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Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 11 (of 16) - 03

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   tartari loro vicini. La conquista della Bessarabia, fatta da
   Maometto II nel 1474, avrebbe dovuto aprir loro gli occhi sul
   pericolo. L'occupazione di Caffa sparse in tutto il Settentrione la
   più grande costernazione, perciocchè questa città era il solo punto
   di comunicazione tra gli Europei ed i Persiani, egualmente nemici
   de' Turchi, e che sentivano il bisogno di concertare le loro
   operazioni. _Dlugoss Hist. Polon. l. XIII, p. 533._ Mengili Gierai,
   il quale fu trovato da Achmet Giedik in Caffa, ove erasi rifugiato
   sotto la protezione dei Genovesi, e che allora ebbe da Maometto II
   un'armata con cui vinse suo fratello, fu il primo kan dei Tartari
   che ricevesse l'investitura dai Turchi, e che facesse recitare nelle
   pubbliche preghiere il nome del sultano. _Demetrius Kantemir. Hist.
   Ottom., l. III, c. 1, § 28, p. 111._
  Dal canto dell'Ungheria Mattia Corvino non corrispose alle calde premure
  de' Veneziani, e non tentò veruna importante diversione. Pure in questo
  stesso anno prese la fortezza di Schabatz, che minacciava il Sirmio, ma
  non portò più in là le sue armi[44]. Da ogni banda, sia presso i
  Musulmani che presso i Cristiani, i popoli trovavansi estenuati da così
  lunga guerra, e verun vigoroso sforzo prenunciava più grandi
  avvenimenti.
   [44] _Ann. Eccl. 1475, § 28, p. 262._
  
  
  CAPITOLO LXXXIV.
   _Congiura di Niccola d'Este a Ferrara; di Girolamo Gentile a
   Genova; d'Olgiati, Visconti e Lampugnani a Milano. Rivoluzioni
   nello stato di Milano dopo la morte di Galeazzo Sforza_.
  1476 = 1477.
  
  Mentre la guerra si andava al di fuori rallentando, e che i diversi
  stati d'Italia erano uniti da alleanze, che sembravano dover guarentire
  la pace fra di loro, l'interna loro costituzione venne replicatamente
  scossa da molte cospirazioni. In tre anni contansene, una a Ferrara, due
  a Genova, una a Milano ed una a Firenze. Pareva che i popoli, finalmente
  stanchi dell'oppressione sotto la quale tanto avevano sofferto, fossero
  determinati di spezzare un indegno giogo; ma non pertanto ricaddero
  dovunque sotto la catena che gli aveva oppressi. Non mancarono ai
  cospiratori nè segreto, nè ardire, nè fedeltà; tutti eseguirono ciò che
  avevano progettato, niuno ne raccolse il frutto: tanto è difficile di
  rovesciare un governo esistente, e tanto l'abitudine dell'ubbidire
  sostiene la potenza ancora del più odiato tiranno[45]! Odesi spesso
  accusarsi una nazione di debolezza e di pusillanimità, in ragione del
  giogo ond'è stata oppressa. Quando vedonsi migliaja d'uomini ubbidire
  contro l'interesse loro, contro il loro sentimento ad un solo, quando si
  vedono sottostare ai capricci ch'essi detestano, o diventare gli
  strumenti delle passioni che essi hanno in orrore, non possiamo non
  rimproverar loro di servire ove potrebbero comandare, e di non misurare
  le forze loro colla individuale debolezza di colui ch'essi temono.
  Sarebbe infatti vantaggioso che questo pregiudizio si stabilisse
  nell'opinione, e che la vergogna si associasse alla servitù. Forse i
  popoli farebbero allora per l'onore ciò che non fanno per la
  libertà[46]. Pure ingiustizia sarebbe il condannare una nazione soltanto
  a motivo del giogo che ha sopportato. Trovasi tanta potenza
  nell'organizzazione sociale, le forze di tutti sono così ben dirette dal
  despota contro ogni individuo, che per poco che questi o il suo ministro
  sia destro, coraggioso, vigilante, è sempre in tempo d'opprimere i suoi
  scoperti nemici col braccio medesimo de' suoi segreti nemici; in modo
  che la più nobile e più generosa nazione non è bastantemente forte per
  difendersi scopertamente dal suo tiranno. È dato solamente di poter
  congiurare a colui che co' deboli suoi mezzi personali vuole lottare
  coll'uomo che dispone della polizia, dell'armata, del tesoro. Molti,
  cedendo ad una nobile ripugnanza, rifuggono da tale intrapresa, perchè
  vi scorgono qualche apparenza di dissimulazione e di tradimento; non
  riconoscono che l'estremo pericolo nobilita i mezzi meno virtuosi, e che
  l'assassino di un tiranno dev'essere più coraggioso assai, che il
  granatiere che prende una batteria colla bajonetta. Per altro
  quest'opinione indebolisce ancora il partito de' cospiratori; spesso
  allontana da loro, nell'istante del pericolo, quelli che il giorno
  innanzi parevano partecipare ai sentimenti loro; e l'uomo coraggioso,
  che si è fatto l'organo delle volontà di tutto un popolo, e lo strumento
  delle sue vendette, perisce sul patibolo per le mani di quei medesimi
  ch'egli servì[47].
   [45] _Tutti eseguirono ciò che avevano progettato, niuno ne raccolse
   il frutto_; quale più utile lezione di questa per convincere
   gl'incauti che pensassero di tentare novità contro uno stato
   qualunque! _N. d. T._
   [46] L'autore, che altrove conosce per legittime le tre specie di
   governo ammesse da Aristotele, ed in particolare il governo
   monarchico che si mantiene con buone e sagge leggi fatte pel bene
   de' suoi popoli, è cosa manifesta, che qui non parla che de' governi
   rigorosamente chiamati tirannici; e sarebbe assurdo il credere che
   chiamasse vergognosa la servitù, o per meglio dire sudditanza verso
   il pacato governo di una monarchia legittima, e la di cui
   successione è regolata da leggi riconosciute universalmente; il che
   certamente non accadeva ne' principati che precedettero il XIV
   secolo in Italia, tranne quello della santa sede, del Monferrato,
   ec. _N. d. T._
   [47] Ecco l'indubitata sorte del cospiratore. È stato dai politici
   osservato, che le congiure dei pochi non riescono, perchè allora le
   forze dei cospiratori sono deboli, e che le congiure, dove prendono
   parte molti complici, vengono scoperte prima che abbiano esecuzione.
   Dunque, dice il nostro autore, non è dato di congiurare che
   all'individuo. Ma l'individuo non sarà mai il rappresentante della
   volontà del popolo, che anzi quasi tutti gli esempi di antiche e
   moderne cospirazioni individuali ci dimostrano, che personale odio e
   desiderio di privata vendetta pongono il pugnale in mano del
   cospiratore, non il desiderio di rendersi utile alla patria, che non
   può non detestare colui che turba l'ordine e la tranquillità del
   governo. _N. d. T._
  La storia d'Italia, ove gli avvenimenti si presentano e si accumulano,
  ove tutte le passioni hanno libero sfogo, ove tutte le instituzioni si
  combinano in mille modi, ci presenta sotto variate forme questi sforzi
  dei popoli e degl'individui per iscuotere il giogo della tirannide. Noi
  vi vediamo a vicenda aperte ribellioni e congiure; vediamo cospirare a
  vicenda a favore d'una stirpe reale, o di un sovrano risguardato come
  più legittimo, ed in favore della repubblica; vi vediamo tutte le lotte,
  quella della sublime lealtà, quella della fiera nobiltà e quella della
  libertà. Malgrado i diversi principj che servono di fondamento alla
  politica d'ogni uomo, non avvene alcuno, che non debba in così vasto
  numero di cospirazioni trovarne una che non gli sembri legittima; non
  avvene alcuno, che non debba associarsi di cuore a qualcuna delle
  intraprese tendenti a rimettere o il governo reale dell'antica dinastia,
  o la vecchia aristocrazia, o la libertà, o il regno glorioso d'un
  condottiere, o il dominio della Chiesa; non avvene alcuno, che ardisca
  considerare il potere, qualunque egli siasi, come sempre ugualmente
  sacro; ed un più liberale sentimento dovrebbe insegnargli, che tutte le
  congiure meritano un certo grado d'ammirazione[48], quando ancora
  appariscono colpevoli ai suoi occhi, per lo scopo che si propongono i
  congiurati; imperciocchè in tutte si trova un grande sagrificio di sè
  medesimo ad un interesse più sublime di sè, un grande sagrificio della
  sua persona ad una nobile causa, un grande spaventoso pericolo, posto in
  non cale a fronte di lontane speranze[49].
   [48] Ciò sarà, quando uno cospira contro un usurpatore a favore del
   legittimo antico governo, che per secoli aveva formata la felicità
   d'un popolo, ma non quando la cospirazione tende a rovesciare il
   legittimo regnante per sostituirvi l'anarchia o un tiranno. _N. d.
   T._
   [49] Le difficoltà infinite che incontra il cospiratore, l'evidente
   pericolo di morte, ed anche d'infamia pubblica per le arti del
   tradimento che è forzato usare, devono ritrarre chiunque da così
   enorme attentato; ed il nostro autore, ponendo in vista al lettore
   tutti questi pericoli, le difficoltà e la mala riuscita che le
   congiure sortono quasi sempre, tende ad incutere un salutare terrore
   in chiunque osasse soltanto pensare a fare novità contro uno stabile
   legittimo governo. _N. d. T._
  Tra le congiure che scossero l'Italia nel 1476, la prima a scoppiare fu
  quella di Ferrara. Niccolò d'Este, figlio del marchese Lionello, viveva
  in allora a Mantova presso suo cognato; molti emigrati ferraresi lo
  avevano seguito, risguardandolo come il rappresentante ed il legittimo
  erede di Lionello e di Borso, i due più amabili principi che avesse fin
  allora prodotti la casa d'Este, e gli andavano insinuando che tutto il
  popolo era partecipe del loro attaccamento e del loro rammarico. In ciò
  confidando, Niccolò cercava i mezzi di rientrare in Ferrara, non
  dubitando, che, ove giugnesse una volta a superare le mura della città,
  non fosse da tutto il popolo salutato per sovrano. Il marchese di
  Mantova, suo cognato, permettevagli d'adunare soldati nel suo
  territorio, e Galeazzo Sforza, sempre geloso de' suoi vicini, sebbene
  non covasse verun progetto contro di loro, gli somministrava danaro, e
  prometteva soccorsi. Frattanto la città di Ferrara trovavasi
  accidentalmente aperta; eransi in più luoghi atterrate le sue mura, per
  rifabbricarle dietro un nuovo piano; e Niccolò aveva ogni giorno fedeli
  avvisi di ciò che facevasi nella corte di suo zio. Seppe che il primo
  settembre del 1746 Ercole uscirebbe di buon mattino di città per recarsi
  alla sua casa di Belriguardo; e lo stesso giorno giunse da Mantova a
  Ferrara con cinque vascelli aventi a bordo cinquecento uomini
  d'infanteria; entrò per la breccia, che aprivasi nelle mura di mano in
  mano che si andavano rifacendo, e corse subito le strade, facendo
  ripetere innanzi a lui il suo grido di guerra: _La vela!_ In pari tempo
  promise al popolo di rendergli l'abbondanza, mentre che la cattiva
  amministrazione d'Ercole aveva fatto crescere il prezzo del frumento;
  annunciò l'arrivo di quattordici mila uomini, che gli avevano dati per
  quest'intrapresa il duca di Milano ed il marchese di Mantova, ed invitò
  i cittadini a prendere le armi, senza aspettare che le truppe straniere
  gli sforzassero a riconoscerlo per loro legittimo sovrano.
  Don Sigismondo, fratello del duca, al primo sentore di questo tumulto,
  erasi frettolosamente chiuso in Castelvecchio con donna Leonora
  d'Arragona sua sposa; ma non vi aveva vittovaglie per tre giorni.
  Ercole, cui alcuni fuggiaschi avevano annunciato l'ingresso in Ferrara
  di una numerosa armata, omai rinunciava alla speranza di riprendere la
  città, ed adunava soltanto i suoi soldati a Reggenta ed a Lugo per
  difendere queste due fortezze. Intanto niun Ferrarese aveva ancora prese
  le armi per unirsi a Niccolò, il quale vedendo d'aver corse invano tutte
  le strade, chiamando il popolo in suo soccorso senza che alcuno si
  muovesse, cominciava a scoraggiarsi. Eransi contati i soldati che lo
  seguivano, e sprezzavasi il loro piccolo numero; non vedevasi giugnere
  l'armata ch'egli aveva annunciata, e cominciavasi a non dare più fede
  alle sue parole. Don Sigismondo, testimonio della mala riuscita del suo
  avversario, si fece ancor egli a chiamare i Ferraresi in ajuto del loro
  sovrano. Corse il borgo del Leone, e la grande strada della Giudecca, e
  tutti gli abitanti presero per lui le armi. Di mano in mano che Niccolò
  vedeva ii popolo attrupparsi, egli abbandonava i quartieri della città
  uno dopo l'altro senza venire alle mani. Finalmente riconoscendo la sua
  impresa disperata, uscì di Ferrara, attraversò il Po e fuggì colla sua
  gente. Ma i contadini, di già contro di lui sollevati, occupavano tutti
  i passaggi per fermarlo. Egli cadde infatti in loro potere colla maggior
  parte di coloro che lo accompagnavano, e fu ricondotto a Ferrara. Il
  duca Ercole, suo zio, lo fece subito decapitare, e la stessa sorte toccò
  ad Azzo d'Este suo cugino. Vennero appiccati venticinque de' suoi
  complici; e così severa giustizia atterrì tutti i nemici del duca
  Ercole, la di cui successione, assicurata lo stesso anno dalla nascita
  di suo figlio Alfonso, più non venne in seguito contrastata[50].
   [50] _Diario Ferrarese, t. XXIV, p. 250, 251. — Diario Sanese di
   Allegretto Allegretti, t. XXIII, p. 776._ — Gio. Battista Pigna, che
   nel 1572 dedicò la sua storia dei principi d'Este ad Alfonso II, la
   chiude col 21 luglio del 1476, epoca della nascita del figlio
   d'Ercole, che fu poi Alfonso I. Termina cinque settimane prima della
   morte di Niccolò, ch'egli stesso indubitatamente risguarda come una
   macchia alla memoria d'Ercole. Il Pigna è un adulatore de' suoi
   principi, ed uno scrittore credulo; tutta la prima parte della sua
   storia non è meno favolosa che la genealogia innestata, quasi nella
   stessa epoca, dall'Ariosto e dal Tasso ne' loro poemi. Ma gli ultimi
   quattro libri, che comprendono gli anni 1472 al 1476, sono di
   grandissimo ajuto alla storia d'Italia: sono elegantemente scritti;
   gli avvenimenti delle altre parti dell'Europa, ed in particolare
   quelli che si riferiscono alla casa d'Este in Germania sono
   introdotti con arte; e quando la gloria della casa d'Este non è
   compromessa, i fatti vengono giudicati con abbastanza di buona
   critica e d'imparzialità.
  I primi movimenti contro Galeazzo Maria Sforza scoppiarono in Genova, e
  furono quasi simultanei colla congiura di Ferrara. In forza del trattato
  che Genova aveva fatto col duca Francesco Sforza, quando si pose sotto
  la sua signoria, questa repubblica, lungi dal rinunciare alla sua
  libertà, pareva averla vie meglio consolidata. Vero è che aveva ammessi
  nelle sue mura un governatore ed una piccola guarnigione; ma questa
  straniera forza era appena bastante per comprimere i tumultuosi
  movimenti delle fazioni, per impedire quelle rivoluzioni, quelle
  frequenti convulsioni, che ne' precedenti anni avevano esaurita la città
  d'uomini e di danaro. Altronde il duca si era obbligato a non accrescere
  il numero dei soldati, nè le fortificazioni della cittadella.
  Riceveva annualmente da Genova un tributo di cinquanta mila ducati,
  somma appena bastante al mantenimento della guardia della città e delle
  fortezze. E non solo non aveva il diritto di accrescere questa
  contribuzione, ma non poteva nemmeno immischiarsi nel modo di levarla.
  Così non poteva aver parte alla legislazione, all'amministrazione della
  giustizia, ed al governo interno della città[51].
   [51] _Ant. Galli Comm. Rer. Gen. ab anno 1476 ad an. 1478, Rer.
   Ital., t. XXII, p. 263._
  Finchè visse Francesco Sforza, queste condizioni vennero religiosamente
  mantenute; ma Galeazzo, suo figliuolo, era troppo volubile in tutti i
  suoi progetti, troppo vano, troppo impetuoso per rispettare lungamente
  le leggi cui erasi obbligato. Pure, perchè non era meno pusillanime che
  arrogante, spesse volte si fermava nel corso di un'intrapresa ingiusta
  ed offensiva, e cedeva al timore dopo di avere sprezzate le
  rappresentanze del suo popolo. I Milanesi, tra i quali viveva, non solo
  risentivano danno da' suoi difetti come sovrano, ma ancora da' suoi
  privati vizj. La di lui dissolutezza sconvolgeva tutte le famiglie, e la
  sua crudeltà, eccitata dalla più leggera resistenza, non era soddisfatta
  che da spaventosi supplicj. Genova era, assai meno di Milano, esposta a
  questa spicciolata tirannide, e sebbene fosse violato il contratto fra
  il principe e la repubblica, e che perciò i Genovesi si risguardassero
  come sciolti dai loro giuramenti, i più ricchi temevano una rivoluzione,
  che poteva ruinarli assai più che i passaggeri abusi del potere cui
  speravano di sottrarsi.
  Non pertanto l'intera città parve vivamente offesa dal disprezzo che le
  aveva mostrato Galeazzo, quando nel 1471 era passato per Genova,
  tornando da quel suo sontuoso pellegrinaggio di Firenze. Eransi
  apparecchiate per riceverlo splendidissime feste, magnifici regali. Egli
  affettò di dare a questa pompa un'aria di ridicolo presentandosi con
  abiti dimessi, ricusando gli alloggi che gli si erano apparecchiati, e
  chiudendosi in castello, ove pareva rimanersi con timore. Per ultimo
  alla fine dei tre giorni abbandonò Genova senza annunziarlo, come un
  fuggiasco[52].
   [52] _Ant. Galli de Rebus Gen. Comment., p. 265. — Uberti Folietae
   Gen. Hist., l. XI, p. 625._
  Dopo avere eccitato il malcontento di questa potente città, non
  accostumata a soffrire i dileggi, Galeazzo ad altro non pensava che a
  stringere talmente le di lei catene che vi si spegnesse per sempre ogni
  spirito di libertà. Notabile è il progetto da lui immaginato per
  giugnere a questo fine. Sopra Genova, all'estremità della scoscesa
  montagna che divide le valli di Bisagno e della Polsevera, era situata
  la fortezza del Castelletto, dove il duca di Milano teneva guarnigione.
  Ordinò Galeazzo che una catena di fortificazioni si prolungasse da
  questo castello fino al mare. Un doppio muro guarnito di ridotti doveva
  dividere la città in due parti eguali, le quali, quando piacesse al
  governatore, non avrebbero fra di loro veruna comunicazione, e
  potrebbero essere separatamente oppresse. Di già tracciata sul terreno
  era la linea delle mura e delle torri, e gli operai, sotto gli ordini
  del luogotenente del duca ed alla di lui presenza, cominciavano a cavare
  i fondamenti. Fremevano tutti i cittadini sulla sorte che loro era
  riservata, ma niente facevano per prevenirla, quando Lazzaro Doria
  ordinò agli operai, a nome della repubblica, di sospendere un lavoro
  contrario alle leggi ed ai trattati, e strappò colle proprie mani le
  pertiche del livello, che loro servivano di norma. La folla applaudì con
  trasporto a quest'atto di vigore; gli operai si fermarono, ed il
  luogotenente del duca, temendo una sollevazione, si ritirò nel
  castello[53].
   [53] _Pietro Bizarro S. P. Q. Genuens. Hist., l. XIV, p. 329. —
   Agostini Giustiniani Storia di Genova, l. V, f. 228, EE._
  Quando giunse a Milano la notizia di quest'avvenimento, Galeazzo Sforza
  scoppiò in minacce ed in imprecazioni, ed ordinò che la città di Genova
  gli mandasse subito gli otto più distinti cittadini dello stato. In
  vista della violenta collera da lui manifestata, tenevasi per indubitato
  che li destinasse al supplicio; ma un subito terrore aveva calmato il
  suo irritamento: gli accolse con bontà e li rimandò senza aver loro
  fatto alcun male. Frattanto aveva adunati trenta mila uomini per
  invadere la Liguria; ed avendo determinato di non lasciare ai Genovesi
  alcun capo, fece sorprendere a Vada Prospero Adorno, e senza accusa e
  senza esame gettare nelle prigioni della fortezza di Cremona; ma tutt'ad
  un tratto rinunciò alla sua spedizione, e licenziò tutte le truppe.
  Le diverse risoluzioni a vicenda abbracciate da Galeazzo erano tutte a
  Genova conosciute; conoscevasi la violenza della sua collera, ma non
  avevasi veruna garanzia della durata della presente affettata
  moderazione. Perciò da ogni banda si acquistavano armi, facevansi
  apparecchi di difesa, e tutti si andavano incoraggiando a mantenere la
  libertà qualunque volta fosse attaccata. Mentre tutto il popolo era
  trepidante intorno a ciò che potesse accadere, Girolamo Gentile,
  figliuolo d'Andrea, giovane mercante di non mediocri fortune, che non
  aveva alcun personale motivo di odio contro il governo, risolse di
  esporsi il primo per la libertà della sua patria. Adunò in casa sua nel
  sobborgo, nel mese di giugno del 1476, molte genti armate. Nel cuore
  della notte entrò in città per la porta di san Tommaso, di cui
  s'impadronì, e corse le strade, chiamando i suoi concittadini alle armi
  ed alla libertà. Molti Genovesi si unirono a lui, ed in breve occupò
  tutte le porte; ma fu troppo lento ad attaccare il palazzo del pubblico.
  Intanto i senatori si andavano adunando sotto la presidenza di Guido
  Visconti, governatore della città. Coloro che si erano da principio
  uniti a Gentile, temettero allora di essere condannati, come ribelli,
  dall'autorità che riconoscevano legittima; e tutti, uno dopo l'altro, si
  ritirarono prima che fosse giorno. Dopo la loro diserzione, vedendosi
  Gentile troppo debole, ritirossi in buon ordine verso la porta di san
  Tommaso e vi si fortificò[54].
   [54] _Ant. Galli de Reb. Genuens., p. 267. — Uberti Folietae
   Genuens. Hist., l. XI, p. 631. — P. Bizarri Hist. Genuens., l. XIV,
   p. 332. — Agost. Giustinani, l. V, f. 229._
  Il senato aveva nominati otto capitani del popolo per cacciare di città
  Girolamo Gentile. Dietro i loro ordini avevano prese le armi circa
  trecento uomini e marciavano ad attaccare porta san Tommaso, difesa da
  Gentile con soli trenta uomini, tutti però determinati a difendersi fino
  alla morte, mentre non era un solo tra i loro avversari che non si
  esponesse di contro genio; quindi poco mancò che non fossero fatti
  prigionieri i capitani del popolo, e dispersa tutta la loro gente: ma in
  tale frangente si offrirono come mediatori i capi delle arti e mestieri.
  Girolamo Gentile accettò la loro mediazione, facendo però sentire ai
  loro compatriotti che non tarderebbero a pentirsi d'avere perduta
  l'occasione di ricuperare la libertà. Chiese che gli si rimborsassero
  settecento ducati, che gli erano costati i suoi apparecchi, fatti,
  secondo egli diceva, pel vantaggio della repubblica. Dopo averli
  ricevuti dal tesoriere del pubblico, consegnò la porta ai capitani del
  popolo e si ritirò[55].
   [55] _Ant. Galli de reb. Genuens. Comment., p. 268. — Uberti
   Folietae Gen. Histor., l. XI, p. 632._
  Quando conobbesi a Milano questa singolare capitolazione, Galeazzo
  mostrossi fieramente adirato perchè si fosse rimborsato ad un capo di
  faziosi quel danaro ch'egli stesso confessava d'avere impiegato per
  isconvolgere lo stato. Non pertanto ratificò l'amnistia, ch'era stata
  pubblicata dal senato; e se covava in segreto il pensiero di rivocare a
  migliore opportunità questa grazia, non ebbe poi il tempo di farlo.
  Galeazzo non era privo di tutte le qualità che illustrarono suo padre;
  conosceva perfettamente la disciplina militare e la civile
  amministrazione del suo stato; ed aveva saputo stabilire nel Milanese
  una più rigorosa subordinazione che verun altro de' suoi predecessori. I
  tribunali facevano incorrotta giustizia, ed una severa polizia manteneva
  la pubblica sicurezza. Galeazzo parlava eloquentemente, ed aveva gentili
  e disinvolte maniere, e quando lo voleva, sapeva ad un'imponente maestà
  aggiugnere l'esteriore apparenza della bontà: ma ad un fasto stravagante
  univa un'illimitata cupidigia; era naturalmente perfido, e compiacevasi
  di mostrarsi tale particolarmente verso coloro, cui erasi mostrato più
  parziale, abbassandoli tanto più, quanto gli aveva a maggiori dignità
  innalzati; giammai non erasi mantenuto costante ne' suoi affetti, e
  potevasi presagire prossima e terribile la caduta di colui che vedevasi
  più favorito degli altri, ancor che questi non provocasse in verun modo
  il suo sdegno. Avidissimo di tutti i piaceri de' sensi, ed inclinato a
  disprezzare le costumanze e le leggi della società, portava la
  desolazione ed il disonore in tutte le famiglie[56]; e non pareva pago
  delle sue dissolutezze, se non erano condite dalla disperazione de'
  genitori o dei mariti, che aveva disonorati. Compiacevasi singolarmente
  nel farli ministri essi medesimi del loro disonore; abbandonava alle sue
  guardie le consorti rapite ai mariti, e faceva poi pubblico il loro
  oltraggio[57].
   [56] _Ant. Galli de reb. Gen., p. 268. — Bern. Corio Ist. Milan., p.
   VI, p. 982._
   [57] _Allegretto Allegretti Diari Sanesi, t. XXIII, p. 777._
  Tra coloro, le di cui case erano state da Galeazzo disonorate,
  trovavansi due giovani di nobile schiatta, Carlo Visconti e Girolamo
  Olgiati, di già predisposti dal loro precettore a detestare il giogo
  della tirannide. Erano essi amicissimi di Andrea Lampugnani, che il duca
  aveva ingiustamente spogliato del padronato dell'abbazia di
  Miramondo[58]: tutti e tre avevano udite le lezioni di Cola de' Montani
  di Gaggio, Bolognese, il quale circa il 1466 aveva aperta in Milano
  scuola di eloquenza. Si pretende che fosse stato prima maestro dello
  stesso Galeazzo, e che lo avesse più volte castigato colla severità
  praticata nell'antica educazione. Galeazzo, diventato sovrano, volle
  vendicarsi dei castighi sofferti nella sua infanzia con un'egual pena, e
  fece pubblicamente sferzare il maestro[59][60]. Montano detestava la
  tirannide anche senza quest'affronto. Nodrito nello studio
  dell'antichità, non trascurava veruna occasione di far notare ai suoi
  allievi, che tutte le virtù, ch'essi ammiravano ne' grandi uomini Greci
  e Romani, eransi sviluppate nella libertà; che una libera patria
  incoraggiava tutti i talenti, ogni genere d'energia, ed i progressi
  dello spirito, perchè ogni specie di grandezza ne' suoi cittadini veniva
  sempre impiegata pel vantaggio di tutti; mentre che un tiranno, geloso
  di ogni forza, di cui non potesse egli stesso disporre, occupavasi
  sempre a contenere, a comprimere, a distruggere i talenti, l'energia, la
  sublimità del carattere, che poteva un giorno adoperarsi contro di
  lui[61].
   [58] _Machiavelli, l. VII, p. 349. — Allegretti Diari Sanesi, l.
   XXIII, p. 777. — Diario Ferrarese, t. XXIV, p. 254._ Ma il Ripamonti
   attribuisce al Visconti ciò che gli altri attribuiscono al
   Lampugnani. _Hist. Mediol., l. VI, p. 630._
   [59] _Giovio elogi degli uomini illustri, l. III, p. 179. —
   Tiraboschi, l. III, c. V, § 28, p. 95._
   [60] Ecco una riprova di quanto ho avvertito in una precedente nota,
   che le particolari passioni di odio e di vendetta sono d'ordinario
   la vera causa delle congiure. _N. d. T._
   [61] _Machiavelli, l. VII, p. 348. — Ubertus Folieta, l. XI, p.
   632._
  Voleva il Montani che i giovani gentiluomini, per rendersi degni della
  libertà, imparassero a comandare le armate. Aveva perciò persuasi
  l'Olgiati ed alcuni altri ad imparare l'arte della guerra sotto
  Bartolommeo Coleoni. I parenti di questi giovanetti, che più di loro
  temevano le fatiche ed i pericoli, eransi fieramente adirati contro il
  maestro d'eloquenza, che aveva renduti soldati i loro figli. Il Montani,
  perseguitato dai genitori, favoreggiato dagli scolari, era stato a
  vicenda esiliato, e richiamato; imprigionato, indi festeggiato; ma in
  particolar modo renduto caro ai suoi discepoli dalle persecuzioni che
  sostenute aveva per istruirli[62].
   [62] _Tiraboschi Stor. della Letter. Ital., l. III, c. V, § 28, p.
   956._
  Frattanto Galeazzo aveva spinto all'estremo l'odio del popolo coi
  crudeli supplicj nuovamente ordinati. Aveva fatte seppellir vive alcune
  sue vittime, altre sforzate ad alimentarsi d'escrementi umani, ed in tal
  modo fatte lentamente morire; aveva aggiunte feroci facezie ai supplicj
  che ordinava, e renduto più infame il disonore delle nobili matrone che
  aveva sedotte, prostituendole pubblicamente[63]. Girolamo Olgiati
  contava una sua in addietro carissima sorella tra le vittime della
  brutalità di Galeazzo. Misurando colla propria l'universale
  indignazione, cercò il Lampugnani, e gli propose di mettere fine ad una
  intollerabile tirannide col punire i delitti dello Sforza. Poco dopo si
  associarono Carlo Visconti, e si obbligarono con vicendevoli giuramenti.
  Tennero la prima loro conferenza ne' giardini di sant'Ambrogio. Tutte le
  circostanze di quest'avvenimento, e ciò che è più notabile, tutti i
  concetti del principale congiurato, ci vennero fedelmente conservati dal
  medesimo Olgiati in una relazione scritta pochi giorni dopo. «Uscendo da
  questa conferenza, egli scrive, entrai in Chiesa; mi gettai ai piedi
  della statua del santo vescovo che vi si venera, e feci questa
  preghiera: Grande sant'Ambrogio, sostegno di questa città, speranza e
  tutela del popolo di Milano, se il progetto che formarono i tuoi
  concittadini, i tuoi figliuoli per cacciare di qui la tirannide,
  l'impurità, la dissolutezza più mostruosa, è degno della tua
  approvazione, non ci manchi il tuo favore in mezzo agli accidenti ed i
  
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