Storia della Guerra della Independenza degli Stati Uniti di America, vol. 3 - 18

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erano avvisati i ministri nelle istruzioni date all'ammiraglio. Gli
Americani, i quali evidentemente scorgevano, che l'allontanamento di
D'Estaing da Nuovo-Porto era la perdita totale dell'impresa,
rimostrarono, e molto pregarono per isvolgerlo da questa sua
risoluzione. Greene e La-Fayette assai si adoperarono per piegarlo a non
voler colla sua partenza lasciar intiepidire le cose della lega.
Rappresentarono di quanta importanza fosse alla Francia ed all'America
l'incominciata impresa; che già era essa a tal termine condotta, che non
si poteva dubitar dell'evento; che riuscirebbe di vergogna
l'abbandonarla in sul compirla, e d'infinito disgusto agli Americani, i
quali confidatisi nella promessa cooperazione dell'armata francese, là
erano concorsi a folla, e raunatovi con incredibile fatica e dispendio
una quantità inestimabile di munizioni; che sarebbe un dar vinta la
causa agli scontenti, i quali non avrebbero mancato di vociferare,
questa esser la fede francese, questi i frutti dell'alleanza; che la
nasata avuta della Delawara, poi quella di Sandy-hook, e finalmente
questa di Nuovo-Porto avrebbero posto il colmo al mal umore. Aggiunsero,
male con una flotta sì sdruscita potersi navigare per le secche di
Nantucket per alla via di Boston; meglio potersi fare i concieri a
Nuovo-Porto che a Boston; e finalmente da una superior flotta nemica
poter del pari venir bloccata la francese, ma più malagevolmente
difendersi in Boston, che in Nuovo-Porto. Tutto fu nulla, D'Estaing,
collate le vele, si avviò il dì ventidue a Boston, nel qual porto diè
fondo tre giorni dopo.
Che che si debba pensare di questa risoluzione del D'Estaing, nella
quale ebbe non solo consenzienti, ma richiedenti tutti gli suoi
uffiziali, certo è che perturbò essa grandemente l'animo del
repubblicani, e se ne fece un grande scalpore in tutta l'America. Le
milizie, le quali con tanto zelo erano concorse a trovare Sullivan
nell'Isola di Rodi, vedutesi in tal modo abbandonate dagli alleati, si
disbandarono, dimodochè in poco d'ora gli assediatori diventarono si
fievoli, e di sì poca possanza, che non arrivavano di dieci, che erano,
a cinquemila combattenti, mentre gli assediati sommavano a molti più. In
tanto cambiamento di fortuna, e trovandosi dentro di un'isola
coll'armata alleata lontana, e la nemica vicina, si accostò l'Americano
tostamente al partito di ritirar le sue genti alla terra-ferma. Per la
qual cosa il giorno 26 agosto incominciò ad avviar dietro verso la punta
settentrionale dell'isola le grosse artiglierie e le bagaglie; poi si
mosse egli stesso il dì 29 con tutta l'oste. Ed ancorchè fosse
perseguitato aspramente dagl'Inglesi e dagli Essiani arrivò senza danno
a questa punta medesima. Quivi, sopraggiunti in maggior numero
gl'Inglesi, si attaccò una feroce scaramuccia nelle vicinanze di
Quaker-hill, nella quale tra morti e feriti mancarono da ambe le parti
molti soldati. Tuttavia gli Americani con maraviglioso valore
ributtarono gli assalitori. La notte dai trenta passarono i Sullivani
sul continente pei guadi di Bristol, e di Howland alla sicura. Questo
fine ebbe un'impresa, la quale non solo fu incominciata con grandissima
speranza della vittoria, ma che già era stata ad un pelo condotta al
totale compimento. Fu la ritirata di Sullivan eseguita in assai buon
punto. Imperciocchè l'indomani il generale Clinton arrivò con
quattromila soldati e molti legni sottili in soccorso di Nuovo-Porto. Se
avesse avuti i venti più prosperi, o fosse stato meno pronto Sullivan a
ritirarsi, assalito questi dentro dell'isola da un nemico di lui più
gagliardo il doppio, e chiusagli la via al continente dalle navi,
avrebbe portato grandissimo pericolo. Lodò il congresso la prudenza di
Sullivan, e molto lo ringraziò.
L'ammiraglio Howe, racconce con maravigliosa prontezza le sue navi, di
nuovo diè le vele al vento, avviandosi verso Boston. Sperava di
arrivarvi prima del Francese, e per conseguente tagliarlo fuori di quel
nido, od almeno di assaltarlo, quando già vi si fosse ricoverato. Arrivò
invero nella cala di Boston il dì trenta agosto. Ma non gli riuscirono
nè l'uno nè l'altro disegno; poichè e già vi era giunto D'Estaing, e le
batterie rizzate negli opportuni luoghi dagli Americani su tutti i punti
del Nantucket, rendevano ogni assalto impossibile a tentarsi. Ritornò
pertanto alla Nuova-Jork, dove avendo trovato, essere arrivate parecchie
altre navi da guerra, inguisachè l'armata inglese superasse allora di
forza la francese, usando la licenza, che poco prima aveva ottenuto dal
governo, rassegnò il comando all'ammiraglio Gambier, perchè lo tenesse
sino all'arrivo di Byron in quell'acque; il che fu poi ai sedici di
settembre. Egli poco poscia se ne ritornò in Inghilterra. L'opera di
questo nobilissimo capitano, e delle cose marine spertissimo, riuscì di
molta utilità alla patria sua nella guerra pensilvanica, jorchese e
rodiana, e sarebbe riuscita di maggiore, se uguale alla sua fosse stata
la prudenza dei capitani di terra. Poichè passando anche sotto silenzio
i trasporti da lui operati da un paese all'altro assai lontano della
terra-firma americana di un grosso esercito, com'era quello del suo
fratello Guglielmo, l'industria e la costanza da lui mostrate nel
rimuovere gl'impedimenti della Delawara sono degne di grandissima
commendazione. Arrivato poi che fu D'Estaing con una sì poderosa armata,
e tanto superiore alla sua, gli tenne con tutto ciò il fermo a
Sandyhook; poscia invitandolo a combattere gli disordinò il disegno di
Nuovo-Porto, e fattolo venir fuori causò, che furono talmente guaste e
rotte le navi sue da una furiosa tempesta, che fu costretto a cercar
rifugio nel porto di Boston, donde non uscì, se non per andarsene alle
Antille, abbandonando in tal modo tutti quei disegni, che gli alleati
s'erano accordati di voler eseguire in quell'anno sulle coste
dell'America.
Clinton, veduto Nuovo-Porto libero, se ne tornò alle stanze della
Nuova-Jork. Mandò però dalla Nuova-Londra il generale Grey ad una
fazione verso levante che non fu di poca importanza. Annidavano nel
golfo di Buzzard, e nelle adiacenti riviere molti corsari, i quali e pel
numero loro, e per l'ardire recavano gran danno al commercio inglese
della Nuova-Jork, dell'Isola-Lunga e dell'Isola di Rodi. Clinton si
risolvette a volersi levare quello stecco d'in sugli occhi, ed
assicurare i mari dalle correrie loro. Quest'era il fin e della
spedizione di Grey. Arrivò egli colle navi da carico, e, sbarcate le
genti, distrusse da sessanta navi grosse con molti legni minori.
Procedendo poscia a Bedford ed a Fair-haven sulla riviera di Acushinet,
a guisa più di latroncolo che di soldato operando, guastò od arse
magazzini di considerevole valuta pieni di zucchero, di rum, di mielata,
di tabacco, di medicamenti e di simili altre mercanzie. Nè contento a
questo, recatosi sulla vicina isola, che chiamano Vigna di Marta, nido
di arditissimi corsali, e di suolo mollo fertile, pose un taglione, agli
abitatori, di bestiame sì grosso che minuto; soccorso graditissimo, e
necessario ai presidj della Nuova-Jork. Ne levò ancora di molte armi e
munizioni.
Lo stesso Grey ritornato che fu dalla precedente fazione alla
Nuova-Jork, ne intraprese un'altra, avendo sorpreso nel villaggio di
Old-Taapan, e manomesso non senza grave nota di crudeltà un reggimento
di cavalleggieri. Fecero gl'Inglesi pochi giorni dopo a questa un'altra
correria contro Little-egg-Harbour sulle spiagge della Cesarea, dove
distrussero molto navilio, e menaron molta preda. Corsero poscia contro
la legione di Pulaski alla non pensata, e vi commessero grande
uccisione. Maggiore strage sarebbe seguìta, se non che Pulaski, da
quell'uomo valoroso che egli era, risentitosi subitamente, corse co'
cavalli in aiuto dei suoi. Gl'Inglesi, rimbarcatisi, se ne tornarono
alla Nuova-Jork.
In questi tempi i Capi americani e francesi si disponevano a voler fare
di nuovo l'impresa del Canadà. Speravasi, oltre la possessione di una sì
importante provincia, che si sarebbero potute rovinare le pescagioni
britanniche sugli scanni di Terra-Nuova, e, ridotte a divozione le città
di Quebec e di Halifax, por fine alla potenza marittima dell'Inghilterra
su per quelle spiagge. I Francesi erano i principali stimolatori di
questo consiglio. Gerard e D'Estaing forse artatamente, il marchese De
La-Fayette, siccome giovane, e di queste mene politiche non avvisantesi,
nettamente, e per amor della gloria. Doveva egli uno dei primarj
capitani essere all'acquisto di quella provincia. D'Estaing pubblicò un
manifesto indiritto ai Canadesi in nome del suo Re, col quale, ricordato
prima, ch'eran nati Francesi, rammentate eziandio le antiche glorie e
prosperità sotto il modestissimo Imperio dei Borboni, dichiarò, che
tutti gli antichi sudditi del Re nell'America settentrionale, i quali
più oltre non riconoscessero la superiorità della Gran-Brettagna,
sarebbero protetti ed assicurati. Ma Washington si dimostrò contrario
alla fazione, e ne scrisse le sue ragioni al congresso. L'impresa fu
posta dall'un de' lati. Allegarono, non essere l'erario loro, le
armerìe, le canove, i soldati in grado di poter fornire una tanta
impresa; e che troppo increscerebbe loro, quando per la necessità delle
cose non potessero poi dal canto loro quelle condizioni adempire, che
promesse avessero. Quest'era il loro ragionare aperto. Ma invero
temevano, che vi fosse sotto materia, e che il Canadà si acquistasse non
all'America, ma alla Francia.
L'avere il conte D'Estaing abbandonata in sul compirla l'impresa di
Nuovo-Porto, aveva non poco alterato gli animi degli Americani, massime
nelle province settentrionali; e molti incominciavano a star di
malavoglia contro i novelli alleati, sospettando che questi facessero
seco loro a mal giuoco. A questa cagione aggiungevasi la ricordanza,
ch'era tuttavia molto viva, spezialmente nella minutaglia, dell'antiche
gare e gelosie nazionali, che la fresca lega, e la necessità dei
soccorsi francesi non avevan potuto spegnere. Si sforzava Washington, e
gli altri Capi americani di mitigar questi maligni umori, i quali
dubitavano, non prorompessero in manifesta discordia. Nè minore
attenzione usava il conte D'Estaing durante la sua fermata nel porto di
Boston, non sol per ischivar ogni occasione di scandali, ma di più per
conciliarsi gli animi dei nuovi alleati. E certamente sì fatta fu la
condotta non che degli uffiziali francesi, dei semplici marinari, che
non si potrebbe con parole sufficienti lodare. Questa circospezione non
potè tanto operare, che non nascesse la sera dei tredici settembre una
forte baruffa tra alcuni Bostoniani e Francesi con danno di questi
ultimi. Il cavaliere di San Salvatore, uffiziale francese, vi perdè la
vita. I maestrati della città, volendo levare ai Francesi l'occasione di
ogni sdegno con mostrar loro segno di buona e pronta volontà a punire i
colpevoli, bandirono, avrebber dato un guiderdone a chi avesse svelato
gli autori della rissa, e nel medesimo tempo pubblicarono, i cittadini
non avervi avuto colpa, ma sibbene i marinari inglesi fatti cattivi
nelle navi, ed i disertori dell'esercito burgoniano, i quali avevan
preso soldo su quelle degli armatori bostoniani. La cosa quietò.
D'Estaing, o fosse soddisfatto, o come prudente il paresse, non fece
altra dimostrazione. Nissun colpevole si scoprì. I Massacciuttesi
decretarono, si facesse un monumento al San Salvatore.
Ma troppo più grave di questa si fu la rissa nata la notte de' sei di
questo stesso mese di settembre a Charlestown di Carolina tra i marinari
americani e francesi, la quale si terminò in una formale battaglia.
Incominciarono i primi ad ingiuriare con brutte parole i secondi, i
quali se ne risentirono. Dalle parole si venne ai fatti, e brevemente i
Francesi furon cacciati di forza dalla città, e costretti di rifuggirsi
alle navi. Trassero quindi coll'artiglieria e colla schioppetteria
contro la città, e gli Americani medesimamente contro le navi francesi
dalle case e dalla spiaggia vicina. Vi si perdettero di molte vite da
ambe le parti. Si promise, ma invano, una taglia di mille lire di
sterlini a chi scoprisse gli autori. Il capitano generale della
provincia esortò con pubblico bando i suoi cittadini a tener i Francesi
in luogo di buoni e fedeli alleati, ed amici. Si fecero nel medesimo
tempo provvisioni contro il mal uso dello sparlare. Così finirono le due
riotte di Boston e di Charlestown, delle quali furono universalmente
accagionati, se non con verità, certo con prudenza, i bocconi ed i
maneggi britannici. Perciocchè temettero i Capi americani, che per
questo sdegno non girassero loro sotto i Francesi, siccome quelli che
gli conoscevano facili a dar la volta.
In quest'anno si rinfrescò più feroce che prima la guerra indiana;
poichè sebbene i selvaggi fossero stati intimoriti dai prosperi successi
di Gates, ed avessero mandato ambascerie a congratularsene seco lui e
cogli Stati, ciò nondimeno tante furono l'industria degli agenti inglesi
presso i medesimi, e l'efficacia dei presenti, che ne ricevevano, e
tante e sì fatte le promesse e le instigazioni dei fuorusciti, i quali
colà rifuggiti si erano in un colla naturale e propria sete del sacco e
del sangue, che poterono tanto operare, che andavano facendo correrie
qua e là sull'estreme frontiere settentrionali con infinito danno e
terrore dei popoli. I Capi più operativi, che gli guidavano a queste
sanguinoso fazioni erano il colonnello Butler, che già si era acquistato
nome nelle precedenti guerre indiane, ed un Brandt nato di sangue misto
europeo ed indiano, avventato e feroce bestione sopra quanti abbia mai
prodotto l'umana natura, troppo spesso vaga di somiglianti mostri. Non
la perdonavano nè a età, nè a sesso, nè a condizione, nè a
consanguinità; ma tutto, e tutti traevano indistintamente a rovina ed a
morte. La pratica che avevano i fuorusciti de' luoghi, la radezza delle
abitazioni sparse qua e là nei deserti, la lontananza del governo, e la
necessità del difendersi in altre rimote parti erano cagione, che i
Barbari potessero, e facilmente rompere i confini, e sicuramente
ritirarsi. Nè alcun rimedio efficace sin là s'era potuto fare contro
l'impeto di sì crudeli nemici. Ma in mezzo a questa piuttosto orribile
devastazione che guerra, ne nacque un caso degno di grandissima
compassione, e che per me non saprei, se nelle storie degli uomini
disumanati, e venuti al mondo con anime di fiere bestie, s'incontri od
il maggiore, od il peggiore di questo. Erasi stabilita sull'orientale
riva del fiume Susquehanna nell'estremo confine della Pensilvania, ed in
sulla via per Oswego dai popoli connecticuttesi la colonia di Viomino
popolosa, ricca e profittabile oltre qualunque altra, che a quei tempi
fiorisse in America. Consisteva ella in otto villaggi, a ciascun dei
quali era stato circoscritto un territorio di cinque miglia quadrate,
che distendevansi da una parte e dall'altra del fiume. Non si potrebbe
immaginare nè più felice cielo, nè più fertile terra di questi. Gli
uomini poi simili a loro ignoravano, e le troppe ricchezze, che
inorgogliano ed inviziano, e la povertà che tribola ed avvilisce. Tutti
vivevano nell'aurea mediocrità, nè il proprio prodigalizzando, nè
l'altrui desiderando. Occupati di continuo nei camperecci lavori
fuggivano l'ozio e la noia, i malori ed i vizj, che lo seguitano. Eravi
là insomma una vera immagine o rappresentazione di quell'età, che gli
antichi poeti favoleggiando chiamato hanno col nome dell'oro. Ma la
domestica felicità, di cui godevano, tanto non gli potè trattenere, sì
fatta era l'ardenza dei popoli in questa causa loro, che non pigliassero
le armi, ed in soccorso della patria volonterosamente non concorressero.
Dicesi, abbiano mandato all'esercito un migliaio di soldati; cosa
maravigliosa tra mezzo a sì poca e sì fortunata gente. Eppure nonostante
la privazione di sì fiorita e sì frequente gioventù non iscemava a modo
nissuno l'abbondanza delle ricolte; essendo tuttavia le masserie sì
fattamente ripiene di ricche messi, ed i pascoli sì gremiti di grassi
bestiami, che con abbondanti provvedimenti non cessavano di sopperire
all'esercito.
Ma nè la felicità del cielo, nè la fertilità della terra, nè la
longinquità del sito potettero impedire, che non entrasse tra di loro la
scellerata rabbia delle Sette. E sebbene i Tori, come gli chiamavano,
altrettanto numerosi non fossero, quanto coloro, che facevano
professione della libertà, ciò nonostante la possanza loro non era da
aversi in dispregio; e molto ancora si ajutavano colla pertinacia e
coll'ardire. Quindi è, che non solo le famiglie stavano contro le
famiglie, ma ancora spesso i figliuoli contro i padri, i fratelli contro
i fratelli, e perfino le mogli contro i mariti. Tanto è vero, che non
v'è bontà che resista all'opinione, nè felicità alla discordia
cittadina. I Tori poi erano stati asperati dai danni sofferti nelle
correrie fatte in compagnia dei selvaggi nel precedente anno contro
Viomino, ma molto più, e massimamente, perchè molti Tori forestieri non
conosciuti, i quali usando l'ospitalità tanto famosa degli Americani di
quei tempi, e particolarmente dei Viominesi, erano venuti a piantar le
sedi loro dentro la colonia, dati alcuni motivi di far sospettare di sè
stessi, furono arrestati, ed alcuni mandati nel Connecticut, perchè ivi
fosser loro fatti i processi, altri cacciati dalla colonia e banditi.
Gli odj perciò si rincappellarono. Giurarono i Tori, e meditavano la
vendetta. Si accozzarono cogli Indiani. Il tempo era prospero,
perciocchè la gioventù viominese era ita alla guerra. E perchè non
venisse meno il disegno, che tramavano, desiderando, che riuscisse
improvviso, perchè gli avversarj non avessero tempo di provvedersi,
deliberarono di voler usar gli inganni, simulando l'amicizia e la pace,
quando ad altro non pensavano che alla vendetta ed alla guerra.
Parecchie settimane prima che intendessero d'andar all'assalto,
mandarono più uomini a posta per protestare con efficacissime parole, ed
a chieder la pace. Queste lustre dall'un canto addormentavano i popoli
di Viomino, dall'altro davan comodità ai Tori ed agl'Indiani di
accordarsi cogli amici loro, e di considerare lo stato delle cose nella
colonia. Ciò nonostante malgrado la presente sicurezza, e che le parole
dei selvaggi sonassero tanto in contrario, avevano i Viominesi, siccome
suole per l'ordinario avvenire, allorquando gravi calamità sovrastano ai
popoli, un non so quale presentimento di quello, che doveva avvenire,
avuto. Mandarono perciò lettere a Washington, pregandolo, gli
soccorresse. Le lettere non pervennero, perchè furono tolte dai leali
pensilvanesi; e quand'anche fossero arrivate, non era più tempo. Già
erano i Barbari insorti contro l'estreme parti della colonia, e vi
avevano fatto alcuni rubacchiamenti poco importanti per la grandezza
loro, molto per le crudeltà; infelice preludio a quei mali più terribili
che dovevano di breve seguire.
Era giunto il presente anno al principio del mese di luglio, quando i
Barbari forti e gagliardi comparirono alla non pensata sulle rive della
Susquehanna. Guidavangli quel Giovanni Butler e quel Brandt con altri
Capi selvaggi molto ben noti per le crudeltà usate nelle precedenti
fazioni. Erano in tutto sedici centinaia di guerrieri, un quarto
Indiani, gli altri Tori travestiti, e dipintisi la pelle in modo, che il
parevano. Gli uffiziali però portavano gli abiti dell'uffizio e del
grado loro, e somigliavano stanziali. Avevano i Viominesi per sicurezza
loro, e stante la lontananza dei consorti, e la prossimità dei selvaggi,
piantato quattro Forti, ed avevano forse da cinquecento soldati sparsi
qua e là per le frontiere, od alloggiati nei Forti medesimi. Governava
tutta la colonia un Zebulone Butler, cugino a Giovanni, e uomo, se di
qualche valore, certo di poco cervello. Alcuni lo accusarono di fede
dubbia; il che è incerto. Certo è bene, che uno dei quattro Forti,
ch'era più vicino ai confini, era guardato da soldati infetti delle
opinioni dei Tori, i quali sul primo apparire dei nemici lo diedero in
poter loro. Un secondo, ricevuto un furioso assalto, si arrendè a
discrezione; dove quantunque i Barbari risparmiassero le donne ed i
fanciulli, i rimanenti crudelmente ammazzarono. Si ritirò in questo
mezzo Zebulone con tutti i suoi nella Fortezza principale chiamata
Kingston, dove concorrevano a calca, come in luogo di salute, spaventati
e con miserabili grida le donne, i vecchi, i fanciulli, i malati, e
tutti coloro, che inabili erano a portar l'armi. Era la Fortezza assai
difendevole, e quando Zebulone avesse tenuto il fermo, si poteva
sperare, che vi si sarebbe rotto l'impeto dei nemici, sintantochè
fossero arrivati gli aiuti. Ma Giovanni piaggiandolo e promettendogli
ogni cosa, operò si, e talmente, che lo trasse fuori della Fortezza
sotto colore di un accordo, il quale fu, che se venisse a parlamento
alla campagna, ci ritirerebbe i suoi dalla Fortezza, e si concluderebbe
la pace. Infatti diè indietro Giovanni con tutti i suoi soldati. Uscì
poscia Zebulone per andar al luogo accordato pel parlamento, assai
distante dal Forte; e per non esser solo si fece seguitare da
quattrocento soldati armati, quasi la totalità del presidio. Il che se
non è stato un tradimento, stato è certamente una molto strana ed
inescusabile semplicità. Arrivato Zebulone al convenuto luogo non
trovava anima vivente, ed increscendogli di ritornarsene senza
conclusione, procedeva verso le falde di certe montagne, ch'erano poco
lontane, sperando di trovarvi qualcuno, con cui potesse favellare.
Mentre marciava per quell'orrida solitudine, nissun segno se gli
appresentava, od ombra di vestigio umano. Avrebbe dovuto ristarsi; ma il
destino lo tirava; e di continuo si sospingeva avanti. La contrada
intanto incominciava a diventare scura e selvereccia. Discoprì
finalmente tra mezzo le macchie e gli arbusti di lungi un drappello, che
pareva lo invitasse a seguitare. E quei, che lo portava, come se temesse
egli stesso di tradigione, si ritirava, sempre drappellando, in dietro
con quel passo, col quale Zebulone camminava avanti. Intanto gl'Indiani,
che sapevano il paese, essendosi molto opportunamente valuti
dell'oscurità di quelle boscaglie, già lo avevano accerchiato da ogni
banda, mentre egli, ignaro del tutto del suo pericolo, tuttavia andava
innanzi per convincere i traditori ch'ei non gli voleva tradire. Ma
infine gl'Indiani lo svegliarono ben essi dal forte sonno, i quali
saltati fuori dalla imboscata, che fatto avevano nelle vicine foreste,
furiosamente, e con tremendi urli lo assalirono. Fatto un gomitolo dei
suoi si difendeva gagliardamente, mostrando migliore animo nella
battaglia, che mente nelle pratiche precedenti. E nonostante che la cosa
fosse tanto improvvisa, menavano i suoi soldati così fieramente le mani,
e con tanta costanza serbavano gli ordini, che la battaglia non solo
rimaneva dubbia, ma già incominciava a favor loro inclinare. In questo
punto, ecco un soldato del Zebulone o per tema, o per tradimento gridare
improvvisamente: _indietro; il colonnello ha comandata la ritirata_.
Tosto balenano, si rompon gli ordini, i Barbari entrano tra le file.
Segue una strage orribile. I fuggenti sono trafitti dalle trascorrevoli
armi, i contrastanti ammaccati dai mazzeri, o abbocconati dai coltelli.
Sani con feriti, moribondi con boccheggianti si abbaruffano in ogni
strana attitudine. Felice chi muore prima, o tosto; imperciocchè
gl'Indiani scotennavano i viventi, ed i Tori indragati, quando non
potevan coll'armi, colle mani gli sbranavano. Nissuno si pensi, che
alcuna rotta sia mai stata più lagrimevole di questa, nè che tanta
crudeltà siasi usata da feroci vincitori sopra i vinti. La maggior parte
morirono. Da settanta col Zebulone scampati dalla beccheria si
ricoverarono sbandatamente in un Fortino dall'altra parte del fiume.
I vincitori di nuovo investivano Kingston, e per ispaventar con orribile
spettacolo il già debole presidio vi briccolaron dentro dugento zaccagne
tuttavia grondanti di sangue dei loro parenti, amici e compagni. Il
colonnello Dennisson, comandante del Forte, veduta l'impossibilità del
difendersi, mandò chiedendo a Butler, quali condizioni concederebbe, se
si arrendessero. Rispose con ferità più che barbara e bestiale, e con
una sola parola l'_Ascia_. In un frangente tanto spaventevole
difendevasi Dennisson per un tempo, come meglio sapeva e poteva. Infine
morti, o feriti quasi tutti i suoi, si arrendè a discrezione. Entrarono
i Barbari, ed incominciarono a trar fuori dal Forte i vinti, i quali già
si credevano di esser menati ad una certa morte. Ma infastiditi
dall'impaccio e dalla lunghezza delle particolari morti si ravvisarono
di stivargli, uomini, donne, vecchi e fanciulli alla mescolata dentro le
case e le baracche, alle quali posto il fuoco, gli arsero dentro tutti,
dilettandosi essi nell'udire le compassionevoli grida di tanta
moltitudine di morenti.
Rimaneva in poter dei Viominesi il Forte Wilkesborough. Sopraggiungevano
i vincitori, e quei di dentro, sperando di trovar mercè, si arrendettero
senza resistenza alcuna ed a discrezione. Ma se la resistenza irritava
quegli uomini feroci, o piuttosto quelle fiere avide del sangue umano,
la cessione non gli disasprava. La rabbia loro si esercitò
principalmente contro i soldati del presidio, i quali eran piuttosto
stradieri da confini, che stanziali o milizie. Tutti gli ammazzarono con
inudita barbarie, e con nuovi ed inusitati martorj. Gli altri, uomini,
donne e fanciulli, i quali non parevan loro meritare una speciale
attenzione, arsero, come quegli altri, nelle case e nelle baracche,
tutti comprendendo in un universale incendio.
Prese le Fortezze, ivano i Barbari alla sicura disterminando la
contrada. Adoperavano il ferro, il fuoco, ogni stromento di distruzione.
Le messi e le ricolte, l'une e l'altre abbondantissime, ardevano. Le
case, gli arredi, le masserizie, preziosi frutti e cari dell'umana
industria e della civile società, si guastavano, come più veniva a
grado, o come meglio sapevano studiarsi i distruggitori. Ma eglino
spietati e snaturati, com'erano, non si ristavano ai volti umani; anzi
contro le bestie stesse rivolgevano il furor loro. Tagliate le lingue ai
cavalli, alle pecore, ed ai boccini gli lasciarono poscia andar vagando
per quelli testè sì pieni e lieti, ed ora distrutti pascoli, contenti al
veder prima i tormenti loro, che la morte.
Noi siamo stati lungamente in forse, se raccontare dovessimo i
particolari esempj della barbarica crudeltà; imperciocchè solo nel
rammentargli ci sentivamo raccapricciare. Ma considerato, che forse se
ne potrebbero i buoni Principi ritrarre dalle guerre, ed i cittadini
dalle civili discordie, non abbiam voluto, che la memoria di quelli a
queste nostre storie mancasse. Essendo il capitano Bedlock stato
spogliato nudo, gli si piantarono nel corpo suo fuscelletti di pino,
poscia posto sopra una catasta di rami del medesimo albero, datovi il
fuoco, fu arso vivo miserabilmente. I capitani Ranson e Durgee furon
gettati anch'essi viventi nelle fiamme. I Tori non che non
eguagliassero, forse superavano la crudeltà dei selvaggi. Uno fra gli
altri, la cui madre si era ad un secondo marito sposata, e questa, ed il
padrigno, e le sue proprie sorelle ed i bambini loro ammazzò. Un altro
uccise colle sue mani stesse il proprio padre, e tutta la sua famiglia
disterminò. Un terzo si bruttò le mani nel sangue dei fratelli suoi,
delle sorelle, del cognato e dello suocero. Queste furono una parte
delle dispietanze usate dai selvaggi, e dai fuorusciti nell'eccidio di
Viomino. Altre, se possibil sia, più orribili, passiamo sotto silenzio.
Nè meno lamentevole era la condizione di coloro, la più parte donne e
fanciulli, i quali avanzati a tanto sterminio, si eran rifuggiti nelle
selve in quell'ore, in cui i Barbari infuriavano contro i mariti e padri
loro. Dispersi e vaganti per le foreste, dove il caso o la paura gli
guidava, senza cognizione de' luoghi, senza vestimenta, senza
vettovaglie, ogni estremo di miseria dovettero sopportare. Parecchie
partorirono fra boschi, troppo lontani dai luoghi abitati, perchè
potessero sperar soccorso. Le più forti di mente e di corpo scamparono;
le altre perirono; ed i corpi loro e quei delle innocenti creature
diventarono preda alle crudeli fiere. In cotal modo fu ad un totale
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