Storia dei musulmani di Sicilia, vol. III, parte II - 16

scritto a bella posta per lui.[853] E veramente nel Solwân, gli
squarci del Corano, le tradizioni, i fatti storici, le novelle, gli
apologhi, ogni pagina, ogni linea, accenna a que’ termini estremi
d’un principato, e tende a consolar il signore che precipiti giù dal
trono. Di certo non son rari cotesti casi nelle storie musulmane del
duodecimo secolo; pur nessun principe cadente somiglia tanto a quello
d’Ibn-Zafer, quanto Mogir-ed-dîn, che tenea Damasco alla morte di
Zengui. I costui figli incontanente si messero attorno a Mogir-ed-dîn,
sotto specie di aiutarlo contro i Crociati; e Norandino entro pochi
anni il finì. Gli s’infinse amicissimo; gli imbeccò tante trame
da fargli spegnere ad uno ad uno tutti que’ capitani che non potè
indettare per sè medesimo. E quando Mogir-ed-dîn si trovò senz’armi nè
amici, il conquistatore appresentossi sotto Damasco; guadagnò il tratto
ai Crociati, chiamati in aiuto: e i traditori gli aprirono le porte;
il tradito venne a’ patti e, ingannato anche in questi, andò a finir
la vita in un collegio fondato a Bagdad. Entrava Norandino in Damasco
di sefer del cinquecenquarantanove (maggio 1154).[854] Cotesta data sta
bene con le altre due che abbiam certe delle vicende d’Ibn-Zafer, cioè
la dedica del _Keir-el-biscer_ verso il millecenquarantotto e quella
della seconda edizione del Solwân, nel cinquantanove. Ognun poi vede
come, supponendo che il re innominato fosse Mogir-ed-dîn, l’amico e
generoso scrittore non potea rimaner in Siria dopo l’occupazione di
Damasco. Chi ha pratica delle biografie de’ letterati musulmani del
medio-evo e conosce lor vivere irrequieto e vagabondo, la vanità e
il bisogno che li spingeano da una corte all’altra, non ripugnerà a
supporre che il gran monarca del Keir-el-biscer fosse divenuto entro
cinque o sei anni il ribelle del Solwân.
Ma del cinquecencinquantaquattro (1159) il Solwân si volta al
nome dello splendido kâid siciliano Abu-l-Kasim, preceduto da tre
compilazioni che hanno per titoli: _Asâlib-el-Ghaiat, El-Mosanni_, e
_Dorer-el-Ghorer_ e accompagnato da caldi attestati di gratitudine,
i quali compongono un’altra prefazione, messa in vece di quella
che alludea già ai casi del re innominato.[855] Breve tempo dimorò
poi Ibn-Zafer in Sicilia: allontanatosi forse nella sedizione de’
Cristiani di Palermo contro il re Guglielmo I e contro i Musulmani. Ei
ricomparisce ad Hama, stentando la vita al dire d’Ibn-Khallikân, con
una piccola provvisione che gli procacciarono, di professore, credo io,
in qualche medresa. In Hama ei divulga, tra le altre opere, il Solwân
della seconda edizione e il Kheir-el-biscer, mutilato della dedica a
Sefi-ed-dîn. E veramente la copia del Solwân stampata non è guari a
Tunis (1862), è tolta da un testo che l’autore stesso avea comunicato
al ripetitore in Hama, del mese di regeb del sessantacinque (aprile
1170);[856] il qual testo, al par del maggior numero de’ codici che
abbiamo in Europa, confronta con quello dedicato ad Abu-l-Kasim. E
ciò prova che l’autore avea messo da parte l’altro del re innominato.
La prima edizione corse per pochi anni, come si argomenta dal picciol
numero delle copie che ne rimangono, in confronto delle molte della
seconda edizione.[857] Nè altrimenti dovea succedere nel supposto
che il nemico di quel re troppo buono fosse stato il gran Norandino;
perocchè splendendo sempre più in Levante la gloria militare e la virtù
religiosa del conquistatore, i Musulmani non avrebbero sopportata
una voce che ricordasse le sue perfidie, nè l’autore stesso avrebbe
affrontato il pericolo di uscir nuovamente dalla Siria.
Comunque sia, l’indigenza accompagnò Ibn-Zafer fino alla tomba, e poco
prima l’avea sforzato a maritar la figliuola ad uom di condizione
inferiore alla propria, ch’è peccato in legge musulmana. Il genero,
per giunta, portò via la giovane e la vendè schiava in altro paese.
Morì Ibn-Zafer in Hama, come abbiam detto: ei fu piccino e mal
complesso della persona; ma bello in volto,[858] generoso d’animo, pio,
onesto, lodato per chiaro ingegno, vasta erudizione e delicato gusto
letterario. Donde possiam pensare che quest’ultimo scrittore della
Sicilia musulmana avrebbe lasciate opere più grandi, se la povertà non
l’avesse obbligato a filarne una trentina.
A capo delle quali ei pose nel citato catalogo il _Janbû’_, ec.
(Sorgente d’eterna felicità nell’esegesi del Savio Ricordo) dettato
due volte, come s’è detto, con lo stesso titolo[859] e chiamato
anche il Gran comento letterale del Corano.[860] Abbiamo in Europa,
per quanto io sappia, un solo volume del _Janbû’_, che torna
forse ad una ottava parte dell’opera e che ne dà bel saggio, s’io
giudico dirittamente.[861] Va noverato anco tra gli studii coranici
il _Fewâid-el-Wahi_, ec. (Brevi ed utili cenni su le gemme della
miracolosa Rivelazione) che racchiude la definizione de’ nomi dati
alla divinità nel Corano; de’ quali alcuni differiscono di forma e di
significato, come _Kerîm_ e _’Azîm_; altri, al contrario, derivano
da unica radice, come _Rahmân_ e _Rahîm_, ovvero possono usarsi
indistintamente come _Khabîr_ e _’Alîm_.[862] Nella medesima classe
è da porre l’_Asâlib-el-Ghaiât_, ec. (Vie che portano a spiegar bene
un versetto) ch’è appunto l’ottavo della sura quinta e risguarda
le abluzioni;[863] l’_Iksir-Kimia-et-tefsîr_ (Elixir della chimica
dell’esegesi);[864] il _Kitâb-el-Borhaniat_, ec. (Libro degli Argomenti
che conducono alla spiegazione de’ nomi di Dio).[865] Non si cita
d’Ibn-Zafer alcun trattato di tradizione musulmana propriamente detta.
Pur non è dubbio ch’egli abbia studiata quella prima sorgente delle
scienze dell’islam, poichè i biografi fanno menzione della sua presenza
nelle scuole di tradizione,[866] e d’altronde lo provan le opere sue,
come innanzi diremo.
Delle due opere giuridiche notate nel catalogo autentico, noi
sappiam poco più che i titoli: e sembrano l’una e l’altra compendii.
S’addimanda una il Mosanni (La Manoduzione), trattato di scuola
malekita, nel quale avverte l’autore ogni tesi essere seguìta dalla sua
dimostrazione: e parmi questo il medesimo libro che l’autore dedicò ad
Abul-Kasim in Sicilia, allungando un po’ il titolo: “Manoduzione per
chi vuole imbeversi della _Ma’ona_ e dell’_Iscraf_“, delle quali l’una
è compilazione classica di dritto malekita, e l’altra pare opera di
confronto tra le dottrine delle varie scuole ortodosse.[867] Il secondo
lavoro giuridico d’Ibn-Zafer è poemetto didascalico sul partaggio delle
eredità e su i diritti di clientela.[868] Non presto fede alla notizia,
al medesimo tempo riferita e messa in forse dal Fasi, che Ibn-Za-fer
avesse date lezioni di dritto sciafeita;[869] sembrandomi che s’egli
studiò quella scienza, non l’approfondì tanto da poter insegnare in
altra scuola che la malekita. L’errore nacque forse da somiglianza di
nome, e questa sarebbe per avventura una delle cagioni che han resa
dubbia la patria del letterato siciliano e fatta notare da alcuni
nel cinquecensessantacinque la sua morte, che seguì per vero due anni
appresso.
Da’ titoli delle opere di teologia, chè que’ soli abbiamo e qualche
cenno nel catalogo autentico, sembra che Ibn-Zafer siasi gittato
nelle contese degli scolastici musulmani dell’età sua. Messo da
canto il _Teskhir_ (La Connessione) del quale non sappiamo altro
che la classe,[870] ci occorre il _Mo’adat_ (I luoghi sacri), libro
ortodosso, scrive l’autore medesimo, pien di salutari avvertimenti
ed atto a chiarire ogni dubbio.[871] Segue il _Mo’atibat-el-Giari_,
ec. (Riprensione all’audace che condanna l’innocente), il quale
trattava, se dobbiam credere al Makrizi, delle dottrine teologiche
di Abu-Hanifa e di El-’Asciari; onde par che l’autore abbia assunta
la difesa del primo contro il secondo.[872] Svela ira più acerba il
titolo del _Kescf-el-Kescf_ (Smascheramento dello Smascheramento),
confutazione d’un’opera ch’era uscita col titolo di _Kescf_, contro
la famosa “Risurrezione delle scienze teologiche” per Ghazali.[873]
Abbiamo infine con un titolo che parla dassè, il _Gennet fi
ittikâd-ahl-es-sunneh_ (Il Paradiso nella Ortodossia de’ Sunniti).[874]
Ma più che a combattere ne’ deserti della scolastica, s’adattava il
delicato intelletto d’Ibn-Zafer alla filosofia morale. Si leggono
nel catalogo i titoli di quattro opere, con l’avvertenza che fossero
parenetiche, cioè: _El-Khowads-el-wakiat_, ec. (Gli elmetti sicuri e
gli amuleti degli incantesimi);[875] _Riâdh-ed-dsikra_ (I Giardini
dell’Ammonizione);[876] _En-nesâih_ (I buoni consigli);[877]
_Mâlek-el-idskâr_, ec. (L’angelo che ricorda le vie delle
Riflessioni).[878] Delle quali opere nè conosciamo codici, nè troviamo
ragguagli; pur la tendenza morale si può argomentare con sicurezza
dalle opere istoriche e dalle pseudo-istoriche del medesimo autore.
Delle prime ci rimane il _Kheir-el-biscer_, ec. (I migliori annunzii
sul miglior dei mortali) dianzi citato, nel quale si discorrono le
predizioni ch’ebbe il mondo dell’apostolato di Maometto.[879] Il
trattato si divide in quattro capitoli, secondo la diversa origine de’
vaticinii; cioè a dire, que’ contenuti nei libri sacri degli Ebrei e
de’ Cristiani e quelli usciti di bocca dei dottori, dei _Kahin_ (arioli
arabi) e dei _ginn_ (genii o demoni). Nei primi due capitoli l’autore
cita ad ogni passo il Pentateuco, i Salmi, il libro d’Ezechiele e
i Vangeli, con le diverse opinioni degli espositori; talvolta ei
confronta col testo la versione siriaca del Vecchio Testamento; esamina
con erudizione il cammino percorso dai libri che compongono il Nuovo, e
sostiene pertinacemente il paradosso musulmano che il Paracleto della
Scrittura simboleggi Maometto. Parmi che cotesti due primi capitoli
possan giovare in qualche modo alla storia degli studii biblici. Nel
terzo e nel quarto si possono spigolare, per quel che valgano, degli
aneddoti di storia preislamitica, e v’ha sempre da raccogliere note
filologiche tra le sentenze sibilline conservate bene o male dalla
tradizione. La fama che ha goduta e gode questo libro in Oriente, è
provata dai molti codici che ne avanzano, dalle citazioni che ne fanno
gli scrittori,[880] e dalla recente edizione del Cairo.[881] Sembra
compendio del _Kheir-el-biscer_ lo _’Alâm-en-nobowah_ (Segni della
Missione profetica) che manca nel catalogo autentico, e dee perciò
riferirsi agli ultimi anni dell’autore.[882]
Si allarga alquanto il campo storico nell’_Anbâ-nogiabâ-el-ebnâ_
(Notizie dei giovanetti illustri),[883] al quale non manca il suo
compendio, chiamato _Dorer-el-Ghorer_ (Le perle frontali).[884] Caso
raro nella letteratura arabica, il titolo del primo di cotesti libri
espone chiaramente il subietto. Dividonsi quelle biografie in cinque
capitoli, ciascun de’ quali ha intitolazione particolare e il primo,
detto “La gemma solitaria ed unica,” racchiude gli aneddoti di Maometto
fanciullo. I tre seguenti trattano dell’infanzia di tre generazioni
diverse di Musulmani; il quinto de’ fanciulli celebri degli antichi
Arabi e de’ Persiani. È libro di _adâb_, come si chiama l’erudizione
miscellanea; e contiene esempii di bella memoria, sagacità precoce,
predestinazione alla grandezza religiosa o mondana. Cotesto libro, al
paro che il _Kheir-el-biscer_, potrà giovare tuttavia a’ lessicografi
ed a’ ricercatori della storia orientale del medio evo.
Com’ogni altro letterato arabo, scrisse Ibn-Zafer di grammatica.
Leggiamo nel suo catalogo un _El-Kawâ’id wal-biân_, ec. (Le basi e la
spiegazione della grammatica): ma egli stesso lo chiama compendio.[885]
E’ sembra invero che Ibn-Zafer poco siasi curato della scienza
grammaticale, ancorch’egli dicerto non l’abbia trasgredita nello
scrivere, perocchè le sue opere pervenute infino a noi scarseggiano di
note grammaticali, quanto abbondano delle lessicografiche. I biografi
poi ci hanno tramandato un pettegolezzo che attesterebbe i rimorsi
d’Ibn-Zafer; cioè, che trovandosi ad Hama in una tornata accademica con
Tag-ed-dîn-el Kendi, questi gli propose una difficoltà grammaticale
e poi un dubbio filologico: ai quali Ibn-Zafer rispose e in sul fine
della tornata sclamò: “Il dottore Tag-ed-dîn è più valente di me in
grammatica, ma io lo vinco in filologia.” — “Oibò, rispose il pedante,
conceduta la prima tesi; controversa la seconda.”[886]
Lasciato da canto _El Gewd-el-wasib_ (La pioggia continua),[887]
al quale non sapremmo assegnar classe e il _Kitab-el-isciarât_,
ec. (Cenni su la scienza dell’interpretazione) che par tratti
d’oneirocritica,[888] entriamo nella filologia, che dopo la filosofia
morale, fu in vero la disciplina prediletta del nostro autore. Come
già dicemmo,[889] spirava allora nella letteratura arabica il secento
e lucea, stella polare de’ filologi, l’arguto e vivacissimo Harîri.
Ibn-Zafer lo comentò, sforzato dal genio de’ tempi; ma lo combattè
anco. Nel _Sefr_ (Il sentiero) ei dichiarò le voci insolite e rare
e i proverbii che occorrono nelle _Mekamet_ o “Tornate” di Harîri,
come suona in italiano;[890] la stessa cosa par abbia fatto, su per
giù, nel _Nakîb_, ec. (Lo scrutatore delle espressioni peregrine
delle Tornate) e non sappiamo se il comento di Harîri, attribuito
a Ibn-Zafer, sia copia di quelle due opere messe insieme, ovvero
nuova compilazione.[891] Con l’_Awhâm-el-Ghawwâs_, ec. (Errori del
Marangone che taccia d’errore i Sommi) ei rifà il verso all’Harîri,
il quale nella _Dorret-el-Ghawwâs_, ossia “Perla del Marangone,”
avea sindacati i più celebri scrittori.[892] Fuor dall’agone della
critica, ci occorre il _Mulah-el-loghat_ (Sali di filologia), glossario
alfabetico de’ vocaboli suscettivi di parecchi significati;[893]
l’_Isctirak-el-loghewi_, ec. (Consorzio filologico e genesi de’
significati)[894] e il _Nogiob-el-amthâl_ (Proverbii eletti).[895]
Assai brevemente dirò del Solwân, ch’è pur il capo lavoro d’Ibn-Zafer
ed ha mantenuta per sette secoli, e manterrà ancora per lungo tempo,
la fama dell’autore presso i popoli musulmani. Venti anni or sono, io
tradussi questo libro in italiano, rividi una bella versione inglese
fatta su quella mia, e nella Introduzione trattai le sorgenti istoriche
e letterarie alle quali l’autore avea attinto. Detti altresì tutte
le notizie bibliografiche venutemi fin allora alle mani e v’aggiunsi
molti, forse troppi, schiarimenti, per far comprender meglio il libro
a’ lettori che non avessero studiate di proposito le cose dell’Oriente.
Mi basti, dunque, di ricapitolare quella Introduzione, della quale
confermo tuttociò che non correggerò espressamente.
_Solwân-el-Motâ fi ’odwân-el-etbâ_ vuol dire “Rimedii del principe,
quand’egli è nimicato da’ suoi seguaci.” Propone l’autore cinque
rimedii, che danno argomento ad altrettanti capitoli: e son l’Abbandono
in Dio, ossia l’affidarsi alla giustizia della causa; il Conforto,
ossia non sbigottire nei pericoli; la Costanza, ossia perseverare;
il Contentamento nella propria sorte; e l’Abnegazione, o piuttosto il
disprezzo delle cose del mondo. Ciascun rimedio è esposto per sintesi
e per analisi: da una mano i precetti del Corano, le tradizioni di
Maometto, le sentenze de’ savii ed alcune massime dell’autore in prosa
e in verso; dall’altra mano, squarci di storia, novelle fabbricate
su fatti storici e prette favole ed apologhi. Gli argomenti storici
son tolti per lo più da’ tempi classici dell’Arabia, da’ primi secoli
dell’islamismo, dalla Persia sassanida e talvolta dalle agiografie
cristiane dell’Oriente; le narrazioni favolose sono imitate, copiate
non già, da’ modelli indiani. Troviamo testualmente una novella
delle _Mille ed una Notte_:[896] ond’è da supporre che alcuno degli
ultimi compilatori di quel dilettevolissimo libro, l’abbia tolta
dal Solwân, non già il contrario. Del resto, non pochi altri squarci
sembrano parafrasi o forse traduzioni di testi pehlewi, ch’è a dire,
frammenti tolti dal naufragio della letteratura persiana nell’epoca
de’ Sassanidi. Nelle massime morali s’alterna, come nella più parte
de’ libri pervenutici dall’Oriente, la fierezza dello stoicismo e la
pieghevolezza cristiana: savii sono del resto i consigli politici;
ingenuo e vivace il dettato e la lingua arabica pura e scorrevole,
se non che a volte s’inciampa in un pezzo di secento. Le due edizioni
citate dianzi, le quali chiamerem l’una di Siria e l’altra di Sicilia,
si distinguono non meno per le prefazioni diverse, che per la pulitura.
Nella seconda son tolte via quelle citazioni continue, è semplificato
l’intreccio; ma qualche bel racconto è soppresso e v’è passata, s’io
non erro, la lima di una censura volontaria.[897]
Pregio principale del Solwân mi sembra la via nuova che l’autore tentò,
nuova pei Musulmani, cioè d’inculcare massime morali con l’esempio di
fatti immaginarii. Perchè pria di lui la letteratura arabica possedea
sì delle versioni e delle imitazioni di favole persiane e indiane,
ma non si ritrae che alcuno scrittore le abbia usate in opera di
serio e grave argomento:[898] ond’è che Ibn-Zafer si sforza nella
prima edizione a mostrar come i santi dell’islam non rifuggivano da
arte oratoria così fatta, e nella seconda replica che legge non vieta
il suo dettato, nè orecchio dee rifuggir da quello. E per vero, non
ostante gli scrupoli del tetro genio semitico, parecchi orientali hanno
tradotto questo libro, imitatolo o fattone parafrasi,[899] o presone
squarci,[900] ed altri scrittori il citano.[901] In somma, il Solwân
è stato sempre in voga appo i Musulmani, come lo provan anco le molte
copie che n’abbiamo nelle biblioteche europee e la recente edizione di
Tunis.
Tra i lavori d’Ibn-Zafer io non ho notate le poesie, perchè poche ne
conosciamo oltre i versi intessuti nel Solwân; i quali d’altronde non
differiscono dalle sue prose rimate, se non che per la misura e per
la rima più rigorosa. Ciò non ha ritenuti i biografi dal chiamar belle
le poesie d’Ibn-Zafer, giudicandole sopra un tipo di bellezza diverso
dal nostro. Imâd-ed-dîn, ch’era penetrato infino all’osso del gusto
letterario di quel secolo, dice che Ibn-Zafer, “passando in Siria
gli ultimi anni della sua vita, irrigò con la eloquenza le Accademie
de’ bramosi di sapere. Ei fu principe, al suo tempo, nell’esegesi del
Corano e nella erudizione. Lo vidi io in Hama, che gli amatori della
Scienza pendevano attoniti dal suo labbro. Lasciò eleganti composizioni
e ben ordinate compilazioni: tra le altre opere il Solwân, ch’io
ho percorso e trovatolo utile libro, come quello che unisce le due
bellezze, delle idee e della lingua, e ti ammaestra or accennando, or
esortando; il quale libro fu composto da lui in Sicilia, ec.” Arriva
il biografo a dire che questo uom valentissimo sorpassò nella scienza
tutti i dotti suoi contemporanei.[902] Che se non vogliamo fidarci di
Imâd, ampolloso scrittore, facile a lasciarsi trasportar dalle antitesi
e dalle consonanze, staremo al giudizio di Ibn-Khallikân, il quale,
educato com’egli era in una scuola storica aridissima, pur novera
Ibn-Zafer tra i principali eruditi e i più valenti uomini del tempo, e
lo dice autore di pregevoli compilazioni.
Il doppio nome etnico non ha cagionati dispareri su la patria del
tradizionista Abu-Ali-Hasan-ibn-Abd-el-Bâki, droghiere e dottore
malekita, noto sotto nome d’Ibn-el-Bâgi,[903] detto Siciliano e
Medinese, e morto il cinquecennovantotto (1201-2).[904] Al quale va
aggiunto un Abd-el-Kerîm-ibn-Iehia-ibn-Othman, soprannominato “L’onor
de’ Grammatici,” perch’ei fu maestro del precedente e discepolo di
Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-Mosallem, da Mazara; onde sembra anch’egli
nato, o domiciliato in Sicilia.[905] Siciliano per nascita l’altro
emigrato e tradizionista Abu-Zakaria-Jehia-ibn-Abd-er-Rahman-ibn
Abd-el-Mo’nim, oriundo di Fez, discendente della tribù araba
di Kais; il quale chiamossi anco Dimiski e Isfahani, dalle due
città ov’ebbe soggiorno, e nella seconda delle quali morì, il
secentotto (1211-12). Sappiamo ch’ei vagò per molti paesi, che
seguì la scuola sciafeita, lasciando, com’e’ pare, la malekita,
perchè non prevaleva in quelle regioni di levante. Si conosce
di lui l’_Er-raudat-el-anîkah_ (Il dilettoso giardino), che
sembra raccolta di tradizioni; ma egli non passava per fedel
raccontatore.[906] Visse nel medesimo tempo e fu maestro di
tradizione, il giurista Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-Abi-l-Kasim,
siciliano, della tribù di Koreisc.[907] Il cieco Abu-Abd-Allah
Mohammed-ibn-Abi-Bekr-ibn-Abd-er-Rezzâk, soprannominato _Scerf-ed-dîn_
(Gloria della religione), par sia uscito di Sicilia con le ultime
famiglie ch’emigravano; leggendosi ch’ei nacque il secenventuno (1224),
che studiò e insegnò in Egitto e morì al Cairo. Uomo di molta dottrina,
carità e religione, venuto in fama di santo che portasse benedizione
altrui con le preghiere, ei professò tradizioni e lettura del
Corano.[908] Parmi che Mohammed-ibn-Mekki-ibn-Abi-d-dsikr abbia preso
il nome di Siciliano dal villaggio presso Damasco che si addomandava Le
Siciliane; poichè lo dicono nato in Damasco, di regeb secenquattordici
(ottobre 1217): il quale fu noto come lettor del Corano e
tradizionista, ancorchè addetto al mestier di ricamatore a Damasco e
poi nell’opificio del _tirâz_ al Cairo, dove morì il secennovantanove
(gennaio 1300).[909] Furon poi detti entrambi Ibn-es-Sikilli, come
egli è probabile dalla nazione dei padri loro rifuggiti in Egitto,
due giureconsulti egiziani di scuola sciafeita; il primo de’ quali,
Mohammed-ibn-abî-l-Fadhl, della tribù di Rebî’a, soprannominato
_Scerf-ed-dîn_ (Gloria della religione), nacque in Misr il secentotto
(1211), fu magistrato di polizia urbana e morì il secennovantadue
(1293);[910] l’altro, Mohammed-ibn-Mohammed-ibn-Mohammed,
soprannominato _Fakhr-ed-dîn_ (Vanto della religione), scrisse un
trattato giuridico, fu cadi di Damiata, indi magistrato al Cairo e morì
il settecenventisette (1327).[911]
Ritornando ai Siciliani propriamente detti e alla classe della
filologia nella quale ci è occorso il ramingo Ibn-Zafer, troviam ora
un Abu-l-Hasan-Ali-ibn-Ibrahîm-ibn-Ali, chiamato Ibn-el-Mo’allim (Il
figliuol del maestro di scuola), che al dire di Dsehebi segnalossi
molto in grammatica e in lessicografia, ebbe scrittura bellissima,
studiò la medicina, interpretò i sogni, e morì il cinquecentrentadue
(1137-38). Mettendolo il Dsehebi, l’ho messo anche io:[912] e più
alacremente prendo a dir degli scrittori in prosa e in verso.
Giova qui ripetere che le notizie e gli squarci sui quali abbiamo a
giudicare, derivano la più parte dall’antologia d’Imâd-ed-dîn; il quale
trascelse secondo il gusto e l’intento suo, e non secondo il nostro.
Indi è che tra le opere degli Arabi siciliani di quest’ultimo periodo,
ei ci dà tre soli esempii di poesie che, in significato assai largo,
chiameremo popolari. I due primi son versi da cantare, dettati da un
buon letterato e poeta, senza tanto artifizio, ma senza scostarsi da’
metri soliti: onde ne tratteremo in appresso. L’altro esempio muove la
sete e ne lascia a bocca arsa. Sono stanze, proprio stanze, con versi
brevi e rime intrecciate: ond’io penso che scopriremmo per avventura
più intimi legami tra queste e le prime poesie italiane della Sicilia,
se il secentista pedante che fè la raccolta, ci avesse serbato qualche
altro componimento di tal fatta. Ma di certo gli parve strano e
barbarico il metro, del quale ei perfino ignorava il nome o sdegnò di
ripeterlo, poichè ci trascrive i versi con la intitolazione “Di que’
che si recitano con cinque misure.”[913]
Gli scrittori arabi di Ponente ci ragguagliano dell’origine e progresso
di cotesto novello uso di verseggiare, il quale non differiva nel metro
soltanto della genuina poesia arabica. I componimenti furon chiamati
propriamente _Mowascehât_, o _Azgiâl_. De’ quai vocaboli il primo è
plurale dell’aggettivo femminino _mowascehah_, che vuol dire “ornata
di _wisciâh_,” sorta di bustino di pelle, trapunto a fili alterni di
perle e d’altre gioie. Forse chi primo usò tal nome, volle paragonar la
nuova canzone ad una cantatrice abbigliata per andare a corte, o volle
accennare alla gaiezza delle rime, avvicendate come que’ fili paralelli
che si incrocicchiavano sotto il petto, nelle due punte del _wisciâh_.
E veramente in linguaggio tecnico appellano _simt_, ossia filo, il
verso la cui rima rilega tutte le stanze, e _ghosn_, ossia ramo, i
versi di ciascuna. La voce _zegel_, al plurale _azgiâl_, rende l’idea
di suono ripetuto, significando nella lingua classica: grido, chiasso,
gorgheggio ed anco susurro come di venticello.
Le _mowascehe_ s’intesero dapprima a corte di Cordova, allo scorcio del
nono secolo; furon molto in voga in Affrica e Spagna dall’undecimo in
giù; e quella moda occidentale trovò favore anco in Egitto e in Siria e
dura finoggi.[914] Sia fioritura d’un germe che s’ascondea nella stessa
poesia nazionale degli Arabi,[915] sia novità tolta in prestito dalla
Persia, sia pure imitazione delle strofe e rime di bassa latinità che
correano per avventura nel clero e nel popolo di Spagna al tempo del
conquisto, la _mowasceha_ alleggerì ogni maniera di peso della poesia
classica: i versi lunghi, divisi per emistichii; l’unica rima de’
componimenti maggiori; i vocaboli insoliti o vieti messi lì per forza
della rima o lusso di lingua; e nelle kaside, la macchina della bella
che ha mutato il campo, dell’amante che visita le vestigie di quello e
simili cose.
I versi brevi, scompartiti a stanze, costruiti più spesso con gli
accenti a modo nostro che con le regole della prosodia arabica,[916]
rimano con leggi svariate, or alternati come nelle nostre terzine, ora
con rima intermittente come nelle canzoni e in molti altri antichi
metri nostri; e così anche si tramezzano versi di varie misure, per
esempio di quattro o cinque sillabe, con que’ d’otto o dieci. Secondo
Ibn-Khaldûn, i _zegel_ non si distingueano altrimenti da quell’altro
metro, che per la lingua, volgare del tutto:[917] ma par che vi
si usassero stanze più piccole e versi più corti; ed a ciò menava
di certo la soppressione delle vocali finali nella più parte de’
vocaboli, ch’è proprio dell’arabo volgare; e l’uso di accompagnare
i versi col canto e talvolta col ballo.[918] E però gli eruditi han
chiamate le _mowascehe_, odi o canzoni e i _zegel_, ballate e sonetti;
la quale ultima denominazione parrebbe più propria se si riferisse
all’antico sonetto nostro.[919] Del resto richieggonsi altri studii
pria di ammettere la parentela, che comparirebbe a primo aspetto dalla
somiglianza di qualche metro e di qualche denominazione. Se pur si
trovassero compagne le fogge del vestito, le muse neo-arabiche avranno
sempre altro temperamento e altra indole che le neo-latine. Le prime,
soprattutto quand’esse abbandonansi nei _zegel_, si allontanan sì
dall’Arcadia del deserto, ma non s’avvicinano per questo alla scuola
de’ Trovatori di qua nè di là dalle Alpi; e più spesso, ne’ loro nuovi
metri, le immagini, il colorito, le transizioni, l’adulazione, il
biasimo, i vanti, i monotoni piagnistei dell’amore, son gittati sulla
forma arabica, quella, già s’intende, dei tempi di decadenza.
L’unica poesia di tal fatta, riferita a Siciliani nella _Kharîda_, è
opera del segretario Abu-l-Hasan-Ali-ibn-Abd-er-Rahmân-ibn-abi-l-Biscir,
es-Sikilli, el-Ansari, cioè siciliano di stirpe medinese, messo in
primo luogo nel capitolo de’ Siciliani contemporanei d’Imâd-ed-dîn,
onde tornerebbe alla metà del sesto secolo dell’egira e duodecimo
dell’èra cristiana. Più precisamente parmi da collocare Abu-l-Hasan
tra lo scorcio dell’undecimo e i principii del duodecimo, poichè il
raccoglitore cavò questa notizia dall’epistola di Abu-s-Salt su i
poeti della età sua propria (1067-1134). Il componimento è di sei
stanze, ciascuna di tre versi d’otto sillabe, ed ogni verso rima col
suo simmetrico in ciascuna stanza, il primo cioè col primo e così il
secondo e il terzo: e però lo chiamerei _zegel_, più tosto che
_mowasceha_.[920]
Io mi ristringo al metro, ch’è la sola parte notevole di questo
squarcio, e nulla dico de’ concetti e dello stile; parendomi gli uni
volgari e l’altro pesantuccio, quando Abu-l-Hasan ne’ componimenti
ordinarii tratta più vivacemente il subietto dell’amore mal
corrisposto,[921] e le sue parole una volta si direbber anco tenere
e spontanee.[922] Lasciato da canto Abu-s-Salt, che si dilettava
di paragonare co’ suoi proprii versi e con gli altrui, un distico
d’Abu-l-Hasan su i raggi di luce ripercossi dalle acque,[923] noi