Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II - 02

Per supplire intanto alla voragine della guerra, pubblicava Buonaparte
sulla conquistata Lombardìa una gravezza di venti milioni di franchi, e
faceva abilità ai commissarj, e capi di soldati di torre per forza i
generi necessari, con ciò però che dessero polizze del ricevuto
accettabili in iscarico della gravezza dei venti milioni. Intenzione sua
era, ch'ella cadesse principalmente sui ricchi, sugli agiati, e sul
corpi ecclesiastici da sì lungo tempo immuni. Nè fu diversa
dall'intenzione la esecuzione: ma i ricchi, sì perchè si sentivano
gravati straordinariamente, sì perchè non amavano il nuovo stato, con
sinistre insinuazioni creavano odio in mezzo ai loro aderenti, e
licenziavano i servitori, che, poco bene disposti in se per natura
vecchia, ed avveleniti dalla miseria nuova, andavano spargendo nel
popolo, massimamente nel minuto, faville di gravissimo incendio. Volle
il magistrato municipale di Milano, posciachè in Milano principalmente
abitavano i ricchi, rimediare a tanto male, ordinando che i padroni
dovessero continuar a pagare i salarj ai servitori. Ma fu il rimedio
insufficiente per la difficoltà delle denunzie. Nè contento a questo,
perchè la necessità delle stanze militari, le somministrazioni sforzate
di generi di ogni spezie, i caposoldi da darsi, il piatto da fornirsi ai
generali, ai commissarj, ai comandanti, agli uffiziali talmente il
costringevano, che non era più padrone di se medesimo, stanziava una
imposta straordinaria sotto nome di presto compensabile, di denari
quattordici per ogni scudo di estimo delle case e fondi Milanesi. Non
parlo dei cavalli e delle carrozze che si toglievano, perchè essendo i
padroni, come si diceva, aristocrati, pareva che la roba loro fosse
diventata quella d'altrui. A questo si aggiungeva l'insolenza militare,
consueta in ogni esercito, ma più ancora in questo che in altro, perchè
a grandi e replicate vittorie era congiunta una opinione politica
ardentissima, e molto diversa da quella dei popoli, fra i quali egli
vivea. Dico questo generalmente, e massime dei primi, perchè degli
uffiziali subalterni, molti o per gentile educazione, o per bontà di
natura in tale guisa si portavano e dentro e fuori delle case del popolo
conquistato, che si conciliavano la benevolenza di ognuno, e si era, per
consuonanza, talmente addomesticata la natura di questi con quella dei
Milanesi, che aveva superato l'impressione prodotta dal terrore delle
armi, e dalle molestie di coloro, che in vece di servir di freno, come
era richiesto ai gradi loro, con l'esempio e coi comandamenti, servivano
di sprone alle male opere che si commettevano. Ma cagione gravissima di
esacerbazione nei popoli erano le tolte sforzate di generi, che per uso
dei soldati o proprio alcuni facevano nelle campagne; perchè in quei
villarecci luoghi, liberi di ogni freno essendo, involavano a chi aveva
ed a chi non aveva, e così agli amici, come ai nemici del nome Francese.
Aggiungevansi le minacce e le insolenti parole, più potenti assai al far
infierire l'uomo, che i cattivi fatti. Le quali cose molto
imprudentemente si facevano: perchè oltre all'indegnazione dei popoli si
consumava malamente in pochi giorni quello, che avrebbe potuto bastare
per molti mesi, ed un paese fioritissimo inclinava rapidamente ad una
estrema squallidezza. Ciò rendeva i Francesi odiosi, ma più ancora
odiosi rendeva gl'Italiani, che per loro medesimi, o per le opinioni
parteggiavano pei Francesi. Nè il popolo discerneva i buoni dai tristi,
anzi gli accomunava tutti nell'odio suo, perchè vedeva che tutti
ajutavano l'impresa di una gente, che venuta per forza nel loro paese,
aveva turbato l'antica quiete e felicità loro. Certamente gridavano, e
più assai che non sarebbe stato conveniente, i patriotti Italiani il
nome di libertà; ma vana cosa era sperare, che nell'animo dei popoli
consumati, ed offesi dall'insolenza militare prevalesse un nome astratto
sopra un male pur troppo reale: detestavano una libertà che si
appresentava loro mista d'improperj, e di ruberìe. Adunque lo sdegno era
grande, la sola forza dominava. Prevalevansi i nobili, offesi nelle
sostanze e nell'animo, di queste male contentezze dei popoli. A questi
si accostavano gli amatori del governo dell'arciduca, e gli
ecclesiastici, che temevano o della religione o dei beni. Spargevano nel
contado voci perturbatrici, che sarebbe breve, come sempre, il dominio
Francese in Italia; che quella terra era pur tomba ai Francesi, che
sempre erano state subite le loro venute, ma più subite ancora le loro
cacciate, o gli eccidj; nè permetterebbe Iddio, che gente nemica al nome
suo stanziasse lungamente in quell'Italia, sede propria del suo santo
vicario; già sventolar di nuovo le insegne d'Austria tra l'Adda ed il
Ticino, già calar grossi imperiali eserciti dalle Tirolesi rupi, e già
vacillare le armi in mano all'insolente Francese. Ora esser tempo di
armarsi, ora di sorgere a difensione di quanto ha l'uomo di più sacro,
di più caro e di più reverendo; gradire Iddio, e premiar coloro che
hanno la patria più che la vita a cuore: nè doversi dubitar dell'evento,
perchè già le repubblicane insegne fuggivano cacciate dalle imperiali
aquile. Cresceva il mal contento, se ne aspettavano effetti
funestissimi. Portò la fama in quei tempi, che principal autore di
queste insinuazioni fosse il conte di Gambarana, uomo attivo e molto
avverso ai Francesi. Andava egli seminando e le voci suddette, e di più,
che i Francesi volevano far per forza una leva di gioventù Lombarda per
mandarla, con le genti Francesi incorporandola, alla guerra contro
l'imperatore. Quando gli animi sono sollevati, è pronta la credenza ad
ogni cosa: e per quanto i magistrati eletti, e gli altri aderenti dei
Francesi si sforzassero di persuadere ai popoli il contrario, non
dimettevano punto la concetta opinione, anzi vieppiù vi si confermavano.
In mezzo a tutti questi mali umori successe in Milano un fatto veramente
enorme che gli fece traboccare e crescere in grandissima inondazione.
Era in Milano un monte di pietà assai ricco, dove si serbavano o
gratuitamente come deposito, o ad interesse come pegno, ori, argenti, e
gioje di grandissimo valore. S'aggiungevano, come si usa, capi di minor
pregio, e fra tutti non pochi appartenevano, secondo l'uso d'Italia, a
doti di fanciulle povere, e nel monte dai parenti depositate si
serbavano al tempo dei maritaggi loro. Sacro era presso a tutti il nome
di monte di pietà, non solo perchè era segno di fede pubblica, che
sempre incontaminata si dee serbare, ma ancora perchè le cose
depositate, la maggior parte, appartenevano a persone o per condizione o
per accidente bisognose.
Come prima Buonaparte e Saliceti posero piede nella imperial Milano, si
presero, malgrado dell'esortazioni contrarie di parecchi generali, le
robe più preziose che si trovavano riposte nel monte, e le avviarono
alla volta di Genova, avvisando il direttorio, che là erano condotte
acciò ne disponesse a grado suo. Di ciò si sparse tosto la fama,
magnificandosi con dire, che non si fosse portato più rispetto alle
proprietà dei poveri, che a quelle dei ricchi; il che in parte era anche
vero. Le quali cose giunte all'insolenza militare, allo strazio che si
faceva delle campagne, alle improntitudini dei patriotti, dei quali chi
predicava una cosa che il popolo non intendeva, e chi dava materia a
credere con l'esempio che la libertà fosse il mal costume, partorirono
una indegnazione tale, che dall'un canto prestandosi fede a nuove
incredibili, dall'altro non vedendosi o non stimandosi il pericolo, si
accese la volontà di far un moto contro i Francesi. Nè fu la città
stessa di Milano esente da questa turbazione; perciocchè facendo i
repubblicani non so quale allegrezza intorno all'albero della libertà,
incitati i popoli a sdegno, correvano a far loro qualche mal tratto, e
lo avrebbero anche fatto, se non sopraggiungeva Despinoy con una banda
di cavalli, il quale frenando l'impeto loro, gli ebbe tostamente posti a
sbaraglio. Ma le cose non passarono sì di queto nei contorni di Milano,
massimamente verso Porta Ticinese; perchè viaggiando e Francesi e
patriotti Italiani, o soli o con poca compagnìa per quelle campagne, e
non essendo pronta, come in Milano, la soldatesca a preservargli, furono
da turbe contadine assaltati ed uccisi. Queste uccisioni presagivano
uccisioni ancor maggiori, ed accidenti tristissimi. Ma il nembo più
grave si mostrava nelle campagne più basse verso il Po ed il Ticino. In
Binasco principalmente l'ardore contro i Francesi, e contro i giacobini,
come gli chiamavano, era giunto agli estremi: e credendo i Binaschesi,
con tutti coloro che dai vicini luoghi erano concorsi in quella terra
posta sulla strada maestra a mezzo cammino fra Milano e Pavia, che ogni
più crudele fatto fosse lecito contro chi spogliava i monti di pietà, e
secondo l'opinione loro conculcava la religione, ammazzavano quanti
Francesi o Italiani partigiani loro venivano alle mani. Essendo
l'accidente improvviso, molti, anzi una squadra non piccola di Francesi,
furono barbaramente trucidati da quella gente, in cui più poteva un
intemperante furore, che un desiderio giusto di difendere la patria
contro i forestieri, e contro chi gli favoriva.
A questo moto dei Binaschesi, moltiplicando sempre più la fama dello
avvicinarsi dei Tedeschi, che i capi ad arte spargevano, si riscossero
le popolazioni del Pavese, e fecero impeto contro la capitale della
provincia, essendo ciascuno armato di fucili vecchi, di pistole, di
sciabole, di scuri, di bastoni, o di qualunque altra arma che il caso,
od il furore avesse posto loro innanzi. Chi poi non accorreva per la
speranza dei soccorsi Tedeschi, che non pochi sapevano esser vana, il
facevano per la voce che si era levata fra la gente tumultuaria, che i
Francesi si avvicinassero per mettere a sacco Pavia. Già i Pavesi
medesimi, irritati ad un piantamento di un albero della libertà, che
dagli amatori del nome Francese si era fatto sulla piazza, con atterrare
anche nel fatto medesimo una statua equestre di bronzo, che si credeva
antica e di un imperator Romano, si erano sollevati la mattina dei
ventitre maggio, e correvano la città armati e furibondi. Era la pressa
grandissima sulla piazza. Fra le grida, lo schiamazzo e le risa della
sfrenata moltitudine, i fanciulli intorno all'albero affollatisi,
facevano pruova d'atterrarlo. Crescevano ad ogni ora, ad ogni momento le
turbe sollevate: suonavano precipitosamente in Pavia le campane a
martello, rispondevano con grandissimo terrore di tutti quelle della
campagna. Nascondevansi i patriotti nelle parti più segrete delle case,
perchè il popolo gli chiamava a morte: pure più temperato in fatti che
in parole, i presi solamente imprigionava. Gli uomini quieti serravano a
furia le porte, ed attendevano trepidamente a quello che in un caso
tanto pericoloso avesse a portar la fortuna per salute, o per
esterminio. I soldati di Francia segregati erano presi: i rimanenti, non
erano più di quattrocento fanti, male in arnese, la maggior parte malati
o malaticci, a grave stento si ricoveravano nel castello, dove per
mancanza di vitto era certamente impossibile che si potessero difendere
lungo tempo. Arrivavano in questo punto i contadini, e congiuntisi coi
cittadini aggiungevano furore a furore. Alcuni fra i più ricchi, o che
temessero per se, perchè sapevano che il popolo infuriato dà ugualmente
contro gli amici e contro i nemici, e più volentieri contro chi ha
ricchezze che contro chi non ne ha, o che volessero ajutare quel moto,
mandavano sulla piazza botti di vino, pane e carni, ed altri mangiari in
quantità. In mezzo a tanto tumulto i buoni non erano uditi, i tristi
trionfavano: i villani ignoranti, forsennati, e non capaci di pesar con
giusta lance le cose, non vedendo comparire da parte alcuna soccorsi in
favore degli avversarj, davansi in preda all'allegrezza, e concependo
speranze smisurate, già facevano sicura nelle menti loro, non solo la
liberazione di Milano, ma ancora quella della Lombardìa, e di tutta
l'Italia. Arrivava a questi giorni in Pavia il generale Francese Haquin,
il quale non sapendo di quel moto, se ne viaggiava a sicurtà verso
l'alloggiamento principale di Buonaparte; nè così tosto ebbe posto il
piede dentro le mura, che minacciato nella persona, fu condotto per
forza al palazzo del comune, dove già era una banda grossa di soldati
Francesi, che disarmati ed incerti della vita o della morte se ne
stavano del tutto in balìa di quella gente furibonda. Fu Haquin nascosto
dai municipali nella parte più rimota del palazzo, e facevano ogni
sforzo per sedare quel cieco impeto, che fremeva loro intorno. Ma ogni
parola era vana, perchè il furore aveva cacciato la ragione. Finalmente
il popolo sfrenato entrava nel palazzo per forza, e trovato Haquin lo
voleva ammazzare; ma i municipali, facendogli scudo dei corpi loro, il
preservavano. Nondimeno, ferito da bajonetta in mezzo alle spalle, il
traevano per le contrade fra una calca immensa, e chi si avventava, come
bestia feroce, contro di lui con orribili minacce, e chi con gli
archibusi inarcati il voleva uccidere. Pure prevalse contro tanta furia
la virtù dei municipali, che con memorabile esempio, e degno di essere
raccontato nelle storie come caso meritevole di grandissima
commendazione, amarono meglio esporsi al morir essi, che sofferire che
avanti al cospetto loro il generale Francese morisse. Mentre alcuni si
adoperavano per la salute di Haquin, altri s'ingegnavano di salvar la
vita dei Francesi presi; nè riuscì vano il benigno intento loro. Così
non pochi Francesi, riscossi da un gravissimo pericolo, restarono
obbligati della vita alla umanità di magistrati Italiani, che privi di
armi altro mezzo non avevano per frenare un popolo fuor di se, che le
esortazioni, e l'autorità del nome loro. Bene fece poi Haquin ufficio di
gratitudine, a Buonaparte, che ritornata Pavia a sua divozione, gli
voleva far ammazzare come autori della ribellione, raccomandandogli, e
con le più instanti parole pregandolo, perdonasse a uomini già vecchi, a
uomini più abili a pregare il popolo concitato, che a concitar il
quieto, a uomini non usi a casi tanto strani, e che per una generosità
molto insigne, e con pericolo proprio, erano cagione ch'egli e più di
cencinquanta soldati Francesi superstiti pregare il potessero di dar la
vita a coloro, ai quali erano della vita obbligati. Gran conforto è
stato il nostro del poter raccontare l'atto pietoso di questo buono e
valoroso Francese in mezzo a tante ruine, a tante stragi, a tante
devastazioni, ed a tanti vicendevoli rimprocci, sempre condannabili,
perchè sempre esagerati, della perfidia Italiana, e della immanità
Francese.
Intanto si viveva con grandissimo spavento in Pavia, non già perchè vi
si temessero dai più i Francesi, avendo la rabbia tolto il lume
dell'intelletto, ma perchè tutti i buoni temevano, che quella furia, per
trovar pascolo, si voltasse improvvisamente a danno ed a sterminio della
misera città. I giorni spaventevoli, le notti più spaventevoli ancora,
ridotta quella sede nobilissima a dover perire o per furore degli amici,
o per vendetta dei nemici. Così passarono le due notti dei ventitre ai
venticinque: ma già si avvicinava l'esito lagrimevole di una forsennata
impresa, quando più la moltitudine, per la dedizione del presidio
ricoverato in castello, si credeva sicura della vittoria. Era giunto il
giorno venticinque maggio, quando udissi improvvisamente un rimbombar di
cannoni, prima di lontano, poi più da presso; e via via più
spesseggiando il romore, dava segno che qualche gran tempesta si
avvicinasse dalle parti di Binasco. Spargevano, fossero i Tedeschi; ma i
più nol credevano, ed incominciavano a trepidar dell'avvenire. I Pavesi
soprattutto stavano molto atterriti, perchè all'estremo punto i villani
non conosciuti, e di domicilio incerto, se ne sarebbero fuggiti; ma la
città, bersaglio certo ad un nemico sdegnato, sarebbe stata sola
percossa da quel nembo terribile.
Erasi già Buonaparte, lasciato Milano in guardia a' suoi, condotto a
Lodi con animo di perseguitare con la solita celerità il vinto Beaulieu,
quando gli pervennero le novelle del tumulto di Binasco e di Pavia.
Parendogli, siccom'era veramente, caso d'importanza, perchè
quest'incendj più presto si spandono che non si estinguono, tornossene
subitamente indietro, conducendo con se una squadra eletta di cavalli,
ed un battaglione di granatieri fortissimi. Giunto in Milano,
considerato che forse le turbe sollevate avrebbero mostrato ostinazione
uguale alla rabbia, o forse volendo risparmiare il sangue, si deliberava
a mandar a Pavia monsignor Visconti, arcivescovo di Milano, affinchè con
l'autorità del suo grado e delle sue parole procurasse di ridurre a
sanità quegli spiriti inveleniti. Intanto applicando l'animo a far
sicuro con la forza quello, che le esortazioni non avrebbero per
avventura potuto operare, rannodava soldati, e gli teneva pronti a
marciare contro Pavia. Infatti già marciavano; già incontrati per via i
Binaschesi, facilmente gli rompevano, facendone una grande uccisione.
Procedendo poscia contro Binasco, appiccato da diverse bande il fuoco,
l'arsero tutto: il funesto incendio indicava al mondo, che strage chiama
strage, fuoco chiama fuoco, e che male con forche, e con bastoni, e da
gente tumultuaria si resiste a bajonette, a cannoni, a battaglioni
ordinati. Rimasero lungo tempo in essere le ruine affumicate e le ceneri
accumulate dell'infelice Binasco, terribili segni a chi stava ed a chi
passava.
Erasi intanto l'arcivescovo condotto a Pavia, e fattosi al balcone del
municipale palazzo orava instantemente alle genti, che si erano
affollate per ascoltarla. Rappresentava la disfatta intiera dei
Tedeschi, la vittoria piena dei Francesi, la soggezione universale,
l'incendio di Binasco, le repubblicane schiere avvicinantisi pregne di
vendetta, Buonaparte già vicino, vincitore di tanti eserciti, e solito
piuttosto a compatire a chi s'arrende, che a perdonare a chi resiste.
Pensassero a Dio, che condanna ogni eccesso; pensassero alle mogli ed ai
figliuoli loro oramai vicini a divenir orfani dei mariti e dei padri
condotti al precipizio da un insensato furore; avessero risguardo a
quell'antichissima città, sedia di tanti artifizj preziosi, di tanti
palazzi magnifici, la quale nè munita, nè difesa da esercito guerriero,
sarebbe tosto preda di gente forestiera chiamata a vendetta da un
capitano invitto: già fumare Binasco, presto aver a fumare anche Pavia,
se più prestassero fede ad una illusione manifesta, che alle parole vere
di chi per costume, per grado e per età aveva l'ingannare più in odio,
che la morte.
Così parlava l'arcivescovo desiderosissimo di salvar la città; ma più
poteva in chi lo ascoltava un feroce inganno, che le persuasive parole.
Gridarono, non doversi dar orecchio all'arcivescovo, esser dedito ai
Francesi, esser giacobino; e così su questo andare con altre ingiurie
offendevano la maestà del dabben prelato. Adunque non rimaneva più
speranza alcuna alla desolata terra; le matte ed inferocite turbe,
accortesi oggimai che lo sperare nei Tedeschi era vano, e che i Francesi
già stavano loro addosso, chiusero ed abbarrarono le porte, ed empierono
tutto all'intorno le mura di armi e di armati. Ma ecco arrivare a
precipizio il vincitor Buonaparte, ed atterrare a suon di cannoni le mal
sicure porte. Fessi in sulle prime una tal qual difesa; ma superando fra
breve le armi buone e le genti disciplinate, abbandonavano
frettolosamente i difensori le mura, e ad una disordinata fuga si
davano. Fuggirono per diverse uscite i contadini alla campagna: si
nascondevano i cittadini per le case. Restava a vedersi quello che il
vincitor disponesse: aspettava Pavia l'ultimo eccidio.
Entrava la cavallerìa della repubblica, correva precipitosamente,
trucidava quanti incontrava: cento sollevati in questo primo
abbattimento perirono. Entrava per la Milanese porta Buonaparte, e
postovisi accanto con le artiglierìe volte contro la contrada
principale, traeva a furia dentro la città. Quivi fra il romore dei
cannoni, fra le grida dei fuggenti e dei moribondi, fra il calpestìo dei
cavalli, fra lo strepito delle case diroccanti, tra il fremere dei
soldati infiammatissimi alla ruina della terra, era uno spettacolo
spaventevole e miserando. Ma se periva chi andava per le vie, non era
salvo chi si nascondeva per le case. Ordinava Buonaparte il sacco, dava
Pavia in preda ai soldati. Come prima si sparse fra i miseri cittadini
il grido del dover andare a sacco, vi sorse tale un pianto, tale un
terrore, tale una miseria, che avrebbe dovuto aver forza di piegare a
pietà ogni cuor più duro. Ma le soldatesche, avventate di natura ed
irritate alla morte dei compagni non si ristavano, e vi commisero opere
non solo nefande in pace, ma ancora nefande in guerra. Erano in pericolo
le masserizie, erano le persone; e le persone quanto più dilicate ed
intemerate, tanto più appetite ed oltraggiate dagli sfrenati
saccheggiatori. Le stanze poco innanzi seggio sì gradito di domestica
felicità, divenivano campo di dolore e di terrore. I padri e le madri
vedevano in cospetto loro contaminate quelle vite, che con tanta cura
nodrite avevano illibate e caste; ed il minor dolore che si avessero
erano le perdute sostanze. Funesti vestigj si stampavano nei penetrali
più santi, della forestiera rabbia. Quanti nobili palazzi desolati!
quanti ricchi arredi spersi! quanti utili arnesi fracassati! ma più
periva il povero che il ricco; perciocchè perdeva questi il mobile,
piccola parte del suo avere, perdeva quello l'uniche sostanze che si
avesse. Quest'erano le primizie della libertà. Al che se per Buonaparte
si rispondesse, che il sangue de' suoi soldati trucidati, e la sicurtà
del suo esercito queste esorbitanze necessitavano, nissuno sarà per
negare ciò esser vero; ma ognuno aggiungerà dall'altro lato, che non era
stato punto necessario che si espilasse il monte di pietà, nè che
s'insultassero le persone, nè che si rubassero le campagne. Perlochè
ragion vuole, che questi atti barbari siano dagli uomini imputati alla
vera origine loro, siccome le imputa certamente il sommo Iddio, giusto
estimatore delle opere dei mortali.
Scese intanto la notte del venticinque maggio, e coperse i fatti
abbominevoli da una parte, il dolore e la disperazione dall'altra.
L'oscurità accresceva il terrore; le miserabili grida che uscivano da
luoghi reconditi e bui, facevano segno che vi si venisse ad ogni
estremo, di cui più la umanità ha ribrezzo, e terrore. Così fra mezzo ad
un confuso tramestio di voci disperate, alle minacce di chi, avuto già
molto, voleva ancora aver di vantaggio, all'andar e venire di soldati
correnti con preda, od a preda, ai lumi incerti, che di quando in quando
splendevano funestamente fra le tenebre, si trapassava quella notte
orribile. Nè pose l'alba del seguente giorno fine al pianto ed alle
ingiurie. Solo la cupidigia del rapire, che non mai si sazia, continuava
più intensa della cupidigia del contaminare, che si sazia, e se il sacco
era tuttavìa avaro, non era più lascivo. Ma la luce rendeva più
miserabile agli occhi dei risguardanti il guasto che era seguìto la
notte; potevano i padroni giudicare di vista quale e quanta fosse stata
la ruina loro. Piangevano: la soldatesca intanto od adunatasi nelle
vuotate case, od assembratasi nelle riempiute piazze con esultazioni
romorose, e con risa smoderate, e col bere, e col tracannare, e col
raccontare, e col vantare come suole, con soldatesco piglio quello che
aveva fatto, e quello che non aveva fatto, mandava fuori l'allegrezza
concetta per una immensa ingiuria vendicatrice di una immensa ingiuria.
Tal era l'universale dei soldati: ma noi non vogliamo che lo sdegno, e
la compassione da noi sentita per opere tanto enormi, ci faccia
dimenticare i pietosi uffici fatti da molti soldati Francesi in mezzo a
confusione sì fiera e sì orribile. Non pochi furono visti che abborrendo
dalla licenza data da Buonaparte, serbarono le mani immuni dall'avaro
saccheggiare; altri più oltre procedendo, fecero scudo delle persone
loro ai miserandi uomini, ed alle miserande donne, chiamate a preda od a
vituperio dai compagni loro. Sorsero risse sanguinose fra gli uni e gli
altri in sì strana contesa, pietosa ad un tempo e scelerata; ed io ho
udito raccontare, non senza lagrime di tenerezza, a fanciulle
castissime, come della illibatezza loro in sì estrema sventura state
fossero a Francesi soldati obbligate. Alcuni così operarono per buona
natura, altri tirati da compassione; poichè entrati nelle desolate case
con animo di far sacco, visto lo spavento ed il dolore degli abitatori,
si ristavano, e da infuriati nemici ad un tratto diventavano generosi
guardiani e difenditori. Nè mancarono di quelli, i quali vedendo le
donne svenute alle immagini atroci che agli occhi loro si
appresentavano, posto in obblìo il primo intento di far preda, intorno
ad esse si affaticavano per farle risensare, e riconfortarle, potendo in
loro più la compassione che l'avarizia. Altri finalmente furono visti, i
quali trasportati dall'impeto comune, e già poste a ruba le magioni
altrui se ne venivano carichi di bottino, tornarsene subitamente
indietro a far la restituzione delle rapite suppellettili, solo perchè
soccorreva loro in mente la miseria di coloro ai quali rapite le
avevano. Così, se in mezzo a tanta concitazione alcuni Francesi di
perduta natura non si rimasero nè alle preghiere nè alle grida
compassionevoli dei saccheggiati, si scoverse in altri od una bontà
intemerata, od una compassione più forte dell'ira e della cupidigia: nel
che tanto maggior lode loro si debbe, che ebbero a superar l'esempio. Nè
si dee passar sotto silenzio, che se si fece ingiuria alle robe ed alla
continenza, non si pose però mano nel sangue. Il che non oserò già dire
che mi rechi maraviglia; ma bene dirò, che mi par degno di grandissima
commendazione, perchè il soldato poteva uccidere non solo impunemente,
ma ancora utilmente. Parte anche essenziale di questo fatto fu
l'immunità data alle case dell'università, le quali furono da quel
turbine preservate, quantunque in se avessero, massimamente il museo di
storia naturale, molti capi di pregio, anche per soldati. Questo benigno
risguardo si ebbe per comandamento dei capi; e certamente le generazioni
debbono con gratitudine riconoscere Buonaparte dello aver fatto in modo
che il rispetto verso gli studj e verso i sussidj loro trovasse luogo
fra tanti sdegni. Più mirabile ancora fu la temperanza dei capi
subalterni, od anche dei gregarj medesimi, che portando rispetto al nome
di Spallanzani, e di altri professori di grido, si astennero o pregati
leggermente, od anche non pregati dal por mano nelle robe loro. Tanto è
potente il nome di scienza, e di virtù, anche negli uomini dati
all'armi, ed al sangue!
Finalmente il mezzodì del giorno ventisei, siccome era stato ordinato da
Buonaparte, pose fine al sacco. Contento il vincitore a quel che aveva
fatto, non incrudelì di soverchio contro a coloro, che presi con le armi
in mano ancora grondanti di sangue Francese, meritavano, secondo le
leggi, come le chiamano, della guerra, che i repubblicani facessero a
loro quello, che essi avevano fatto ai repubblicani. Un solo fu fatto
passar per le armi in sul primo fervore a Pavia; poi altri tre, che
portati all'ospedale, già vi stavano per le ferite avute, con mal di
morte. Raccontarono falsamente le gazzette e le storie dei tempi, che i
municipali, uomini tutti nobili, fossero stati castigati con la morte,
perchè solo furono tolti d'ufficio, e con altri cittadini di maggior
credito, in qualità di ostaggi, condotti in Antibo. Calaronsi dai
campanili le campane, disarmaronsi le popolazioni, ordinossi che la
prima terra che strepitasse, sacco, ferro, e fuoco avrebbe.
Pavia percossa da tanta tempesta, se ne stette occupata molto tempo da
uno stupore misto tuttavìa di spavento. Ma finalmente un vivere più
regolato, quantunque non fosse senza molestia, le maniere piacevoli dei
Francesi, soprattutto la mansuetudine di Haquin fecero di modo, che
succedendo la sicurezza al terrore, ognuno tornasse all'opere consuete.
Cominciavano intanto i Pavesi ad addomesticarsi con quei soldati, che
avevano creduto tanto terribili per fama, e pruovato vieppiù terribili
per atto. Siccome poi il primo e principale ornamento di Pavia era