Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II - 04

accagionato di aver macchinato questo stormo Alessandro Ottolini,
podestà di Bergamo a quei tempi, uomo meritevole di ogni lode per la
fedeltà e la sincerità sua verso la patria; ma egli solamente
s'ingegnava di mantenere le popolazioni Bergamasche affezionate al nome
Veneziano; e se quando s'impadronirono i Francesi di Verona, divenne
Ottolini più vigilante e più attivo, e fece opera che le popolazioni si
ordinassero, il fece perchè le minacce ed i fatti di guerra del capitano
del direttorio a ciò lo sforzarono. Quell'ordinarsi accennava, non un
voler nuocere altrui, ma un impedire che altri nuocesse a lui, e se
Ottolini si armava, avrebbe fatto meglio l'armarsi molto più. Certamente
avrebbe egli mancato del suo dovere verso la patria, se in tanto romore
di guerra, non solo imminente, ma presente negli stati di Venezia, non
avesse procurato di serbarsi padrone di se medesimo, e capace di
mantenere con buoni ordinamenti salva la provincia commessa alla sua
fede rispetto ai due nemici, che venivano a rapire le sostanze
Veneziane, e ad ammazzarsi tra di loro sulle terre della repubblica. Ma
nei tempi scorretti che abbiamo veduto, fu costume il chiamar traditori,
ed il perseguitare con ogni sorte di pubblico improperio coloro, che più
sono stati fedeli alle loro patrie, come se fosse stato debito loro il
servire piuttosto a Buonaparte nemico, che ai principi proprj ed alla
patria, ed a quanto ha la patria in se di caro e di giocondo. Così fu
infamata la virtù di Alessandro Ottolini e di Francesco Pesaro in
Italia, di Stadion in Austria, di Stein in Prussia: così anche furono
condotti a morte Palmer di Baviera, Hofer di Tirolo: così finalmente i
magnanimi Spagnuoli furono chiamati col nome di briganti. Queste cose
chi generoso scrittore fosse, dovrebbe con disdegnosa e riprenditrice
penna altamente dannare, non cercar di scusare, ora con le parole ed ora
col silenzio, l'inganno, l'ingiustizia, e la tirannide.
Come prima si sparse in Verona, per la venuta del Foscarini, che i
Francesi vi sarebbero entrati per alloggiarvi, vi nacque nelle persone
di ogni condizione e grado uno spavento tale, che pareva che la città
avesse ad andare a rovina. Più temevano i nobili che i popolani, perchè
sapevano che i repubblicani gli perseguitavano. Il popolo raccolto in
gran moltitudine sulle piazze e per le contrade, pieno di afflizione e
di terrore accusava la debolezza di Foscarini, e le perdute sorti della
repubblica. Lo stare pareva loro pericoloso, l'andarsene misero. Pure il
pericolo presente prevaleva, e la maggior parte fuggivano. Fu veduta in
un subito la strada da Verona a Venezia impedita da un lungo ingombro di
carrozze, di carri e di carrette, che le atterrite famiglie
trasportavano con quelle suppellettili, che in tanta affoltata avevano a
molta fretta potuto raccorre. Facevano miserabile spettacolo le donne
coi fanciulli loro in braccio od a mano, che piangendo abbandonavano una
sede gradita per amenità di sito, graditissima per una lunga stanza. Nè
minor confusione era sull'Adige fiume; perchè insistevano i fuggiaschi
occupati nel caricare sulle navi a tutta pressa le masserizie più
preziose dei ricchi, e gli arnesi più necessarj dei poveri: navigavano
intanto a seconda per andar a cercare in lidi più bassi, od oltre le
acque del mare terre non ancora percosse dalla furia della guerra.
Entrarono il dì primo giugno i Francesi in Verona. Quivi Buonaparte
lodava l'aspetto nobile della città, i magnifici palazzi, le spaziose
piazze, i tempj, le pitture, insomma ogni cosa, e più di tutto, per
indurre opinione ch'egli elevasse l'animo alla grandezza Romana,
l'Arena, opera veramente mirabile dei Romani antichi. Si rendevano anche
padroni di Legnago e della Chiusa. A Verona non solo occuparono i ponti,
ma ancora le porte e le fortificazioni. Così si verificava, secondo il
solito, la promessa di Buonaparte del voler solo occupare i ponti. Al
medesimo modo, pure secondo il solito, mantenne le promissioni da lui
fatte nel manifesto di Brescia del voler pagare in contanti tutto ch'ei
richiedesse in servigio dei soldati; imperciocchè essendosi sparsi nelle
campagne testè felici del Bergamasco, del Bresciano, del Cremasco e del
Veronese, vi facevano tolte incredibili, che, non che si pagassero, non
si registravano; seguivano mali tratti e scherni ancor peggiori; nè le
cose rapite bastavano od erano d'alcun frutto, perchè si dissipavano con
quella prestezza medesima, con cui si rapivano. Quindi era desolato il
paese, nè abbondante l'esercito, nè mai si fece un dissipare di quanto
alla umana generazione è necessario, così grave e così stolto, come in
questa terribil guerra si fece. I popoli intanto vessati in molte forme,
e cadendo da una lunga agiatezza in improvvisa miseria, entravano in
grandissimo sdegno, e si preparavano le occasioni a futuri mali ancor
più gravi.
A questo tempo si udirono le novelle della dedizione del castello di
Milano; il comandante austriaco Lamy, perduta per le vittorie di
Buonaparte ogni speranza di soccorso, si arrese a patti il dì ventinove
giugno, salve le robe, e le persone, eccettuati solo i fuorusciti
Francesi, che dovevano essere consegnati ai repubblicani. Trovarono
dentro la fortezza cencinquanta cannoni grossi, sei mila fucili, polvere
e palle in proporzione, con molto bestiame vivo. Fu questo acquisto di
grande importanza ai Francesi, perchè era il castello come un freno ai
Milanesi, e molto assicurava le spalle dei repubblicani. Per
solennizzare questa vittoria, si fecero molte feste, balli e conviti,
dai repubblicani Francesi meritamente, dai repubblicani Italiani per
imitazione.
La ruina sotto dolci parole si propagava in altre parti d'Italia; perchè
trovandosi Buonaparte, per le vittorie di Lodi e di Borghetto, e così
per la ritirata di Beaulieu alle fauci del Tirolo, sicuro alle spalle e
sul sinistro fianco, voltò l'animo ad allargarsi sul destro; quivi
ricche e fertili terre l'allettavano. Restavano oltre a ciò a domarsi il
papa, ed il re di Napoli, e ad espilare il porto di Livorno. Per la qual
cosa, spingendo avanti le sue genti, dopo l'occupazione di Modena,
s'incamminava alla volta di Bologna, città, forse più di ogni altra
d'Italia, piena d'uomini forti e generosi, e che conoscendo bene la
libertà, non la misurava nè dalla licenza nè dal servaggio forestiero.
Aveva il senato di Bologna anticonosciuto, che per la vittoria di Lodi
diveniva il generale Francese signore di tutta la Lombardìa, quanto ella
si distende dall'Alpi agli Apennini. Però desiderando di preservare il
Bolognese, e massimamente la capitale, dalle calamità che accompagnano
la guerra, aveva a molta fretta, dopo di aver creato un'arrota d'uomini
eletti con autorità straordinaria, mandato a Milano i senatori Caprara e
Malvasia coll'avvocato Pistorini, acciò veduto il generalissimo, il
pregassero di aver per raccomandata la patria loro. Al tempo medesimo il
sommo pontefice, spaventato dall'aspetto delle cose, siccome quegli, che
nell'approssimarsi dei repubblicani vedeva non solo la ruina del suo
stato temporale, ma ancora novità perniciose alla religione,
specialmente se come nemici allo stato pontificio si accostassero, aveva
commesso al cavaliere Azara, ministro di Spagna a Roma, che già era
intervenuto alla composizione con Parma, andasse a Milano, e
procacciasse di trovar modo d'accordo con quel capitano terribile della
repubblica di Francia. Era Azara molto benignamente trattato da
Buonaparte, e perciò personaggio atto a far quello che dal pontefice gli
era stato raccomandato. Furono dal generale umanamente uditi i senatori
di Bologna: parlaronsi nei colloquj secreti di molti gravi discorsi, il
fine dei quali tendeva a slegare i Bolognesi dalla superiorità
pontificia, a restituire quel popolo alla sua libertà statuita già fin
dai tempi della lega Lombarda, e ad impetrare che i soldati
repubblicani, passando pel Bolognese, vi si comportassero modestamente.
Questi erano suoni molto graditi ai popoli di quel territorio:
Buonaparte che sel sapeva, promise ogni cosa, e più di quanto i deputati
avevano domandato: partironsi molto bene edificati di lui, e se ne
tornarono a Bologna. Intanto le sue genti marciavano. Comparivano il
diciotto giugno in bella mostra, e con aria molto militare poco distante
da Bologna dalla parte di Crevalcuore. Nel giorno medesimo una banda di
cavalli condotta da Verdier entrava, come antiguardo, in Bologna, e
schieratasi avanti al palazzo pubblico faceva sembiante d'uomini amici e
liberali. Il cardinal Vincenti legato, non prevedendo che fosse giunta
al fine in quella legazione l'autorità di Roma, avvisava il pubblico
dell'arrivo dei Francesi, e della buona volontà mostrata dai capi.
Esortava che attendessero quietamente ai negozj; comandava che
rispettassero i soldati; minacciava pene gravi, anche la morte, secondo
i casi, a chi o con parole o con fatti gli offendesse. Entrava poi il
seguente giorno la retroguardia: arrivavano la notte Saliceti, e
Buonaparte.
Era costume di Buonaparte, per fare che i popoli si muovessero più
facilmente contro i governi loro, e sentissero meno acerbamente il suo
dominio, di dare loro speranza di liberargli, e spesso anche gli
liberava da quanto essi governi avevano o di più odioso o di più
gravoso; perchè in tutti i reggimenti sono sempre di questi tasti, che
fanno mal suono ai popoli. Aveva Bologna perduto la sua libertà, od
almeno quello che stimava libertà, dappoichè la somma delle faccende
dello stato era venuta in mano della chiesa; la qual cosa i Bolognesi
sopportavano molto di mala voglia. Oltre a questo era Bologna stata
spogliata dai pontefici del dominio di Castel Bolognese, terra grossa
situata oltre Imola, e fondata anticamente dai Bolognesi desiderosissimi
di ricuperare quell'antica colonia. Nè ripugnavano a questa
ricongiunzione i castellani medesimi, ricordevoli tuttavìa del dolce
freno col quale erano stati retti. Buonaparte, informato dai deputati di
questi umori, come prima arrivava a Bologna, restituiva il possesso di
Castel Bolognese, ed aboliva ogni autorità del papa, reintegrando i
Bolognesi nei loro antichi diritti di popolo libero ed independente. Nè
mettendo tempo in mezzo, comandava al cardinal Vincenti legato, se ne
partisse immantinente da Bologna. Indi chiamato a se il senato, a cui
era devoluta l'autorità sovrana, gli significava che essendo informato
delle antiche prerogative e privilegi della città e della provincia,
quando vennero in potere dei pontefici, e come erano stati violati e
lesi, voleva che Bologna fosse reintegrata della sostanza del suo antico
governo. Ordinava pertanto che l'autorità sovrana al senato intiera e
piena ritornasse: darebbe poi a Bologna, dopo più matura deliberazione,
quella forma di reggimento che più al popolo piacesse, e più all'antica
si assomigliasse: prestasse intanto il senato in cospetto di lui
giuramento di fedeltà alla repubblica di Francia, ed in nome e sotto la
dipendenza di lei la sua autorità esercesse: i deputati dei comuni e dei
corpi civili il medesimo giuramento in cospetto del senato giurassero.
Preparata adunque con grande sontuosità la sala Farnese, e salito sur un
particolare seggio riceveva Buonaparte il giuramento dei senatori in
questa forma: «A laude dell'onnipotente Iddio, della Beata Vergine, e di
tutti i Santi, ad onore eziandìo, e riverenza della invitta repubblica
di Francia, noi gonfaloniere e senatori del comune e popolo di Bologna
giuriamo al signor generale Buonaparte, comandante generalissimo
dell'esercito Francese in Italia, che non faremo mai cosa contraria
agl'interessi della stessa invitta repubblica, ed eserciremo l'ufficio
nostro, come buoni cittadini, rimosso ogni qualunque odio o favore, e
tanto giuriamo nella forma patria, toccando gli Evangeli».
Prestatosi dal senato il giuramento, si accostarono a prestarlo,
presente sempre il generale di Francia, i magistrati sì civili che
ecclesiastici; il che fece in tutta Bologna una gran festa, grata al
popolo, perchè nuova, e con qualche speranza grata al senato, perchè da
servo si persuadeva di esser divenuto padrone, non badando che se era
grave la servitù verso il papa, sarebbe stata gravissima verso i nuovi
signori.
Diessi principio al nuovo stato, secondo il solito, a suon di denaro.
Pose Buonaparte gravissime contribuzioni di guerra. Si querelavano i
popoli, parendo loro che le contribuzioni fossero opera piuttosto da
nemico, che da alleato; conciossiachè con questo nome aveva il
generalissimo chiamato la repubblica di Bologna. Pure se ne acquetavano,
perchè sapevano che bisogna bene, che i soldati vivano del paese che
hanno. Solo si sdegnavano dello scialacquo, perchè conformandosi
quietamente al fornire le cose necessarie, non potevano tollerare di dar
materia ai depredatori, che i soldati, e gl'Italiani ugualmente
rubavano. Poco stante successe, come a Milano, un fatto enorme, che
dimostrò vieppiù qual fosse il rispetto, che Saliceti e Buonaparte, ai
quali il direttorio aveva dato in preda l'Italia, portavano alle
proprietà ed alla religione. Imperciocchè, poste violentemente le mani
nel monte di pietà, lo espilarono per far provvisioni, come affermavano,
all'esercito. Solo restituirono i pegni che non eccedevano la somma di
lire ducento, come se fosse lecito rapire o non rapire, secondo le
maggiori o minori facoltà dei rapiti. Ma temendo gli autori di tanto
scandalo lo sdegno di un popolo generoso, quantunque attorniati da tante
schiere vittoriose, avevano per previsione ordinato che si togliessero
le armi ai cittadini.
I repubblicani, procedendo più oltre, s'impadronivano di Ferrara, fatto
prima venir a Bologna, sotto specie di negoziare sulle faccende comuni,
il cardinale Pignatelli legato, e quivi trattenutolo come ostaggio,
finchè fosse tornato da Roma sano e salvo il marchese Angelelli,
ambasciadore di Bologna. Creato dai vincitori a Ferrara un municipio
d'uomini geniali, vi posero una contribuzione di un mezzo milione di
scudi romani in contanti, e di trecento mila in generi. Queste angherìe
sopportavano pazientemente e per forza Bologna e Ferrara; ma non le potè
tollerare Lugo, grosso borgo, posto in poca distanza da Imola; perchè
concitati gli abitatori a gravissimo sdegno contro i conquistatori, si
sollevarono, gridando guerra contro i Francesi. Pretendevano alle parole
loro, e ne fecero anche fede con un manifesto, perchè si accorgevano che
soli, e senza un moto generale, non potevano sperare di far effetto
d'importanza, la religione, la salvezza delle persone e delle proprietà,
la libertà e l'indipendenza d'Italia. Concorsero nel medesimo moto coi
Lughesi altre terre circonvicine, e fecero una massa di popolo molto
concitata, e risoluta al combattere. I preti gli secondavano, dando a
questa moltitudine il nome di oste cattolica e papale. Augereau, come
ebbe avviso del tumulto, mandava contro Lugo una grossa squadra di fanti
e di cavalli, alla quale era preposto il colonnello Pourailler.
Comandava intanto pubblicamente, avessero i Lughesi a deporre le armi e
ad arrendersi fra tre ore, e chi nol facesse, fosse ucciso. Aveva in
questo mezzo il barone Cappelletti, ministro di Spagna, interposto la
sua mediazione, perchè da una parte i Francesi perdonassero, dall'altra
i Lughesi, deposte le armi, si quietassero. Ma fu l'intercessione
sdegnosamente rifiutata da quei popoli, più confidenti di quanto fosse
il dovere, in armi tumultuarie ed inesperte. Per la qual cosa, dovendosi
venire, per la ostinazione loro, al cimento dell'armi, i Francesi si
avvicinavano a Lugo, partiti in due bande, delle quali una doveva far
impeto dalla parte d'Imola, l'altra dalla parte d'Argenta. La
vanguardia, che marciava con troppa sicurezza, diede in una imboscata,
in cui restarono morti alcuni soldati. Non ostante, volendo il capitano
Francese lasciar l'adito aperto al ravvedimento, mandava un uffiziale a
Lugo per trattare della concordia. Fu dai Lughesi rifiutata la proposta;
narrasi anzi da Buonaparte, che i sollevati, fatto prima segno
all'uffiziale che si accostasse, lo ammazzarono, con enorme violazione
dei messaggi di pace. Si attaccò allora una battaglia molto fiera tra i
Francesi ed i sollevati. La sostennero per tre ore continue ambe le
parti con molto valore. Finalmente i Lughesi rotti e dispersi furono
tagliati a pezzi con morte di un migliajo di loro, avendo anche perduto
la vita in questa fazione ducento Francesi. Fu quindi Lugo dato al
sacco; condotte in salvo dal vincitore le donne ed i fanciulli, ogni
cosa fu posta a sangue ed a ruba. Fu Lugo desolato; rimasero per lungo
tempo visibili i vestigi della rabbia con cui si combattè, e della
vendetta che seguitò. Furono terribili le pene date dai repubblicani ai
sollevati, ma non furono più moderate le minacce che seguitarono.
Comandava Augereau, che tutti i comuni si disarmassero, che le armi a
Ferrara si portassero; chi non le deponesse fra ventiquattr'ore, fosse
ucciso; ogni città, o villaggio, dove restasse ucciso un Francese, fosse
arso; chi tirasse un colpo di fucile contro un Francese, fosse ucciso, e
la sua casa arsa; un villaggio che si armasse, fosse arso; chi facesse
adunanze di gente armata, o disarmata, fosse ucciso. Tali furono gli
estremi della guerra Italica, giusti per la conservazione dell'esercito
di Francia, ingiusti per le cagioni ch'egli stesso aveva indotte; perchè
il volere che i popoli ingiuriati non si risentano, è voler cosa
contraria alla natura dell'uomo.
Al tempo medesimo sorgeva un grave tumulto nei feudi imperiali prossimi
al Genovesato, principalmente in Arquata, con morte di molti Francesi.
Vi mandava Buonaparte, a cui questo moto dava più travaglio che il
rivolgimento di Lugo, perchè lo molestava alle spalle, il generale
Lannes con un buon nervo di soldati, acciocchè lo quietasse. Conseguì
Lannes facilmente l'intento tra per la paura delle minacce, e pel
terrore dei supplizj.
Le vittorie dei repubblicani, i progressi loro verso la bassa Italia,
l'occupazione di Bologna e di Ferrara avevano messo in grandissimo
spavento Roma. Ognuno vedeva che il resistere era impossibile, e
l'accordare pareva contrario non solo allo stato, ma ancora alla
religione. Tanto poi maggior terrore si era concetto, quanto più non si
poteva prevedere quale avesse ad essere la gravità delle condizioni, che
un vincitore acerbo per se, acerbissimo pel contrasto fattogli, avrebbe
dal pontefice richiesto. Nè meglio si poteva antivedere, se avrebbe
portato rispetto alla città stessa di Roma, parendo, che siccome sarebbe
stato un gran fatto l'occupazione di lei, così Buonaparte cupidissimo di
gloria l'avrebbe mandata ad effetto. E quale disordine, quale
conculcazione delle cose sacre e profane prodotto avrebbe la presenza
d'uomini poco continenti dalle cose altrui, e poco aderenti alla
religione, di cui era Roma seggio principale? Per la qual cosa, come in
tanto pericolo i privati uomini non avevano più consiglio, così poco
ancora ne aveva il governo, perchè le armi temporali mancavano, le
spirituali non valevano, il nome di Roma era più sprone che freno, e la
dignità papale, che pure aveva frenato ai tempi antichi un capitano
barbaro, era venuta in derisione. I ricchi pensavano alla fuga, come se
il nemico già fosse alle porte. Gran tumulto, gran folla e gran concorso
erano, principalmente a porta Celimontana di gente di ogni sesso, di
ogni grado e di ogni condizione, che fuggendo dal minacciato
Campidoglio, s'incamminava spaventata verso Napoli. Temevasi la
cupidigia del nemico, temevasi la temerità dei cittadini.
Intanto Pio VI, che in mezzo al terrore dei suoi consiglieri e del
popolo, serbava tuttavìa la solita costanza, aveva commesso al cavaliere
Azara ed al marchese Gnudi, andassero a rappresentarsi a Buonaparte, e
procurassero di trovare qualche termine di buona composizione, avendo
loro dato autorità amplissima di negoziare e di concludere. Buonaparte,
in nome per far cosa grata al re di Spagna, che per mezzo del suo
ministro si era fatto intercessore alla pace, in realtà, perchè non gli
era nascosto che l'imperatore, finchè teneva Mantova, non avrebbe omesso
di mandar nuove genti alla ricuperazione de' suoi stati in Italia, e che
però sarebbe stato a lui pericoloso l'allargarsi troppo verso l'Italia
inferiore, acconsentì, ma con durissime condizioni, a frenar l'impeto
delle sue armi contro lo stato pontificio. Laonde concludeva, il dì
ventitrè giugno, una tregua coi due plenipotenziarj del papa, in cui fu
stipulato, che il generalissimo di Francia, e i due commissarj del
direttorio Garreau e Saliceti, per quell'ossequio che il governo
Francese aveva verso Sua Maestà il re di Spagna, concedevano una tregua
a Sua Santità, la quale tregua avesse a durare insino a cinque giorni
dopo la conclusione del trattato di pace che si negozierebbe in Parigi
fra i due stati; mandasse il papa, più presto il meglio, un
plenipotenziario a Parigi al fine della pace, e perchè escusasse a nome
del pontefice gli oltraggi e i danni fatti a' Francesi negli stati della
Chiesa, specialmente la morte di Basseville, e desse i debiti compensi
alla famiglia di lui; tutti i carcerati a cagione di opinioni politiche
si liberassero; i porti del papa a tutti i nemici della repubblica si
chiudessero, ai Francesi si aprissero; l'esercito di Francia continuasse
in possessione delle legazioni di Bologna e Ferrara, sgombrasse quella
di Faenza; la cittadella d'Ancona con tutte le artiglierìe, munizioni e
vettovaglie si consegnasse ai Francesi; la città continuasse ad esser
retta dal papa; desse il papa alla repubblica cento quadri, busti, vasi,
statue ad elezione dei commissarj, che sarebbero mandati a Roma;
specialmente, poichè i repubblicanuzzi di quel tempo la volevano far da
Bruti, i busti di Giunio Bruto in bronzo, di Marco Bruto in marmo si
dessero; oltre a questo cinquecento manoscritti ad elezione pure dei
commissarj medesimi cedessero in potestà della repubblica; pagasse il
papa ventun milioni di lire tornesi, dei quali quindici milioni e
cinquecento mila in oro, od argento coniato o vergato, e cinque milioni
e cinquecentomila in mercatanzie, derrate, cavalli e buoi; i ventuno
milioni suddetti non fossero parte delle contribuzioni da pagarsi dalle
tre legazioni; il papa desse il passo ai Francesi ogni qualvolta che ne
fosse richiesto: i viveri di buon accordo si pagassero.
Questi furono gli articoli patenti del trattato di tregua concluso tra
Pio VI ed i capi dei repubblicani in Italia. Quantunque fossero molto
gravi, parve nondimeno un gran fatto, che si fosse potuto distornar da
Roma un sì imminente pericolo: fecersi preci pubbliche per la conservata
città. Intanto non lieve difficoltà s'incontrava per mandar ad effetto
il capitolo delle contribuzioni. Non potendo l'erario già tanto
consumato dalla guerra sopperire, faceva il papa richiesta degli ori e
degli argenti, sì delle chiese come dei particolari, e quanto si potè
raccorre a questo modo, e di più il denaro effettivo, che insino dai
tempi di papa Sisto V si trovava depositato in Castel Sant'Angelo, fu
dato per riscatto in mano dei vincitori. S'aggiunse che il re di Napoli,
vedendo avvicinarsi quel nembo a' suoi stati, aveva ritirato settemila
scudi di camera, che erano depositati nel tesoro pontificio, come
rappresentanti il tributo della chinea, e che la camera apostolica non
aveva voluto incassare, perchè il re aveva indugiato a presentare al
tempo debito la chinea. Una così grossa raccolta della pecunia coniata
produsse un pessimo effetto a pregiudizio della camera apostolica e dei
privati, il quale fu, che le cedole, che già molto scapitavano,
perdettero viemaggiormente di riputazione. Così solamente ad un primo
romore di guerra, e sul bel principio di una speranza di pace, le cose
pubbliche tanto precipitarono in Roma, che già vi si pruovavano gli
estremi di una guerra lunga e disastrosa.
Tutto questo risguardava alle facoltà sì pubbliche che private, ma il
governo di Francia, spaventando il papa, non solamente aveva in animo di
cavar denaro pei soldati, ma ancora di tirare il pontefice a far qualche
dimostrazione, acciocchè i cattolici di Francia accettassero volentieri
le cose fatte, e con la opinione favorevole della maggior parte dei
popoli il nuovo stato si confermasse. Era questo motivo di grande
importanza in tutta la Francia, ma molto più sulle rive della Loira,
dove coloro che avevano l'armi in mano contro il reggimento nuovo,
pretendevano alla impresa loro parole di religione. Conseguì Buonaparte
questo fine. Il pontefice mandava fuori il cinque luglio un breve
indiritto ai fedeli di Francia, col quale paternamente, ma fortemente
gli esortava a sottomettersi, e ad obbedire ai magistrati, che il paese
loro governavano; affermava essere principio della religione cattolica,
che le potestà temporali siano opere della Sapienza divina, che le
prepose ai popoli, affinchè le faccende umane non fossero governate
dalla temeraria fortuna, o dalla volontà del caso, e le nazioni agitate
da onde contrarie; avere perciò Paolo apostolo, non particolarmente di
uno special principe, ma generalmente di questa materia parlando,
statuito, che ogni potestà da Dio procede, e che chi alle potestà
resiste, alla volontà di Dio resiste. Badassero dunque bene, sclamava il
pontefice, a non lasciarsi traviare, ed a non dare, sotto nome di pietà,
occasione agli autori di novità, di calunniare la religione cattolica,
il che sarebbe peccato, che non solo gli uomini, ma Dio stesso con pene
severissime punirebbe; poichè sono, continuava, dannati coloro che alla
potestà resistono. «Vi esorto adunque, terminava il pontefice, figliuoli
carissimi, e vi prego per Gesù Cristo nostro Signore, ad essere
obbedienti, ed a servire con ogni affezione, con ogni ardore e con ogni
sforzo a coloro che vi reggono, perchè a loro obbedendo, renderete a Dio
medesimo quell'obbedienza, di cui gli siete obbligati; ed essi vedendo
vieppiù, che la religione ortodossa non è sovvertitrice delle leggi
civili, le presteran favore e la difenderanno, in adempimento dei
precetti divini, ed in confermazione dell'ecclesiastica disciplina:
infine desiderio nostro è che sappiate, figliuoli carissimi, che voi non
abbiate nissuna fede in coloro che vanno pubblicando, come se dalla
santa sede emanassero, dottrine contrarie a questa».
Queste esortazioni del pontefice non partorirono effetto alcuno in
Francia, perchè da una parte non rimise punto il direttorio del suo
rigore contro i preti cattolici, che non avevano voluto giurare la
constituzione del clero, dall'altra i Vendeesi, e coloro che in
compagnìa loro combattevano nelle province occidentali della Francia, od
in altri luoghi impugnavano o palesemente o segretamente il governo di
Parigi, non davano luogo ad alcuna inclinazione alla pace. Nè alcun
frutto buono sorse da quest'atto di Pio. Gli uni dicevano che l'aveva
fatto per forza, gli altri per debolezza, e nissuno obbediva. Allegavano
poi la fermezza dei principj non poter essere scossa, nemmeno
dall'autorità del papa. Così gli uomini obbediscono all'autorità delle
sentenze, quando è favorevole alle loro opinioni od interessi, non
obbediscono quando è contraria. Quindi nasce che il genere umano è più
ancor pieno di contraddizioni, che di enormità.
La presenza dei Francesi negli stati pontificj aveva bensì atterrito i
sudditi, ma non gli aveva fatti posare, e si temevano ad ogni tratto
nuove turbazioni. Per la qual cosa il papa esortato dal generale
repubblicano, e mosso anche dall'interesse dei popoli, raccomandava con
pubblico manifesto, e comandava ai sudditi, trattassero con tutta
benignità i Francesi, come richiedevano i precetti della religione, le
leggi delle nazioni, gl'interessi dei popoli, e la volontà espressa del
sovrano.
Tutte queste cose faceva il pontefice in confermazione dello stato.
Intanto o perchè la cessazione delle armi si convertisse in pace
definitiva, o perchè con una dimostrazione efficace di desiderar di
conchiuderla, si pensasse di aspettare con minori molestie occasione di
risorgere, s'inviava dal pontefice a Parigi l'abbate Pieracchi con
mandato di negoziare, e di stipulare la pace. Tanta variazione avevano
fatto in pochi giorni le sorti di Roma, che quel pontefice, il quale
poco innanzi esortava con tutta l'autorità del suo grado i principi ed i
popoli a correre contro i Francesi partigiani del nuovo governo, come