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Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 11 (of 16) - 03
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tartari loro vicini. La conquista della Bessarabia, fatta da
Maometto II nel 1474, avrebbe dovuto aprir loro gli occhi sul
pericolo. L'occupazione di Caffa sparse in tutto il Settentrione la
più grande costernazione, perciocchè questa città era il solo punto
di comunicazione tra gli Europei ed i Persiani, egualmente nemici
de' Turchi, e che sentivano il bisogno di concertare le loro
operazioni. _Dlugoss Hist. Polon. l. XIII, p. 533._ Mengili Gierai,
il quale fu trovato da Achmet Giedik in Caffa, ove erasi rifugiato
sotto la protezione dei Genovesi, e che allora ebbe da Maometto II
un'armata con cui vinse suo fratello, fu il primo kan dei Tartari
che ricevesse l'investitura dai Turchi, e che facesse recitare nelle
pubbliche preghiere il nome del sultano. _Demetrius Kantemir. Hist.
Ottom., l. III, c. 1, § 28, p. 111._
Dal canto dell'Ungheria Mattia Corvino non corrispose alle calde premure
de' Veneziani, e non tentò veruna importante diversione. Pure in questo
stesso anno prese la fortezza di Schabatz, che minacciava il Sirmio, ma
non portò più in là le sue armi[44]. Da ogni banda, sia presso i
Musulmani che presso i Cristiani, i popoli trovavansi estenuati da così
lunga guerra, e verun vigoroso sforzo prenunciava più grandi
avvenimenti.
[44] _Ann. Eccl. 1475, § 28, p. 262._
CAPITOLO LXXXIV.
_Congiura di Niccola d'Este a Ferrara; di Girolamo Gentile a
Genova; d'Olgiati, Visconti e Lampugnani a Milano. Rivoluzioni
nello stato di Milano dopo la morte di Galeazzo Sforza_.
1476 = 1477.
Mentre la guerra si andava al di fuori rallentando, e che i diversi
stati d'Italia erano uniti da alleanze, che sembravano dover guarentire
la pace fra di loro, l'interna loro costituzione venne replicatamente
scossa da molte cospirazioni. In tre anni contansene, una a Ferrara, due
a Genova, una a Milano ed una a Firenze. Pareva che i popoli, finalmente
stanchi dell'oppressione sotto la quale tanto avevano sofferto, fossero
determinati di spezzare un indegno giogo; ma non pertanto ricaddero
dovunque sotto la catena che gli aveva oppressi. Non mancarono ai
cospiratori nè segreto, nè ardire, nè fedeltà; tutti eseguirono ciò che
avevano progettato, niuno ne raccolse il frutto: tanto è difficile di
rovesciare un governo esistente, e tanto l'abitudine dell'ubbidire
sostiene la potenza ancora del più odiato tiranno[45]! Odesi spesso
accusarsi una nazione di debolezza e di pusillanimità, in ragione del
giogo ond'è stata oppressa. Quando vedonsi migliaja d'uomini ubbidire
contro l'interesse loro, contro il loro sentimento ad un solo, quando si
vedono sottostare ai capricci ch'essi detestano, o diventare gli
strumenti delle passioni che essi hanno in orrore, non possiamo non
rimproverar loro di servire ove potrebbero comandare, e di non misurare
le forze loro colla individuale debolezza di colui ch'essi temono.
Sarebbe infatti vantaggioso che questo pregiudizio si stabilisse
nell'opinione, e che la vergogna si associasse alla servitù. Forse i
popoli farebbero allora per l'onore ciò che non fanno per la
libertà[46]. Pure ingiustizia sarebbe il condannare una nazione soltanto
a motivo del giogo che ha sopportato. Trovasi tanta potenza
nell'organizzazione sociale, le forze di tutti sono così ben dirette dal
despota contro ogni individuo, che per poco che questi o il suo ministro
sia destro, coraggioso, vigilante, è sempre in tempo d'opprimere i suoi
scoperti nemici col braccio medesimo de' suoi segreti nemici; in modo
che la più nobile e più generosa nazione non è bastantemente forte per
difendersi scopertamente dal suo tiranno. È dato solamente di poter
congiurare a colui che co' deboli suoi mezzi personali vuole lottare
coll'uomo che dispone della polizia, dell'armata, del tesoro. Molti,
cedendo ad una nobile ripugnanza, rifuggono da tale intrapresa, perchè
vi scorgono qualche apparenza di dissimulazione e di tradimento; non
riconoscono che l'estremo pericolo nobilita i mezzi meno virtuosi, e che
l'assassino di un tiranno dev'essere più coraggioso assai, che il
granatiere che prende una batteria colla bajonetta. Per altro
quest'opinione indebolisce ancora il partito de' cospiratori; spesso
allontana da loro, nell'istante del pericolo, quelli che il giorno
innanzi parevano partecipare ai sentimenti loro; e l'uomo coraggioso,
che si è fatto l'organo delle volontà di tutto un popolo, e lo strumento
delle sue vendette, perisce sul patibolo per le mani di quei medesimi
ch'egli servì[47].
[45] _Tutti eseguirono ciò che avevano progettato, niuno ne raccolse
il frutto_; quale più utile lezione di questa per convincere
gl'incauti che pensassero di tentare novità contro uno stato
qualunque! _N. d. T._
[46] L'autore, che altrove conosce per legittime le tre specie di
governo ammesse da Aristotele, ed in particolare il governo
monarchico che si mantiene con buone e sagge leggi fatte pel bene
de' suoi popoli, è cosa manifesta, che qui non parla che de' governi
rigorosamente chiamati tirannici; e sarebbe assurdo il credere che
chiamasse vergognosa la servitù, o per meglio dire sudditanza verso
il pacato governo di una monarchia legittima, e la di cui
successione è regolata da leggi riconosciute universalmente; il che
certamente non accadeva ne' principati che precedettero il XIV
secolo in Italia, tranne quello della santa sede, del Monferrato,
ec. _N. d. T._
[47] Ecco l'indubitata sorte del cospiratore. È stato dai politici
osservato, che le congiure dei pochi non riescono, perchè allora le
forze dei cospiratori sono deboli, e che le congiure, dove prendono
parte molti complici, vengono scoperte prima che abbiano esecuzione.
Dunque, dice il nostro autore, non è dato di congiurare che
all'individuo. Ma l'individuo non sarà mai il rappresentante della
volontà del popolo, che anzi quasi tutti gli esempi di antiche e
moderne cospirazioni individuali ci dimostrano, che personale odio e
desiderio di privata vendetta pongono il pugnale in mano del
cospiratore, non il desiderio di rendersi utile alla patria, che non
può non detestare colui che turba l'ordine e la tranquillità del
governo. _N. d. T._
La storia d'Italia, ove gli avvenimenti si presentano e si accumulano,
ove tutte le passioni hanno libero sfogo, ove tutte le instituzioni si
combinano in mille modi, ci presenta sotto variate forme questi sforzi
dei popoli e degl'individui per iscuotere il giogo della tirannide. Noi
vi vediamo a vicenda aperte ribellioni e congiure; vediamo cospirare a
vicenda a favore d'una stirpe reale, o di un sovrano risguardato come
più legittimo, ed in favore della repubblica; vi vediamo tutte le lotte,
quella della sublime lealtà, quella della fiera nobiltà e quella della
libertà. Malgrado i diversi principj che servono di fondamento alla
politica d'ogni uomo, non avvene alcuno, che non debba in così vasto
numero di cospirazioni trovarne una che non gli sembri legittima; non
avvene alcuno, che non debba associarsi di cuore a qualcuna delle
intraprese tendenti a rimettere o il governo reale dell'antica dinastia,
o la vecchia aristocrazia, o la libertà, o il regno glorioso d'un
condottiere, o il dominio della Chiesa; non avvene alcuno, che ardisca
considerare il potere, qualunque egli siasi, come sempre ugualmente
sacro; ed un più liberale sentimento dovrebbe insegnargli, che tutte le
congiure meritano un certo grado d'ammirazione[48], quando ancora
appariscono colpevoli ai suoi occhi, per lo scopo che si propongono i
congiurati; imperciocchè in tutte si trova un grande sagrificio di sè
medesimo ad un interesse più sublime di sè, un grande sagrificio della
sua persona ad una nobile causa, un grande spaventoso pericolo, posto in
non cale a fronte di lontane speranze[49].
[48] Ciò sarà, quando uno cospira contro un usurpatore a favore del
legittimo antico governo, che per secoli aveva formata la felicità
d'un popolo, ma non quando la cospirazione tende a rovesciare il
legittimo regnante per sostituirvi l'anarchia o un tiranno. _N. d.
T._
[49] Le difficoltà infinite che incontra il cospiratore, l'evidente
pericolo di morte, ed anche d'infamia pubblica per le arti del
tradimento che è forzato usare, devono ritrarre chiunque da così
enorme attentato; ed il nostro autore, ponendo in vista al lettore
tutti questi pericoli, le difficoltà e la mala riuscita che le
congiure sortono quasi sempre, tende ad incutere un salutare terrore
in chiunque osasse soltanto pensare a fare novità contro uno stabile
legittimo governo. _N. d. T._
Tra le congiure che scossero l'Italia nel 1476, la prima a scoppiare fu
quella di Ferrara. Niccolò d'Este, figlio del marchese Lionello, viveva
in allora a Mantova presso suo cognato; molti emigrati ferraresi lo
avevano seguito, risguardandolo come il rappresentante ed il legittimo
erede di Lionello e di Borso, i due più amabili principi che avesse fin
allora prodotti la casa d'Este, e gli andavano insinuando che tutto il
popolo era partecipe del loro attaccamento e del loro rammarico. In ciò
confidando, Niccolò cercava i mezzi di rientrare in Ferrara, non
dubitando, che, ove giugnesse una volta a superare le mura della città,
non fosse da tutto il popolo salutato per sovrano. Il marchese di
Mantova, suo cognato, permettevagli d'adunare soldati nel suo
territorio, e Galeazzo Sforza, sempre geloso de' suoi vicini, sebbene
non covasse verun progetto contro di loro, gli somministrava danaro, e
prometteva soccorsi. Frattanto la città di Ferrara trovavasi
accidentalmente aperta; eransi in più luoghi atterrate le sue mura, per
rifabbricarle dietro un nuovo piano; e Niccolò aveva ogni giorno fedeli
avvisi di ciò che facevasi nella corte di suo zio. Seppe che il primo
settembre del 1746 Ercole uscirebbe di buon mattino di città per recarsi
alla sua casa di Belriguardo; e lo stesso giorno giunse da Mantova a
Ferrara con cinque vascelli aventi a bordo cinquecento uomini
d'infanteria; entrò per la breccia, che aprivasi nelle mura di mano in
mano che si andavano rifacendo, e corse subito le strade, facendo
ripetere innanzi a lui il suo grido di guerra: _La vela!_ In pari tempo
promise al popolo di rendergli l'abbondanza, mentre che la cattiva
amministrazione d'Ercole aveva fatto crescere il prezzo del frumento;
annunciò l'arrivo di quattordici mila uomini, che gli avevano dati per
quest'intrapresa il duca di Milano ed il marchese di Mantova, ed invitò
i cittadini a prendere le armi, senza aspettare che le truppe straniere
gli sforzassero a riconoscerlo per loro legittimo sovrano.
Don Sigismondo, fratello del duca, al primo sentore di questo tumulto,
erasi frettolosamente chiuso in Castelvecchio con donna Leonora
d'Arragona sua sposa; ma non vi aveva vittovaglie per tre giorni.
Ercole, cui alcuni fuggiaschi avevano annunciato l'ingresso in Ferrara
di una numerosa armata, omai rinunciava alla speranza di riprendere la
città, ed adunava soltanto i suoi soldati a Reggenta ed a Lugo per
difendere queste due fortezze. Intanto niun Ferrarese aveva ancora prese
le armi per unirsi a Niccolò, il quale vedendo d'aver corse invano tutte
le strade, chiamando il popolo in suo soccorso senza che alcuno si
muovesse, cominciava a scoraggiarsi. Eransi contati i soldati che lo
seguivano, e sprezzavasi il loro piccolo numero; non vedevasi giugnere
l'armata ch'egli aveva annunciata, e cominciavasi a non dare più fede
alle sue parole. Don Sigismondo, testimonio della mala riuscita del suo
avversario, si fece ancor egli a chiamare i Ferraresi in ajuto del loro
sovrano. Corse il borgo del Leone, e la grande strada della Giudecca, e
tutti gli abitanti presero per lui le armi. Di mano in mano che Niccolò
vedeva ii popolo attrupparsi, egli abbandonava i quartieri della città
uno dopo l'altro senza venire alle mani. Finalmente riconoscendo la sua
impresa disperata, uscì di Ferrara, attraversò il Po e fuggì colla sua
gente. Ma i contadini, di già contro di lui sollevati, occupavano tutti
i passaggi per fermarlo. Egli cadde infatti in loro potere colla maggior
parte di coloro che lo accompagnavano, e fu ricondotto a Ferrara. Il
duca Ercole, suo zio, lo fece subito decapitare, e la stessa sorte toccò
ad Azzo d'Este suo cugino. Vennero appiccati venticinque de' suoi
complici; e così severa giustizia atterrì tutti i nemici del duca
Ercole, la di cui successione, assicurata lo stesso anno dalla nascita
di suo figlio Alfonso, più non venne in seguito contrastata[50].
[50] _Diario Ferrarese, t. XXIV, p. 250, 251. — Diario Sanese di
Allegretto Allegretti, t. XXIII, p. 776._ — Gio. Battista Pigna, che
nel 1572 dedicò la sua storia dei principi d'Este ad Alfonso II, la
chiude col 21 luglio del 1476, epoca della nascita del figlio
d'Ercole, che fu poi Alfonso I. Termina cinque settimane prima della
morte di Niccolò, ch'egli stesso indubitatamente risguarda come una
macchia alla memoria d'Ercole. Il Pigna è un adulatore de' suoi
principi, ed uno scrittore credulo; tutta la prima parte della sua
storia non è meno favolosa che la genealogia innestata, quasi nella
stessa epoca, dall'Ariosto e dal Tasso ne' loro poemi. Ma gli ultimi
quattro libri, che comprendono gli anni 1472 al 1476, sono di
grandissimo ajuto alla storia d'Italia: sono elegantemente scritti;
gli avvenimenti delle altre parti dell'Europa, ed in particolare
quelli che si riferiscono alla casa d'Este in Germania sono
introdotti con arte; e quando la gloria della casa d'Este non è
compromessa, i fatti vengono giudicati con abbastanza di buona
critica e d'imparzialità.
I primi movimenti contro Galeazzo Maria Sforza scoppiarono in Genova, e
furono quasi simultanei colla congiura di Ferrara. In forza del trattato
che Genova aveva fatto col duca Francesco Sforza, quando si pose sotto
la sua signoria, questa repubblica, lungi dal rinunciare alla sua
libertà, pareva averla vie meglio consolidata. Vero è che aveva ammessi
nelle sue mura un governatore ed una piccola guarnigione; ma questa
straniera forza era appena bastante per comprimere i tumultuosi
movimenti delle fazioni, per impedire quelle rivoluzioni, quelle
frequenti convulsioni, che ne' precedenti anni avevano esaurita la città
d'uomini e di danaro. Altronde il duca si era obbligato a non accrescere
il numero dei soldati, nè le fortificazioni della cittadella.
Riceveva annualmente da Genova un tributo di cinquanta mila ducati,
somma appena bastante al mantenimento della guardia della città e delle
fortezze. E non solo non aveva il diritto di accrescere questa
contribuzione, ma non poteva nemmeno immischiarsi nel modo di levarla.
Così non poteva aver parte alla legislazione, all'amministrazione della
giustizia, ed al governo interno della città[51].
[51] _Ant. Galli Comm. Rer. Gen. ab anno 1476 ad an. 1478, Rer.
Ital., t. XXII, p. 263._
Finchè visse Francesco Sforza, queste condizioni vennero religiosamente
mantenute; ma Galeazzo, suo figliuolo, era troppo volubile in tutti i
suoi progetti, troppo vano, troppo impetuoso per rispettare lungamente
le leggi cui erasi obbligato. Pure, perchè non era meno pusillanime che
arrogante, spesse volte si fermava nel corso di un'intrapresa ingiusta
ed offensiva, e cedeva al timore dopo di avere sprezzate le
rappresentanze del suo popolo. I Milanesi, tra i quali viveva, non solo
risentivano danno da' suoi difetti come sovrano, ma ancora da' suoi
privati vizj. La di lui dissolutezza sconvolgeva tutte le famiglie, e la
sua crudeltà, eccitata dalla più leggera resistenza, non era soddisfatta
che da spaventosi supplicj. Genova era, assai meno di Milano, esposta a
questa spicciolata tirannide, e sebbene fosse violato il contratto fra
il principe e la repubblica, e che perciò i Genovesi si risguardassero
come sciolti dai loro giuramenti, i più ricchi temevano una rivoluzione,
che poteva ruinarli assai più che i passaggeri abusi del potere cui
speravano di sottrarsi.
Non pertanto l'intera città parve vivamente offesa dal disprezzo che le
aveva mostrato Galeazzo, quando nel 1471 era passato per Genova,
tornando da quel suo sontuoso pellegrinaggio di Firenze. Eransi
apparecchiate per riceverlo splendidissime feste, magnifici regali. Egli
affettò di dare a questa pompa un'aria di ridicolo presentandosi con
abiti dimessi, ricusando gli alloggi che gli si erano apparecchiati, e
chiudendosi in castello, ove pareva rimanersi con timore. Per ultimo
alla fine dei tre giorni abbandonò Genova senza annunziarlo, come un
fuggiasco[52].
[52] _Ant. Galli de Rebus Gen. Comment., p. 265. — Uberti Folietae
Gen. Hist., l. XI, p. 625._
Dopo avere eccitato il malcontento di questa potente città, non
accostumata a soffrire i dileggi, Galeazzo ad altro non pensava che a
stringere talmente le di lei catene che vi si spegnesse per sempre ogni
spirito di libertà. Notabile è il progetto da lui immaginato per
giugnere a questo fine. Sopra Genova, all'estremità della scoscesa
montagna che divide le valli di Bisagno e della Polsevera, era situata
la fortezza del Castelletto, dove il duca di Milano teneva guarnigione.
Ordinò Galeazzo che una catena di fortificazioni si prolungasse da
questo castello fino al mare. Un doppio muro guarnito di ridotti doveva
dividere la città in due parti eguali, le quali, quando piacesse al
governatore, non avrebbero fra di loro veruna comunicazione, e
potrebbero essere separatamente oppresse. Di già tracciata sul terreno
era la linea delle mura e delle torri, e gli operai, sotto gli ordini
del luogotenente del duca ed alla di lui presenza, cominciavano a cavare
i fondamenti. Fremevano tutti i cittadini sulla sorte che loro era
riservata, ma niente facevano per prevenirla, quando Lazzaro Doria
ordinò agli operai, a nome della repubblica, di sospendere un lavoro
contrario alle leggi ed ai trattati, e strappò colle proprie mani le
pertiche del livello, che loro servivano di norma. La folla applaudì con
trasporto a quest'atto di vigore; gli operai si fermarono, ed il
luogotenente del duca, temendo una sollevazione, si ritirò nel
castello[53].
[53] _Pietro Bizarro S. P. Q. Genuens. Hist., l. XIV, p. 329. —
Agostini Giustiniani Storia di Genova, l. V, f. 228, EE._
Quando giunse a Milano la notizia di quest'avvenimento, Galeazzo Sforza
scoppiò in minacce ed in imprecazioni, ed ordinò che la città di Genova
gli mandasse subito gli otto più distinti cittadini dello stato. In
vista della violenta collera da lui manifestata, tenevasi per indubitato
che li destinasse al supplicio; ma un subito terrore aveva calmato il
suo irritamento: gli accolse con bontà e li rimandò senza aver loro
fatto alcun male. Frattanto aveva adunati trenta mila uomini per
invadere la Liguria; ed avendo determinato di non lasciare ai Genovesi
alcun capo, fece sorprendere a Vada Prospero Adorno, e senza accusa e
senza esame gettare nelle prigioni della fortezza di Cremona; ma tutt'ad
un tratto rinunciò alla sua spedizione, e licenziò tutte le truppe.
Le diverse risoluzioni a vicenda abbracciate da Galeazzo erano tutte a
Genova conosciute; conoscevasi la violenza della sua collera, ma non
avevasi veruna garanzia della durata della presente affettata
moderazione. Perciò da ogni banda si acquistavano armi, facevansi
apparecchi di difesa, e tutti si andavano incoraggiando a mantenere la
libertà qualunque volta fosse attaccata. Mentre tutto il popolo era
trepidante intorno a ciò che potesse accadere, Girolamo Gentile,
figliuolo d'Andrea, giovane mercante di non mediocri fortune, che non
aveva alcun personale motivo di odio contro il governo, risolse di
esporsi il primo per la libertà della sua patria. Adunò in casa sua nel
sobborgo, nel mese di giugno del 1476, molte genti armate. Nel cuore
della notte entrò in città per la porta di san Tommaso, di cui
s'impadronì, e corse le strade, chiamando i suoi concittadini alle armi
ed alla libertà. Molti Genovesi si unirono a lui, ed in breve occupò
tutte le porte; ma fu troppo lento ad attaccare il palazzo del pubblico.
Intanto i senatori si andavano adunando sotto la presidenza di Guido
Visconti, governatore della città. Coloro che si erano da principio
uniti a Gentile, temettero allora di essere condannati, come ribelli,
dall'autorità che riconoscevano legittima; e tutti, uno dopo l'altro, si
ritirarono prima che fosse giorno. Dopo la loro diserzione, vedendosi
Gentile troppo debole, ritirossi in buon ordine verso la porta di san
Tommaso e vi si fortificò[54].
[54] _Ant. Galli de Reb. Genuens., p. 267. — Uberti Folietae
Genuens. Hist., l. XI, p. 631. — P. Bizarri Hist. Genuens., l. XIV,
p. 332. — Agost. Giustinani, l. V, f. 229._
Il senato aveva nominati otto capitani del popolo per cacciare di città
Girolamo Gentile. Dietro i loro ordini avevano prese le armi circa
trecento uomini e marciavano ad attaccare porta san Tommaso, difesa da
Gentile con soli trenta uomini, tutti però determinati a difendersi fino
alla morte, mentre non era un solo tra i loro avversari che non si
esponesse di contro genio; quindi poco mancò che non fossero fatti
prigionieri i capitani del popolo, e dispersa tutta la loro gente: ma in
tale frangente si offrirono come mediatori i capi delle arti e mestieri.
Girolamo Gentile accettò la loro mediazione, facendo però sentire ai
loro compatriotti che non tarderebbero a pentirsi d'avere perduta
l'occasione di ricuperare la libertà. Chiese che gli si rimborsassero
settecento ducati, che gli erano costati i suoi apparecchi, fatti,
secondo egli diceva, pel vantaggio della repubblica. Dopo averli
ricevuti dal tesoriere del pubblico, consegnò la porta ai capitani del
popolo e si ritirò[55].
[55] _Ant. Galli de reb. Genuens. Comment., p. 268. — Uberti
Folietae Gen. Histor., l. XI, p. 632._
Quando conobbesi a Milano questa singolare capitolazione, Galeazzo
mostrossi fieramente adirato perchè si fosse rimborsato ad un capo di
faziosi quel danaro ch'egli stesso confessava d'avere impiegato per
isconvolgere lo stato. Non pertanto ratificò l'amnistia, ch'era stata
pubblicata dal senato; e se covava in segreto il pensiero di rivocare a
migliore opportunità questa grazia, non ebbe poi il tempo di farlo.
Galeazzo non era privo di tutte le qualità che illustrarono suo padre;
conosceva perfettamente la disciplina militare e la civile
amministrazione del suo stato; ed aveva saputo stabilire nel Milanese
una più rigorosa subordinazione che verun altro de' suoi predecessori. I
tribunali facevano incorrotta giustizia, ed una severa polizia manteneva
la pubblica sicurezza. Galeazzo parlava eloquentemente, ed aveva gentili
e disinvolte maniere, e quando lo voleva, sapeva ad un'imponente maestà
aggiugnere l'esteriore apparenza della bontà: ma ad un fasto stravagante
univa un'illimitata cupidigia; era naturalmente perfido, e compiacevasi
di mostrarsi tale particolarmente verso coloro, cui erasi mostrato più
parziale, abbassandoli tanto più, quanto gli aveva a maggiori dignità
innalzati; giammai non erasi mantenuto costante ne' suoi affetti, e
potevasi presagire prossima e terribile la caduta di colui che vedevasi
più favorito degli altri, ancor che questi non provocasse in verun modo
il suo sdegno. Avidissimo di tutti i piaceri de' sensi, ed inclinato a
disprezzare le costumanze e le leggi della società, portava la
desolazione ed il disonore in tutte le famiglie[56]; e non pareva pago
delle sue dissolutezze, se non erano condite dalla disperazione de'
genitori o dei mariti, che aveva disonorati. Compiacevasi singolarmente
nel farli ministri essi medesimi del loro disonore; abbandonava alle sue
guardie le consorti rapite ai mariti, e faceva poi pubblico il loro
oltraggio[57].
[56] _Ant. Galli de reb. Gen., p. 268. — Bern. Corio Ist. Milan., p.
VI, p. 982._
[57] _Allegretto Allegretti Diari Sanesi, t. XXIII, p. 777._
Tra coloro, le di cui case erano state da Galeazzo disonorate,
trovavansi due giovani di nobile schiatta, Carlo Visconti e Girolamo
Olgiati, di già predisposti dal loro precettore a detestare il giogo
della tirannide. Erano essi amicissimi di Andrea Lampugnani, che il duca
aveva ingiustamente spogliato del padronato dell'abbazia di
Miramondo[58]: tutti e tre avevano udite le lezioni di Cola de' Montani
di Gaggio, Bolognese, il quale circa il 1466 aveva aperta in Milano
scuola di eloquenza. Si pretende che fosse stato prima maestro dello
stesso Galeazzo, e che lo avesse più volte castigato colla severità
praticata nell'antica educazione. Galeazzo, diventato sovrano, volle
vendicarsi dei castighi sofferti nella sua infanzia con un'egual pena, e
fece pubblicamente sferzare il maestro[59][60]. Montano detestava la
tirannide anche senza quest'affronto. Nodrito nello studio
dell'antichità, non trascurava veruna occasione di far notare ai suoi
allievi, che tutte le virtù, ch'essi ammiravano ne' grandi uomini Greci
e Romani, eransi sviluppate nella libertà; che una libera patria
incoraggiava tutti i talenti, ogni genere d'energia, ed i progressi
dello spirito, perchè ogni specie di grandezza ne' suoi cittadini veniva
sempre impiegata pel vantaggio di tutti; mentre che un tiranno, geloso
di ogni forza, di cui non potesse egli stesso disporre, occupavasi
sempre a contenere, a comprimere, a distruggere i talenti, l'energia, la
sublimità del carattere, che poteva un giorno adoperarsi contro di
lui[61].
[58] _Machiavelli, l. VII, p. 349. — Allegretti Diari Sanesi, l.
XXIII, p. 777. — Diario Ferrarese, t. XXIV, p. 254._ Ma il Ripamonti
attribuisce al Visconti ciò che gli altri attribuiscono al
Lampugnani. _Hist. Mediol., l. VI, p. 630._
[59] _Giovio elogi degli uomini illustri, l. III, p. 179. —
Tiraboschi, l. III, c. V, § 28, p. 95._
[60] Ecco una riprova di quanto ho avvertito in una precedente nota,
che le particolari passioni di odio e di vendetta sono d'ordinario
la vera causa delle congiure. _N. d. T._
[61] _Machiavelli, l. VII, p. 348. — Ubertus Folieta, l. XI, p.
632._
Voleva il Montani che i giovani gentiluomini, per rendersi degni della
libertà, imparassero a comandare le armate. Aveva perciò persuasi
l'Olgiati ed alcuni altri ad imparare l'arte della guerra sotto
Bartolommeo Coleoni. I parenti di questi giovanetti, che più di loro
temevano le fatiche ed i pericoli, eransi fieramente adirati contro il
maestro d'eloquenza, che aveva renduti soldati i loro figli. Il Montani,
perseguitato dai genitori, favoreggiato dagli scolari, era stato a
vicenda esiliato, e richiamato; imprigionato, indi festeggiato; ma in
particolar modo renduto caro ai suoi discepoli dalle persecuzioni che
sostenute aveva per istruirli[62].
[62] _Tiraboschi Stor. della Letter. Ital., l. III, c. V, § 28, p.
956._
Frattanto Galeazzo aveva spinto all'estremo l'odio del popolo coi
crudeli supplicj nuovamente ordinati. Aveva fatte seppellir vive alcune
sue vittime, altre sforzate ad alimentarsi d'escrementi umani, ed in tal
modo fatte lentamente morire; aveva aggiunte feroci facezie ai supplicj
che ordinava, e renduto più infame il disonore delle nobili matrone che
aveva sedotte, prostituendole pubblicamente[63]. Girolamo Olgiati
contava una sua in addietro carissima sorella tra le vittime della
brutalità di Galeazzo. Misurando colla propria l'universale
indignazione, cercò il Lampugnani, e gli propose di mettere fine ad una
intollerabile tirannide col punire i delitti dello Sforza. Poco dopo si
associarono Carlo Visconti, e si obbligarono con vicendevoli giuramenti.
Tennero la prima loro conferenza ne' giardini di sant'Ambrogio. Tutte le
circostanze di quest'avvenimento, e ciò che è più notabile, tutti i
concetti del principale congiurato, ci vennero fedelmente conservati dal
medesimo Olgiati in una relazione scritta pochi giorni dopo. «Uscendo da
questa conferenza, egli scrive, entrai in Chiesa; mi gettai ai piedi
della statua del santo vescovo che vi si venera, e feci questa
preghiera: Grande sant'Ambrogio, sostegno di questa città, speranza e
tutela del popolo di Milano, se il progetto che formarono i tuoi
concittadini, i tuoi figliuoli per cacciare di qui la tirannide,
l'impurità, la dissolutezza più mostruosa, è degno della tua
approvazione, non ci manchi il tuo favore in mezzo agli accidenti ed i
Maometto II nel 1474, avrebbe dovuto aprir loro gli occhi sul
pericolo. L'occupazione di Caffa sparse in tutto il Settentrione la
più grande costernazione, perciocchè questa città era il solo punto
di comunicazione tra gli Europei ed i Persiani, egualmente nemici
de' Turchi, e che sentivano il bisogno di concertare le loro
operazioni. _Dlugoss Hist. Polon. l. XIII, p. 533._ Mengili Gierai,
il quale fu trovato da Achmet Giedik in Caffa, ove erasi rifugiato
sotto la protezione dei Genovesi, e che allora ebbe da Maometto II
un'armata con cui vinse suo fratello, fu il primo kan dei Tartari
che ricevesse l'investitura dai Turchi, e che facesse recitare nelle
pubbliche preghiere il nome del sultano. _Demetrius Kantemir. Hist.
Ottom., l. III, c. 1, § 28, p. 111._
Dal canto dell'Ungheria Mattia Corvino non corrispose alle calde premure
de' Veneziani, e non tentò veruna importante diversione. Pure in questo
stesso anno prese la fortezza di Schabatz, che minacciava il Sirmio, ma
non portò più in là le sue armi[44]. Da ogni banda, sia presso i
Musulmani che presso i Cristiani, i popoli trovavansi estenuati da così
lunga guerra, e verun vigoroso sforzo prenunciava più grandi
avvenimenti.
[44] _Ann. Eccl. 1475, § 28, p. 262._
CAPITOLO LXXXIV.
_Congiura di Niccola d'Este a Ferrara; di Girolamo Gentile a
Genova; d'Olgiati, Visconti e Lampugnani a Milano. Rivoluzioni
nello stato di Milano dopo la morte di Galeazzo Sforza_.
1476 = 1477.
Mentre la guerra si andava al di fuori rallentando, e che i diversi
stati d'Italia erano uniti da alleanze, che sembravano dover guarentire
la pace fra di loro, l'interna loro costituzione venne replicatamente
scossa da molte cospirazioni. In tre anni contansene, una a Ferrara, due
a Genova, una a Milano ed una a Firenze. Pareva che i popoli, finalmente
stanchi dell'oppressione sotto la quale tanto avevano sofferto, fossero
determinati di spezzare un indegno giogo; ma non pertanto ricaddero
dovunque sotto la catena che gli aveva oppressi. Non mancarono ai
cospiratori nè segreto, nè ardire, nè fedeltà; tutti eseguirono ciò che
avevano progettato, niuno ne raccolse il frutto: tanto è difficile di
rovesciare un governo esistente, e tanto l'abitudine dell'ubbidire
sostiene la potenza ancora del più odiato tiranno[45]! Odesi spesso
accusarsi una nazione di debolezza e di pusillanimità, in ragione del
giogo ond'è stata oppressa. Quando vedonsi migliaja d'uomini ubbidire
contro l'interesse loro, contro il loro sentimento ad un solo, quando si
vedono sottostare ai capricci ch'essi detestano, o diventare gli
strumenti delle passioni che essi hanno in orrore, non possiamo non
rimproverar loro di servire ove potrebbero comandare, e di non misurare
le forze loro colla individuale debolezza di colui ch'essi temono.
Sarebbe infatti vantaggioso che questo pregiudizio si stabilisse
nell'opinione, e che la vergogna si associasse alla servitù. Forse i
popoli farebbero allora per l'onore ciò che non fanno per la
libertà[46]. Pure ingiustizia sarebbe il condannare una nazione soltanto
a motivo del giogo che ha sopportato. Trovasi tanta potenza
nell'organizzazione sociale, le forze di tutti sono così ben dirette dal
despota contro ogni individuo, che per poco che questi o il suo ministro
sia destro, coraggioso, vigilante, è sempre in tempo d'opprimere i suoi
scoperti nemici col braccio medesimo de' suoi segreti nemici; in modo
che la più nobile e più generosa nazione non è bastantemente forte per
difendersi scopertamente dal suo tiranno. È dato solamente di poter
congiurare a colui che co' deboli suoi mezzi personali vuole lottare
coll'uomo che dispone della polizia, dell'armata, del tesoro. Molti,
cedendo ad una nobile ripugnanza, rifuggono da tale intrapresa, perchè
vi scorgono qualche apparenza di dissimulazione e di tradimento; non
riconoscono che l'estremo pericolo nobilita i mezzi meno virtuosi, e che
l'assassino di un tiranno dev'essere più coraggioso assai, che il
granatiere che prende una batteria colla bajonetta. Per altro
quest'opinione indebolisce ancora il partito de' cospiratori; spesso
allontana da loro, nell'istante del pericolo, quelli che il giorno
innanzi parevano partecipare ai sentimenti loro; e l'uomo coraggioso,
che si è fatto l'organo delle volontà di tutto un popolo, e lo strumento
delle sue vendette, perisce sul patibolo per le mani di quei medesimi
ch'egli servì[47].
[45] _Tutti eseguirono ciò che avevano progettato, niuno ne raccolse
il frutto_; quale più utile lezione di questa per convincere
gl'incauti che pensassero di tentare novità contro uno stato
qualunque! _N. d. T._
[46] L'autore, che altrove conosce per legittime le tre specie di
governo ammesse da Aristotele, ed in particolare il governo
monarchico che si mantiene con buone e sagge leggi fatte pel bene
de' suoi popoli, è cosa manifesta, che qui non parla che de' governi
rigorosamente chiamati tirannici; e sarebbe assurdo il credere che
chiamasse vergognosa la servitù, o per meglio dire sudditanza verso
il pacato governo di una monarchia legittima, e la di cui
successione è regolata da leggi riconosciute universalmente; il che
certamente non accadeva ne' principati che precedettero il XIV
secolo in Italia, tranne quello della santa sede, del Monferrato,
ec. _N. d. T._
[47] Ecco l'indubitata sorte del cospiratore. È stato dai politici
osservato, che le congiure dei pochi non riescono, perchè allora le
forze dei cospiratori sono deboli, e che le congiure, dove prendono
parte molti complici, vengono scoperte prima che abbiano esecuzione.
Dunque, dice il nostro autore, non è dato di congiurare che
all'individuo. Ma l'individuo non sarà mai il rappresentante della
volontà del popolo, che anzi quasi tutti gli esempi di antiche e
moderne cospirazioni individuali ci dimostrano, che personale odio e
desiderio di privata vendetta pongono il pugnale in mano del
cospiratore, non il desiderio di rendersi utile alla patria, che non
può non detestare colui che turba l'ordine e la tranquillità del
governo. _N. d. T._
La storia d'Italia, ove gli avvenimenti si presentano e si accumulano,
ove tutte le passioni hanno libero sfogo, ove tutte le instituzioni si
combinano in mille modi, ci presenta sotto variate forme questi sforzi
dei popoli e degl'individui per iscuotere il giogo della tirannide. Noi
vi vediamo a vicenda aperte ribellioni e congiure; vediamo cospirare a
vicenda a favore d'una stirpe reale, o di un sovrano risguardato come
più legittimo, ed in favore della repubblica; vi vediamo tutte le lotte,
quella della sublime lealtà, quella della fiera nobiltà e quella della
libertà. Malgrado i diversi principj che servono di fondamento alla
politica d'ogni uomo, non avvene alcuno, che non debba in così vasto
numero di cospirazioni trovarne una che non gli sembri legittima; non
avvene alcuno, che non debba associarsi di cuore a qualcuna delle
intraprese tendenti a rimettere o il governo reale dell'antica dinastia,
o la vecchia aristocrazia, o la libertà, o il regno glorioso d'un
condottiere, o il dominio della Chiesa; non avvene alcuno, che ardisca
considerare il potere, qualunque egli siasi, come sempre ugualmente
sacro; ed un più liberale sentimento dovrebbe insegnargli, che tutte le
congiure meritano un certo grado d'ammirazione[48], quando ancora
appariscono colpevoli ai suoi occhi, per lo scopo che si propongono i
congiurati; imperciocchè in tutte si trova un grande sagrificio di sè
medesimo ad un interesse più sublime di sè, un grande sagrificio della
sua persona ad una nobile causa, un grande spaventoso pericolo, posto in
non cale a fronte di lontane speranze[49].
[48] Ciò sarà, quando uno cospira contro un usurpatore a favore del
legittimo antico governo, che per secoli aveva formata la felicità
d'un popolo, ma non quando la cospirazione tende a rovesciare il
legittimo regnante per sostituirvi l'anarchia o un tiranno. _N. d.
T._
[49] Le difficoltà infinite che incontra il cospiratore, l'evidente
pericolo di morte, ed anche d'infamia pubblica per le arti del
tradimento che è forzato usare, devono ritrarre chiunque da così
enorme attentato; ed il nostro autore, ponendo in vista al lettore
tutti questi pericoli, le difficoltà e la mala riuscita che le
congiure sortono quasi sempre, tende ad incutere un salutare terrore
in chiunque osasse soltanto pensare a fare novità contro uno stabile
legittimo governo. _N. d. T._
Tra le congiure che scossero l'Italia nel 1476, la prima a scoppiare fu
quella di Ferrara. Niccolò d'Este, figlio del marchese Lionello, viveva
in allora a Mantova presso suo cognato; molti emigrati ferraresi lo
avevano seguito, risguardandolo come il rappresentante ed il legittimo
erede di Lionello e di Borso, i due più amabili principi che avesse fin
allora prodotti la casa d'Este, e gli andavano insinuando che tutto il
popolo era partecipe del loro attaccamento e del loro rammarico. In ciò
confidando, Niccolò cercava i mezzi di rientrare in Ferrara, non
dubitando, che, ove giugnesse una volta a superare le mura della città,
non fosse da tutto il popolo salutato per sovrano. Il marchese di
Mantova, suo cognato, permettevagli d'adunare soldati nel suo
territorio, e Galeazzo Sforza, sempre geloso de' suoi vicini, sebbene
non covasse verun progetto contro di loro, gli somministrava danaro, e
prometteva soccorsi. Frattanto la città di Ferrara trovavasi
accidentalmente aperta; eransi in più luoghi atterrate le sue mura, per
rifabbricarle dietro un nuovo piano; e Niccolò aveva ogni giorno fedeli
avvisi di ciò che facevasi nella corte di suo zio. Seppe che il primo
settembre del 1746 Ercole uscirebbe di buon mattino di città per recarsi
alla sua casa di Belriguardo; e lo stesso giorno giunse da Mantova a
Ferrara con cinque vascelli aventi a bordo cinquecento uomini
d'infanteria; entrò per la breccia, che aprivasi nelle mura di mano in
mano che si andavano rifacendo, e corse subito le strade, facendo
ripetere innanzi a lui il suo grido di guerra: _La vela!_ In pari tempo
promise al popolo di rendergli l'abbondanza, mentre che la cattiva
amministrazione d'Ercole aveva fatto crescere il prezzo del frumento;
annunciò l'arrivo di quattordici mila uomini, che gli avevano dati per
quest'intrapresa il duca di Milano ed il marchese di Mantova, ed invitò
i cittadini a prendere le armi, senza aspettare che le truppe straniere
gli sforzassero a riconoscerlo per loro legittimo sovrano.
Don Sigismondo, fratello del duca, al primo sentore di questo tumulto,
erasi frettolosamente chiuso in Castelvecchio con donna Leonora
d'Arragona sua sposa; ma non vi aveva vittovaglie per tre giorni.
Ercole, cui alcuni fuggiaschi avevano annunciato l'ingresso in Ferrara
di una numerosa armata, omai rinunciava alla speranza di riprendere la
città, ed adunava soltanto i suoi soldati a Reggenta ed a Lugo per
difendere queste due fortezze. Intanto niun Ferrarese aveva ancora prese
le armi per unirsi a Niccolò, il quale vedendo d'aver corse invano tutte
le strade, chiamando il popolo in suo soccorso senza che alcuno si
muovesse, cominciava a scoraggiarsi. Eransi contati i soldati che lo
seguivano, e sprezzavasi il loro piccolo numero; non vedevasi giugnere
l'armata ch'egli aveva annunciata, e cominciavasi a non dare più fede
alle sue parole. Don Sigismondo, testimonio della mala riuscita del suo
avversario, si fece ancor egli a chiamare i Ferraresi in ajuto del loro
sovrano. Corse il borgo del Leone, e la grande strada della Giudecca, e
tutti gli abitanti presero per lui le armi. Di mano in mano che Niccolò
vedeva ii popolo attrupparsi, egli abbandonava i quartieri della città
uno dopo l'altro senza venire alle mani. Finalmente riconoscendo la sua
impresa disperata, uscì di Ferrara, attraversò il Po e fuggì colla sua
gente. Ma i contadini, di già contro di lui sollevati, occupavano tutti
i passaggi per fermarlo. Egli cadde infatti in loro potere colla maggior
parte di coloro che lo accompagnavano, e fu ricondotto a Ferrara. Il
duca Ercole, suo zio, lo fece subito decapitare, e la stessa sorte toccò
ad Azzo d'Este suo cugino. Vennero appiccati venticinque de' suoi
complici; e così severa giustizia atterrì tutti i nemici del duca
Ercole, la di cui successione, assicurata lo stesso anno dalla nascita
di suo figlio Alfonso, più non venne in seguito contrastata[50].
[50] _Diario Ferrarese, t. XXIV, p. 250, 251. — Diario Sanese di
Allegretto Allegretti, t. XXIII, p. 776._ — Gio. Battista Pigna, che
nel 1572 dedicò la sua storia dei principi d'Este ad Alfonso II, la
chiude col 21 luglio del 1476, epoca della nascita del figlio
d'Ercole, che fu poi Alfonso I. Termina cinque settimane prima della
morte di Niccolò, ch'egli stesso indubitatamente risguarda come una
macchia alla memoria d'Ercole. Il Pigna è un adulatore de' suoi
principi, ed uno scrittore credulo; tutta la prima parte della sua
storia non è meno favolosa che la genealogia innestata, quasi nella
stessa epoca, dall'Ariosto e dal Tasso ne' loro poemi. Ma gli ultimi
quattro libri, che comprendono gli anni 1472 al 1476, sono di
grandissimo ajuto alla storia d'Italia: sono elegantemente scritti;
gli avvenimenti delle altre parti dell'Europa, ed in particolare
quelli che si riferiscono alla casa d'Este in Germania sono
introdotti con arte; e quando la gloria della casa d'Este non è
compromessa, i fatti vengono giudicati con abbastanza di buona
critica e d'imparzialità.
I primi movimenti contro Galeazzo Maria Sforza scoppiarono in Genova, e
furono quasi simultanei colla congiura di Ferrara. In forza del trattato
che Genova aveva fatto col duca Francesco Sforza, quando si pose sotto
la sua signoria, questa repubblica, lungi dal rinunciare alla sua
libertà, pareva averla vie meglio consolidata. Vero è che aveva ammessi
nelle sue mura un governatore ed una piccola guarnigione; ma questa
straniera forza era appena bastante per comprimere i tumultuosi
movimenti delle fazioni, per impedire quelle rivoluzioni, quelle
frequenti convulsioni, che ne' precedenti anni avevano esaurita la città
d'uomini e di danaro. Altronde il duca si era obbligato a non accrescere
il numero dei soldati, nè le fortificazioni della cittadella.
Riceveva annualmente da Genova un tributo di cinquanta mila ducati,
somma appena bastante al mantenimento della guardia della città e delle
fortezze. E non solo non aveva il diritto di accrescere questa
contribuzione, ma non poteva nemmeno immischiarsi nel modo di levarla.
Così non poteva aver parte alla legislazione, all'amministrazione della
giustizia, ed al governo interno della città[51].
[51] _Ant. Galli Comm. Rer. Gen. ab anno 1476 ad an. 1478, Rer.
Ital., t. XXII, p. 263._
Finchè visse Francesco Sforza, queste condizioni vennero religiosamente
mantenute; ma Galeazzo, suo figliuolo, era troppo volubile in tutti i
suoi progetti, troppo vano, troppo impetuoso per rispettare lungamente
le leggi cui erasi obbligato. Pure, perchè non era meno pusillanime che
arrogante, spesse volte si fermava nel corso di un'intrapresa ingiusta
ed offensiva, e cedeva al timore dopo di avere sprezzate le
rappresentanze del suo popolo. I Milanesi, tra i quali viveva, non solo
risentivano danno da' suoi difetti come sovrano, ma ancora da' suoi
privati vizj. La di lui dissolutezza sconvolgeva tutte le famiglie, e la
sua crudeltà, eccitata dalla più leggera resistenza, non era soddisfatta
che da spaventosi supplicj. Genova era, assai meno di Milano, esposta a
questa spicciolata tirannide, e sebbene fosse violato il contratto fra
il principe e la repubblica, e che perciò i Genovesi si risguardassero
come sciolti dai loro giuramenti, i più ricchi temevano una rivoluzione,
che poteva ruinarli assai più che i passaggeri abusi del potere cui
speravano di sottrarsi.
Non pertanto l'intera città parve vivamente offesa dal disprezzo che le
aveva mostrato Galeazzo, quando nel 1471 era passato per Genova,
tornando da quel suo sontuoso pellegrinaggio di Firenze. Eransi
apparecchiate per riceverlo splendidissime feste, magnifici regali. Egli
affettò di dare a questa pompa un'aria di ridicolo presentandosi con
abiti dimessi, ricusando gli alloggi che gli si erano apparecchiati, e
chiudendosi in castello, ove pareva rimanersi con timore. Per ultimo
alla fine dei tre giorni abbandonò Genova senza annunziarlo, come un
fuggiasco[52].
[52] _Ant. Galli de Rebus Gen. Comment., p. 265. — Uberti Folietae
Gen. Hist., l. XI, p. 625._
Dopo avere eccitato il malcontento di questa potente città, non
accostumata a soffrire i dileggi, Galeazzo ad altro non pensava che a
stringere talmente le di lei catene che vi si spegnesse per sempre ogni
spirito di libertà. Notabile è il progetto da lui immaginato per
giugnere a questo fine. Sopra Genova, all'estremità della scoscesa
montagna che divide le valli di Bisagno e della Polsevera, era situata
la fortezza del Castelletto, dove il duca di Milano teneva guarnigione.
Ordinò Galeazzo che una catena di fortificazioni si prolungasse da
questo castello fino al mare. Un doppio muro guarnito di ridotti doveva
dividere la città in due parti eguali, le quali, quando piacesse al
governatore, non avrebbero fra di loro veruna comunicazione, e
potrebbero essere separatamente oppresse. Di già tracciata sul terreno
era la linea delle mura e delle torri, e gli operai, sotto gli ordini
del luogotenente del duca ed alla di lui presenza, cominciavano a cavare
i fondamenti. Fremevano tutti i cittadini sulla sorte che loro era
riservata, ma niente facevano per prevenirla, quando Lazzaro Doria
ordinò agli operai, a nome della repubblica, di sospendere un lavoro
contrario alle leggi ed ai trattati, e strappò colle proprie mani le
pertiche del livello, che loro servivano di norma. La folla applaudì con
trasporto a quest'atto di vigore; gli operai si fermarono, ed il
luogotenente del duca, temendo una sollevazione, si ritirò nel
castello[53].
[53] _Pietro Bizarro S. P. Q. Genuens. Hist., l. XIV, p. 329. —
Agostini Giustiniani Storia di Genova, l. V, f. 228, EE._
Quando giunse a Milano la notizia di quest'avvenimento, Galeazzo Sforza
scoppiò in minacce ed in imprecazioni, ed ordinò che la città di Genova
gli mandasse subito gli otto più distinti cittadini dello stato. In
vista della violenta collera da lui manifestata, tenevasi per indubitato
che li destinasse al supplicio; ma un subito terrore aveva calmato il
suo irritamento: gli accolse con bontà e li rimandò senza aver loro
fatto alcun male. Frattanto aveva adunati trenta mila uomini per
invadere la Liguria; ed avendo determinato di non lasciare ai Genovesi
alcun capo, fece sorprendere a Vada Prospero Adorno, e senza accusa e
senza esame gettare nelle prigioni della fortezza di Cremona; ma tutt'ad
un tratto rinunciò alla sua spedizione, e licenziò tutte le truppe.
Le diverse risoluzioni a vicenda abbracciate da Galeazzo erano tutte a
Genova conosciute; conoscevasi la violenza della sua collera, ma non
avevasi veruna garanzia della durata della presente affettata
moderazione. Perciò da ogni banda si acquistavano armi, facevansi
apparecchi di difesa, e tutti si andavano incoraggiando a mantenere la
libertà qualunque volta fosse attaccata. Mentre tutto il popolo era
trepidante intorno a ciò che potesse accadere, Girolamo Gentile,
figliuolo d'Andrea, giovane mercante di non mediocri fortune, che non
aveva alcun personale motivo di odio contro il governo, risolse di
esporsi il primo per la libertà della sua patria. Adunò in casa sua nel
sobborgo, nel mese di giugno del 1476, molte genti armate. Nel cuore
della notte entrò in città per la porta di san Tommaso, di cui
s'impadronì, e corse le strade, chiamando i suoi concittadini alle armi
ed alla libertà. Molti Genovesi si unirono a lui, ed in breve occupò
tutte le porte; ma fu troppo lento ad attaccare il palazzo del pubblico.
Intanto i senatori si andavano adunando sotto la presidenza di Guido
Visconti, governatore della città. Coloro che si erano da principio
uniti a Gentile, temettero allora di essere condannati, come ribelli,
dall'autorità che riconoscevano legittima; e tutti, uno dopo l'altro, si
ritirarono prima che fosse giorno. Dopo la loro diserzione, vedendosi
Gentile troppo debole, ritirossi in buon ordine verso la porta di san
Tommaso e vi si fortificò[54].
[54] _Ant. Galli de Reb. Genuens., p. 267. — Uberti Folietae
Genuens. Hist., l. XI, p. 631. — P. Bizarri Hist. Genuens., l. XIV,
p. 332. — Agost. Giustinani, l. V, f. 229._
Il senato aveva nominati otto capitani del popolo per cacciare di città
Girolamo Gentile. Dietro i loro ordini avevano prese le armi circa
trecento uomini e marciavano ad attaccare porta san Tommaso, difesa da
Gentile con soli trenta uomini, tutti però determinati a difendersi fino
alla morte, mentre non era un solo tra i loro avversari che non si
esponesse di contro genio; quindi poco mancò che non fossero fatti
prigionieri i capitani del popolo, e dispersa tutta la loro gente: ma in
tale frangente si offrirono come mediatori i capi delle arti e mestieri.
Girolamo Gentile accettò la loro mediazione, facendo però sentire ai
loro compatriotti che non tarderebbero a pentirsi d'avere perduta
l'occasione di ricuperare la libertà. Chiese che gli si rimborsassero
settecento ducati, che gli erano costati i suoi apparecchi, fatti,
secondo egli diceva, pel vantaggio della repubblica. Dopo averli
ricevuti dal tesoriere del pubblico, consegnò la porta ai capitani del
popolo e si ritirò[55].
[55] _Ant. Galli de reb. Genuens. Comment., p. 268. — Uberti
Folietae Gen. Histor., l. XI, p. 632._
Quando conobbesi a Milano questa singolare capitolazione, Galeazzo
mostrossi fieramente adirato perchè si fosse rimborsato ad un capo di
faziosi quel danaro ch'egli stesso confessava d'avere impiegato per
isconvolgere lo stato. Non pertanto ratificò l'amnistia, ch'era stata
pubblicata dal senato; e se covava in segreto il pensiero di rivocare a
migliore opportunità questa grazia, non ebbe poi il tempo di farlo.
Galeazzo non era privo di tutte le qualità che illustrarono suo padre;
conosceva perfettamente la disciplina militare e la civile
amministrazione del suo stato; ed aveva saputo stabilire nel Milanese
una più rigorosa subordinazione che verun altro de' suoi predecessori. I
tribunali facevano incorrotta giustizia, ed una severa polizia manteneva
la pubblica sicurezza. Galeazzo parlava eloquentemente, ed aveva gentili
e disinvolte maniere, e quando lo voleva, sapeva ad un'imponente maestà
aggiugnere l'esteriore apparenza della bontà: ma ad un fasto stravagante
univa un'illimitata cupidigia; era naturalmente perfido, e compiacevasi
di mostrarsi tale particolarmente verso coloro, cui erasi mostrato più
parziale, abbassandoli tanto più, quanto gli aveva a maggiori dignità
innalzati; giammai non erasi mantenuto costante ne' suoi affetti, e
potevasi presagire prossima e terribile la caduta di colui che vedevasi
più favorito degli altri, ancor che questi non provocasse in verun modo
il suo sdegno. Avidissimo di tutti i piaceri de' sensi, ed inclinato a
disprezzare le costumanze e le leggi della società, portava la
desolazione ed il disonore in tutte le famiglie[56]; e non pareva pago
delle sue dissolutezze, se non erano condite dalla disperazione de'
genitori o dei mariti, che aveva disonorati. Compiacevasi singolarmente
nel farli ministri essi medesimi del loro disonore; abbandonava alle sue
guardie le consorti rapite ai mariti, e faceva poi pubblico il loro
oltraggio[57].
[56] _Ant. Galli de reb. Gen., p. 268. — Bern. Corio Ist. Milan., p.
VI, p. 982._
[57] _Allegretto Allegretti Diari Sanesi, t. XXIII, p. 777._
Tra coloro, le di cui case erano state da Galeazzo disonorate,
trovavansi due giovani di nobile schiatta, Carlo Visconti e Girolamo
Olgiati, di già predisposti dal loro precettore a detestare il giogo
della tirannide. Erano essi amicissimi di Andrea Lampugnani, che il duca
aveva ingiustamente spogliato del padronato dell'abbazia di
Miramondo[58]: tutti e tre avevano udite le lezioni di Cola de' Montani
di Gaggio, Bolognese, il quale circa il 1466 aveva aperta in Milano
scuola di eloquenza. Si pretende che fosse stato prima maestro dello
stesso Galeazzo, e che lo avesse più volte castigato colla severità
praticata nell'antica educazione. Galeazzo, diventato sovrano, volle
vendicarsi dei castighi sofferti nella sua infanzia con un'egual pena, e
fece pubblicamente sferzare il maestro[59][60]. Montano detestava la
tirannide anche senza quest'affronto. Nodrito nello studio
dell'antichità, non trascurava veruna occasione di far notare ai suoi
allievi, che tutte le virtù, ch'essi ammiravano ne' grandi uomini Greci
e Romani, eransi sviluppate nella libertà; che una libera patria
incoraggiava tutti i talenti, ogni genere d'energia, ed i progressi
dello spirito, perchè ogni specie di grandezza ne' suoi cittadini veniva
sempre impiegata pel vantaggio di tutti; mentre che un tiranno, geloso
di ogni forza, di cui non potesse egli stesso disporre, occupavasi
sempre a contenere, a comprimere, a distruggere i talenti, l'energia, la
sublimità del carattere, che poteva un giorno adoperarsi contro di
lui[61].
[58] _Machiavelli, l. VII, p. 349. — Allegretti Diari Sanesi, l.
XXIII, p. 777. — Diario Ferrarese, t. XXIV, p. 254._ Ma il Ripamonti
attribuisce al Visconti ciò che gli altri attribuiscono al
Lampugnani. _Hist. Mediol., l. VI, p. 630._
[59] _Giovio elogi degli uomini illustri, l. III, p. 179. —
Tiraboschi, l. III, c. V, § 28, p. 95._
[60] Ecco una riprova di quanto ho avvertito in una precedente nota,
che le particolari passioni di odio e di vendetta sono d'ordinario
la vera causa delle congiure. _N. d. T._
[61] _Machiavelli, l. VII, p. 348. — Ubertus Folieta, l. XI, p.
632._
Voleva il Montani che i giovani gentiluomini, per rendersi degni della
libertà, imparassero a comandare le armate. Aveva perciò persuasi
l'Olgiati ed alcuni altri ad imparare l'arte della guerra sotto
Bartolommeo Coleoni. I parenti di questi giovanetti, che più di loro
temevano le fatiche ed i pericoli, eransi fieramente adirati contro il
maestro d'eloquenza, che aveva renduti soldati i loro figli. Il Montani,
perseguitato dai genitori, favoreggiato dagli scolari, era stato a
vicenda esiliato, e richiamato; imprigionato, indi festeggiato; ma in
particolar modo renduto caro ai suoi discepoli dalle persecuzioni che
sostenute aveva per istruirli[62].
[62] _Tiraboschi Stor. della Letter. Ital., l. III, c. V, § 28, p.
956._
Frattanto Galeazzo aveva spinto all'estremo l'odio del popolo coi
crudeli supplicj nuovamente ordinati. Aveva fatte seppellir vive alcune
sue vittime, altre sforzate ad alimentarsi d'escrementi umani, ed in tal
modo fatte lentamente morire; aveva aggiunte feroci facezie ai supplicj
che ordinava, e renduto più infame il disonore delle nobili matrone che
aveva sedotte, prostituendole pubblicamente[63]. Girolamo Olgiati
contava una sua in addietro carissima sorella tra le vittime della
brutalità di Galeazzo. Misurando colla propria l'universale
indignazione, cercò il Lampugnani, e gli propose di mettere fine ad una
intollerabile tirannide col punire i delitti dello Sforza. Poco dopo si
associarono Carlo Visconti, e si obbligarono con vicendevoli giuramenti.
Tennero la prima loro conferenza ne' giardini di sant'Ambrogio. Tutte le
circostanze di quest'avvenimento, e ciò che è più notabile, tutti i
concetti del principale congiurato, ci vennero fedelmente conservati dal
medesimo Olgiati in una relazione scritta pochi giorni dopo. «Uscendo da
questa conferenza, egli scrive, entrai in Chiesa; mi gettai ai piedi
della statua del santo vescovo che vi si venera, e feci questa
preghiera: Grande sant'Ambrogio, sostegno di questa città, speranza e
tutela del popolo di Milano, se il progetto che formarono i tuoi
concittadini, i tuoi figliuoli per cacciare di qui la tirannide,
l'impurità, la dissolutezza più mostruosa, è degno della tua
approvazione, non ci manchi il tuo favore in mezzo agli accidenti ed i
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