donne, ed il
commettere assassinj.
Il medesimo storico, a fine di pruovare la parzialità dei Veneziani
verso l'Austria, narra come, non così tosto dimostrò l'imperatore
desiderio, che la repubblica non conducesse a' suoi stipendi il principe
di Nassau, il governo Veneziano se ne rimase. Ma la verità è, che il