Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II - 01

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STORIA D'ITALIA
DAL 1789 AL 1814

SCRITTA
DA CARLO BOTTA
TOMO II

CAPOLAGO
_presso Mendrisio_
Tipografia Elvetica
MDCCCXXXIII


STORIA D'ITALIA


LIBRO SETTIMO
SOMMARIO
Pensieri di Buonaparte. Intenzioni del Direttorio circa le
potenze d'Italia. Spoglio delle opere egregie delle belle
arti: lusinghe ai dotti ed ai letterati. Tregua col duca di
Parma. Come trattato il duca di Modena. Accidenti del
Milanese; imposizioni e rapine; mala contentezza dei popoli.
Moto pericoloso nel Pavese, massimamente a Binasco ed a Pavia.
Sacco di questa città accaduto ai venticinque e ventisei di
maggio del 1796. Buonaparte si volta contro Beaulieu, e dopo
nuove battaglie, lo sforza a ritirarsi in Tirolo. Niccolò
Foscarini nominato dai Veneziani provveditor generale in terra
ferma. Sue paure. Minacce, che gli fa Buonaparte. Quel che
restava a farsi dai Veneziani in sì pericoloso ed importante
caso. Debolezza di Foscarini. Buonaparte in Verona. Minacce
contro Verona per aver dato ricovero al conte di Lilla. Il
castello di Milano si arrende alle armi Francesi. Rivoluzione
di Bologna. Giuramento prestato dai Bolognesi in presenza di
Buonaparte. Moto di Lugo, e suoi accidenti. Spavento in Roma.
Tregua fra Buonaparte e il papa. Esortazioni del pontefice ai
suoi sudditi ed ai Francesi. Sforzi e solenni protestazioni
del re di Napoli. Tregua fra il re e Buonaparte. Occupazione
di Livorno. Ree intenzioni di Buonaparte rispetto al gran duca
di Toscana. Nuovo moto dell'Austria a ricuperazione delle sue
possessioni d'Italia: vi manda il maresciallo Wurmser con un
esercito assai grosso. Il maresciallo rompe le prime schiere
di Buonaparte, fa risolvere l'assedio di Mantova, entra in
questa piazza, e la rinfresca d'armi, di soldati e di
vettovaglie. Buonaparte raduna i suoi troppo sparsi.
Moltiplici battaglie fra i due valorosi emoli. Battaglia di
Castiglione combattuta il dì cinque agosto. Wurmser si ritira
ai passi del Tirolo; i Francesi lo seguitano. Battaglia di
Roveredo succeduta ai quattro settembre. I Tedeschi si
ritirano ai più alti passi. Disegni di Buonaparte sopra la
Germania; Wurmser gli storna, calandosi di nuovo in Italia per
la valle della Brenta. Buonaparte lo seguita. Battaglia di
Primolano e di Bassano. Il maresciallo valorosamente
combattendo arriva finalmente in Mantova, che è di nuovo cinta
d'assedio dai Francesi. Descrizione di Mantova. La Corsica si
aliena dall'obbedienza degl'Inglesi, e torna sotto quella di
Francia.

Conquistato il Piemonte, conculcato il re di Sardegna, e posto il piede
nella città capitale degli stati Austriaci in Italia, si apparecchiava
Buonaparte a più alte imprese. Suo principal desiderio era di passar il
Mincio, e cacciando le genti Tedesche oltre i passi del Tirolo, vietare
all'imperatore, che non mandasse nuovi ajuti per ricuperare le Province
perdute. Intanto le sue vittorie avevano aperto la occasione al governo
di manifestare il suo intento circa il modo di procedere verso le
potenze Italiane, e congiunte d'amicizia con la Francia, e neutrali, e
nemiche. La somma era, che facendo traffico del Milanese, con darle in
preda, secondochè per le occorrenze dei tempi meglio gli si convenisse,
o al re di Sardegna, e all'imperatore, si taglieggiassero i principi
d'Italia, e da loro quel maggiore spoglio di denaro e di altre
ricchezze, che possibil fosse, si ricavasse. Nè in questo mostrava il
Direttorio maggior rispetto agli amici che al nemici. Nella quale
risoluzione egli allegava per pretesto e la guerra fatta, e l'amicizia
finta, e la necessità di assicurare l'esercito.
Voleva prima di tutto, che si conquidesse ogni reliquia dell'esercito
Alemanno, e che intanto si consumasse il Milanese, sì per pascere i
soldati, e sì per farlo meno utile a chi si dovesse o dare, o
restituire. «Usate, scriveva il Direttorio a Buonaparte, la occasione
del primo terrore concetto dalle nostre armi, ed aggravate la mano sui
popoli Lombardi per cavarne denaro. I canali e le altre opere pubbliche
di quel paese siano anch'esse un po' tocche dalla guerra; ma si usi
prudenza».
Nè qui finivano le parole crude rispetto alla miseranda Italia: «Ite,
scrivevano, e correte contro il gran duca di Toscana, che è servo
degl'Inglesi in Livorno; ite, ed occupate Livorno; non aspettate che vi
consenta il gran duca; il sappia quando voi già sarete padrone di quel
porto; confiscatevi le navi e le proprietà Inglesi, Napolitane,
Portoghesi, e di altri stati nemici della repubblica; sequestrate le
proprietà dei sudditi loro; se il gran duca si opponesse, sarebbe
perfidia, e sì allora trattate la Toscana come se fosse alleata
dell'Inghilterra e dell'Austria; comandate a quel principe, che ordini
incontanente, che quanto ai nemici nostri si appartiene, sia in poter
nostro posto, e risponda egli del sequestro: pascete le genti della
repubblica in Toscana, e date in contraccambio polizze del ricevuto da
scontarsi alla pace generale. Fate poi le viste di voltarvi verso Roma e
Napoli per metter timore nel pontefice e nel re; assicurate Livorno con
un forte presidio, e fate che sia scala a muovere la Corsica per ritorla
al giogo della superba casa di Brunsvick-Luneburgo, e ridurla di nuovo
sotto il dominio della repubblica».
Grande rapacità fu questa veramente, ed incomportevole e barbara, poichè
se erano in Livorno proprietà d'Inghilterra, o d'Inglesi e di altri
nemici della repubblica, eranvi in vigore della neutralità di Toscana,
che la Francia stessa aveva e riconosciuta, ed accordata col gran duca.
Questa fu la ricompensa che ebbe Ferdinando di Toscana da quei
repubblicani di Parigi, che pure pretendevano sempre alle parole loro la
sincerità, e la grandezza, dello avere, primo fra tutti i potentati
d'Italia, e riconosciuta la repubblica, e fatta la pace con lei, e dato
lo scambio per instanza del Direttorio al suo ministro conte Carletti
per avere lui mostrato desiderio di visitare la reale figliuola di Luigi
decimosesto testè uscita dal carcere del Tempio per esser condotta in
Alemagna. Mandò il gran duca, in vece di Carletti, il principe don Neri
Corsini, giovane ingegnoso, di buona natura, e di non mediocre
aspettazione. Nè valsero a frastornare dalla felice Toscana la cupidigia
dei repubblicani le dolci parole usate dal Corsini medesimo, quando fece
il suo ingresso al direttorio, nè le parole magnifiche che gli furono
date in risposta dal presidente. Nè io voglio dare a chi mi leggerà il
fastidio, questi discorsi raccontando, di udire parole di adulazione
inutili da una parte, e promesse d'amicizia infedeli dall'altra.
Era Genova stata straziata dalle armi Francesi e dalle armi Tedesche, e
poteva avere speranza, ora che la sede della guerra si era allontanata
da' suoi confini, di vivere più quietamente. Ma i tempi erano tali, che
dove mancavano le cagioni, s'inventavano i pretesti, ed il fine era non
di rispettare i neutri deboli, ma di molestargli e di mettergli in
preda. Adunque per quella cupidità di voler trarre denaro da Genova,
s'incominciò ad insorgere contro il governo Genovese, con dire che le
turbazioni seguite contro i Francesi nei feudi imperiali confinanti con
lo stato Genovese, e le uccisioni, che pur troppo sui confini dei
territorj Piemontese e Genovese accadevano di soldati Francesi, se non
erano opera espressa della signorìa, erano almeno troppo più
rimessamente che si convenisse, da lei udite e tollerate; che le armi e
gli stimoli alla sedizione nei feudi imperiali erano venuti da Genova, e
che da Novi venivano le armi e gl'incentivi per assassinare i Francesi
ai confini. Per la qual cosa scriveva con una insolenza incredibile
Buonaparte al senato ch'era Genova il luogo, donde partivano gli uomini
scelerati, che datisi alle strade intraprendevano i carriaggi, ed
assassinavano i soldati Francesi, che da Genova un Girola mandava ai
feudi imperiali ribellanti armi, e munizioni da guerra pubblicamente, ed
ogni giorno i capi degli assassini accoglieva, ancor bruttati di sangue
Francese; che parte di questi orribili fatti succedevano sul territorio
della repubblica; che pareva, che essa col tacere e col tollerare
appruovasse opere tanto scelerate; che il governator di Novi proteggeva
i commettitori di tanti atti barbari, perciò arderebbe i comuni dove
sarebbe ucciso un Francese; voleva che il governatore di Novi dal suo
impiego si cacciasse, Girola da Genova: arderebbe infine le case tutte
in cui gli assassini trovassero asilo; punirebbe i magistrati
trasgressori della neutralità, osserverebbe bene e puntualmente la
neutralità, ma volere che la repubblica di Genova non fosse rifugio di
gente malandrina. Allo stesso modo al governatore di Novi, persona
moderata e dabbene, scrivendo, lo accusava di essersi fatto ricovero di
assassini, e superbamente gli comandava, che arrestasse gli abitatori
dei feudi imperiali che fossero nel suo territorio, e se nol facesse,
avrebbe a far con lui; poscia vieppiù soldatescamente infiammandosi,
ripeteva, arderebbe terre e case, dove gli assassini si ricoverassero.
Rispondevano il senato ed il governatore stando in sui generali, perchè
l'attribuire a se medesimi opere tanto nefande non era nè verità, nè
dignità, ed il non soddisfare ad un soldato vittorioso e sdegnato, era
pericolo. Certo è bene, che per quelle strade si commisero contro i
Francesi opere di molta barbarie, e certo è altresì, che Buonaparte
doveva con quei più efficaci mezzi che potesse, aver cura de' suoi
soldati, e porre la vita loro in salvo: ma che queste tanto terribili
dimostrazioni ei facesse contro i Genovesi, meno per amor di salute
verso i suoi soldati, che per occasione di muover querela contro di loro
a fine di denaro, e forse di distruzione, sarà manifesto a chiunque farà
considerazione, che questi omicidj ed assassinamenti, di cui con tanta
ragione si querelava, non già solamente sul territorio Genovese
accadevano, ma ancora, e molto più sul territorio Piemontese;
imperciocchè i villici di quei confini tra Novi ed Alessandria, gente
allora pur troppo solita al gettarsi alla strada, erano quelli
massimamente, che, stando agli agguati, uccidevano i Francesi isolati:
nel che intendevano bensì al rubare, ma molto più ancora al saziare nel
sangue Francese l'odio che contro quella nazione avevano concetto.
Eppure non fece il generale di Francia che un leggiere risentimento, e
nissuna minaccia contro il re di Sardegna. La verità era, che nè il
governo Piemontese, nè il Genovese erano rei di sì brutti eccessi, ma
bensì la sfrenatezza di costume, che porta con se la guerra tanto nei
vinti quanto nei vincitori, e l'odio di quei popoli contro il nome
Francese. L'insolenza poi di accusare tutto un governo, composto di
persone dabbene e temperato per tanti secoli, di prezzolare ed incitar i
ladri ed assassini, non poteva procedere se non da un uomo sfrenato.
A queste minacce soldatesche succedevano le prepotenze Parigine.
Comandava il direttorio a Buonaparte, s'impadronisse o di queto, se i
Genovesi consentissero, o per forza, se ricusassero, di Gavi a fine di
assicurare l'esercito alle spalle, e di conservarsi la strada della
Bocchetta aperta da Genova a Tortona: col medesimo pensiero già si era
impadronito della fortezza di Vado; il che quale rispetto sia per la
neutralità, ciascuno potrà giudicare. Poscia più oltre procedendo,
voleva il direttorio, che come prima avesse l'esercito repubblicano
occupato il porto di Livorno, occupasse anche la Spezia, ed ivi quanti
bastimenti appartenessero a potentati nemici alla Francia, mettesse in
preda. Nè contento a questo, non dimenticato il denaro, nè risguardo
alcuno avendo che il fatto della Modesta fosse accaduto non solamente
senza saputa, ma ancora con sorpresa del senato di Genova, nè che già
fosse stato composto in quattro milioni col governo di Francia, nè che
la fermezza del senato nel contrastare alla prepotenza Inglese per
serbar la neutralità fosse stata non solo vera, ma anche lodata dal
consesso nazionale di Parigi, nè che finalmente molte fossero le
molestie che per la serbata neutralità avevano ricevuto i Genovesi
dagl'Inglesi, e tuttavìa ricevevano dai Corsi, comandava a Buonaparte,
che domandasse vendetta, e milioni di contanti per la straziata Modesta,
ed operasse che coloro, che si erano mescolati in tale fatto, fossero
come traditori della patria dannati: oltre a ciò voleva e comandava, che
si confiscassero e si dessero in mano della repubblica tutte le
proprietà pubbliche appartenenti ai nemici, e sotto sicurtà di Genova si
sequestrassero tutte quelle che a sudditi di potentati nemici
spettassero; cacciasse Genova da' suoi territorj tutti i fuorusciti
Francesi; fornisse bestie da tiro e da soma, carriaggi e viveri, e si
dessero in contraccambio polizze del ricevuto da scontarsi alla pace
generale.
Questi comandamenti, che un governo civile avrebbe avuto vergogna di
fare ad una potenza del tutto serva, si era risoluto il direttorio di
fare ad uno stato, di cui protestava voler riconoscere e rispettare
l'indipendenza e la neutralità.
Passando ora da Genova a quella primogenita, come la chiamavano,
repubblica di Venezia, siccome cresceva nei vincitori con le vittorie la
cupidigia dell'oro e del dominare, incominciarono a dire, che volevano
che fosse trattata non da amica, ma solamente da neutrale, sotto colore
di certi pretesti vecchi, che già sussistevano, poichè non era cambiata
la condizione delle cose fra le due repubbliche, quando nell'ingresso
del nobile Querini se gli fecero tante carezze. Tra questi pretesti il
primo e principale era il passo dato ai Tedeschi pei territorj
Veneziani. Poi prosperando vieppiù la fortuna delle armi repubblicane in
Italia, insorse il direttorio con volere che Verona desse grossa somma
di denaro in presto, a motivo che ella aveva accolto nelle sue mura
Luigi XVIII, convertendo per tal modo in colpa un ufficio di pietà.
Finalmente, cacciato del tutto Beaulieu oltre Mincio, voleva ed
imperiosamente comandava, che Venezia desse in presto dodici milioni, e
si voltasse in ricompensa questa detta alla repubblica Batava, che era
debitrice di questa somma, a norma dei freschi trattati, alla Francia;
il che era un farsi far presto per forza, e pagar a modo suo. Voleva
oltre a ciò, e comandava, che si consegnassero alla repubblica tutti i
fondi dei potentati nemici che fossero in Venezia, principalmente quelli
che spettavano personalmente al re d'Inghilterra, ed inoltre si dessero
alla Francia tutte le navi sì grosse che sottili, ed altre proprietà di
nemici che stanziassero nel porti Veneziani. Quest'erano le domande
fatte dal direttorio alla repubblica Veneta, delle quali direi, ch'io
non so s'egli desiderasse che fossero piuttosto negate che concedute, se
non sapessi che neanco il concederle sarebbe stato salute per Venezia.
Quanto al papa, se volesse trattar d'accordo, si esigesse da lui,
imponeva il direttorio, per primo patto, ordinasse subito preci
pubbliche per la prosperità e la felicità della repubblica; nel che
faceva il direttorio gran fondamento per l'autorità che aveva la sedia
apostolica sulla opinione dei popoli sì Francesi, che Italiani. Si venne
quinci in sul toccar il solito tasto del denaro, intimando desse
venticinque milioni. Si comandasse al tempo medesimo al re di Napoli,
che se pace volesse, badasse a cacciar da' suoi stati gl'Inglesi e gli
altri nemici della repubblica, mettesse in poter suo tutte le navi loro
che nei Napolitani porti fossero sorte, e loro vietasse l'entrarvi,
nemmeno con bandiera neutrale. Sapesse poi il re, che col mantenimento
dei patti ne andava la salute del regno.
Questi superbi comandamenti, che potevano bensì fare i potentati
Italiani amici in sembiante di Francia, ma non veri, perchè mescolavano
l'oltraggio alla forza, gli rendevano disprezzabili agli occhi del
mondo, e davano timore di danni ancor maggiori, quando, distrutta
intieramente la potenza dell'Austria, le armi repubblicane avessero
inondato tutta l'Italia.
Vengo ora ad alcuni potentati minori, che non avevano fatto guerra con
le armi alla Francia, perchè non ne avevano, e nemmeno avevano fatto
pace, perchè la Francia essendo lontana e l'Austria vicina, temevano di
ricevere o ingiuria o danno dai Tedeschi. Non ostante correndo la fama
che avessero ricchezze, coloro che reggevano le faccende della
repubblica sempre pronti ad abbracciare ogni apparente colore per
involare quel d'altrui, avevano a loro volto le proprie cupidità. In
conformità di questo voleva il repubblicano governo, che si scuotessero
bene i duchi di Parma e di Modena, ma il primo meno rigidamente del
secondo per rispetto del re di Spagna, col quale era congiunto di
sangue. Quanto al duca di Modena, intenzione dei repubblicani era, che
si aggravasse la mano sopra di lui per fargli sborsar denaro in copia,
perchè aveva voce di averne, e perchè, avendo sposata l'unica sua
figliuola ad un principe Austriaco, si presumeva, o si supponeva, che
dipendesse molto dall'Austria. Lallemand, ministro di Francia a Venezia
(a questo era serbata dai cieli la sua canuta testa) esortava, che si
conculcasse, si pugnesse, si travagliasse per ogni guisa il Modenese
duca a fargli dar denaro, perchè ne aveva molto ed era avaro; e più si
scuoterebbe, e più contanti darebbe. I frutti della lunga parsimonia di
un principe non solamente ordinato allo spendere, buono, e previdente,
ma ancora non nemico alla Francia nè per uso, nè per costume, nè per
massima, erano destinati a cadere in mano di gente capace a dissipargli
in poco d'ora.
Intanto, perchè si contaminasse anche lo splendore che veniva all'Italia
dalla perfezione delle belle arti, che in lei avevano posto la principal
sede, e perchè nissuna condizione di barbarie mancasse a quelle dolci
parole di umanità e di libertà, che dai repubblicani di quei tempi si
andavano fino a sazietà spargendo, ordinava il direttorio, a petizione
di Buonaparte, che si comandasse nei patti d'accordo ai principi vinti,
dessero in poter dei vincitori, perchè nel museo di Parigi fossero
condotti, quadri, statue, testi a penna, ed altri capi dell'esimie arti,
usciti di mano ai più famosi artisti del mondo, affermando, esser venuto
il tempo, in cui la sede loro doveva passare da Italia a Francia, e
servire d'ornamento alla libertà. Brutta certamente ed odiosa opera fu
questa dello avere spogliato l'Italia di tanti preziosi ornamenti; che
se il rapire l'oro, l'argento e le sostanze dei campi era uso di guerra,
non dirò comportabile, ma utile a nutrire i conquistatori, l'aggiungere
alla preda statue e quadri, non poteva essere se non atto di superbia
eccessiva, e disegno di vieppiù avvilire i vinti. Rispettarono i
Francesi ai tempi andati nelle guerre loro in Italia questi frutti
eccellenti dell'umano ingegno: Francesco primo re accarezzava con
munificenza veramente reale gli operai, non rapiva le opere. Gli
rispettarono nei tempi andati, e gli rispettarono nei moderni i
Tedeschi. I repubblicani che allora reggevano la Francia, e che non
avevano altro in bocca che parole di umanità, di civiltà, di rispetto
verso le proprietà, d'amicizia verso i popoli, fecero quello, che uomini
meno parlatori e meno ostentatori di dolci discorsi non avevano fatto.
Ma lo spoglio piaceva loro, ad alcuni per l'amore della gloria, ad altri
perchè potessero essere sotto gli occhi modelli tanto perfetti di natura
abbellita dall'arte; imperciocchè in quei tempi erano sortiti in
Francia, massimamente in pittura, artisti di gran valore, i quali ed
ammiravano e sapevano imitare lodevolmente gli esempj Italiani: con
questo ancora Buonaparte, pe' suoi fini, lusingava la Francia.
In Italia poi i repubblicani, non i buoni, ma i malvagi, indicavano le
opere preziose da rapirsi, i più dolci andavansi confortando con la
speranza che l'Italia, siccome quella che ancora era feconda, ne avrebbe
prodotto delle altre ugualmente preziose: i più severi poi, trasportando
nelle moderne repubbliche l'austerità delle antiche, se ne rallegravano
predicando, che la libertà non aveva bisogno di queste preziosità, e che
pane e ferro dovevano bastare a chi repubblicano fosse. Così questi
buoni utopisti condotti da una inremediabile illusione, in mezzo agli
ori e le gemme, di cui già risplendevano i capi repubblicani di Francia,
ed al gran lusso in cui vivevano, andavano continuamente sognando
Sparta, e conservandosi austeri ed inflessibili, facevano fede di quanto
possa in animi forti e buoni una fissazione, che abbia in se l'immagine
del bene.
Ma il direttorio, a suggestione sempre di Buouaparte, che sapeva quel
che si faceva, voleva, che se le opere più insigni delle arti servivano
d'ornamento ai trionfi della repubblica, gl'ingegni celebri gli
lodassero, avvisandosi che non sarebbe accagionato di barbarie, se
coloro che da lei per costume, per ingegno e per sapere erano i più
lontani, si facessero lodatori delle imprese dei repubblicani, a danno
ed a spoglio dell'Italia. Voleva conseguentemente, ed imponeva al suo
generale, che ricercasse, e con ogni modo di migliore dimostrazione
accarezzasse gli scienziati, ed i letterati d'Italia. Indicava
nominatamente l'astronomo Oriani, uomo certamente non degno per bontà e
per dottrina di essere accarezzato da un governo e da un capitano, che
spogliavano la sua patria. Recava il generale ad effetto l'intento del
direttorio, parte per vanagloria, parte per astuzia, come mezzo e scala
alle future ambizioni. Degli accarezzati alcuni adulavano parlando,
altri sprezzavano tacendo, chi mostrò più forza fu l'eunuco Marchesi,
che non volle cantare.
Egli è tempo oramai di esporre come i raccontati comandamenti, che
finora erano solamente intenzioni, siano stati ridotti in atto. Non così
tosto ebbe Buonaparte passato il Po a Piacenza, che sorse una
trepidazione nella corte di Parma, tanto maggiore quanto il duca aveva
rifiutato l'accordo con Francia, che il ministro di Spagna in Torino gli
era venuto offerendo con qualche intesa del generalissimo, come prima i
Francesi erano comparsi nella pianura del Piemonte. Non solamente una
parte del ducato era venuta sotto la divozione dei repubblicani, ma
ancora il restante, non avendo difesa, era vicino, e solo che il
volessero, a venire in poter loro. Così il duca si trovava del tutto a
discrezione dei repubblicani, nè sapeva a quali patti questa gente
vittoriosa consentirebbe ad accettarlo in amicizia. Nè stava senza
timore, che per opera dei Gallizzanti seguisse qualche turbazione, non
già ch'essi fossero o numerosi o potenti, ma il terrore rappresentava
alle menti commosse questo pericolo più grave assai, che realmente non
era. In tanta e sì improvvisa ruina prese il duca quel partito che solo
gli restava aperto, del tentare di assicurar gli stati con un accordo,
che quantunque grave e duro dovesse riuscire, sarebbe ciò non ostante
men grave, che la perdita di tutto il dominio. Tentò il ministro di
Spagna di mitigare l'animo del vincitore; ma egli, che era assai meno
sdegnato che avido, non voleva udire le proposte che gli si facevano, e
non ammetteva che il duca avesse avuto luogo nel trattato di Spagna.
Perciò domandava superbamente l'accordo, che ponesse fine alla guerra, e
con l'accordo denari, vettovaglie, e tavole dipinte di estremo valore.
Adunque come si suol fare nei casi estremi da coloro che non sono più
padroni di loro medesimi, fece il duca mandato amplissimo ai marchesi
Pallavicini e della Rosa di trattare, accettando tutte le domande,
quantunque immoderate, che si facessero dal vincitore.
In primo luogo fu consentita una tregua con mediazione del ministro di
Spagna il dì nove maggio in Piacenza. Non aveva il duca nè fucili, nè
cannoni, nè altre armi, nè fortezze da dare, ma si obbligava a pagar in
pochi giorni sei milioni di lire Parmigiane, che sono a un di presso un
milione e mezzo di franchi, e di più a fornire quantità esorbitanti di
viveri e di vestimenta pei soldati. Si obbligava oltre a ciò ad
allestire due ospedali in Piacenza, provveduti di tutto punto, ad uso
dei repubblicani. Consegnerebbe finalmente venti quadri dei più
preziosi, fra i quali il San Girolamo del Coreggio. Questi furono i
patti che per la intercessione di Spagna ottenne il duca di Parma, i
quali di quale natura siano, ognuno per se potrà giudicare. Nientedimeno
trovo scritto, che il cavaliere Azara, ministro di Spagna a Roma,
opinava che e' fossero molto moderati. Mandava intanto Buonaparte
Cervoni a Parma, perchè ricevesse i denari ed i quadri, e vigilasse onde
le condizioni della tregua si eseguissero puntualmente. Stretto il duca
da tanta necessità mandava le ducali argenterìe alla zecca, perchè vi si
coniassero, ed il vescovo le sue. Così usato ogni estremo rimedio, e
raggranellato denaro da ogni parte, satisfaceva Ferdinando alle
condizioni della tregua. Intanto i fuorusciti Parmigiani e Piacentini,
ritiratisi in Milano, laceravano il duca con incessanti scritture, dal
che riceveva grandissima molestia. Rappresentavansi spesso questi
fuorusciti al generalissimo nelle sue stanze di Milano, ed ei gli
accoglieva benignamente, e profferiva loro favori ed impieghi. Di questi
alcuni accettavano, ed adulavano; altri repubblicanamente rifiutavano,
affermando non volere altro che la libertà della patria loro: questi
Buonaparte aveva per pazzi.
Al fracasso dell'armi repubblicane tanto vicine risentitosi il duca di
Modena, se ne fuggiva a Venezia, portando con se parte de' suoi tesori;
il che concitò a grande sdegno i capi della repubblica in Italia, come
se il duca fosse obbligato a lasciar le sue ricchezze in Modena per
servizio loro. Creò partendo un consiglio di reggenza, che disposto per
la necessità del tempo a ricevere qualunque condizione avesse voluta il
vincitore, mandava il conte di San Romano a richiedere di pace
Buonaparte. Rispose, concedere tregua al duca con patto, quest'erano le
instigazioni del canuto Lallemand, che facesse traboccare fra otto dì
nella cassa militare sei milioni di lire tornesi, e somministrasse,
oltre a ciò, viveri, carriaggi, bestie da soma e da tiro pel valsente di
altri due milioni: di più fra quarantott'ore rispondessero del sì, o del
no. Fu pertanto conclusa la tregua, in cui si ottennero dal ducale
governo la diminuzione di un milione nei generi da somministrarsi, e
dieci giorni pel pagamento de' sei milioni. Offerivano quindici quadri
dei più famosi maestri. I repubblicani diedero promessa di pagare a
contanti quanto abbisognasse loro passando per gli stati del duca.
A questo modo fu trattato il duca di Modena, che non aveva mai commesso
ostilità contro la Francia, sotto titolo ch'ei fosse feudatario
dell'impero d'Alemagna; qualità assai vana, che a niuna soggezione verso
il corpo germanico obbligandolo, il lasciava intieramente libero di
accostarsi a quale potenza più gli venisse a grado. Di questo non fu mai
imputato, e solo si mise in campo questo pretesto, quando giunse il
momento dello spoglio.
Tornando ora a Milano, dov'era la sede più forte dei repubblicani, e
donde principalmente dovevano partire i semi di turbazione per tutta
l'Italia, applicò l'animo Buonaparte a due risoluzioni di momento, e
queste furono di dar licenza ai magistrati creati dall'arciduca prima
che partisse, con surrogar loro magistrati, e uomini o partigiani, o
dipendenti da Francia, e di procacciar denaro e fornimenti, che
l'abilitassero a continuare il corso delle sue vittorie. Per la qual
cosa, in luogo della giunta di stato, creava la congregazione generale
di Lombardìa, ed al consiglio dei Decurioni surrogava un magistrato
municipale, in cui entrarono volentieri parecchi uomini buoni e di
grande stato. Francesco Visconti, Galeazzo Serbelloni, Giuseppe Parini,
Pietro Verri. Il generale Despinoy presiedeva il magistrato, ed a lui si
riferivano gli affari più gelosi e più segreti.
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