Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II - 08
perciò non era in sua facoltà, ancorchè volesse, di mandar nuovo
presidio in quell'isola. Certamente non si può biasimare Miot dello aver
domandato al gran duca quello, che credeva essere sicurtà del suo
governo; ma bene gli si può dar carico dello aver usato parole
intemperanti parlando della nazione Italiana, quando scrisse, di questo
fatto gravemente lamentandosi, a Buonaparte, badasse bene a schivare le
minacce vane, principalmente in Italia, dove i popoli accrescevano i
mali con la fantasìa, ma tosto trapassavano dal terrore all'insolenza,
quando non pruovavano tutto quello che temevano; perchè stava,
continuava dicendo Miot, nella natura vendicativa degl'Italiani di veder
sempre nei nemici loro la impotenza, non mai la generosità. Quale
generosità poi fosse in coloro, che sotto specie di belle parole erano
andati ad ingannare ed a spogliare l'Italia, toccherà a Miot lo
spiegarlo. Intanto sapranno i posteri come egli parlasse di una nazione
illustre, in quel momento stesso in cui ella era miserabil preda di
Francesi e di Tedeschi, ridotta per cagione degli uni e degli altri in
durissimo servaggio, spogliata de' suoi più preziosi ornamenti, rotta
tutta e sanguinosa nelle parti più nobili e più vitali del corpo suo.
Intanto non portarono gl'Inglesi maggior rispetto a Porto-Ferrajo, che i
Francesi a Livorno portato avessero. In tal modo fu trattato Ferdinando
di Toscana dai capi di due potenti nazioni; infelice condizione di un
principe, che, non avendo armi, volle fondare la propria sicurezza sulla
integrità della vita, in tempi in cui il più potere era stimato ragione.
S'appresentavano il dì nove luglio gl'Inglesi in cospetto di
Porto-Ferrajo, con diciassette bastimenti, che portavano duemila
soldati; richiesero la piazza. Scriveva il vicerè di Corsica al
governatore, volere occupar Porto-Ferrajo, perchè i Francesi avevano
occupato Livorno, e macchinavano di occupar anche Porto-Ferrajo; ma non
volere, negando con le parole quello che faceva coi fatti, solito
costume di quella perversa età, offendere la neutralità. I capi della
flotta poi minacciavano, se non fossero lasciati entrar di queto,
entrerebbero per forza.
Avute il gran duca queste moleste novelle, comandava al governatore,
protestasse della rotta neutralità, negasse la dimanda, solo cedesse
alla forza. Ma già gl'Inglesi procedendo dalle minaccie ai fatti, erano
sbarcati sulle spiagge di Acquaviva, luogo di confine fra lo stato di
Toscana e quello di Piombino, e marciando per sentieri montuosi, erano
giunti in cima al monte che sta a ridosso del forte di Porto-Ferrajo;
quivi piantarono una batterìa di cannoni e di obici con le bocche volte
contro la città. I soldati scendendo da quei siti erti e scoscesi nella
strada che dà l'adito alla terra, stavano pronti ad osservare quello che
vi nascesse dentro, per le intimazioni e presenza loro. Mandava Orazio
Nelson da parte del vicerè di Corsica intimando al governatore, volere
gl'Inglesi Porto-Ferrajo e i forti per preservargli dai Francesi;
porterebbero rispetto alle persone, alle proprietà, alla religione; se
n'anderebbero, fatta la pace, o cessato il pericolo dell'invasione; se
il governatore consentisse, entrerebbero pacificamente, se negasse, per
forza. Adunava il governatore gli ufficiali, i magistrati, i consoli
delle potenze, i capi di casa più principali, acciocchè quello che far
si dovesse, deliberassero. Risolvettero di consentimento concorde, che
si desse luogo alla forza, che si ricevessero gl'Inglesi, ma che si
protestasse delle seguenti condizioni: non potessero a modo niuno i
Toscani essere sforzati a combattere, se qualche forza nemica si
accostasse all'isola, provvedessero gl'Inglesi alla vettovaglia; i
soldati nelle case particolari non alloggiassero. Accettate le
condizioni, entrarono nella Toscana isola gl'Inglesi. Poco dopo
s'impadronirono anche dell'isola Capraja, di stato Genovese, meno per
sicurezza loro, che per dispetto del senato, contro il quale avevano
risentimento, per essersi, come credevano, accostato recentemente alla
parte Francese. Acquistate Elba e Capraja, correvano più molesti che
prima contro i bastimenti Genovesi, e gli mettevano in preda.
In questo mezzo tempo bollivano le cose nella partigiana Corsica
perturbata da gravissimi accidenti, ed andavano a versi di Buonaparte.
Bonelli condottosi nell'isola, e spargendo voci di prossimi ajuti, e
detestando la superiorità Inglese, e spargendo ogni dove faville
d'incendio, e turbando ogni villa, ogni villaggio, massime sui monti
vicini a Bastìa ed a San Fiorenzo, aveva adunato gente, che apertamente
resisteva al dominio del vicerè. A Bastìa, sendovi ancora presenti
gl'Inglesi, una congregazione di patriotti, come gli chiamavano, o
piuttosto di partigiani di Buonaparte e di Saliceti, nemicissimi al nome
di Paoli e d'Inghilterra, avevano preso tanto ardire, che addomandarono
al vicerè la libertà dei carcerati, e scrissero a Saliceti, già avesse
Bastìa in luogo di città Francese. Vedutosi da Saliceti e da Gentili,
che quello era il tempo propizio per restituire la patria loro alla
Francia, mandarono innanzi Casalta, con una banda di fuorusciti Corsi
affinchè, arrivando a Bastìa, ajutasse quel moto, cagione probabile di
cambiamento. Fu opportuno il disegno, non fu infelice il successo;
perchè giungeva sul finire di ottobre Casalta, tanta fu la destrezza di
Sapey nel procurare il tragitto malgrado del tempo burrascoso e delle
navi Inglesi, in vicinanza del porto; e sbarcava le sue genti, alle
quali vennero a congiungersi i partigiani in grosso numero. I soldati di
Casalta, divenuti forti, occuparono i poggi che dominano Bastìa.
Intimava Casalta agl'Inglesi, che tuttavia tenevano il forte, si
arrendessero; quando no, gli fulminerebbe. Sopravvennero intanto le
novelle che gran tumulti nascevano in tutta l'isola contro il nome
Britannico. Gl'Inglesi pertanto si risolvevano ad abbandonar quello, che
più non potevano conservare; e precipitando gl'indugi dal forte di
Bastìa, perchè avevano paura che i Corsi di Casalta, calando dai monti,
impedissero loro il ritorno, lo spacciarono prestamente, e si
ricondussero alle navi. Nè fu senza danno la ritirata, o piuttosto fuga
loro; perchè soppraggiunti per viaggio dai Corsi, meglio di cinquecento
restarono cattivi. Perdettero anche i magazzini; dei cannoni alcuni
trasportarono, altri chiodarono. A tale fatto i tumulti crescevano, gli
alberi di libertà si piantavano: San Bonifacio, Ajaccio, Calvi
chiamavano il nome di Francia. Restava pei patriotti, che si cacciassero
gl'Inglesi da San Fiorenzo, dove avevano adunato le maggiori forze, ed
anche la fortezza della piazza gli assicurava. Ma il precipizio era
tale, che si resisteva senza frutto. Guadagnava Casalta, non però senza
difficoltà, le fauci di San Germano, per cui si apre la strada da Bastìa
a San Fiorenzo, ed arrivava improvvisamente sopra quest'ultimo luogo
cacciandosi avanti gl'Inglesi fuggiti da San Germano. Diedero tostamente
opera a vuotare la piazza; vi entrarono con segni d'incredibile
allegrezza i Corsi repubblicani. Conquistarono sei pezzi di artiglierìa
buona e due mortai, che in tanta fretta i vinti non avevano avuto tempo
di trasportare: i soldati sezzai vennero in poter del vincitore.
Tuttavia l'armata Inglese stava sorta sull'ancore poco distante da San
Fiorenzo in prospetto di Mortella; i soldati avevano fatto un forte
alloggiamento sui monti a ridosso di Mortella medesima, non che
volessero continuare nell'intenzione di conservare la Corsica, ma
solamente per acquare, vettovagliarsi, e raccorre gli sbrancati sì
magistrati del regno che soldati, che per luoghi incogniti e per
tragetti arrivavano ad ogni ora, fuggendo il furore Corso che gli
cacciava. Partiva frattanto da Livorno Gentili, conducendo con se nuove
armi e munizioni, ducento soldati spigliatissimi, trecento fuorusciti di
Corsica. Arrivato a Bastìa, dato riposo alla truppa, squadronati nuovi
Corsi che accorrevano, si metteva in viaggio per a San Fiorenzo, con
animo di cacciar gl'Inglesi da quel loro ultimo nido di Mortella. Urtava
l'oste Britannica, ne seguitava una mischia mortalissima: fuggirono
finalmente gl'Inglesi, ricevendo per viaggio molti danni, e si
ridussero, prestamente camminando, e tutti sanguinosi alle navi.
Conseguito quest'intento, saliva Gentili sopra certi monti, donde
speculando vedeva l'armata Inglese, che continuava a starsene con
l'ancore aggrappate in poca distanza: preparava una forte batterìa per
fulminarla. Non aspettarono l'ultimo momento; che anzi, date le vele ai
venti, si allargarono in alto mare alla volta di Gibilterra, lasciando
tutta l'isola in potestà di coloro, che la vollero restituire all'antica
madre di Francia. Si ricoverava Elliot vicerè a Porto-Ferrajo, dolente
che quella preda si trasferisse di nuovo nella potenza emola
all'Inghilterra. Per cotal modo furono spenti in un giro di pochi mesi
un parlamento, un reggimento ordinato, un'autorità di un re della Gran
Brettagna. Al tempo stesso abbandonarono gl'Inglesi le testè conquistate
isole d'Elba e Capraja, brevissimo frutto di violata neutralità.
Fatte tutte queste cose, arrivava Saliceti in Corsica con facoltà di
perdonare. Veniva annunziando, che la generosa Francia perdonava; che
mandato per lei espressamente recava a' suoi compatriotti constituzione
e libertà; una insolenza insopportabile, proscrizioni, esigli, carceri
essere stati i doni dell'Inghilterra; avere l'Inghilterra ingannato i
Corsi con pretesti di religione, come se la Francia fosse nemica alla
religione. A questo eravam serbati, sclamava fortemente Saliceti, di
vedere gl'Inglesi divenuti amici, e protettori del papa; non essere la
Francia nemica alla religione; solo volere la libertà di ogni culto;
vedete, gridava, come i traditori, che all'Inghilterra, quale vil
gregge, vi venderono, fuggono; vedete come non osano combattere; vedete
come prestamente hanno sgombrato da queste terre, che con la presenza e
coi delitti loro han voluto rendere disonorate ed infami; or sen vadano
essi pure vagando per istrani lidi con la vergogna, e coi rimorsi
compagni, e se qualche traditor resta, punirallo la repubblica: questi
svelate, questi punite; con ogni altro vivete come con fratelli:
unitevi, affratellatevi; giurate sull'are vostre, e per l'ombre dei
compagni morti nelle battaglie a difesa della repubblica, giurate odio
eterno alla monarchìa. Queste incitate parole, che producevano frutti
conformi, dimostravano quanto gli uomini si soddisfacciano meglio delle
esagerazioni, che della temperanza.
LIBRO OTTAVO
SOMMARIO
Nuovi pensieri politici, che sorgono nella mente degl'Italiani
più savj dopo le vittorie replicate di Buonaparte. Rivoluzioni
nel ducato di Modena. Comizj di Bologna. Congresso
dell'Emilia. Spaventi del pontefice; pure non consente alla
pace. Sue gravi esortazioni ai principi. Pace del re di Napoli
colla repubblica di Francia: il principe di Belmonte
Pignatelli suo ambasciadore presso al direttorio. Pace tra
Francia e Parma. Morte di Vittorio Amedeo III, ed assunzione
di Carlo Emanuele IV, re di Sardegna; qualità di questi due
principi. Progetti di Buonaparte e del direttorio sul
Piemonte. Conte Balbo, ambasciadore del re Carlo Emanuele a
Parigi sue qualità, e suo discorso d'introito al direttorio.
Nuove tribolazioni di Genova. Gl'Inglesi vengono ad un fatto
condannabile, che fa gettarsi Genova del tutto alla parte
Francese. Spinola, suo plenipotenziario a Parigi: conclude un
trattato col direttorio. Maneggi politici in Italia. Clarke
mandatovi dal direttorio: perchè, e con quali istruzioni.
Proposizione d'alleanza tra Francia e Venezia. Rifiutata da
Venezia, e perchè. Proposizione d'alleanza tra l'Austria e
Venezia. Rifiutata dalla seconda, e perchè. Proposizione
d'alleanza tra la Prussia e Venezia. Rifiutata da
quest'ultima, e perchè. Desolazione dei paesi Veneti per opera
sì dei repubblicani, che degl'imperiali. Querele dei
Veneziani. Venezia si arma per le minacce fatte da Buonaparte
al provveditor generale Foscarini. Sospetti della Francia in
questo proposito, e dilucidazioni date dal senato Veneziano.
Le vittorie dei repubblicani in Italia erano splendidissime: l'avere
ridotto a condizione servile il re di Sardegna, costretto ad accordi
poco onorevoli quel di Napoli ed il pontefice, l'avere non solo vinto,
ma anche spento due eserciti d'Austria, l'essere disarmata la repubblica
di Venezia, e l'aver cacciato dalla Corsica gl'Inglesi col solo
sventolar d'un'insegna, davano argomento, che la potenza Francese
metterebbe radici in Italia, e che questa provincia sarebbe per cambiare
e di signori e di reggimento. Queste condizioni erano cagione che
sorgessero ogni dì nuovi partigiani a favore del nuovo stato, e contro
il vecchio. Se per lo innanzi la parte Francese solamente seguitavano o
coloro che erano presi con esagerazione evidente da illusioni
fantastiche di bene, o coloro che in vantaggio proprio disegnavano
convertire quei rivolgimenti politici, vedute tante vittorie, si
accostavano a voler secondare le mutazioni molti uomini savj e prudenti,
i quali opinavano, che, poichè la forza aveva partorito movimenti di
tanta, anzi di totale importanza, era oramai venuto il tempo del non
dover lasciare portar al caso sì gravi accidenti; che anzi era debito di
ogni amatore della patria Italiana di mostrarsi, e di dar norma con
l'intervento loro, per quanto fra l'operare disordinato dell'armi
possibil fosse, a quei moti, che scuotevano fin dal fondo la tormentata
Italia. Prevedevano, che quantunque nella probabilità delle cose
avvenire avessero i Francesi a restar signori, si sarebbero tuttavìa,
per l'impazienza e l'instabilità, di cui sono notati, presto infastiditi
delle cose d'Italia, ed in parte ritirati, e che la signorìa, divenuta
semplice autorità, avrebbe avuto natura piuttosto di patrocinio, che di
dispotismo. Allora, speravano, le cose si sarebbero ridotte ad uno stato
più tollerabile, e forse gl'Italiani avrebbero potuto ordinare una
libertà fondata dall'una parte sovra leggi patrie, dall'altra scevra
dall'imperio insolente dei forestieri. Si persuadevano che se era
scemato il pericolo delle armi Tedesche, era cresciuta la necessità di
soccorrere alla patria coi buoni consigli; credevano male accetti essere
ai popoli gl'Italiani intemperanti, che avevano prevenuto, o troppo
ardentemente, o troppo servilmente secondato i primi moti dei Francesi,
e però non doversi a loro abbandonare la somma delle cose. Gravi uomini,
pensavano, avere ad essere i fondatori di un vivere libero, non
cantatori, o ballerini intorno agli alberi della libertà; nè alcun nuovo
stato potersi fondare senza l'autorità degli uomini autorevoli, perchè i
nuovi stati non si possono in altro modo fondare che con la opinione dei
popoli, che alla lunga fugge gli esagerati, seguita i savj. Costoro
adunque consentivano a farsi vivi in ajuto dello stato, quantunque
sapessero in quali travagli avessero a mettersi.
Questa fu un'epoca seconda nelle rivoluzioni d'Italia, in cui uomini
prudenti per la necessità dei tempi, vennero partecipando delle faccende
pubbliche. In questo concorsero e nobili e popolani, e dotti ed indotti,
e laici ed ecclesiastici, desiderando tutti di cavare da quelle acque
tanto torbide fonti puri e salutari per la patria loro. Fra costoro non
tutti pensavano alla medesima maniera; perciocchè alcuni più timidi, o
di più corta vista, o forse di più ristretta ambizione, amavano i
governi spezzati; altri innalzando l'animo a più alti pensieri,
desideravano l'unità d'Italia, perchè credevano, che l'Italia spezzata
altro non fosse che l'Italia serva. Fra i primi si osservavano i più
attempati, fra i secondi i più giovani; i primi moderavano, i secondi
incitavano; i primi più manifestamente operavano, i secondi più
nascostamente; i primi erano amati ed accarezzati dai francesi, i
secondi odiati e perseguitati. Chiamavano questi ultimi, come se fossero
gente di molta terribilità, la lega nera, e di questa lega nera avevano
i capi dell'esercito più paura che dei Tedeschi, perchè e la potenza di
lei di per se stessi alle menti loro esageravano, ed era loro esagerata
dagl'Italiani adulatori e rapportatori che credevano, che il dar
sospetto ai Francesi facesse stimare più necessarj i servigi loro. Pieni
erano gli scritti, piene le parole segrete di questi rapportatori ai
generali e commissarj della repubblica, del nome della lega nera, ed io
ho veduto di molti sonni turbati da questo fantasma. Egli è vero, che
gli addetti a questa setta tanto odiavano i Francesi, quanto i Tedeschi,
e bramavano che l'Italia sgombra degli uni e degli altri, alle proprie
leggi si reggesse, avvisando, che lo sconvolgimento totale prodotto
dalla guerra potesse aprir la occasione a quello, a che non avrebbe mai
potuto condurre lo stato quieto. Sapevano che nè i Francesi nè i
Tedeschi amavano l'independenza Italiana; perciò volevano servirsi dei
primi per cacciare i secondi, poi servirsi della forza dell'Italia unita
per cacciare i primi. Ma questo era un ferire a caso, piuttosto che
andare ad un disegno certo, perchè, essendo in quei gravissimi accidenti
non attiva, ma passiva l'Italia, non era da credersi che vi sorgessero
personaggi civili di estrema autorità, nè generali di gran nome, ai
quali concorressero con opinione ed impeto comune per la desiderata
liberazione i popoli. Pure aspettavano confidentemente il benefizio del
tempo, e preparavano, non con ischiamazzi e con grida, ma con un parlare
a tempo, ed anche con un tacere a tempo, i semi alle future cose. Di
questi non pochi entrarono nei nuovi magistrati creati dai Francesi, che
loro diedero autorità, perchè non gli conoscevano; ed essi i
comandamenti altieri od avari, o moderavano coi fatti per acquistar
favore presso ai popoli, o con parole gli magnificavano per acquistar
odio ai Francesi. Creata la setta, entravano anche gli addetti nei
magistrati instituiti dai Tedeschi, quando questi riusciti superiori
inondarono il paese, e con le medesime intenzioni, ed al medesimo fine
indirizzavano le operazioni loro, cioè a creare autorità a se stessi, ed
odio ai Tedeschi. Questa, o vera lega che si fosse, o solamente
desiderio universale, si era propagata e radicata in tutti i paesi, ed a
lei s'accostarono personaggi, a cui non piacevano nè i Francesi nè la
libertà, perchè pareva a tutti un dolce ed onorato vivere l'independenza
dai forestieri. A questi desiderj mancarono piuttosto i principi, che i
popoli Italiani, perchè i principi avevano più paura della libertà, che
amore dell'independenza, i secondi più amore dell'independenza, che
della libertà. Ma se un principe si fosse abbattuto in Italia, non dico
quali gli partorivano i Romani tempi, ma solamente quali nascevano ai
tempi di Lorenzo, di Castruccio, e di Giulio della Rovere, avrebbe
prodotto, queste opinioni assecondando, ed una Italiana bandiera al
vento innalzando, effetti notabilissimi non che in Italia, in tutta
Europa. Ma Sardegna era fissa nel desiderio di acquistarsi una
provinciuzza Milanese, o Francese, o Genovese, Genova nel commercio,
Venezia nella mollezza, Roma nel sacerdozio, Napoli nel volersi una
particella delle Marche, Firenze in un felice e pacifico stato; Milano
privo del principe proprio ed in preda ai forestieri poteva solo
seguitare, non cominciare. Così per troppo godere, o per troppo temere,
o per istrettezza di mente, o per fiacchezza d'animo, i principi
Italiani trasandarono le occasioni, ed indirizzarono tutti i pensieri
loro al difendersi dai Francesi, non avvertendo che il proporsi per fine
di tornare allo stato vecchio, indifferente a molti, odiato da alcuni,
non poteva far muovere i popoli con quella efficacia, con cui gli
avrebbe mossi un disegno nuovo, generoso e grande.
Quanto al reggimento interno di ciascuna parte, o di tutta l'Italia,
amavano i più, fra coloro di cui parliamo, la repubblica, ma la volevano
ridurre al patriziato, istituito con la moderazione della potenza
popolare prudentemente ordinata, governo antico e naturale all'Italia;
il quale patriziato molto è diverso dalla nobiltà feudataria, frutto di
tempi barbari; perchè il primo fa i clienti protetti ed affezionati, la
seconda gli fa servi ed avversi. Può e debbe il patriziato consistere
con l'egualità dei diritti civili, ma induce necessariamente inegualità
di diritti politici, mentre la nobiltà vive con l'inegualità degli uni e
degli altri. Nè in quei tempi, in cui tanto si gridava sulle piazze la
egualità, si ristavano questi prudenti Italiani ai popolari e servili
schiamazzi; perchè da una parte sapevano, che negli stati grandi la
democrazìa pura non può sussistere, se non con soldatesche grosse e con
tribunali terribili, atti a contenere i popoli nella quiete; i quali
soldati e tribunali sono peste mortalissima di ogni libertà e di ogni
egualità. Seppeselo la Francia rossa di cittadino sangue, videlo la
Guiana piena dei più virtuosi uomini, pruovaronlo le stanze di San
Clodoaldo, fatte testimonio di quanto ardisca e di quanto possa coi
soldati un audace e fero conquistatore. Dall'altra parte, non
ignoravano, che anche nella democrazìa la egualità politica è
impossibile, perchè coloro che esercitano i magistrati, non sono in
termini di equalità con coloro che ne son privi, nè chi comanda con chi
obbedisce. Adunque vedevano, che una sola differenza poteva essere tra
il patriziato misto di democrazìa, e la democrazìa pura, e quest'era,
che in quello la inegualità politica è perpetua, in questa temporanea.
Credevano governo non solo naturale, ma necessario ed inevitabile nelle
umane società essere il patriziato; perchè chi è famoso per ricchezza, o
per dottrina, o per virtù, o per servigi fatti alla patria, avrà sempre
clientela, nè tutte insieme le grida democratiche potranno impedire,
stantechè cosa naturale ed insita nell'uomo è il corteggiare i potenti
ed il rispettare i buoni. Neanco fa effetto lo spegnere con le mannaje e
con gli esigli come suol fare la democrazìa pura, i buoni ed i potenti
cittadini; perchè nuovi sottentrano, e se non s'appresentano da se, il
popolo se gli crea; tanta è la necessità del patriziato. Ora pensavano,
dovere i legislatori prudenti usare, per ordinar bene una società,
questa necessità; e poichè è il patriziato inevitabile, volevano che per
leggi fondamentali si organizzasse, e non che si lasciasse sorgere, ed
operare a caso; perciocchè organizzato essendo, contribuisce all'armonìa
dell'umana società, non organizzato la turba. Buono, anzi necessario
consiglio essere opinavano, per bene constituire uno stato, usare gli
elementi insiti nella natura umana, perchè, quantunque sia l'uomo di
origine divina, soggiace non pertanto, come tutti gli altri animali, a
certe leggi naturali; e siccome nel domare gli animali usa l'uomo questo
modo o quest'altro, secondochè la natura di ciascuna spezie di loro il
richiede, così per reggere gli uomini debbono i legislatori adoperare
quel modo, che dalla natura della umana spezie è necessitato. Nè è da
temersi che questo procedere conduca al dispotismo, perchè l'uomo ha in
se una qualità nobile, che gli fa amare le cose generose, ed abborrire
le vili e le vituperevoli, nè può volere il proprio danno. Questo
ordinare le società secondo la natura è ben altro che ordinarle secondo
certi principj astratti e geometrici, e questo è stato altresì l'errore
continuo dei legislatori Francesi ai nostri tempi, solleciti sempre dei
principj astratti, non degli affetti e passioni naturali. Quali effetti
ne siano nati, il mondo dolente se lo ha veduto. Adunque gl'Italiani
volevano un patriziato per la conservazione della società, una
democrazìa temperata per la conservazione della equalità, l'uno e
l'altra per la conservazione della libertà. A questo salutare consiglio
si opponevano le operazioni disordinate delle armi sì Francesi che
Tedesche, l'assurdo capriccio dei Francesi di quei tempi del voler
applicar il modo del loro governo a tutti i paesi che conquistavano, la
volontà di Buonaparte nemico della libertà, amico del dispotismo,
amatore, anzi ammiratore della nobiltà feudataria, ed odiatore del
patriziato paterno; finalmente gl'Italiani, servili imitatori delle cose
d'oltremonti, ed incapricciti ancor essi dei governi geometrici. Ma
gl'Italiani, veri speculatori e scrutatori delle umane cose, non si
sgomentavano, sperando dal tempo e dalla necessità ajuto
agl'intendimenti loro; e poichè pareva che per destino l'autorità regia
fosse giunta al suo fine, confidavano che la società si sarebbe fermata
al governo patrizio, misto di democrazìa, e non scesa al democratico
puro.
Questi sentimenti a sicurazione e salute d'Italia, principalmente
sorgevano nell'Emilia, e più particolarmente in Bologna, ma non potevano
impedire che la fazione democratica, pazza e servile imitatrice di
quanto si era fatto in Francia, non vi producesse una grande
inondazione. Nè essa operava da se, quantunque ne avesse voglia, ma
suscitata a bella posta dagli agenti di Buonaparte e del direttorio. Il
duca di Modena solo, e senza amici, e quel che era peggio, ricco, o in
voce di essere, si trovava senza difesa esposto ai tentativi di
quest'uomini fanatici e sfrenati; nè rimaneva per la forza delle
opinioni, e degli esempj che correvano, fedele disposizione nei popoli.
Furono le prime mosse date da Reggio, città scontenta, per le emolazioni
con Modena, del governo del duca. La notte dei venticinque agosto vi si
levarono improvvisamente a romore i partigiani della democrazìa. Era il
presidio debole, i magistrati timidi, l'infezione grande. Laonde senza
resistenza alcuna crescendo il tumulto, in poco d'ora fu piena la città
di lumi, di canti repubblicani, di voci festive del popolo, di un gridar
continuo di guerra al duca. Piantarono il solito albero, inalberarono le
tricolorite insegne. La mattina nissun segno era in piede del ducale
governo: Reggio fu, o credessi libero. I soldati del duca impotenti al
resistere se ne tornarono di queto a Modena. Si accostarono ai primi
motori uomini riputati per ricchezze e per dottrina, sì per dar norma a
quell'impeto disordinato, e sì per isperare, che egli, se non era
libertà, poteva col tempo divenire: l'allegrezza del popolo somma, e
così anche sincera. Certamente i Reggiani amavano la buona e vera
libertà, solo s'ingannavano credendo, che potesse sussistere coi
conquistatori. Condotto a fine il moto, crearono un reggimento
temporaneo con forma repubblicana, moderarono l'autorità del senato,
instituirono magnati popolari, descrissero cittadini per la milizia.
Questi erano i disegni interni. Ma desiderando di rendere partecipi i
vicini di quanto avevano fatto, mandavano uomini a posta nel contado, in
Lunigiana, ed in Garfagnana, acciocchè parlando e predicando muovessero
a novità. Inviavano Paradisi e Re ad affratellarsi, come dicevano, coi
Milanesi; fece Milano feste per la conquistata libertà di Reggio.
L'importanza era di far muovere Modena. Nè in questo mancarono a se
stessi i Reggiani, perchè spacciarono gente attiva a sollevare con
segrete insinuazioni, e con incentivi palesi quella città. Tanto
operarono, che già una banda di novatori, portando con se non so che
albero, il volevano piantare in piazza: gridavano accorruomo, e libertà.
Ma fu presto il governo ad insorgere contro quel moto, e fatta andare
innanzi la soldatesca con le armi, risospingeva i libertini non senza
qualche uccisione. Rendè Ercole Rinaldo da Venezia solenni grazie ai
Modenesi per la conservata fedeltà. Pagherebbe, aggiunse, del suo gran
parte delle contribuzioni, scemerebbe le gravezze dei comuni.
Questo intoppo interruppe i pensieri di Buonaparte. Ma egli, che non
voleva, che gli fossero interrotti, fece con la forza propria quello,
che le Reggiane non avevano potuto. Per la qual cosa mandava fuori un
manifesto da Milano, pieno di querele contro il duca; non avere pagato
ai tempi debiti le contribuzioni di guerra; starsene tuttavia lontano
dagli stati; lasciare interi gli aggravj di guerra ai sudditi, nè
volervi partecipar del suo; avere somministrato denari ai nemici della
repubblica; incitare i sudditi con perniziose arti, e per mezzo di
agenti contro Francia; avere vettovagliato Mantova a pro degli
presidio in quell'isola. Certamente non si può biasimare Miot dello aver
domandato al gran duca quello, che credeva essere sicurtà del suo
governo; ma bene gli si può dar carico dello aver usato parole
intemperanti parlando della nazione Italiana, quando scrisse, di questo
fatto gravemente lamentandosi, a Buonaparte, badasse bene a schivare le
minacce vane, principalmente in Italia, dove i popoli accrescevano i
mali con la fantasìa, ma tosto trapassavano dal terrore all'insolenza,
quando non pruovavano tutto quello che temevano; perchè stava,
continuava dicendo Miot, nella natura vendicativa degl'Italiani di veder
sempre nei nemici loro la impotenza, non mai la generosità. Quale
generosità poi fosse in coloro, che sotto specie di belle parole erano
andati ad ingannare ed a spogliare l'Italia, toccherà a Miot lo
spiegarlo. Intanto sapranno i posteri come egli parlasse di una nazione
illustre, in quel momento stesso in cui ella era miserabil preda di
Francesi e di Tedeschi, ridotta per cagione degli uni e degli altri in
durissimo servaggio, spogliata de' suoi più preziosi ornamenti, rotta
tutta e sanguinosa nelle parti più nobili e più vitali del corpo suo.
Intanto non portarono gl'Inglesi maggior rispetto a Porto-Ferrajo, che i
Francesi a Livorno portato avessero. In tal modo fu trattato Ferdinando
di Toscana dai capi di due potenti nazioni; infelice condizione di un
principe, che, non avendo armi, volle fondare la propria sicurezza sulla
integrità della vita, in tempi in cui il più potere era stimato ragione.
S'appresentavano il dì nove luglio gl'Inglesi in cospetto di
Porto-Ferrajo, con diciassette bastimenti, che portavano duemila
soldati; richiesero la piazza. Scriveva il vicerè di Corsica al
governatore, volere occupar Porto-Ferrajo, perchè i Francesi avevano
occupato Livorno, e macchinavano di occupar anche Porto-Ferrajo; ma non
volere, negando con le parole quello che faceva coi fatti, solito
costume di quella perversa età, offendere la neutralità. I capi della
flotta poi minacciavano, se non fossero lasciati entrar di queto,
entrerebbero per forza.
Avute il gran duca queste moleste novelle, comandava al governatore,
protestasse della rotta neutralità, negasse la dimanda, solo cedesse
alla forza. Ma già gl'Inglesi procedendo dalle minaccie ai fatti, erano
sbarcati sulle spiagge di Acquaviva, luogo di confine fra lo stato di
Toscana e quello di Piombino, e marciando per sentieri montuosi, erano
giunti in cima al monte che sta a ridosso del forte di Porto-Ferrajo;
quivi piantarono una batterìa di cannoni e di obici con le bocche volte
contro la città. I soldati scendendo da quei siti erti e scoscesi nella
strada che dà l'adito alla terra, stavano pronti ad osservare quello che
vi nascesse dentro, per le intimazioni e presenza loro. Mandava Orazio
Nelson da parte del vicerè di Corsica intimando al governatore, volere
gl'Inglesi Porto-Ferrajo e i forti per preservargli dai Francesi;
porterebbero rispetto alle persone, alle proprietà, alla religione; se
n'anderebbero, fatta la pace, o cessato il pericolo dell'invasione; se
il governatore consentisse, entrerebbero pacificamente, se negasse, per
forza. Adunava il governatore gli ufficiali, i magistrati, i consoli
delle potenze, i capi di casa più principali, acciocchè quello che far
si dovesse, deliberassero. Risolvettero di consentimento concorde, che
si desse luogo alla forza, che si ricevessero gl'Inglesi, ma che si
protestasse delle seguenti condizioni: non potessero a modo niuno i
Toscani essere sforzati a combattere, se qualche forza nemica si
accostasse all'isola, provvedessero gl'Inglesi alla vettovaglia; i
soldati nelle case particolari non alloggiassero. Accettate le
condizioni, entrarono nella Toscana isola gl'Inglesi. Poco dopo
s'impadronirono anche dell'isola Capraja, di stato Genovese, meno per
sicurezza loro, che per dispetto del senato, contro il quale avevano
risentimento, per essersi, come credevano, accostato recentemente alla
parte Francese. Acquistate Elba e Capraja, correvano più molesti che
prima contro i bastimenti Genovesi, e gli mettevano in preda.
In questo mezzo tempo bollivano le cose nella partigiana Corsica
perturbata da gravissimi accidenti, ed andavano a versi di Buonaparte.
Bonelli condottosi nell'isola, e spargendo voci di prossimi ajuti, e
detestando la superiorità Inglese, e spargendo ogni dove faville
d'incendio, e turbando ogni villa, ogni villaggio, massime sui monti
vicini a Bastìa ed a San Fiorenzo, aveva adunato gente, che apertamente
resisteva al dominio del vicerè. A Bastìa, sendovi ancora presenti
gl'Inglesi, una congregazione di patriotti, come gli chiamavano, o
piuttosto di partigiani di Buonaparte e di Saliceti, nemicissimi al nome
di Paoli e d'Inghilterra, avevano preso tanto ardire, che addomandarono
al vicerè la libertà dei carcerati, e scrissero a Saliceti, già avesse
Bastìa in luogo di città Francese. Vedutosi da Saliceti e da Gentili,
che quello era il tempo propizio per restituire la patria loro alla
Francia, mandarono innanzi Casalta, con una banda di fuorusciti Corsi
affinchè, arrivando a Bastìa, ajutasse quel moto, cagione probabile di
cambiamento. Fu opportuno il disegno, non fu infelice il successo;
perchè giungeva sul finire di ottobre Casalta, tanta fu la destrezza di
Sapey nel procurare il tragitto malgrado del tempo burrascoso e delle
navi Inglesi, in vicinanza del porto; e sbarcava le sue genti, alle
quali vennero a congiungersi i partigiani in grosso numero. I soldati di
Casalta, divenuti forti, occuparono i poggi che dominano Bastìa.
Intimava Casalta agl'Inglesi, che tuttavia tenevano il forte, si
arrendessero; quando no, gli fulminerebbe. Sopravvennero intanto le
novelle che gran tumulti nascevano in tutta l'isola contro il nome
Britannico. Gl'Inglesi pertanto si risolvevano ad abbandonar quello, che
più non potevano conservare; e precipitando gl'indugi dal forte di
Bastìa, perchè avevano paura che i Corsi di Casalta, calando dai monti,
impedissero loro il ritorno, lo spacciarono prestamente, e si
ricondussero alle navi. Nè fu senza danno la ritirata, o piuttosto fuga
loro; perchè soppraggiunti per viaggio dai Corsi, meglio di cinquecento
restarono cattivi. Perdettero anche i magazzini; dei cannoni alcuni
trasportarono, altri chiodarono. A tale fatto i tumulti crescevano, gli
alberi di libertà si piantavano: San Bonifacio, Ajaccio, Calvi
chiamavano il nome di Francia. Restava pei patriotti, che si cacciassero
gl'Inglesi da San Fiorenzo, dove avevano adunato le maggiori forze, ed
anche la fortezza della piazza gli assicurava. Ma il precipizio era
tale, che si resisteva senza frutto. Guadagnava Casalta, non però senza
difficoltà, le fauci di San Germano, per cui si apre la strada da Bastìa
a San Fiorenzo, ed arrivava improvvisamente sopra quest'ultimo luogo
cacciandosi avanti gl'Inglesi fuggiti da San Germano. Diedero tostamente
opera a vuotare la piazza; vi entrarono con segni d'incredibile
allegrezza i Corsi repubblicani. Conquistarono sei pezzi di artiglierìa
buona e due mortai, che in tanta fretta i vinti non avevano avuto tempo
di trasportare: i soldati sezzai vennero in poter del vincitore.
Tuttavia l'armata Inglese stava sorta sull'ancore poco distante da San
Fiorenzo in prospetto di Mortella; i soldati avevano fatto un forte
alloggiamento sui monti a ridosso di Mortella medesima, non che
volessero continuare nell'intenzione di conservare la Corsica, ma
solamente per acquare, vettovagliarsi, e raccorre gli sbrancati sì
magistrati del regno che soldati, che per luoghi incogniti e per
tragetti arrivavano ad ogni ora, fuggendo il furore Corso che gli
cacciava. Partiva frattanto da Livorno Gentili, conducendo con se nuove
armi e munizioni, ducento soldati spigliatissimi, trecento fuorusciti di
Corsica. Arrivato a Bastìa, dato riposo alla truppa, squadronati nuovi
Corsi che accorrevano, si metteva in viaggio per a San Fiorenzo, con
animo di cacciar gl'Inglesi da quel loro ultimo nido di Mortella. Urtava
l'oste Britannica, ne seguitava una mischia mortalissima: fuggirono
finalmente gl'Inglesi, ricevendo per viaggio molti danni, e si
ridussero, prestamente camminando, e tutti sanguinosi alle navi.
Conseguito quest'intento, saliva Gentili sopra certi monti, donde
speculando vedeva l'armata Inglese, che continuava a starsene con
l'ancore aggrappate in poca distanza: preparava una forte batterìa per
fulminarla. Non aspettarono l'ultimo momento; che anzi, date le vele ai
venti, si allargarono in alto mare alla volta di Gibilterra, lasciando
tutta l'isola in potestà di coloro, che la vollero restituire all'antica
madre di Francia. Si ricoverava Elliot vicerè a Porto-Ferrajo, dolente
che quella preda si trasferisse di nuovo nella potenza emola
all'Inghilterra. Per cotal modo furono spenti in un giro di pochi mesi
un parlamento, un reggimento ordinato, un'autorità di un re della Gran
Brettagna. Al tempo stesso abbandonarono gl'Inglesi le testè conquistate
isole d'Elba e Capraja, brevissimo frutto di violata neutralità.
Fatte tutte queste cose, arrivava Saliceti in Corsica con facoltà di
perdonare. Veniva annunziando, che la generosa Francia perdonava; che
mandato per lei espressamente recava a' suoi compatriotti constituzione
e libertà; una insolenza insopportabile, proscrizioni, esigli, carceri
essere stati i doni dell'Inghilterra; avere l'Inghilterra ingannato i
Corsi con pretesti di religione, come se la Francia fosse nemica alla
religione. A questo eravam serbati, sclamava fortemente Saliceti, di
vedere gl'Inglesi divenuti amici, e protettori del papa; non essere la
Francia nemica alla religione; solo volere la libertà di ogni culto;
vedete, gridava, come i traditori, che all'Inghilterra, quale vil
gregge, vi venderono, fuggono; vedete come non osano combattere; vedete
come prestamente hanno sgombrato da queste terre, che con la presenza e
coi delitti loro han voluto rendere disonorate ed infami; or sen vadano
essi pure vagando per istrani lidi con la vergogna, e coi rimorsi
compagni, e se qualche traditor resta, punirallo la repubblica: questi
svelate, questi punite; con ogni altro vivete come con fratelli:
unitevi, affratellatevi; giurate sull'are vostre, e per l'ombre dei
compagni morti nelle battaglie a difesa della repubblica, giurate odio
eterno alla monarchìa. Queste incitate parole, che producevano frutti
conformi, dimostravano quanto gli uomini si soddisfacciano meglio delle
esagerazioni, che della temperanza.
LIBRO OTTAVO
SOMMARIO
Nuovi pensieri politici, che sorgono nella mente degl'Italiani
più savj dopo le vittorie replicate di Buonaparte. Rivoluzioni
nel ducato di Modena. Comizj di Bologna. Congresso
dell'Emilia. Spaventi del pontefice; pure non consente alla
pace. Sue gravi esortazioni ai principi. Pace del re di Napoli
colla repubblica di Francia: il principe di Belmonte
Pignatelli suo ambasciadore presso al direttorio. Pace tra
Francia e Parma. Morte di Vittorio Amedeo III, ed assunzione
di Carlo Emanuele IV, re di Sardegna; qualità di questi due
principi. Progetti di Buonaparte e del direttorio sul
Piemonte. Conte Balbo, ambasciadore del re Carlo Emanuele a
Parigi sue qualità, e suo discorso d'introito al direttorio.
Nuove tribolazioni di Genova. Gl'Inglesi vengono ad un fatto
condannabile, che fa gettarsi Genova del tutto alla parte
Francese. Spinola, suo plenipotenziario a Parigi: conclude un
trattato col direttorio. Maneggi politici in Italia. Clarke
mandatovi dal direttorio: perchè, e con quali istruzioni.
Proposizione d'alleanza tra Francia e Venezia. Rifiutata da
Venezia, e perchè. Proposizione d'alleanza tra l'Austria e
Venezia. Rifiutata dalla seconda, e perchè. Proposizione
d'alleanza tra la Prussia e Venezia. Rifiutata da
quest'ultima, e perchè. Desolazione dei paesi Veneti per opera
sì dei repubblicani, che degl'imperiali. Querele dei
Veneziani. Venezia si arma per le minacce fatte da Buonaparte
al provveditor generale Foscarini. Sospetti della Francia in
questo proposito, e dilucidazioni date dal senato Veneziano.
Le vittorie dei repubblicani in Italia erano splendidissime: l'avere
ridotto a condizione servile il re di Sardegna, costretto ad accordi
poco onorevoli quel di Napoli ed il pontefice, l'avere non solo vinto,
ma anche spento due eserciti d'Austria, l'essere disarmata la repubblica
di Venezia, e l'aver cacciato dalla Corsica gl'Inglesi col solo
sventolar d'un'insegna, davano argomento, che la potenza Francese
metterebbe radici in Italia, e che questa provincia sarebbe per cambiare
e di signori e di reggimento. Queste condizioni erano cagione che
sorgessero ogni dì nuovi partigiani a favore del nuovo stato, e contro
il vecchio. Se per lo innanzi la parte Francese solamente seguitavano o
coloro che erano presi con esagerazione evidente da illusioni
fantastiche di bene, o coloro che in vantaggio proprio disegnavano
convertire quei rivolgimenti politici, vedute tante vittorie, si
accostavano a voler secondare le mutazioni molti uomini savj e prudenti,
i quali opinavano, che, poichè la forza aveva partorito movimenti di
tanta, anzi di totale importanza, era oramai venuto il tempo del non
dover lasciare portar al caso sì gravi accidenti; che anzi era debito di
ogni amatore della patria Italiana di mostrarsi, e di dar norma con
l'intervento loro, per quanto fra l'operare disordinato dell'armi
possibil fosse, a quei moti, che scuotevano fin dal fondo la tormentata
Italia. Prevedevano, che quantunque nella probabilità delle cose
avvenire avessero i Francesi a restar signori, si sarebbero tuttavìa,
per l'impazienza e l'instabilità, di cui sono notati, presto infastiditi
delle cose d'Italia, ed in parte ritirati, e che la signorìa, divenuta
semplice autorità, avrebbe avuto natura piuttosto di patrocinio, che di
dispotismo. Allora, speravano, le cose si sarebbero ridotte ad uno stato
più tollerabile, e forse gl'Italiani avrebbero potuto ordinare una
libertà fondata dall'una parte sovra leggi patrie, dall'altra scevra
dall'imperio insolente dei forestieri. Si persuadevano che se era
scemato il pericolo delle armi Tedesche, era cresciuta la necessità di
soccorrere alla patria coi buoni consigli; credevano male accetti essere
ai popoli gl'Italiani intemperanti, che avevano prevenuto, o troppo
ardentemente, o troppo servilmente secondato i primi moti dei Francesi,
e però non doversi a loro abbandonare la somma delle cose. Gravi uomini,
pensavano, avere ad essere i fondatori di un vivere libero, non
cantatori, o ballerini intorno agli alberi della libertà; nè alcun nuovo
stato potersi fondare senza l'autorità degli uomini autorevoli, perchè i
nuovi stati non si possono in altro modo fondare che con la opinione dei
popoli, che alla lunga fugge gli esagerati, seguita i savj. Costoro
adunque consentivano a farsi vivi in ajuto dello stato, quantunque
sapessero in quali travagli avessero a mettersi.
Questa fu un'epoca seconda nelle rivoluzioni d'Italia, in cui uomini
prudenti per la necessità dei tempi, vennero partecipando delle faccende
pubbliche. In questo concorsero e nobili e popolani, e dotti ed indotti,
e laici ed ecclesiastici, desiderando tutti di cavare da quelle acque
tanto torbide fonti puri e salutari per la patria loro. Fra costoro non
tutti pensavano alla medesima maniera; perciocchè alcuni più timidi, o
di più corta vista, o forse di più ristretta ambizione, amavano i
governi spezzati; altri innalzando l'animo a più alti pensieri,
desideravano l'unità d'Italia, perchè credevano, che l'Italia spezzata
altro non fosse che l'Italia serva. Fra i primi si osservavano i più
attempati, fra i secondi i più giovani; i primi moderavano, i secondi
incitavano; i primi più manifestamente operavano, i secondi più
nascostamente; i primi erano amati ed accarezzati dai francesi, i
secondi odiati e perseguitati. Chiamavano questi ultimi, come se fossero
gente di molta terribilità, la lega nera, e di questa lega nera avevano
i capi dell'esercito più paura che dei Tedeschi, perchè e la potenza di
lei di per se stessi alle menti loro esageravano, ed era loro esagerata
dagl'Italiani adulatori e rapportatori che credevano, che il dar
sospetto ai Francesi facesse stimare più necessarj i servigi loro. Pieni
erano gli scritti, piene le parole segrete di questi rapportatori ai
generali e commissarj della repubblica, del nome della lega nera, ed io
ho veduto di molti sonni turbati da questo fantasma. Egli è vero, che
gli addetti a questa setta tanto odiavano i Francesi, quanto i Tedeschi,
e bramavano che l'Italia sgombra degli uni e degli altri, alle proprie
leggi si reggesse, avvisando, che lo sconvolgimento totale prodotto
dalla guerra potesse aprir la occasione a quello, a che non avrebbe mai
potuto condurre lo stato quieto. Sapevano che nè i Francesi nè i
Tedeschi amavano l'independenza Italiana; perciò volevano servirsi dei
primi per cacciare i secondi, poi servirsi della forza dell'Italia unita
per cacciare i primi. Ma questo era un ferire a caso, piuttosto che
andare ad un disegno certo, perchè, essendo in quei gravissimi accidenti
non attiva, ma passiva l'Italia, non era da credersi che vi sorgessero
personaggi civili di estrema autorità, nè generali di gran nome, ai
quali concorressero con opinione ed impeto comune per la desiderata
liberazione i popoli. Pure aspettavano confidentemente il benefizio del
tempo, e preparavano, non con ischiamazzi e con grida, ma con un parlare
a tempo, ed anche con un tacere a tempo, i semi alle future cose. Di
questi non pochi entrarono nei nuovi magistrati creati dai Francesi, che
loro diedero autorità, perchè non gli conoscevano; ed essi i
comandamenti altieri od avari, o moderavano coi fatti per acquistar
favore presso ai popoli, o con parole gli magnificavano per acquistar
odio ai Francesi. Creata la setta, entravano anche gli addetti nei
magistrati instituiti dai Tedeschi, quando questi riusciti superiori
inondarono il paese, e con le medesime intenzioni, ed al medesimo fine
indirizzavano le operazioni loro, cioè a creare autorità a se stessi, ed
odio ai Tedeschi. Questa, o vera lega che si fosse, o solamente
desiderio universale, si era propagata e radicata in tutti i paesi, ed a
lei s'accostarono personaggi, a cui non piacevano nè i Francesi nè la
libertà, perchè pareva a tutti un dolce ed onorato vivere l'independenza
dai forestieri. A questi desiderj mancarono piuttosto i principi, che i
popoli Italiani, perchè i principi avevano più paura della libertà, che
amore dell'independenza, i secondi più amore dell'independenza, che
della libertà. Ma se un principe si fosse abbattuto in Italia, non dico
quali gli partorivano i Romani tempi, ma solamente quali nascevano ai
tempi di Lorenzo, di Castruccio, e di Giulio della Rovere, avrebbe
prodotto, queste opinioni assecondando, ed una Italiana bandiera al
vento innalzando, effetti notabilissimi non che in Italia, in tutta
Europa. Ma Sardegna era fissa nel desiderio di acquistarsi una
provinciuzza Milanese, o Francese, o Genovese, Genova nel commercio,
Venezia nella mollezza, Roma nel sacerdozio, Napoli nel volersi una
particella delle Marche, Firenze in un felice e pacifico stato; Milano
privo del principe proprio ed in preda ai forestieri poteva solo
seguitare, non cominciare. Così per troppo godere, o per troppo temere,
o per istrettezza di mente, o per fiacchezza d'animo, i principi
Italiani trasandarono le occasioni, ed indirizzarono tutti i pensieri
loro al difendersi dai Francesi, non avvertendo che il proporsi per fine
di tornare allo stato vecchio, indifferente a molti, odiato da alcuni,
non poteva far muovere i popoli con quella efficacia, con cui gli
avrebbe mossi un disegno nuovo, generoso e grande.
Quanto al reggimento interno di ciascuna parte, o di tutta l'Italia,
amavano i più, fra coloro di cui parliamo, la repubblica, ma la volevano
ridurre al patriziato, istituito con la moderazione della potenza
popolare prudentemente ordinata, governo antico e naturale all'Italia;
il quale patriziato molto è diverso dalla nobiltà feudataria, frutto di
tempi barbari; perchè il primo fa i clienti protetti ed affezionati, la
seconda gli fa servi ed avversi. Può e debbe il patriziato consistere
con l'egualità dei diritti civili, ma induce necessariamente inegualità
di diritti politici, mentre la nobiltà vive con l'inegualità degli uni e
degli altri. Nè in quei tempi, in cui tanto si gridava sulle piazze la
egualità, si ristavano questi prudenti Italiani ai popolari e servili
schiamazzi; perchè da una parte sapevano, che negli stati grandi la
democrazìa pura non può sussistere, se non con soldatesche grosse e con
tribunali terribili, atti a contenere i popoli nella quiete; i quali
soldati e tribunali sono peste mortalissima di ogni libertà e di ogni
egualità. Seppeselo la Francia rossa di cittadino sangue, videlo la
Guiana piena dei più virtuosi uomini, pruovaronlo le stanze di San
Clodoaldo, fatte testimonio di quanto ardisca e di quanto possa coi
soldati un audace e fero conquistatore. Dall'altra parte, non
ignoravano, che anche nella democrazìa la egualità politica è
impossibile, perchè coloro che esercitano i magistrati, non sono in
termini di equalità con coloro che ne son privi, nè chi comanda con chi
obbedisce. Adunque vedevano, che una sola differenza poteva essere tra
il patriziato misto di democrazìa, e la democrazìa pura, e quest'era,
che in quello la inegualità politica è perpetua, in questa temporanea.
Credevano governo non solo naturale, ma necessario ed inevitabile nelle
umane società essere il patriziato; perchè chi è famoso per ricchezza, o
per dottrina, o per virtù, o per servigi fatti alla patria, avrà sempre
clientela, nè tutte insieme le grida democratiche potranno impedire,
stantechè cosa naturale ed insita nell'uomo è il corteggiare i potenti
ed il rispettare i buoni. Neanco fa effetto lo spegnere con le mannaje e
con gli esigli come suol fare la democrazìa pura, i buoni ed i potenti
cittadini; perchè nuovi sottentrano, e se non s'appresentano da se, il
popolo se gli crea; tanta è la necessità del patriziato. Ora pensavano,
dovere i legislatori prudenti usare, per ordinar bene una società,
questa necessità; e poichè è il patriziato inevitabile, volevano che per
leggi fondamentali si organizzasse, e non che si lasciasse sorgere, ed
operare a caso; perciocchè organizzato essendo, contribuisce all'armonìa
dell'umana società, non organizzato la turba. Buono, anzi necessario
consiglio essere opinavano, per bene constituire uno stato, usare gli
elementi insiti nella natura umana, perchè, quantunque sia l'uomo di
origine divina, soggiace non pertanto, come tutti gli altri animali, a
certe leggi naturali; e siccome nel domare gli animali usa l'uomo questo
modo o quest'altro, secondochè la natura di ciascuna spezie di loro il
richiede, così per reggere gli uomini debbono i legislatori adoperare
quel modo, che dalla natura della umana spezie è necessitato. Nè è da
temersi che questo procedere conduca al dispotismo, perchè l'uomo ha in
se una qualità nobile, che gli fa amare le cose generose, ed abborrire
le vili e le vituperevoli, nè può volere il proprio danno. Questo
ordinare le società secondo la natura è ben altro che ordinarle secondo
certi principj astratti e geometrici, e questo è stato altresì l'errore
continuo dei legislatori Francesi ai nostri tempi, solleciti sempre dei
principj astratti, non degli affetti e passioni naturali. Quali effetti
ne siano nati, il mondo dolente se lo ha veduto. Adunque gl'Italiani
volevano un patriziato per la conservazione della società, una
democrazìa temperata per la conservazione della equalità, l'uno e
l'altra per la conservazione della libertà. A questo salutare consiglio
si opponevano le operazioni disordinate delle armi sì Francesi che
Tedesche, l'assurdo capriccio dei Francesi di quei tempi del voler
applicar il modo del loro governo a tutti i paesi che conquistavano, la
volontà di Buonaparte nemico della libertà, amico del dispotismo,
amatore, anzi ammiratore della nobiltà feudataria, ed odiatore del
patriziato paterno; finalmente gl'Italiani, servili imitatori delle cose
d'oltremonti, ed incapricciti ancor essi dei governi geometrici. Ma
gl'Italiani, veri speculatori e scrutatori delle umane cose, non si
sgomentavano, sperando dal tempo e dalla necessità ajuto
agl'intendimenti loro; e poichè pareva che per destino l'autorità regia
fosse giunta al suo fine, confidavano che la società si sarebbe fermata
al governo patrizio, misto di democrazìa, e non scesa al democratico
puro.
Questi sentimenti a sicurazione e salute d'Italia, principalmente
sorgevano nell'Emilia, e più particolarmente in Bologna, ma non potevano
impedire che la fazione democratica, pazza e servile imitatrice di
quanto si era fatto in Francia, non vi producesse una grande
inondazione. Nè essa operava da se, quantunque ne avesse voglia, ma
suscitata a bella posta dagli agenti di Buonaparte e del direttorio. Il
duca di Modena solo, e senza amici, e quel che era peggio, ricco, o in
voce di essere, si trovava senza difesa esposto ai tentativi di
quest'uomini fanatici e sfrenati; nè rimaneva per la forza delle
opinioni, e degli esempj che correvano, fedele disposizione nei popoli.
Furono le prime mosse date da Reggio, città scontenta, per le emolazioni
con Modena, del governo del duca. La notte dei venticinque agosto vi si
levarono improvvisamente a romore i partigiani della democrazìa. Era il
presidio debole, i magistrati timidi, l'infezione grande. Laonde senza
resistenza alcuna crescendo il tumulto, in poco d'ora fu piena la città
di lumi, di canti repubblicani, di voci festive del popolo, di un gridar
continuo di guerra al duca. Piantarono il solito albero, inalberarono le
tricolorite insegne. La mattina nissun segno era in piede del ducale
governo: Reggio fu, o credessi libero. I soldati del duca impotenti al
resistere se ne tornarono di queto a Modena. Si accostarono ai primi
motori uomini riputati per ricchezze e per dottrina, sì per dar norma a
quell'impeto disordinato, e sì per isperare, che egli, se non era
libertà, poteva col tempo divenire: l'allegrezza del popolo somma, e
così anche sincera. Certamente i Reggiani amavano la buona e vera
libertà, solo s'ingannavano credendo, che potesse sussistere coi
conquistatori. Condotto a fine il moto, crearono un reggimento
temporaneo con forma repubblicana, moderarono l'autorità del senato,
instituirono magnati popolari, descrissero cittadini per la milizia.
Questi erano i disegni interni. Ma desiderando di rendere partecipi i
vicini di quanto avevano fatto, mandavano uomini a posta nel contado, in
Lunigiana, ed in Garfagnana, acciocchè parlando e predicando muovessero
a novità. Inviavano Paradisi e Re ad affratellarsi, come dicevano, coi
Milanesi; fece Milano feste per la conquistata libertà di Reggio.
L'importanza era di far muovere Modena. Nè in questo mancarono a se
stessi i Reggiani, perchè spacciarono gente attiva a sollevare con
segrete insinuazioni, e con incentivi palesi quella città. Tanto
operarono, che già una banda di novatori, portando con se non so che
albero, il volevano piantare in piazza: gridavano accorruomo, e libertà.
Ma fu presto il governo ad insorgere contro quel moto, e fatta andare
innanzi la soldatesca con le armi, risospingeva i libertini non senza
qualche uccisione. Rendè Ercole Rinaldo da Venezia solenni grazie ai
Modenesi per la conservata fedeltà. Pagherebbe, aggiunse, del suo gran
parte delle contribuzioni, scemerebbe le gravezze dei comuni.
Questo intoppo interruppe i pensieri di Buonaparte. Ma egli, che non
voleva, che gli fossero interrotti, fece con la forza propria quello,
che le Reggiane non avevano potuto. Per la qual cosa mandava fuori un
manifesto da Milano, pieno di querele contro il duca; non avere pagato
ai tempi debiti le contribuzioni di guerra; starsene tuttavia lontano
dagli stati; lasciare interi gli aggravj di guerra ai sudditi, nè
volervi partecipar del suo; avere somministrato denari ai nemici della
repubblica; incitare i sudditi con perniziose arti, e per mezzo di
agenti contro Francia; avere vettovagliato Mantova a pro degli
- Parts
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