Storia dei musulmani di Sicilia, vol. III, parte II - 21

Accennerò appena alle dipinture su legno che rimangono ne’ cassettoni
ottagoni del palco della Cappella Palatina di Palermo, tutti
intagliati, divisi da lunghe aguglie capovolte a mo’ di stalattiti,
ornati d’oro, d’azzurro, di bianco e d’iscrizioni arabiche. Le
dipinture son da riferire alla prima metà del duodecimo secolo, come
la più parte de’ cassettoni; sapendosi da scrittori contemporanei che
il palco era ornato per l’appunto con que’ disegni e que’ colori,
e rimanendovi intatte, la più parte, le iscrizioni arabiche. Ma a
quell’altezza arriva poca e trista luce dalle finestre sottoposte, sì
che le iscrizioni furono ignote fino al principio di questo secolo,
e le figure e i rabeschi dipinti entro i cassettoni non si conoscono
altrimenti che per le piccole fotografie fatte due anni addietro
a luce riflessa da uno specchio, quand’io mi accinsi a pubblicare
le iscrizioni. Nessuno ha osato poi di giudicar le dipinture senza
osservarle da presso: onde convien tacerne per ora ed aspettare qualche
occasione, che permetta ai conoscitori di studiare a loro bell’agio
questi avanzi di un’arte siciliana del duodecimo secolo.[1288]
Venendo alla scultura, non veggo alcuna ragione di negar ai Musulmani
di Sicilia il lavorìo degli ornati in alto e basso rilievo e in
particolare de’ capitelli elegantemente scolpiti, che ammiriamo
in varii monumenti dell’epoca normanna, massime nel chiostro di
Morreale. Perocchè il grande numero e la forma de’ capitelli esclude
il supposto che fossero tolti da più antichi edifizii, e, come dicemmo
pocanzi trattando de’ mosaici, non regge il vecchio canone che là,
dove si veggono effigie, sia da escludere l’origine musulmana. Buoni
giudici spassionati hanno notata la eccellenza di così fatta opera di
scultura.[1289] De’ fonditori di bronzo abbiamo toccato nel capitolo
precedente. Passando dal mestiere a quella che in oggi si chiama
propriamente arte, noi non rivendicheremo alla scuola musulmana
le due porte di bronzo del Duomo di Morreale, contemporanee e pur
di stile molto diverso, nell’una delle quali si legge il nome di
Bonanno da Pisa, nell’altra quel di Barisano da Trani.[1290] Pure la
imitazione degli ornati arabi è notabile in alcuni compartimenti della
porta di Bonanno: e più assidua, dico anzi servile, si scorge in un
lavoro anteriore almen di ottant’anni, cioè le porte di bronzo della
camera sepolcrale di Boemondo a Canosa, ch’erano una volta ageminate
in argento. Nelle quali non solamente i fregi e il campo son tutti
arabeschi finissimi e complicati, ma l’artista perfin copiò delle
lettere cufiche nei tre cerchi che occupano il campo del battente
sinistro; talchè si direbbe opera orientale, se non vi si leggessero
allato in latino le lodi di Boemondo e se la soscrizione, parimente
latina, non portasse il nome di Ruggiero campanaio di Amalfi, autore
delle porte e d’un candelabro.[1291] Possiam noi supporre questo
Ruggiero musulmano di Sicilia, battezzato col nome del padrone
normanno che l’emancipò; possiamo supporre che, nato in Amalfi, avesse
appresa l’arte, com’altri suoi concittadini ed altri Italiani, in
Costantinopoli, oppure in Sicilia o nel Levante musulmano; ch’egli
avesse gittato il bronzo ed altri disegnati i modelli: ma in nessun
caso è dubbia la scuola, alla quale appartiene questo lavoro. A ciò
s’aggiunga che i Musulmani di quella età, con opera diversa e assai
meno agevole, fabbricavan porte di ferro istoriate a figure di animali.
Noi lo sappiamo precisamente delle porte di Mehdia,[1292] della qual
città si è visto ch’ebbe fin dalla sua fondazione strette relazioni con
la Sicilia. E non sembra inverosimile che fossero state della stessa
fattura le porte di ferro che Roberto Guiscardo riportò di Palermo in
Troja di Puglia, insieme con varie colonne e capitelli di pregio:[1293]
il qual fatto spiana la via all’ipotesi che artisti musulmani di
Palermo abbiano partecipato al disegno dei lavori di bronzo gittati un
secolo appresso pel Duomo di Morreale.
Ma ritornando alle costruzioni dopo il lungo discorso su le arti
ausiliari, ci occorre un ramo d’ingegnerìa assai coltivato in Palermo,
per l’abbondanza delle acque che sgorgano alle radici de’ monti vicini.
Il biasimo che fa Ibn-Haukal a’ Palermitani, perchè la più parte
bevesser acqua di pozzo, ci ha condotti, contro l’opinion comune, a
conchiudere che la vasta ramificazione di acquedotti e condotti minori,
che in oggi recano l’acqua infino a’ piani più elevati delle case, non
si dovesse riferire alla dominazione musulmana. Ma da un altro canto
quel congegno non può esser nato dopo il duodecimo secolo. Arabica
è la voce _giarra_, che designa in Sicilia una parte principale del
sistema, cioè i pilastri, ne’ quali si fa montar di tratto in tratto
l’acqua per lasciarla ricadere giù e renderle in parte la forza perduta
nel cammino: le quali costruzioni furono usate allo stesso effetto in
Ispagna e lo sono tuttora nell’Affrica settentrionale.[1294] Che se il
vocabolo _catusu_, il quale in Sicilia vuol dire doccia di terra cotta,
ha etimologia greca e latina, noi veggiamo che gli Arabi, toltolo
in prestito, come tanti altri vocaboli, da’ popoli civili, mutarono
alquanto il significato da “urna o brocca” in “secchia,” e in Occidente
vi aggiunsero il significato di “condotto o doccia;” onde questa voce
siciliana si deve immediatamente agli Arabi.[1295] Infine è arabica
di pianta la voce _darbu_, misura d’acqua corrente, usata fino ai
nostri giorni in Palermo e scritta in un diploma arabico del duodecimo
secolo.[1296]
Dalle cose passando agli uomini, sarebbe da investigare per lo primo
quali avanzi di sangue arabo e berbero fossero rimasi negli odierni
Siciliani. A tal quesito parmi non sappia rispondere l’anatomia nè la
fisiologia, dopo sette secoli, nel corso de’ quali la schiatta italica,
di gran lunga predominante, ha avuto agio di assorbire ogni altra. E là
dove mancano i rigorosi metodi scientifici, dobbiamo diffidare delle
apparenze, delle opinioni preconcette, delle osservazioni parziali
e de’ subiti giudizii. Per la medesima ragione mettiamo da canto le
conghietture che suggerisce qua e là una diversa sembianza e indole
degli uomini in qualche regione o città dell’isola, e ci ristringiamo
ai fatti storici e linguistici.[1297]
Abbiamo notate a lor luogo le crisi della popolazione musulmana. La
quale, oltre le stragi della guerra e delle proscrizioni, scemò per la
emigrazione in Affrica, incominciata il millesessantotto e non cessata
al certo fino al compimento del conquisto; cresciuta dopo breve sosta,
pei supplizii del cencinquantatrè, e per le stragi del censessantuno;
continuata pian piano sotto Guglielmo il Buono; accelerata dalle
sedizioni del centottantanove, e dai terrori del cennovantanove, fino
alle ribellioni del dugenventuno e dugenquarantatrè, per le quali,
altri si rifuggì in Affrica o in Egitto, ed altri cercò scampo nella
religione de’ vincitori; mentre il grosso de’ ribelli era deportato
in Puglia e scompariva, tra per apostasia e per emigrazione, ne’
principii del secolo decimoquarto. Verosimil sembra che, in tutte
queste vicende, la più parte degli usciti fossero oriundi di schiatte
straniere, più tosto che antichi abitatori dell’isola. In tale opinione
mi conferma il fatto che i Saraceni di Lucera parlavano, o per lo
meno intendean bene, l’italiano;[1298] il che conviene per l’appunto
alla popolazione rurale sottomessa dai Musulmani e lasciata sotto
il giogo dai Normanni, nelle platee dei quali ci occorrono tanti
villani musulmani di origine italica o greca.[1299] Ma dopo la seconda
deportazione in Puglia scomparisce nell’isola, sì come abbiam detto di
sopra, ogni notizia di abitatori musulmani;[1300] si veggono famiglie
siciliane in Egitto e in Affrica;[1301] il linguaggio arabico si spegne
d’un subito in Palermo stessa: sì che ne avanza appena, nella seconda
metà del decimoterzo secolo, una soscrizione in atto pubblico[1302] e
il ricordo di traduttori dall’arabico in latino, tra i quali veggiamo
degli Israeliti.[1303] Mancano in Sicilia nella stessa generazione le
iscrizioni sepolcrali arabiche:[1304] e se i nomi di città, villaggi e
grandi tenute duran la prova del mutato linguaggio, quei delle strade
in città e de’ piccoli poderi cambiano o si corrompono,[1305] sì che
pochi ne avanzan oggi.[1306] Potrebbe supporsi, in vero, da’ capitoli
di Federigo l’Aragonese, che fosse rimaso qualche avanzo di popolazione
musulmana infino alla prima metà del secolo decimoquarto;[1307] ma
quando si riflette al silenzio di ogni altra memoria per sessant’anni,
sembra più verosimile che quelle leggi abbian avuto di mira i
mercatanti musulmani stanziati o passeggieri nelle città marittime, e
gli schiavi recati dalla costiera d’Affrica, e soprattutto dall’isola
delle Gerbe, dopo il milledugentottantaquattro.[1308]
La somma de’ ricordi storici dunque è, che nei primi del trecento
rimanea nella Sicilia propriamente detta poco o punto di quelle
schiatte orientali ed affricane. Delle isole adiacenti, al contrario,
Pantellaria, secondo l’attestato degli scrittori musulmani del
decimoterzo secolo,[1309] non avea mutata schiatta nè religione, se non
ch’era soggetta ai re di Sicilia, e che poi fu occupata temporaneamente
da avventurieri genovesi; ma fino al decimosesto secolo, ancorchè
gli abitatori professassero già il Cristianesimo, “avean comune co’
Saraceni l’abito e la favella,” al dir del Fazzello.[1310] Non sappiamo
se in Malta la dominazione romana abbia spento del tutto il linguaggio
punico, nè se v’abbiano fatto stanza, come a me par verosimile,[1311]
degli antichi abitatori insieme coi Musulmani che se ne insignorirono
e furono soggiogati a lor volta dal conte Ruggiero. Il quale,
avendo istituito immantinente un vescovado, non cade in dubbio che
soggiornassero allora in Malta de’ Cristiani, e sembra assai verosimile
che la schiatta italiana fosse penetrata o piuttosto cresciuta con la
dominazione siciliana in quell’isola.[1312] Meglio che co’ barlumi
delle croniche, la mescolanza della schiatta si prova con l’idioma
maltese, il cui dizionario e, quel ch’è più, la grammatica, è mezzo
italiano e mezzo arabo; onde gli abitatori, senza avere appresa mai
altra lingua, agevolmente conversano coi Barbareschi.[1313]
Qual dialetto dell’idioma arabico abbiano usato i Musulmani di Sicilia
non è agevol cosa a determinare, quando del parlar volgare altro non
resta che un oscuro esempio in tre diplomi del duodecimo secolo,[1314]
ed al contrario gli altri documenti son dettati nell’inelegante, ma
corretto stile degli atti pubblici;[1315] nè le opere de’ poeti e de’
prosatori disconvengono alla lingua dotta di quell’età. Il significato
preso da alcuni vocaboli conferma bensì il plausibile supposto che
fosse prevalso in Sicilia l’arabo occidentale o maghrebino che voglia
dirsi: e meglio si farà il paragone quando uscirà alla luce il gran
dizionario maghrebino che apparecchia il Dozy. Per dar qualche esempio
noteremo che _wed_ in Sicilia, come in Spagna, suonò “fiume,” non
“valle,” come nella patria della lingua; che _marg_, passando nel
dialetto siciliano, piegò la significazione originale di “prato”
in quella di “padule;” che _rahl_, “stazione,” designò in Sicilia
assolutamente un “casale;” _sciarr_, “mala opera,” si ristrinse
a “rissa:” e molte altre differenze di tal fatta potremmo notare
riscontrando i dizionarii classici, sia che le voci abbiano veramente
mutato di valore, sia che i lessicografi, come lor avviene in tutte le
lingue, abbiano ignorati molti significati ammessi in alcune regioni e
presso alcune tribù.
Meno male possiam noi discorrere della pronunzia, della quale ci fanno
testimonianza, fin dall’undecimo e duodecimo secolo, moltissimi nomi
proprii trascritti in greco o in latino, e la sentiamo ancora nei nomi
topografici e ne’ vocaboli siciliani derivati dall’arabico; se non
che nel primo caso avvien talvolta che il mal noto s’abbia a spiegare
con l’ignoto, e nelle parole viventi il suono può essere alterato.
Aggiungasi che in uno de’ diplomi di maggior momento, dico la gran
pergamena arabo-latina di Morreale, la versione è opera di un chierico
francese, di que’ che trassero a corte di Palermo ne’ primi anni di
Guglielmo il Buono; onde alcune lettere latine notan suono diverso da
quel che rendono in bocca nostra.[1316] Contuttociò la materia non
manca. Uscito che sia alla luce l’egregio lavoro del professor Cusa
intorno i diplomi arabi e greci di Sicilia, si ricaveranno con maggiore
certezza le leggi che i suoni del parlare arabico seguivano passando
nel greco e nel volgare della Sicilia: il quale studio renderà più
agevole il gran lavoro d’un glossario di vocaboli siciliani derivati
dall’arabico. Intanto ecco quanto ritraggo dalle ricerche fatte fin qui
intorno l’influenza che quell’idioma esercitò sul volgare siciliano.
Com’io ho detto a suo luogo,[1317] la Sicilia, al punto del conquisto
musulmano, era bilingue, parlandovisi il greco e il latino, o per dir
meglio un idioma italico, il quale negli atti pubblici vestiva i panni
del latino e pur non gli riusciva di celare al tutto le umili sembianze
native. A provar ciò mancano per vero in Sicilia delle scritture del
settecento, ottocento e novecento, come quelle che abbiamo in varii
luoghi della Penisola;[1318] ma nei primi diplomi latini, greci ed
arabi di Sicilia che tornano allo scorcio dell’undecimo secolo, è
manifesta la forma volgare di alcuni nomi proprii o topografici, che
non erano nati al certo in quella medesima generazione. Tra i primi
abbiam già notati Bambace, Diosallo, Mesciti, Notari, La Luce, Saputi,
Caru, Francu, Fartutto, Pacione, Pitittu, Strambo ed altri di antichi
abitatori.[1319] De’ secondi, un diploma greco del milleottantotto
ricorda il fiume _dei Torti_;[1320] uno del millenovantaquattro conduce
i confini d’un podere _ad serram dello Conte_ e quindi _ad petram
serratam quae vocatur La Castellana_;[1321] uno del millecento cita
_La Schala di Lampheri_ e il _monte de Cavallo_, ed accenna al corso
di una valle per _ostro sive Xirocco_.[1322] Il latino notarile del
medio evo, che torna ordinariamente a traduzione mentale dal volgare,
comparisce già in un diploma del conte Ruggiero dato il millenovantuno,
nel quale, oltre il fraseggiare tutto italiano, ci occorre verbo
_accrescere_:[1323] e più apertamente si mostra in un altro diploma
dello stesso principe, datato del millenovantatrè e contrassegnato
dal suo notaio, o, diremmo noi, segretario, Antonio della Mensa, il
quale se fosse siciliano o calabrese io non so, ma di certo scriveva
in una lingua ch’egli credea latina in grazia delle sole desinenze e di
qualche preposizione.[1324]
A cotesti avanzi del siciliano anteriore al conquisto, ne aggiugnerò
altri del duodecimo secolo. Non dimenticando che in quella età la
Sicilia s’empiva a poco a poco di colonie della Terraferma, io metto
da canto l’attestato del bando latino di Patti (1133) spiegato in
volgare,[1325] e lascio indietro molti altri esempii di vocaboli che
si potrebbero riferire tanto al siciliano, quanto al pugliese, al
toscano, al genovese, al monferrino o che so io,[1326] e noto in un
diploma del millecentrentatrè il campo _Lu Marge_,[1327] ch’è bello
e buono vocabolo arabico, vivente oggidì in Sicilia. Ci occorrono in
un’altra carta i nomi topografici _Luhrostico_ e _Tremula_,[1328]
de’ quali il secondo è certamente siciliano; in un’altra del
cencinquantasei, il sostantivo _Olivastro_;[1329] nel centottantadue
_Scuteri_;[1330] nel dugenventisei _Gabbaturi_;[1331] nel dugenquaranta
_Ienchi_ e _Ceramiti_.[1332] E qui fo sosta, poichè non mette conto
a spigolare qua e là dei vocaboli nel decimoterzo secolo, che ci ha
lasciati degli scritti interi in siciliano. Anzi mi sarei già fermato
alla metà del duodecimo, se avessi potuto credere contemporanei
all’originale i transunti di due carte greche pubblicate per lo primo
dal Morso;[1333] delle quali l’una è data il millecencinquantatrè,
e l’altra, che ha soltanto la indizione, è stata ben collocata nel
millecenquarantatrè.[1334] Ma non avendo esaminati i testi, e sorgendo
gravi difficoltà su l’epoca de’ transunti, mi convien rinunziare
a prova sì comoda e lesta.[1335] In ogni modo son persuaso che il
volgare siciliano avea già presa nel duodecimo secolo una forma
assai somigliante all’attuale: e che già aspirasse a divenir lingua
cortigiana lo provano le prime poesie italiane dettate in Sicilia. Le
leggende della maggiore porta del Duomo di Morreale, gittata in bronzo
da Bonanno pisano, sendo latine con abbreviature e con qualche parola
prettamente toscana, non danno esempio, a creder mio, del linguaggio
parlato in Sicilia allo scorcio del duodecimo secolo;[1336] dimostrano
piuttosto, che l’uso della corte di Palermo rincorava gl’Italiani
delle altre province a farsi innanzi con lor volgari, somiglianti
l’uno all’altro e tutti al latino. E mi pare molto verosimile che in
quel primo assetto delle colonie continentali in Sicilia fossero stati
più disformi l’un dell’altro i dialetti di varie regioni dell’isola,
i quali ritengono fino ai nostri giorni tanti vocaboli e modi di dire
diversi.
La robusta pianta del parlare italico resistè meglio che ogni altra
lingua all’invasione dell’arabico. Dalla Siria, dalla Mesopotamia,
dall’Egitto, scomparvero gli antichi idiomi entro breve tempo dal
conquisto degli Arabi, rimanendo nella sola liturgia cristiana;
dileguaronsi in un baleno nell’Affrica settentrionale, insieme con la
religione, gli idiomi trapiantati ne’ tempi istorici; perfin l’aspro
berbero autoctono fu respinto dal parlare arabico verso mezzodì e verso
ponente. Ma in Spagna l’esotico latino cedè poco terreno e ripigliò
tosto il perduto, serbando inviolata la grammatica. La qual diversa
fortuna, se va apposta precipuamente ad altre cagioni, come sarebbero
la distanza dall’Arabia, il numero de’ conquistatori stanziali e la
durata del dominio loro, pure è da riferire in parte all’indole della
lingua e al gran tesoro di civiltà che Roma avea profuso in Occidente
insieme con quella. Le cagioni della corruzione dovean operare in
Sicilia più debolmente assai che in Spagna; ed a quelle dovean anco
resistere i Siciliani per la remotissima antichità di lor idioma
italico e per la parentela di esso col greco, che gli avea disputata
l’isola fin dall’ottavo secolo avanti l’èra volgare.
L’arabico pertanto ha lasciati nel parlare siciliano minori vestigi
che non si creda comunemente: veruno nella grammatica,[1337] un’ombra
nella pronunzia, poche centinaia di vocaboli nel dizionario, e
qualche modo di dire. Io non posso entrare ne’ particolari, poichè
richiederebbero il glossario accennato dianzi, il quale alla sua volta
dovrebbe fondarsi sopra un dizionario etimologico, che niuno fin qui
ha compilato con gli aiuti della linguistica moderna. Dirò dunque per
sommi capi, che ne’ derivati siciliani l’accento rimane quasi sempre
al posto dov’è ne’ vocaboli arabi corrispondenti, sia che la vocale si
prolunghi nella lettera analoga, sia che le s’attacchi la consonante
che segue. Delle tre vocali arabiche, la prima suona in siciliano
or _a_, or _e_; la seconda sempre _i_; e la terza quasi sempre _u_.
Delle consonanti la =b= (2ª lettera dell’alfabeto arabico) rimane
per lo più inalterata come in “balata, burgiu, burnìa;” talvolta,
soggiacendo alla legge della pronunzia greca, si muta in v come nelle
voci “vava, vattali.” La =th= (4ª lettera) divien sempre _t_ come in
“Butera, tumminu.” La =g= (5ª lettera) serba il suono, come in “giarra,
giubba,” o l’addolcisce in _c_, come Muncibeddu, e raddoppiata nel
vocabolo _hâggem_, suona alla greca _ng_ nel casato “Cangemi:” ma la
voce “zubbiu” (fosso profondo) è esempio della permutazione in _z_,
che il Dozy ha notata in molte voci spagnuole. L’=h= (6ª lettera) si
aggrava in _c_, come nel detto nome Cangemi e in “coma, camiari,” o
sparisce, per esempio nel nome topografico _Mars-el-Hamâm_, divenuto
Marzamemi. Similmente la =kha= (7ª lettera) si muta in _g_, per esempio
“Gausa, gasena,” e può quasi scomparire come in “maasenu” (magazzino).
La =d= araba (8ª lettera), ch’era molto vicina al _t_, come si vede
in tanti esempii di vocaboli tolti dal greco, s’identificò alcuna
volta con la _d_ nostra come in “darbu, Dittainu” (_Wadi-t-Tîn_), o
mutossi in _t_ come in “Targia, tarzanà (_Dar-es-sena’h_, darsena,
arzanà, arsenale). La =ds= (9ª lettera) non occorre in derivati certi;
la =z= (11ª lettera) ha il suono italiano in “Zisa, zizzu,” o prende
quello della _s_, come in “magasenu” citato dianzi. Al contrario,
la =s= (12ª lettera) inalterata in “Sutera, senia,” si muta in _z_
nelle voci “zicca, zuccu (_suk_, tronco d’albero), zotta” (frusta).
Frequentissima nei derivati dell’arabico, la =sc= (13ª lettera) rende
il suono arabico in “Sciacca, sciabica,” che un tempo si scriveano con
la _x_. L’altra =s= (14ª lettera), che c’è già occorsa in “darsena,”
fa ora _s_, ora _z_, e suona aspra di molto in “zabara” e “zurriari”
(stridere de’ denti). Come la =d=, la =dh= (15ª lettera) fa _d_ nel
siciliano “dagala, dica” (ambascia), e diviene _t_ in “reticu,”
derivato da _radhi’_ (bambino lattante). La =z= (17ª lettera),
che altri trascrive =dh=, par abbia preso l’uno e l’altro suono
in Sicilia, rimanendo l’attestato del secondo nell’antico vocabolo
“annadarari” (invigilare su i pesi e le misure) e argomentandosi il
primo dal nome topografico “Zaèra,” del quale diremo più innanzi.
L’=ain= (18ª lettera dell’alfabeto), sola tra le arabe che non si
possa rendere con l’alfabeto romano e però notata dagli orientalisti
con un’apostrofe, mi par si pronunzii arabicamente da’ Siciliani in un
verbo d’uso frequentissimo.[1338] E suona cotesta lettera nell’accento
di “tarzanà,”[1339] citato or ora; ovvero si muta in consonante
italiana, come nello allegato esempio di _reticu_; al che risponde la
trascrizione dell’_ain_ seguita ne’ diplomi arabo-greci di Sicilia, ne’
quali quella consonante, o si perde nella vocale, come in Ὀθουμέν e in
Ἄβδ (_’Othman, ’Abd)_, o la si muta in γ, per esempio in Νίγμε, Σεγίτ,
(_Ni’ma, Sa’îd_); ed altri nel duodecimo secolo tentò di notarla con
l’_h_, come poi fece nel decimosesto Leone affricano, poichè leggiamo
in un diploma il nome di Habes, invece di (_Wed-_)_’Abbâs_, ch’era
l’Oreto. Il =gh= (19ª lettera) o rimane _g_ forte come in “gana,” o
si muta anche in c come in “Cutranu,” che si scrive, e forse un tempo
si pronunziò, “Godrano.” La =k =(21ª lettera) suona in Sicilia _c_,
come in “Calata, cammisa, coffa;” ma par abbia avuto un tempo anco il
suono della _g_ che le danno gli Egiziani, poichè leggiamo “caitus,” e
“gaitus” negli scritti latini del duodecimo. Nè altrimenti l’altra =k=
(22ª lettera) che ricorre in “gaffa, mingara, cuscusu” e nell’avverbio
“a cuncumeddu.” E quando il parlare arabico si sparse in Sicilia,
la pertinace _d_ che i Sardi e i Siciliani sostituiscono alla _l_
della nostra Terraferma, si trovava radicata sì profondamente, che
trasformò anco la =l= (23ª lettera arabica) in alcuni vocaboli tolti
dall’arabico, come _gebel_ in Mongibello, pronunziato “Muncibeddu” e
il verbo “sciddicari” (sdrucciolare), che viene da _zeleg_ e _zelek_.
L’ultima =h= (26ª lettera), al par che le sue sorelle, si rende
talvolta con una _g_, come in “zagara;” talvolta svanisce, poichè
altri pronunzia lo stesso vocabolo “zaara:” ed abbiamo in Zaèra, nome
d’un sobborgo di Messina, un altro esempio di questa attenuazion di
suono; ma l’origine arabica non si può dimostrare, se non con l’omonimo
palagio degli Omeiadi in Cordova. Il =w= (27ª lettera) suona _v_
come in “Favara;” ma, se iniziale, par sia stato pronunziato _u_,
ovvero _o_, come “Odesuer” (_Wadi-es-Sewâri_), ed anche sia scomparso
al tutto come supposto articolo, il che si argomenta da Dittaino
(_Wadi-el-Tîn_), che un tempo suonò di certo “Udittain.” Le altre
lettere =t, r, t, f, m, n, j= (3, 10, 16, 20, 24, 25, 28 dell’alfabeto)
non hanno suono diverso dall’italiano, nè mutan mai.
Chi compilerà il glossario delle voci arabiche passate nella nostra
lingua illustre e nei dialetti,[1340] dovrà resistere a tentazioni
frequenti; poichè i suoni dell’arabo sono sì svariati e il dizionario
sì prodigiosamente ricco, che col metodo de’ vecchi etimologisti, la
cui schiatta non è spenta del tutto, si potrebbe rannodare all’arabo
ogni vocabolo dell’italiano e di altre lingue ancora. Da un’altra
mano, le leggi fonetiche ricavate fin qui non imperano assolutamente
in tutti i tempi e i luoghi; e chi non ammettesse eccezioni e talvolta
non osasse scostarsi dal fil della sinopia, non avanzerebbe mai in un
lavoro etimologico. Ho voluto dir questo per iscusarmi se non presento
qui una lista de’ vocaboli siciliani che sono evidentemente, o mi
sembrano, derivati dall’arabico; e se differisco ad altro tempo, o
rimetto a’ posteri, un lavoro che richiede anzi tutto più diligente
ricerca de’ vocaboli siciliani per ogni luogo dell’isola e, in
quanto si possa, per ogni tempo. Perocchè leggendo nel dizionario del
Pasqualino le voci disusate al suo tempo, le quali ei prese da antichi
glossarii, ne veggo bandite di tempo in tempo molte di vero conio
arabico. Ed è ben ragione che l’elemento straniero si elimini a poco a
poco: ma questo fatto per lo appunto va notato in una esamina storica
della lingua.
Rimanendo sempre su i generali, dirò che i vocaboli siciliani di
origine arabica si riferiscono la più parte alle cose rurali, alle
industrie cittadinesche, alle vestimenta, ai cibi, ed a qualche
istituzione di polizia urbana. Come nello spagnuolo e nel portoghese
che ne son ricchi, così nel siciliano che n’è povero, occorrono voci
arabiche, assai più sovente ne’ sostantivi che negli aggettivi:
ed al contrario i verbi, scarsi in quelle due lingue al segno
che si è dubitato se alcuno se ne trovasse,[1341] non mancano nel
siciliano.[1342] Sono da notar anco de’ traslati o modi di dire
tradotti litteralmente dall’arabico;[1343] e come per contrapposto i
proverbi arabi si contano a dito nelle raccolte de’ siciliani.
Non voglio pretermettere che buon numero dei vocaboli arabi passati
nel siciliano si trova anco nella lingua illustre; anzi che occorrono
in questa e in qualche altro dialetto delle voci arabiche ignote
in Sicilia, per esempio nel genovese, _camâlo, mésaro, macrama_; in
Arezzo _cáida_;[1344] a Pisa un tempo _calega_;[1345] in Liguria e in
Toscana, _maona_ o _magona_[1346] e nella lingua illustre _acciacco,
azzurro, butteri, carciofo, collare_ (per salpare), _petronciana,
scialbo, tarsia_. Altri son comuni al siciliano: _ammiraglio, barda_
(siciliano _varda_), _camicia_ (siciliano più correttamente _cammisa_),
_canfora, cifra_ e _zero_ (trascrizioni diverse dello stesso vocabolo),
_dogana, gabella, garbo, gelsomino, fondaco, liuto, magazzino, sensale,
tariffa, vasca_: oltrechè i termini scientifici, come _alambicco,
alcali, almanacco, giulebbe, taccuino, zenit_, corrono nella più parte
delle lingue viventi d’Europa. La Terraferma d’Italia, di certo, li
ebbe or dalla Sicilia, or dalla Spagna, or direttamente dalle costiere
meridionali del Mediteraneo.
Senza disputare altrimenti delle origini del parlare siciliano, su le
quali hanno lavorato e lavorano ancora i letterati dell’isola,[1347] e
senza gittarmi nella mischia che ferve intorno a Ciullo d’Alcamo,[1348]
io ammetto che verso la metà del duodecimo secolo il siciliano
parlavasi tanto o quanto in tutta l’isola e tendeva alla forma
attuale, senza essere giunto però, non dico già alla mèta, chè le
lingue vive non si congelano, ma a quel tratto del corso che soglion
varcare quetamente senza notabili alterazioni. Così dovea succedere
per la presenza delle colonie testè venute da varie parti della
Terraferma, unite da commerci tra loro e molto più strettamente col
grosso dell’antica popolazione di linguaggio italico, o, per dir
meglio, siciliano. Nella quale condizione di cose dovea nascere un
idioma cortigiano o legionario che chiamar si voglia, non altrimenti
che quello che s’ode da dieci anni in qua nel nostro esercito; e quel
parlare dovea, con l’andar del tempo, sempre più accostarsi al dialetto
indigeno, prendendone molto più che non gli desse.
Da cotesta vena di linguaggio, torbida ancora per la sospensione delle
parti che duravano fatica a compenetrarvisi, emerse la poesia italiana
propriamente detta. Se ciò sia avvenuto alla metà del duodecimo secolo