Storia dei musulmani di Sicilia, vol. III, parte II - 18

mille luoghi e più, che si debbono supporre abitati nel tempo più
florido della Sicilia del medio evo, ossia nel regno di Guglielmo il
Buono, mettiamo le cinquecensessanta abitazioni che si contavano, tra
comuni e villaggi, alla fine della dinastia borbonica, e si vedrà la
enorme mancanza d’una metà per lo meno.[1021] Or supponendo l’attuale
popolazione della Sicilia uguale a quella del duodecimo secolo, e
tale io la credo senza timor di grosso sbaglio, perchè il numero è
cresciuto rapidamente da cento anni in qua, egli è evidente che gli
uomini sparsi una volta nelle campagne si sono raccolti nelle grosse
terre; il che vuol dir che l’agricoltura è andata a male. Notissima
cosa ella è veramente che in Sicilia la più parte de’ contadini abita
lungi dal suolo da coltivare, ossia che si sciupano molte ore della
giornata o molti giorni della stagione propizia, e che la più parte
delle terre di Sicilia rende assai meno di quel che potrebbe, serbate
d’altronde tutte le altre condizioni attuali, che non sono al certo
le migliori. Cotesta rovina economica principiò, a creder mio, con
le molestie suscitate contro i Musulmani fin dagli ultimi anni di
Guglielmo II; si accrebbe a volta a volta nelle vicende successive, e
Federigo II, filosofo e buon massaio quant’ei si fosse, dievvi pure una
dura spinta. Le guerre del Vespro siciliano non eran fatte al certo per
guarir quella piaga; la quale squarciossi vieppiù nell’anarchia feudale
del decimoquarto secolo, e gangrenì sotto la dominazione spagnuola,
sotto le giurisdizioni baronali e la possessione di tante manimorte.
Giova sperare che i cresciuti commerci dell’età nostra, lo aumentato
valor delle terre, e con ciò il vigor di novella vita nazionale, l’aria
libera che respiriamo, le savie leggi civili, gli studii promossi, e
la sicurezza pubblica, s’e’ verrà fatto di ristorarla, riconducano a’
campi le popolazioni che ora stentan la vita nelle città.
La mutata proporzione tra cittadini e contadini che, certissima in
fondo, ma senza particolari, abbiamo ritratta dal riscontro de’ nomi
topografici, comparisce molto precisa ne’ territorii di Giato, Corleone
e Calatrasi, che noveransi tra le centrenta città e castella descritte
nel libro di Ruggiero. I quali essendo stati donati da Guglielmo II al
monastero di Morreale (1182), ne abbiam noi ne’ diplomi di concessione
le note catastali, onde si scorge che que’ tre territorii contigui
conteneano cinquanta tra castella e casali. La superficie, la quale
su per giù prende mille chilometri quadrati, è in oggi suddivisa
ne’ territorii di dodici comuni, de’ quali il solo Corleone serba
l’antico nome:[1022] il che basti a mostrare i rivolgimenti sociali
di quelle parti dell’isola. La proporzione, poi, di tre grossi paesi
a cinquanta piccoli nel duodecimo secolo, e de’ cinquanta castelli
o casali d’allora, a’ dodici comuni della nostra età, non si può di
certo applicare a tutte le altre regioni dell’isola: contuttociò si
badi che, a quella stregua, tornerebbe scarso il numero de’ mille paesi
abitati che abbiam trovati nelle memorie del medio evo, e dovrebbe
raddoppiarsi, o accrescere almeno d’una metà.[1023]
Venendo in particolare alle sorgenti della pubblica ricchezza, e
prima ai minerali, ci accorgiamo di non pochi mancamenti nel libro di
Ruggiero. Il quale accenna al ferro cavato dalle montagne di Messina
ed esportato ne’ paesi vicini,[1024] alle saline di Trapani,[1025]
alle pietre molari del territorio di Calatubo;[1026] ma dimentica
molti altri simili capi di commercio, che noi abbiamo ricordati nel
periodo precedente, nè egli è verosimile, fossero mancati:[1027] e,
quel ch’è più, tace dello zolfo e del petrolio. E qui si potrebbe
credere studiato il silenzio della relazione ufiziale, per celare
quanto più si potesse gli ingredienti del fuoco greco;[1028] perchè
l’estrazione di quelle due produzioni minerali era stata descritta da
Ahmed-ibn-Omar-el-’Odsri, o el-’Adsari, uno appunto degli autori di
geografia citati nella Prefazione di Edrîsi.[1029]
Secondo il luogo di Ahmed, che raccattiamo dalle citazioni di due
autori più moderni, lo zolfo giallo di Sicilia, miglior di quello di
tutt’altro paese, trovavasi nell’Etna, ovvero, se preferiamo un’altra
lezione, nell’isola di Vulcano; lo cavavano picconieri pratici in
così fatto lavoro, ai quali talvolta accadea che lo zolfo scorresse
liquefatto, onde lor bastava scavare de’ fossatelli, e quand’era
rappreso lo tagliavano con le accette. A’ picconieri, aggiugne
Ahmed, che solean cascare i capelli e le unghie, per la natura calda
e secca di quel minerale, dice egli, con le idee fisiche del suo
tempo.[1030] Più precise notizie dava Ahmed dell’”olio di nafta:”
che questo sgorgava nel mese di scebbât[1031] e ne’ due seguenti,
entro certi pozzi vicini a Siracusa; che scendeasi in quei pozzi per
gradini; che l’uomo si cammuffava il volto e turava ben le narici,
perchè se mai avesse respirato laggiù sarebbe morto all’istante; che
raccolto da costui il liquido, lo si metteva a riposare in truogoli,
e poscia l’olio che rimaneva a galla era riposto in fiaschi e quindi
adoperato.[1032] E parmi stia bene tal descrizione. Ma nel cavamento
dello zolfo manca forse il principio, e si confonde la liquefazione
col caso d’incendio d’alcuna miniera; oltrechè è corso, a creder
mio, qualche errore nel designare la regione solforifera. Accenna
Ibn-Ghalanda generalmente alle acque minerali della Sicilia;[1033]
Edrîsi dice soltanto delle termali di Segesta[1034] e di Termini.[1035]
Alla scarsa industria delle miniere, possiamo contrapporre la grande
prosperità dell’agricoltura, attestata da tutti gli scrittori e, meglio
di loro, dal gran commercio che la Sicilia esercitò nel duodecimo
e decimoterzo secolo. Nè Edrîsi è parco di frasi quand’ei tocca la
fertilità dell’isola; nè sdegna i particolari, poichè, in ottanta
dei centrenta contadi ch’ei rassegna, fa menzione espressamente degli
estesi terreni da seminare. Vero egli è che non distingue la specie
del raccolto, se frumento, o altre granaglie, o civaie; e che in
alcuni luoghi rimane al tutto ne’ generali, ed usa, tra gli altri,
un vocabolo tanto vago, quanto sarebbe appo noi a dir derrate. Ei
nota che nelle campagne di Aci “il caldo temperamento del terreno”
portava a mieter, pria che nel rimanente della Sicilia.[1036] In più
di trenta luoghi sparsi per tutta l’isola ei dice di orti, o giardini,
e dell’abbondanza delle frutte. Fa menzione di vigne in cinque soli,
Caronia, Oliveri, Hisn-el-Medârig (Castellamare), Paternò e Capizzi; il
che mi par confermi che le piantagioni di vite fossero scarse anzi che
no in Sicilia nel corso di quel secolo; ma non mi farà mai credere che
si limitassero a’ luoghi nominati.[1037] Forse il compilatore intese
dir anco della vite, quand’e’ ricordava genericamente i giardini: e
lo stesso parmi dell’ulivo, poich’Edrîsi non ne fa ricordo se non che
nella descrizione di Pantellaria.[1038]
D’altronde la coltura della vite e dell’ulivo, ricordata espressamente
dal Falcando,[1039] si può ben supporre accresciuta, ma non
incominciata appena nel mezzo secolo che separò quei due scrittori. Il
Falcando ricorda anco gli ortaggi dell’agro palermitano e le macchine
da adacquarli;[1040] e non contento al dir che i giardini “davano
ogni maniera di frutte,” nomina singolarmente quelle che pareano
più rare a un transalpino[1041] e non l’erano punto agli occhi di
Edrîsi. Il quale, rimanendosi, com’io penso, a particoleggiare le
specie preferite dal commercio, fa ricordo soltanto di Carini, dalla
quale si esportavano per tanti paesi delle frutta secche: mandorle,
fichi, carrube.[1042] Il territorio di San Marco producea della
seta in abbondanza;[1043] s’imbarcava da Milazzo gran copia d’ottimo
lino,[1044] e assai se ne coltivava in terre irrigue a Galati,[1045]
al qual territorio noi possiamo aggiugnere quel di Ragusa.[1046]
Frequentissime, dice Edrîsi, in quel di Partinico le piantagioni
del cotone, della _henna_, pianta tintoria molto usata dagli Arabi,
e di altre leguminose:[1047] e da un diploma si argomenta che il
cotone sia stato coltivato anco nelle vicinanze di Catania al tempo
di re Ruggiero.[1048] Della henna e dell’indago poi sappiamo che al
tempo dell’imperator Federigo si pensava di piantarne alla Favara
presso Palermo.[1049] E forse Edrîsi, avvezzo a’ viaggi d’Affrica e
di Levante, sdegnò di ricordare le palme dell’agro palermitano; ma
supplisce al suo silenzio Ugo Falcando:[1050] e noi ben sappiamo che
nel secolo decimoterzo si diè opera a far fruttare il palmeto, il quale
dalla Favara stendeasi fino alla sponda dell’Oreto,[1051] e che il
milletrecentosedici i soldati angioini venuti all’assedio della città
tagliaron quel bosco,[1052] del quale avanza tuttora qua e là qualche
pianta.
A dimenticanza manifesta è da apporre il silenzio del compilatore su
le piantagioni di cannamele e sull’opificio dello zucchero. Perchè lo
zucchero di Sicilia si consumava nella capitale dell’Affrica propria
fin dalla prima metà del decimo secolo;[1053] e, nella seconda del
duodecimo, il Falcando fa menzione non sol delle cannamele, ma anche
della cottura del melazzo e del raffinamento dello zucchero.[1054]
Un diploma del secolo duodecimo fa ricordo dei frantoi o strettoi da
cannamele;[1055] uno del decimoterzo mostra la sollecitudine che si
prendea l’imperator Federigo per ristorare le raffinerie di zucchero in
Palermo.[1056] La coltivazione poi delle cannamele e la manipolazione
dello zucchero continuarono in Sicilia fino alle età più malaugurate
della sua storia economica;[1057] e non è punto verosimile che così
fatte industrie sieno state intermesse al tempo di Ruggiero. Poco dice
Edrîsi de’ boschi: nomina la _binît_ di Buccheri, e spiega come torni
in arabico a pineta;[1058] fa menzione del catrame e della pece che
si esportava da Aci,[1059] del gran traffico di legname che faceasi a
Randazzo,[1060] delle navi che costruivansi a San Marco con gli alberi
tagliati in quei monti.[1061] Vi si può aggiungere, secondo un geografo
del duodecimo secolo ed uno del decimoterzo, il mastice di Pantellaria
cavato da’ lentischi e lo storace odorifero.[1062] La coltura degli
aranci e altri agrumi, della quale non fa motto Edrîsi, è attestata
ampiamente dal Falcando, da un diploma dell’undecimo secolo e dai poeti
arabi che cantarono le lodi di re Ruggiero.[1063]
Della pastorizia, come dell’agricoltura, è forza confessare che quel
compilatore, o trascurò le notizie, o gli bastò accennarvi da lungi;
poichè non fa menzione di pascoli nè di greggi nè d’armenti, se non
che nei capitoli di Malta,[1064] Rahl-el-Merat,[1065] Mineo,[1066]
Golesano,[1067] Montalbano, Mangiaba[1068] e Galati.[1069] Ma parmi
superfluo dimostrare che questo ramo d’industria agraria sia stato
importante in Sicilia nel duodecimo secolo: basti ricordare il diploma
dell’imperator Federigo che attesta come, ai tempi di Guglielmo II,
il fisco dava in fitto a’ Musulmani grandissimo numero di buoi, tra
indomiti e mansi.[1070] Da un’altra mano supplisce Pietro d’Eboli
al libro di Ruggiero, lodando nel suo carme i cavalli trinacrii,
montati in una grande solennità da’ nobili di Salerno:[1071] onde
veggiamo nel duodecimo secolo la continuazione delle razze lodate già
nell’undecimo.[1072] E la cura che prendea l’imperator Federigo per
mantenere de’ cameli in Malta, ci conduce a supporre che quegli animali
v’attecchissero ancora.[1073] Si facea del miele, a detta di Edrîsi, in
Malta, Caltagirone e Montalbano.[1074]
Tra i prodotti del mare primeggiava l’ottimo corallo di Trapani, e
notavasi l’abbondante, anzi, dice Edrîsi, “strabocchevole copia di
pesci che si prendeano in quelle acque,” non escluso il tonno grande,
così lo chiama, al quale si tendean ampie reti.[1075] E similmente ei
fa ricordo delle reti da tonno nella marina dei Bagni Segestani;[1076]
delli ordegni con che lo si pescava a Milazzo;[1077] della quantità
grande che se ne prendea ad Oliveri;[1078] della rete messa in mare
dinanzi Caronia,[1079] e del tonno che si pescava anco nel porto, non
so se di Termini o di Trabìa.[1080] Ei non fa menzione di tonnare su
la costiera di Levante nè di mezzogiorno, nè della pescagione minuta
in altri mari che di Trapani e Catania. Dice pur del _rei_, il quale
compariva in primavera nel fiume di Termini;[1081] de’ pesci grossi e
squisiti che dava il Simeto;[1082] degli svariati e copiosissimi che
si prendeano nel fiume di Lentini e si mandavano per ogni luogo,[1083]
e di quei del fiume Salso, pingui e saporosi.[1084] Il povero Oreto
anch’esso par sia stato più pescoso che in oggi, quando l’imperator
Federigo rivendicava al demanio regio una pescaia che v’avean fatta,
cheti cheti, i monaci della Trinità di Palermo.[1085]
_Tarbi’a_, che suona la “quadrangolare” e noi n’abbiam fatto _Trabìa_,
era amena villa, al dire di Edrîsi: le grosse polle d’acqua, che
sgorgan quivi a piè della roccia, movean di molti molini; e vasti
casamenti erano addetti a lavorare l’_itria_, o vogliam dir le paste e
particolarmente i vermicelli,[1086] de’ quali si caricavano bastimenti
e spedivansi in Calabria e in tanti altri paesi di Cristiani e di
Musulmani:[1087] onde si vede come l’industria cittadina raddoppiava il
valore prodotto dall’industria agraria, e apprestava materia di nuovi
guadagni alla navigazione e al commercio.
Pochi altri ragguagli possiam cavare da Edrîsi intorno l’industria
cittadina, appartenendo tanto agli artigiani quanto a’ bottegai, i
mercati ch’egli va notando in varie città e terre.[1088] Fa menzione
poi, in Girgenti, Mazara, Alcamo, Naro, Castrogiovanni e Randazzo,
d’altri artefici, tra i quali credo sian di quelli che in oggi
chiameremmo artisti:[1089] e ognuno intende che se il compilatore non
ne parla nella descrizione delle città primarie, è forse che gli parea
superfluo; nè dobbiamo dimenticare ch’egli non bramava già di tirar con
regola e compasso degli specchietti statistici a modo nostro, ma volea
soprattutto fare sfoggio d’eleganza nella lingua e nello stile. Donde
noi cercheremo i particolari in altri scritti, o in qualche avanzo di
manifatture che è pervenuto per buona ventura infino all’età nostra.
Al punto stesso in cui i Musulmani sgombravano dalla Sicilia, noi
veggiamo in Melfi, Canosa e Lucera, legnaioli, intarsiatori, armaiuoli,
magnani ed “altri maestri” saraceni, salariati dall’imperator Federigo,
insieme col fattore d’un suo vivaio, e co’ famigli addetti ai cameli,
alla lonza da caccia ed ai mangani, s’io ben leggo.[1090] Di cotesti
o altri intarsiatori abbiamo anco i nomi proprii e sembran tutti
siciliani.[1091] Il vocabolo stesso di _tarsîa_, arabico puro, sembra
passato di Sicilia nella Terraferma italiana, e prova meglio che il dir
di qualunque scrittore come quell’arte sia fiorita dapprima nell’isola.
S’altro attestato occorresse, avremmo delli scrigni intarsiati con
epigrafi arabiche che si conservano tuttavia in Sicilia;[1092] e se
dubbio rimanesse ancora, mostrar potremmo gli avanzi di due grandi e
magnifiche iscrizioni, intarsiate su marmo bianco, in pietre dure di
colore, a quel modo che in oggi si chiama mosaico fiorentino,[1093] tra
il quale e l’intarsiatura in legno o avorio non è altra differenza che
la materia. Si ritrova in Sicilia nel duodecimo secolo, come ognun sa,
l’arte di lavorare il porfido, attestata non solamente dagli avelli
regii del duomo di Palermo, ma altresì dagli ornati sì frequenti
nelle chiese normanne, ai quali si deve aggiungere un lavorìo minuto
e difficilissimo: una profonda coppa da bere, fornita di anse, che
serbavasi nella Cappella Palatina di Palermo infino a’ principii del
decimoquarto secolo.[1094]
Chi sa quanto sia moderno il gusto di far collezioni delle stoviglie
del medio evo, mi condonerà se in questo capitolo dell’industria
siciliana io tocco, semino dubbii e passo. Palermitani e senza alcun
dubbio siciliani sono gli orci e le brocche di terra cotta, varii
per la grandezza e per la forma, grossolani di fattura, e alcuni con
tappo fisso, bucherato, e la più parte sciupati al forno, dei quali
si trovò, com’io ritraggo, un piccol numero nel demolire la chiesa di
San Giacomo la Marina in Palermo (1864), e poi se n’è cavato parecchie
centinaia sopra le vòlte della Martorana, ponendo mano (1870) alla
ristorazione di questo prezioso edifizio, che torna alla prima metà
del secolo duodecimo. Credono i periti che questo insolito materiale
s’abbia a tenere contemporaneo delle prime fabbriche. Che che ne sia,
si scorge in quel vasellame una grossiera imitazione di motti e ornati
arabi; onde non andrebbe riferito a’ tempi in cui le colonie musulmane
serbavan la lingua loro, e potrebbe scendere alla seconda metà del
duodecimo o fors’anco del decimoterzo secolo.[1095]
Ammetto io volentieri, coi trattatisti di ceramica medievale e moderna,
che sia stata in Sicilia, fin dai tempi musulmani, una scuola di
maioliche; ancorchè io non mi affidi del tutto alla pratica di quegli
antiquarii che battezzano, con data e patria, questo o quell’altro
lavoro.[1096] Pur oso dir che i più preziosi ch’io abbia mai visti, i
due stupendi vasi di Mazara, mi sembrano spagnuoli, sia delle isole o
della terraferma.[1097] È forza poi che io ricusi la cittadinanza di
certi elegantissimi orcioletti arabi da armadio e da salotto, i quali
a prima giunta si potrebbero dir siciliani, essendo frequentissimi
nelle collezioni della Sicilia e rari nelle altre d’Europa. Ma la
data segnata nella più parte di siffatte stoviglie par che torni
a’ principii del decimoquarto secolo, quando gli ultimi residui de’
Musulmani erano usciti di Sicilia fin da tre o quattro generazioni, e
se rimaneano le tradizioni delle industrie ed arti loro, la lingua era
perduta e dimentica o celata la origine.[1098]
Si veggono ne’ musei di Sicilia, come in tutti gli altri d’Europa,
delle ciotole di bronzo o rame, di quelle che i Musulmani usano per
bere, e alcune grandi catinelle o dischi degli stessi metalli, ma
nessuno indizio ci porta a rivendicarli all’industria siciliana; anzi,
tornando comunemente così fatti lavori al decimoterzo, decimoquarto
o decimoquinto secolo, e somigliando perfettamente a quei notissimi
di Siria e di Egitto, è da supporre che li abbia recati in Sicilia il
commercio, sì come fece in altre parti d’Italia, e più che ogni altra
in Toscana.[1099] Pur si ritrae che i Musulmani di Sicilia lavoravano
egregiamente i metalli. Il museo del Louvre possiede un piccolo
mesciacqua di rame, in forma d’un pavone, in petto al quale si legge,
preceduto da una croce, il motto _Opus Salomonis erat_, e sotto quello
in arabico, _Fattura di Abd-el-Melik-en Nasrâni_, ossia il Cristiano.
Il dotto archeologo, che ha illustrato cotesto vaso, lo riferisce al
duodecimo secolo ed alla Sicilia, sì per la forma de’ caratteri, per la
coincidenza de’ due idiomi e per l’apostasia dell’artefice musulmano, e
sì per la somiglianza di quest’opera con altre dell’arte arabo-sicula.
Dimostra inoltre l’autore con molti esempii, che “opera di Salomone”
significava allora “sottil congegno;” e sostiene che un cannellino,
del quale rimane ancora vestigia, era adattato sul dorso del pavone
affinchè, mescendosi l’acqua dal becco, l’aria entrata dal cannellino
rendesse un sibilo.[1100] Nel gabinetto poi delle antichità in Parigi è
esposta una coppa di bronzo, ageminata in argento con figure d’animali
e rabeschi di stile arabico, la quale, ne’ tre soliti cartelli tondi,
invece di motti arabi, porta lo stemma d’un arcivescovo di Morreale
del decimoquarto secolo; onde l’erudito autore del catalogo ha
ben’aggiudicata quest’altra opera alla scuola arabica di Sicilia.[1101]
Abbiamo in cotesti bronzi parigini il simbolo de’ due ultimi stadii
dell’industria arabo-siciliana: l’uno, cioè, quando i Musulmani si
convertirono alla religione de’ vincitori e appresero la loro lingua
oficiale, senza smettere la propria; e l’altro quando, mutata lingua
e religione, ritenner pure le tradizioni di lor arte: finchè nel
decimosesto secolo furono attirati dal maggior astro che risorgea nella
terraferma d’Italia.
Abbiam già fatta menzione del _tirâz_ regio di Palermo,[1102] nel
quale, si tesseano e ricamavansi i drappi di seta, come afferma
precisamente il Falcando.[1103] E però non ne daremmo or che un cenno,
se non fosse uscita alla luce, dopo il secondo volume della presente
istoria, una erudita e sontuosa illustrazione delle insegne dell’antico
Impero germanico, serbate in Vienna; la qual collezione è composta in
gran parte di ricami e drappi siciliani.[1104] L’abbondante materia
vuol che si tratti separatamente di quelle due manifatture, e si torni
anco addietro al periodo al quale arrivammo nel quarto libro.
Poichè ci sembra con molta verosimiglianza lavoro del _tirâz_ di
Palermo, il pallio che il gran ribelle di Puglia donò all’imperatore
Arrigo II; il qual cimelio si ammira oggidì nel duomo di Bamberg.[1105]
E veramente il disegno somiglia in generale a quello del manto di re
Ruggiero; e il planisfero celeste, ch’evvi raffigurato con qualche nota
astrologica, torna per l’appunto agli studii ed a’ gusti musulmani
di quel secolo, non ostante le figure di santi, tramezzati alle
costellazioni in grazia del pio personaggio pel quale era fatto il
pallio. Si scorge anco la mano straniera nelle iscrizioni latine con
lettere trasposte e alcuna capovolta.[1106] Oltre a ciò manca ogni
fondamento a supporre un _tirâz_ in altra città d’Italia;[1107] nè
è mestieri andarlo a cercare in Affrica o Spagna, quando l’abbiamo
in Sicilia e sappiam la lega di que’ Musulmani (1011) con Melo o
Ismaele, come or non si può esitare a chiamarlo, leggendo il nome
nel pallio.[1108] Seguono nell’ordine de’ tempi il notissimo pallio
di re Ruggiero,[1109] con la data del cinquecenventotto dell’egira
(1133); il camice di seta bianca, ornato con larga fimbria di porpora
e d’oro e con lunga iscrizione bilingue, che porta in latino e in
arabico i titoli di Guglielmo II e l’anno millecentottantuno;[1110] le
gambiere col nome e i titoli dello stesso principe ricamati in lettere
arabiche.[1111] L’editore, il quale ha studiati, meglio che niun altro
erudito europeo, i paramenti ecclesiastici del medio evo, attribuisce
anco agli artefici musulmani di Sicilia i guanti di seta rossa trapunti
in oro; due cinti da spada; un paio di ricchi sandali; il manto
chiamato d’Ottone IV, e altri lavori che non hanno data nè lettere
arabiche, ma gli ornamenti e lo stile di essi confrontano con que’
del _tirâz_ palermitano[1112]. Contro il qual giudizio non abbiam che
dire: se non che il merito del lavoro va scompartito tra’ Musulmani di
Sicilia e i Greci, quando si sa dalle croniche il fatto de’ lavoranti
di Tebe e Corinto, uomini e donne, menati prigioni in Palermo; i
quali di certo non dettero principio a quell’opificio, ma non si
può ammettere neanco che non abbiano giovato nulla a perfezionare i
lavori.[1113] Vanno ricordati infine i ricami in lettere e disegni
arabici della veste con la quale fu sepolto l’imperator Federigo:
onde le prove materiali di quell’arte arrivano infino alla metà del
decimoterzo secolo.[1114]
Circa i drappi fabbricati in Palermo, le prove materiali e gli
attestati scritti forniscono particolari sì copiosi da convenire più
tosto ad apposito e tecnico trattato, che alla presente rassegna.
Basti dunque citare i drappi de’ pallii ricamati, de’ quali testè
abbiamo discorso e i soppanni di quelli, tutti opera siciliana, a
giudizio dell’autore della descrizione; i quali sono tessuti con
bell’artifizio a figure di animali e di piante, rilevati ad oro ed a
colori diversi; e rassomigliano per la fattura agli scampoli rimasi
nelle cattedrali di Palermo e di Cefalù, dei quali l’autore pubblica
qualche disegno.[1115] Vengon poi i vestiti che si osservarono nelle
tombe regie del duomo di Palermo, quando la ristorazione del monumento
die’ occasione ad aprirle.[1116] Leggiamo nella cronica dell’Abate di
Telese che, nelle feste dell’incoronazione di re Ruggiero, le mura del
palagio eran parate di pallii e per fino gli infimi servitori vestiti
di seta.[1117] Nella seconda metà del medesimo secolo, il Falcando
attesta la varietà de’ drappi di seta tessuti nel palazzo reale e
ricamati ad oro e perle, e la copia altresì de’ drappi stranieri e de’
pannilani che vendeansi nel vico degli Amalfitani entro il Cassaro di
Palermo;[1118] e Ibn-Giobair nota il lusso di vestimenta delle dame
cristiane di quella capitale ed anco delle musulmane che davano, com’or
direbbesi, il figurino.[1119] V’ha memoria d’un gran padiglione di
seta da sedervi a mensa dugento persone, che Riccardo Cuor di Leone
pretese da re Tancredi, insieme con altri tesori, dopo la baruffa
di Messina.[1120] Le antiche poesie francesi ricordano lo sciamito
e il zendado di Palermo.[1121] I diplomi siciliani, citando quelle e
tante altre maniere di drappi operati o ricamati, mostrano la grande
attività del commercio e dell’industria indigena.[1122] Danno simile
testimonianza le denominazioni de’ dazii ordinati dai re normanni e
svevi;[1123] e perfino il dialetto siciliano attesta l’origine e la
importanza di quella industria, chiamando i tessitori in generale col
vocabolo arabico _careri._[1124] Gli opificii della seta decaddero
in Sicilia, al par che tante altre sorgenti di pubblica ricchezza,
nella seconda metà del decimoterzo secolo, per le varie cagioni a che
abbiamo accennato; tra le quali non è da dimenticare la emigrazione de’
Musulmani. Delle città di Terraferma, Lucca fu la prima a raccogliere
la eredità della Sicilia. Rivaleggiarono poi con quella città, Firenze,
Venezia, Genova: e artisti italiani recarono tal ricca industria a
Lione, a Tours e in altre città della Francia. Pur la esportazione
de’ drappi di seta rimase bel capo di commercio in Sicilia infino al
decimosesto secolo.[1125]
E nessuna maniera d’opificii, necessarii al vestire ed anco al lusso,
potea mancare in Sicilia nel duodecimo e decimoterzo secolo, s’egli
è vero che le industrie si rannodan tra loro, e che una ne favorisce
un’altra e sovente la porta con seco necessariamente. Così, in un paese
celebrato pe’ drappi di seta, la gabella su l’arco del cotone,[1126]
che parmi voglia dire la battitura de’ bocciuoli per cavar la bambagia,
fa supporre i telai da tesserne il filo. Abbiamo precise testimonianze
per le tintorie[1127] e per gli opificii di pelli dorate, che si
adopravano in varie manifatture e segnatamente negli stivaletti da
donna.[1128] I guanti di seta tessuti a maglia, che si rinvennero
nell’avello di Arrigo VI, sono da riferire anch’essi all’industria
siciliana.[1129] Nè può dubitarsi che i fermagli smaltati e gli
ornamenti gittati in oro, che furon cuciti in alcune delle vestimenta
imperiali, non siano opera degli orefici palermitani; que’ medesimi a’
quali sono da attribuir le corone dell’imperator Federigo e della sua
prima moglie Costanza d’Aragona.[1130]
Verosimil cosa è, ma punto provata, che nel periodo, del quale
trattiamo, si fosse lavorata in Sicilia della carta da scrivere. Furon
gli Arabi, come ognun sa, que’ che recarono in Occidente la carta di
cotone, fabbricata nel Khorasân ad imitazione di quella della Cina,
ch’era fatta di seta o d’erbe;[1131] nè cade in dubbio che opificii di
carta siano surti in Spagna e particolarmente a Xativa, donde, nella
prima metà del duodecimo secolo, se ne mandava in Levante e in Ponente,
al dir di Edrîsi.[1132] Il silenzio del quale, nella descrizione
della Sicilia, sarebbe grave argomento contro il mio supposto, se
in questo medesimo capitolo non avessimo trovate più volte fallaci
le prove negative fondate su quel libro. Ritraggiam noi che, allo
scorcio dell’undecimo secolo, i diplomi normanni di Sicilia, perfino
que’ che portavano concessioni territoriali, furono scritti in carta
di cotone; onde, in men di mezzo secolo, re Ruggiero volle rinnovare
tutti i titoli di proprietà, con l’occasione o il pretesto che molti
originali fossero logori, cancellati o corrosi dalle tarme.[1133]
Continuossi, ciò nonostante, a copiare in carta di cotone gli atti
privati ed anco i pubblici, finchè, a capo d’un secolo, l’imperator
Federigo dichiarò nulli que’ di certe classi che non fossero scritti in
cartapecora;[1134] ma la sua cancelleria, in Sicilia e nella terraferma
d’Italia, usò tuttavia la carta negli atti che parea non dovessero