Storia dei musulmani di Sicilia, vol. III, parte II - 44

eccellenti poesie dettate in tal metro da Abu-Bekr-ibn-Zohr.
[914] Dopo il Freytag, _Darstellung_, ec. (1831) il barone De Hammer
chiamò l’attenzione de’ dotti, su questa nuova maniera di poesia, nel
_Journal Asiatique_ di agosto 1839 (pag. 153 segg.) e di agosto 1849
(pag. 249 segg.); ma, al solito suo, trattò il subietto con leggerezza.
Or l’hanno rischiarato orientalisti di vaglia, come il baron De Slane,
il professore Dozy e il barone De Schack. Si vegga, dello Slane, la
versione francese de’ Prolegomeni d’Ibn-Khaldûn, parte III, pag. 422 e
segg.; del Dozy, le osservazioni critiche su questo lavoro dello Slane,
nel _Journal Asiatique_ di agosto 1869, pag. 186 segg., e dello Schack
la _Poesie und Kunst_, ec. vol. II, § xiij, pag. 47 segg.
Ibn-Khaldûn, nella parte or or citata de’ Prolegomeni, dà ampii
ragguagli sul nuovo genere di poesia, ch’ei non spregiava come
Imâd-ed-dîn, e ne aggiugne moltissimi squarci ed anco interi
componimenti.
Tocca un poco la _mowascehe_ e i _zegel_ Averroes, nel Contento medio
su la poetica di Aristotile, a pag. 3 del testo arabico, che si stampa
per le cure del dotto professore Fausto Lasinio, sul codice unico della
Laurenziana, insieme con l’antica versione ebraica e con versione
italiana e note. I luoghi d’Ibn-Bassâm ai quali accenna il Dozy,
op cit., pag. 186, 187, rischiarano anco il subietto; e chi volesse
studiarlo profondamente, troverebbe una vasta e sistematica raccolta
nel codice della Riccardiana, del quale ho fatta menzione nella nota
precedente.
[915] Questo dubbio, che ognuno avrebbe _a priori_, è degno di ricerche
positive. Il citato codice 191 della Riccardiana ci dà due serie di
“Cantilene (_neghm_) dell’Irâk,” con versi brevi e mutazione di rime.
Nell’Irâk si può supporre, al par che l’araba, l’influenza persiana.
[916] Dozy, op. cit., pag. 187, 188; De Schack, vol. cit., pag. 52.
Quantunque i versi di alcune _mowascehe_ e _zegel_, ammettendo molte
licenze poetiche, si possano ridurre a’ metri ordinarii degli Arabi,
pure la misura per sillabe e accenti mi par che torni più costantemente
esatta.
[917] Prolegomènes, III, 441. Si confronti lo Schack, vol. cit., pag.
52.
[918] Per evitare quattro consonanti di fila, scrivo _mowasceha_ e
non _mowascsceha_, come si dovrebbe. Il _Vocabulista in Arabico_,
pubblicato non è guari a Firenze, dà, invece di quel vocabolo, il
maschile _mowascsceh_, col riscontro latino “versus” e _zegel_, col
riscontro “Cantilena vel versus,” pag. 111, 199, 279, 624.
[919] Il barone De Hammer (_Journal Asiatique_, agosto 1839, pag. 153)
non esitò a definire le ottave rime, invenzione degli Arabi, e dopo
dieci anni, rincalzando (op. cit., agosto 1849, pag. 249) identificò il
sonetto col _zegel_. Ma questo articolo è quello appunto in cui egli fa
derivare dall’arabo la voce _cancan_!
[920] Si legge il testo nella _Bibl. arabo-sicula_, pag. 580, dove si
intendan fatte le correzioni che furon proposte dall’illustre prof.
Feischer.
Eccone la traduzione verso per verso:
1.
“Cotesta gazzella adorna d’orecchini
Mi canta le nenie quand’io son lungi
E quando vede ciò che m’è avvenuto.
2.
Come (s’io fossi in un) giardino variopinto,
Quand’ella è meco, non mi cale (d’altro)
Poichè per l’amor suo mi consumo.
3.
Il suo volto è luna che spunta:
Superbisce quand’ha occupati tutti gli affetti miei,
Dond’io mi travaglio.
4.
Sur un tralcio sottile,
Si sollazza nel mio lungo dolore,
Allontanasi ed io sto per morire.
5.
Sdegnosa, inaccessa a pietà,
Non rifugge dal romper la fede,
Non ha (per me) che il silenzio.
6.
Tiranna, ingiusta,
Mutata da quella che fu una volta;
Sì ch’è felicità rarissima a trovarsi con lei!”
Trascrivo tre stanze del testo per dare un’idea del metro:
1.
Wa ghazalin musciannefi
Kad retha li ba’da bu’di
Lamma rea ma lakeitu.
2.
Mithlu raudhin mufawwefl
La obâli wahwa ’indi
Fi hubbibi ids dhâneitu.
3.
Waghuhu l-bedru tâli’an.
Taha lemma haza wuddi
Fainnani kad sciakeitu
Fi kadhlbin mohfahefi, ec.
Si ricordino le osservazioni che abbiam fatte nella nota 2 della pag.
738, intorno la scorrezione del testo.
[921] Stesso Ms, fog. 3 recto, 6 verso.
“Scritto è nel Codice degli innamorati: morire o fuggir pria (che si
sentano) le ripulse e i tormenti.
Se mi è parsa lunga una notte, ecco che l’aurora spunta con la dolorosa
(rimembranza) di colei ch’è nascosa agli occhi miei.
Chi me ne dà contezza? Per la sua assenza i solchi delle lagrime mi
rigan le guance.
S’io penso a lei, le palpebre degli occhi miei sembran ramo di
tamarisco molle di pioggia, quando il vento lo scuote.”
[922] Ms. di Parigi, _Ancien Fonds_, 1375, fog. 3 recto.
“M’incresce di rimanere in vita finchè non ritorni certa persona
assente, che non lascia prender sonno agli occhi miei.
Come bramar la vita lungi da costei, tanto amata, che avrei data tutta
la eternità per un sol giorno goduto con lei!
Io mi querelava quando non la vedeva, e pur l’era presso; ed ora
conosco che cosa sia la lontananza!
Io bramo di potere svelare il tuo nome a tutto il mondo: ed ecco i
malevoli a dir che non mi curi di te!”
[923] Stesso Ms., fog. 2 recto.
“Dal tramonto del Sole infino all’aurora, bevemmo temperato un (vino
biondo come il) Sole,
Quando i raggi del Sole battean sul Nilo, come punte di lance su le
corazze.”
[924] Ibid.
“Una smilza che quando balla dinanzi la brigata, fa ballare il cuore a
chi guarda: tanto eccelle nell’arte!
Sì leggiera al passo, che quand’ella gira e atteggiasi dinanzi a chi ha
gli occhi infiammati, questi non si duole del mal di capo.”
Stesso Ms., fog. 4 recto.
“O gazzella che il Creatore plasmò tutta di bellezza e leggiadria,
Ch’io mi sollazzi in questi giardini, senza trascorrere, nè cogliervi
frutto:
Io non vengo mica a far male; ma soltanto a rallegrare lo sguardo.”
[925] Ms. citato, fog. 2 recto.
“Ne’ contrattempi e ne’ frangenti, noi tenghìamo consiglio coi segreti
degli animi nostri;
Ciascun fa sue querele, e così comprendiamo a che siam giunti, senza
timor di spie, nè di scolte.”
Si riscontri il cap. xiv del libro IV, vol. 2º, pag. 520, 524, dove si
fa menzione d’un Abu-l-Hasan, che ha gli stessi nomi di costui, fuorchè
l’ultimo “ibn-abi-l-Biscir,” invece del quale si legge “ibn-el-Biscir:”
e potrebbe essere errore di copia ed anche variante d’uso. Anche l’età
coinciderebbe. Ma da un lato mi farebbe maraviglia che fossero sfuggiti
a Imâd-ed-dîn i versi a lode de’ ministri egiziani; e dall’altro
è da notare che nella _Kharîda_ il nome è anche scritto una volta
ibn-abi-l-Besciâir.
[926] _Bibl. arabo-sicula_, testo, pag. 581.
[927] _Kharîda_, op. cit., pag. 586.
“O Beni-l-Asfar (gente bionda) voi dovete il prezzo del mio sangue: de’
vostri è il mio uccisore, il ladrone che m’ha spogliato.
È bello dunque il fuggir chi t’ama? È lecito ciò nella religione del
Messia?
O tu dall’occhio languente senza malattia, quando tu alluci un (ferito
in) cuore, eccol già sano!
Ogni sorta di bellezza, dacchè io vi ho visti (o gente bionda), par
brutta agli occhi miei.”
Si ricordi che gli Arabi chiamavan Beni-l-Asfar i Romani e i Bizantini.
[928] Ms. di Parigi, fog. 11 verso.
“Le mie lagrime già scopron l’amore: non reggo più alla passione che
m’ispira questa verginella, guardandomi con due occhi d’antelope. La
bionda che ama il vestito bianco e tinge il velo nel rosso del cartamo.
Oh quel camiciotto e quel velo riflettono il colore su chi la guarda;
ond’egli (a vicenda) si fa bianco e arrossisce!
Crisolito ella è, legato in lamina d’argento e coronato di vermiglia
corniola.”
[929] “Una fanciulla mi ha rapito il cuore di mezzo il costato:
l’adesca assiduamente co’ suoi vezzi!
Donzella dalla guancia (porporina) come il suo camiciotto; dal velo
bruno come le sue ciocche:
Le pietre preziose del suo monile tondeggiano come il suo seno; le
minuterie ond’ella s’adorna, hanno il colore dell’afflitto mio viso.
Ella, col suo _wisciâh_, col velo e con gli ornamenti, sembra a chi
la affisi, un Sole vestito di splendore, coronato di fitte tenebre e
circondato di stelle.”
[930] _Kharîda_, op. cit., pag. 601. I versi ai quali s’accenna,
leggonsi nel citato Ms. di Parigi, fog. 116 recto e verso. Il poeta
siciliano ne scrisse tre, per chiedere il libro: ed Abu-s-Salt gliene
mandò con sette versi su la stessa rima.
[931] Ms. di Parigi, fog. 11 verso, 12 recto.
[932] Fog. 12 recto.
[933] Fog. 12 recto a 13 recto.
[934] Fog. 13 recto.
[935] Fog. 13 recto e verso.
[936] Si confronti la notizia di Imâd-ed-dîn, _Bibl. arabo-sicula_,
pag. 587, con quella di Zuzêni, op. cit., pag. 619. Questa seconda
notizia fu già pubblicata, non senza errori, dal Casiri, _Bibl.
arabo-hisp._, I, 434, e quindi dal Gregorio, _Rer. Arab._, pag. 237, e
citata dal Wenric, _Rerum ab Arabibus_, ec. pag. 305.
[937] Anonimo, presso Imâd-ed-dîn, loco citato.
[938] Imâd-ed-dîn, nel Ms. parigino della _Kharîda_, fog. 16 recto.
[939] Ms. citato, fog. 16 recto segg. L’elegia principia:
“Difficile è il conforto; immensa la separazione e la perdita; e ne
piomba nell’anima più dolore ch’ella non cape.
Piangete, occhi, lagrime schiette e sangue; poichè a questo colpo non
v’ha schermo!
. . . . . . .
Non bastava la Terra a’ suoi benefizii, ed or basta al suo corpo la
fossa che gli hanno scavata.
Chi rimane agli orfani ed a’ viandanti, che le sue mani soleano
dissetare e saziare?
. . . . . . .
Vengono gli Angeli della Grazia ad annunziare ch’egli è asceso agli
eterni giardini.
Chè già le sue azioni gli aveano apparecchiato l’albergo ne’ luoghi
dove posano le anime generose.
Che è questo che gli uomini sanno bene ch’e’ s’ha a morire, e poi,
mettendosi in viaggio, non pensano a provvedersi del vitto?”
[940] Ms. citato, fog. 17 recto.
“Lo piangono i destrieri di battaglia e spezzano il morso, non sentendo
più i suoi sproni.
Vanno di passo, ancorch’e’ siano purissimi di sangue tra tutti i
cavalli, valentissimi al corso e smilzi sopra ogni altro.
Per poco le spade indiane non si torcono dal dolore, sì che i foderi si
spezzino allo sguainarle.”
[941] Ms. citato, fog. 16 recto.
“Guancia lussureggiante di gelsomino e di rosa; bocca rivale della
camomilla e del vino,
Per Dio, io t’amo, sì che lungi da te non reggo alla passione
dell’animo:
La mia vita sta nella (speranza di) trovarmi un giorno con te; la mia
morte nel (timor) che duri questa nostra lontananza.”
I poeti arabi usano spesso cotesto paragone della camomilla per
significare la bianchezza dei denti.
Nel ms. citato, fog. 14 recto, si legge una kasida nella quale il poeta
si lagna della:
“Smilza, che l’antelope del deserto le invidia tanto il collo; e
l’aurora al par che il tramonto, desidera il (colorito del) suo volto.”
E conchiude con questi versi:
“Messi tutto l’animo mio nell’amore e inghiottii (anche) il disprezzo.
Ed or mi son rivolto alle bellezze dello stile; mi son gettato a
briglia sciolta nell’ippodromo loro.
Accortomi del buon sentiero e del tempo perduto dietro gli errori,
Ho abbandonato l’amore, ho cacciate via le (male) usanze, mi sono
scostato dall’amor volgare ed egli s’è scostato da me.”
[942] Ms. citato, fog. 15 recto. Questa poesia sembra fatta per
cantarsi da qualche donna di un harem.
“O mio padrone, luce del mio cuore, anzi luce di tutti i cuori,
Non vedi tu come il mio corpo è dimagrato e smunto (il viso);
Quanta arsura m’è entrata nel cuore e qual bàttito?
E tu sempre mi respingi, senza mia colpa!
Chè, se colpa ho io, tu puoi cancellarla:
Ma ch’io ti offenda, è molto lungi dalla mente di chi ha fior di
senno!
Al mio male non v’ha medicina e non v’ha medico,
Per me non v’ha farmaco che di abbracciare chi amo.
O mio padrone, s’io mi struggo d’amore, non è maraviglia!
Spegni tu la sete del mio cuore con una visita, e tosto:
Chè nel nocciolo del mio cuore arde la gehenna!”

[943] Così egli descrive la lettera dell’amico, nello squarcio di versi
tramezzato alla prosa d’una epistola, ms. di Parigi, fog. 17 verso.
“N’esalò, quand’io ruppi il sigillo, un’auretta impregnata di muschio,
di legno d’aloe e d’ambra.
L’occhio mio sollazzossi in giardini, dove biancheggiava il giglio, il
mirto e la rosa:
Una pagina (nitida come) splendore diurno, su la quale spiccavano righi
di tenebre nerissimi;
E lessi parole di rubini infilzati nella collana con (altre) pietre
preziose e con perle;
(Parole che) se le sentisse l’egro, gli cesserebbero ogni dolore; anzi
desterebbero un cadavere dal sonno della tomba. “
[944] Si leggono questi versi nel ms. di Parigi, fog. 20 recto.
“Lo stuolo delle virtù si ferma (nel cammino) per cagion del dolore;
l’eccelso monte della nobiltà rovina e precipita.
Oh qual seguito di mali s’appressa, mentre (da un altro lato)
s’allontana ogni prospetto di gioia!
Che avverrà mai della luce del Sole e di quella che gli dà lo scambio,
se questo faro di laude e di gloria è demolito?
(Soprattutto) ci accora che, mentr’egli pur alberga in uno degli
elementi, la scellerata (morte) toglie alla sua mano di strignere (la
spada) e d’allargarsi (donando).
Come colomba alle colombe, così ei s’accomuna con le anime de’ generosi
che va incontrando.
O trafittura crudele! O rammarico che (strappa) le lagrime (dagli
occhi)! O sorte nemica! O morte fiera!”
Pazienza, pazienza! La morte pria d’oggi ha cancellati tanti re, come
si cancella la scrittura ne’ libri!
[945] Questa bella iscrizione è stata pubblicata tante volte e l’ultima
da M. Fresnel, con la versione inglese di Farès Schidiâk, nel _Journal
Asiatique_ di novembre 1847, pag. 439. La scrittura, e, con certezza
non minore, l’uso della lingua, vogliono che il passo, reso dal sig.
Schidiâk “an attendant of Ibn-es-Soosee” si legga, “ch’era chiamato
Ibn-es-Susi.” L’epitaffio è dato il 569 (1174). Si vegga il Cap. viij
del libro V, a pag. 213 di questo volume, nota 3.
[946] La frase comunissima che traduco così, suona letteralmente “il
luogo dove cadde la sua testa (nascendo).”
[947] _Bibl. arabo-sicula_, testo, pag. 588, 589.
[948] Op. cit., pag. 600 segg.
[949] Diploma arabico di settembre 1161, appartenente alla Commenda
della Magione, serbato oggidì nell’Archivio regio di Palermo. Il
cadì si chiamava Abu-l-Fadhl-Regiâ, figlio di Abu-l-Hasan-Ali, figlio
d’Abu-l-Kasim-Abd-er-Rahman-ibn-Regiâ. Tra i testimonii si legge anco
Mohammed-ibn-Ali-ibn Abd-er-Rahman-ibn-Regiâ.
[950] _Bibl. arabo-sicula_, pag. 600 segg., del qual testo il baron
De Schack ha data nella sua Poesie und Kunst, ec. II, 44 segg., una
traduzione in versi tedeschi, talvolta libera, ma sempre elegante.
Ecco gli squarci dell’elegia.
“Si piange! Oh come scorrono le lagrime dagli occhi e dalle palpebre
stanche! Oh come struggonsi i cuori e i petti!
La luna più splendida s’è occultata e s’è oscurato il mondo; crollan le
pietre angolari della magnanimità e della gloria.
Ahi, quand’egli fu perfetto in sua bellezza e maestà, onde superbivano
di lui tutte le regioni della possanza,
Lo rapì allora di furto il crudel fato: la morte traditora, infesta
alla sua gloria.
Così anche accade alle lune nel meglio: quando le son piene, la vicenda
del tempo vuol ch’esse manchino!
Ben è ragion che si pianga per lui, con lagrime sparse sopra guance di
perle e di coralli;
Che petti ardano, animi ammalino, affanni aggravinsi, cordogli
ingrossino,
Sgorghino doglienze, occhi abbondino di pianto: sì che il flusso delle
onde vada a incontrarsi co’ fuochi!
Lo piangono le sue tende e i suoi palagi; le lance e le spade gli
recitan l’elogio funebre;
Il nitrito si fa gemito nelle gole de’ cavalli, quantunque costretti
dai morsi e dalle testiere.
E per chi piangono, se non per lui, le bigie de’ boschetti? Se
comprendessero, anche i rami piangerebbero insieme con le colombe.
Oh gran perdita! Oh sventura, maggior d’ogni costanza, rifuggente da
ogni conforto!
Oh giorno d’orribile spavento, di terrore che fe’ incanutire i
fanciulli!
Come se l’(angiolo) banditor del Giudizio fosse venuto a convocare le
creature, e tutte lì lì fossero surte;
Così bastava appena il terreno alla gente (uscita di casa all’annunzio)
e trassero a stuoli in un prato, uomini e donne.
E cuori si squarciarono, non che i vestiti, e usignuoli ripeteano il
verso, e animi (forti) sbigottirono ed (alti) intelletti.
Eran vestiti a festa come candide colombe, e ritornarono che parean
corbi, con le gramaglie del dolore.”
Ho tradotto “bigie” il plurale _wurk_, che ha in origine tal
significato, e indi vuol dir “colombe:” ma non si può rendere in
italiano il bisticcio che fa questo vocabolo con _werek_ “fronde,”
in guisa che permette al poeta di ripigliare la figura nell’altro
verso, dicendo che piangerebbero anche i rami, ec. Nel penultimo verso
il verbo che ho tradotto “ripetere,” nasconde un’altra malizietta
del poeta, significando al tempo stesso “gorgheggiare” e “recitare
il motto: Noi appartenghiamo a Dio ed a lui ritorneremo.” Cotesta
sentenza, tolta dalla sura II, v. 151, del Corano, sogliono borbottare
i Musulmani ne’ maggiori pericoli o calamità. Come si fa a riportare in
italiano gioielli di tal pasta?
[951] _Bibl._, pag. 582. Questo e i due squarci di Abd-er-Rahman da
Trapani e d’Ibn Bescrûn, che daremo or ora a pag. 756 e 759, furono
pubblicati per la prima volta, con traduzione francese, dal baron De
Slane nell’articolo del _Journal Asiatique_, II serie, tomo XI, pag.
362 segg. (1841), nel quale ei die’ ragguaglio della traduzione della
Geografia di Edrîsi, per M. Jaubert.
Io ho confrontato il testo col Ms. del British Museum e l’ho ristampato
nella _Bibl. arabo-sicula_, con le varianti e con le lezioni ch’io
presceglieva e quelle anco che m’erano gentilmente proposte dal dotto
professore Fleischer. Il barone De Schack, op. cit., II, 41, 42, 261,
ha data di questi squarci una buona traduzione tedesca, in versi,
fondata sul testo della _Biblioteca_.
[952] Il baron De Slane ha letto _’Akîk_ “corniola.” Ma _’Atîk_
“vecchio” significa specialmente vino; e mi conferma in questa lezione
la desinenza femminile dell’aggettivo che segue.
[953] Ma’bed fu celebre cantatore della corte omeiade in Damasco.
[954] Ho seguite in questo verso due lezioni diverse da quelle dello
Slane.
[955] Evidentemente allude a quella che un tempo fu chiamata “la Sala
verde;” su la quale si vegga una erudita dissertazione del barone
Raffaele Starrabba, nelle _Nuove Effemeridi Siciliane_ del 1870.
[956] Altrimenti detti della Favara. Una delle due sorgenti d’acqua
del parco regio che racchiudea la villa alla quale fu dato tal nome,
si chiamava della Rupe; come l’attesta Ibn-Haukal, nella _Bibl.
arabo-sicula_, pag. 9 e nel _Journal Asiatique_, serie IV, tomo
V (1845), pag. 99. Il nome veniva dalla rupe ora detta di Santo
Ciro, sotto la quale sgorga quell’acqua, che si addimanda ancora di
Maredolce, dal lago che faceva un tempo.
[957] _Bibl._, pag. 581 segg.
[958] Io veramente non son certo che la voce “_bahrein_” s’abbia qui
a tradurre due mari, più tosto che due laghi. Nel primo caso, l’un
de’ mari sarebbe il golfo di Palermo e l’altro il lago d’acqua dolce,
doppio o scempio che si voglia supporre. Nel secondo caso, il poeta
potrebbe alludere a’ due laghetti formati dalle sorgenti di Maredolce
e della Favara propriamente detta, le quali sono distanti quattro
chilometri l’una dall’altra. La prima alimentava certamente un lago; ma
che questo si estendesse fino alla seconda non è provato, per quanto io
sappia, da scritture, nè dalla topografia.
[959] Ancorchè il lago di Maredolce sia prosciugato fin dai principii
di questo secolo, il letto della parte superiore si scorge benissimo,
e non v’ha dubbio che il castello o villa regia sporgea dentro il lago,
ma rimanea congiunto alla riva.
[960] Seguo le lezioni proposte dal Fleischer, nella _Bibl.
arabo-sicula_, pag. 585.
[961] Leggo il secondo emistichio in modo da mutare affatto il
significato supposto dal baron De Slane.
[962] _Corano_, sura LXXXI, verso 12.
[963] _Bibl. arabo-sicula_, pag. 587 seg. e 616, dove si legge una
breve notizia che ne dà il Dsehebi, nelle _Biografie de’ Grammatici_.
[964] Così anche il suo prototipo, Ka’b-ibn-Zoheir, nel celebre
poema che gli valse il perdono di Maometto, incomincia piangendo per
l’allontanamento della bella So’àd e passa d’un salto alle lodi del
Profeta.
[965] “Cercando sollievo, ei volea porre altra (bella) in vece di So’àd
nel nocciolo del suo cuore;
E sperava che, per principio, l’immagine di lei venisse a visitarlo (in
sogno): ma il gran dolore gli negò la dolcezza del sonno.
Oh se vi fosse stato il re Ruggiero, quel che fa conoscere agli amici
la magnificenza del suo affetto,
Non avrebbe (il poeta) ricusato di bere nella tazza preziosa, il giorno
che (So’âd) allontanossi; ma avrebbe visto nell’oroscopo del re la
faccia della gloria.
. . . . . . .
Pronto a’ doni, com’è pronta l’indica spada ch’ei brandisce a due mani
il giorno della mischia,
Rifulge nelle tenebre l’aurora della sua fronte, talchè diresti che la
luce del Sole invidia anch’essa questo (eroe).
Egli ha piantata la tenda là dove spuntano i Gemini: le Plejadi e i due
grandi luminari gli fan da piuoli;
E quando s’arruffano le cose, allora il suo brando affilato scrive
coll’inchiostro suo, in guisa da far tornare bianchi que’ che parean
più neri.
. . . . . . .
O monarca, roccia di granito su la quale la fierezza tien saldi i pie’;
Tu che, provocato dagli spiriti dei nemici, li disperdi scherzando,
percossi dai tagli delle tue spade.”
[966] Dozy, _Catalogus_ CC. OO., _Bibl. Acad. Lugduno Batavae_, tomo
II, pag. 263, tra i titoli de’ capitoli e i nomi de’ poeti che leggonsi
nella _Kharîda_ d’Imâd-ed-dîn. Si confronti la _Bibl. arabo-sicula_,
pag. 599, 601.
Il _Mokhtar_ è registrato da Hagi-Khalfa, edizione Fluegel, IV, 146,
n. 7901 e V, 438, n. 11590 e nella _Bibl_. cit., pag. 704, 705. Notasi
inoltre in Hagi-Khalfa, III, 593, n. 7146, un _Sirr-el-Kimia_ (Segreti
dell’Alchimia) dello stesso Ibn-Bescrûn.
[967] _Bibl._, pag. 583. Si riscontrino le spiegazioni che abbiam date
per alcuni vocaboli, trattando di quell’altro componimento qui innanzi
a pag. 755 segg.
Anche qui ho preferita qualche lezione diversa da quella che seguì il
baron De Slane nella sua prima pubblicazione.
[968] La voce _ghoraf_, plurale di _ghorfah_, è stata dal baron De
Slane tradotta un po’ vagamente _étages_. Il significato di “loggia,
belvedere,” si scorge preciso ne’ passi di Makrizi, _Kitâb-el-Mowâ’iz_,
testo di Bulâk, tomo II, pag. 250, lin. 19, e di Ibn-Giobair,
ediz. Wright, pag. 271: e così lo dà anche il Cuche, nel Dizionario
Arabo-Francese, Beirut, 1862. Intorno gli altri significati, si vegga
la voce “Algorfa” nel _Glossaire des Mots espagnols_, etc. per Dozy ed
Engelmann.
[969] Ho amato meglio lasciar questo vocabolo indeterminato com’esso
è nel testo. Pur sembra che il poeta, più tosto che alla cacciagione
del parco reale, abbia voluto alludere a’ lioni di marmo notati dal
poeta di Butera, al quale ei risponde, seguendo non solamente il metro
e le rime, ma facendo anco la parafrasi di ciascuna idea, come in un
indirizzo parlamentare con cui l’uso vuol che si riscontri per filo e
per segno il discorso del trono.
[970] Il testo ha la voce _dibag_ e la mette al plurale. Di questa voce
abbiam già fatta menzione e la traduciamo _broccato_, perchè dinota
ricco e grave tessuto di seta.
[971] Mi par che in questo verso il verbo s’abbia a supporre
all’optativo, che in arabico è il passato. Mi discosto in ciò dal
baron De Slane che ha tradotto “Il est là” etc. Intendo poi in modo
affatto diverso gli ultimi due vocaboli, ch’egli ha resi “admirables
monuments.” _Mesched_, di cui abbiamo qui il plurale, significa
luogo di adunanza, luogo dove si fa testimonianza, e indi “martirio,
santuario;” ma non so che gli Arabi abbian mai chiamato così un
sontuoso edifizio in generale. Seguendo questo pensiero, che non
è arabo, nè del XII secolo, il dotto traduttore ha dovuto usare
forza all’ultimo vocabolo e farne uno degli aggettivi che oggidì si
accoppiano inevitabilmente con “monumento.”
[972] _Bibl. arabo-sicula_, pag. 586. I versi leggonsi nel Ms. di
Parigi, fog. 10 verso. Ed ecco que’ della kasida:
“Quanti uomini eccelsi la fortuna ha messi giù, in condizione
inferiore, dopo aver sorriso ad essi!
Quanti uomini da nulla si sono rimpannucciati: han salito ogni monte,
arrampicandosi fino alla cima!
Maledetta la fortuna che ha depressa l’altezza del mio grado; m’ha
scemati i fratelli e moltiplicate le ingiurie!
Quand’ella oscura la riputazione d’un uomo, eccotelo stecchito: a chi
lo guardi, par ch’ei dorma (l’ultimo sonno).”
[973] _Bibl. arabo-sicula_, pag. 581.
Il primo epigramma è scritto ad “un certo capo” che non si era lasciato
veder da lui. Il professore Fleischer, rivedendo le stampe della
_Biblioteca_, propose di leggere “tempo” in vece di “capo,” la quale
lezione avrebbe riportato a Ruggiero il fatto del ributtare il poeta.
Ma non ostante il gran rispetto che io ho per quel sommo maestro, non
veggo ragione di mutare la mia traduzione. E i versi mi sembrano sì
impertinenti, da non potersi credere che il poeta li abbia indirizzati
a Ruggiero.
[974] Ms. di Parigi, fog. 8 recto. Il primo epigramma è questo:
“Superbì colui ch’io andai a visitare e si chiuse, lasciandomi fuori,
mentre egli non si ascondeva a questo nè a quell’altro.
Pria di conoscermi egli avea fatti stendere drappi del Sind e della
Cina (per farmi onore).
La mia sventura vien tutta da lui. Così foss’io morto pria di questo
(affronto).”
Ecco l’altro epigramma:
“Gli amici della tua fortuna, fa di accoglierli come nemici, con l’arme
in mano.
Nè ti illuda (se loro spunti in volto) il sorriso, chè la spada ti
ammazza luccicando.”
[975] Si vegga il Capitolo precedente, pag. 684, di questo volume.
[976] _Bibl. arabo-sicula_, pag. 582. Questi due versi portano a
credere che l’autore sia vissuto nella seconda metà dell’XI secolo,
ancorchè la raccolta, in cui Imâd-ed-dîn dice averli trovati, si
riferisca alla seconda metà del XII. Pure un musulmano che avesse vista
la Sicilia verso il 1150 e poi verso il 1162, avrebbe potuto pensare
anche così.
[977] Nel Ms. di Parigi, fog. 8 verso e 9 recto.
Sono tre squarci, dei quali traduciamo quel che ci sembra il migliore.
“Mi lamentai, ed ella disse: Tutto questo mi dà noia! Che Dio sollevi
il tuo cuore dall’amor che senti per me!
Ma quand’io nascosi la passione, eccola a tentarmi: Troppo hai sofferto
(in silenzio). Non fa così chi è afflitto profondamente.
Dunque s’io mi appresso, ella mi respinge, e s’io mi allontano per
farle piacere, me l’ascrive a colpa.
Le querele divengon fallo; la pazienza la fa andare in collera;
s’affanna quand’io sto lungi, e fugge quando son presso.
Oh vicini, se sapete qualche artifizio (che mi tolga da quest’impaccio)
consigliatemelo e che Dio ve ne rimeriti!”
[978] _Bibl. arabo-sicula_, pag. 599. Imâd-ed-dîn dice ch’egli “arrivò
al tempo di Nûr-ed-dîn e morì, ec.” Dunque era già in Damasco quando se
ne impadronì Norandino.