Storia dei musulmani di Sicilia, vol. III, parte II - 15

alcuna opera medica e la traduzione d’alcun’altra;[808] sappiamo
l’accoglienza che trovò a corte di Palermo, verso la metà del
decimoterzo secolo, il medico Taki-ed-dîn, il quale venendo a Bugia
da’ paesi di Levante, soffermossi in Sicilia.[809] E visse nell’isola
infino alla seconda metà del secolo decimoterzo chi seppe sì bene la
lingua arabica e la medicina, da poter voltare dal testo in lingua
latina, la grande opera medica di Razi, intitolata _El-Hawi_, ossia
«Il Comprensivo,» della quale Carlo primo d’Angiò avea domandato ed
ottenuto un codice dal re di Tunis. Il traduttore, per nome Farag,
figliuolo di Salem, ebreo di Girgenti, portò a compimento, nel febbraio
del milledugentosettantanove, questo lavoro; il quale sendo stato
approvato da eletti medici di Napoli e di Salerno, ne fu fatta per
uso della corte una bellissima copia in pergamena, divisa in cinque
grossi volumi; la quale dopo quattro secoli capitò nella collezione
di Colbert, ed or è serbata ne’ tesori della Biblioteca nazionale di
Parigi.[810] Cotesto lavoro non solamente è pregevole per la storia
letteraria, ma potrà servire tuttavia agli scienziati ed a’ filologi,
terminando con un indice ed un ampio glossario di medicamenti semplici,
al quale è messo a riscontro il nome latino con l’arabico e spesso anco
col greco, scritti in caratteri nostrali.[811]
Quantunque gli Arabi, togliendo, come noi, dai Greci il vocabolo
filosofia, l’abbian usato in senso diverso da quel ch’ebbe in Europa
nel medio evo, e l’abbiano ristretto alle speculazioni metafisiche
e fisiche dell’antichità, pure io non credo che re Ruggiero siasi
mai dato a così fatta disciplina, sì come affermano Sefedi ed Omari
da me citati.[812] Edrîsi, nella dedica della geografia, gli dà lode
soltanto per le scienze delle due classi che noi chiameremmo politica e
matematica:[813] e da tutto quel che sappiamo di questo gran principe,
ei ci sembra inclinato alle scienze pratiche e positive, più tosto
che alle astrattezze su la natura e le relazioni degli esseri. Quindi
è verosimile che que’ due scrittori arabi del decimoquarto secolo,
indotti in errore dalla fama che tuttavia predicava la corte sveva di
Sicilia com’emporio d’ogni bel sapere, abbiano attribuita a Ruggiero
una lode che andava piuttosto al figliuolo della sua figlia. Pure nella
seconda metà del duodecimo secolo, gli studii filosofici propriamente
detti eran già progrediti di molto in Italia e particolarmente nelle
regioni meridionali. A quegli studi par che accenni, e non alla scienza
e alla coltura in generale, il dotto fiorentino, Arrigo da Settimello,
nel carme latino dettato allo scorcio del secolo, là dov’ei dice che la
filosofia tenea corte bandita in Sicilia.[814]
Il genio dunque dei tempi, l’adolescenza passata a corte di Palermo,
la quotidiana provocazione di papi ambiziosi e tracotanti, ed anco
la sottigliezza del cervello germanico, disponeano Federigo alla
metafisica. Si potrebbe supporre _a priori_ ch’ei fosse stato educato
alla scuola peripatetica degli Arabi, poichè l’Europa cristiana in
quel tempo non soleva attingere ad altre fonti che a quella. Cresce
l’argomento col noto fatto ch’ei menò seco alla Crociata un musulmano
di Sicilia, col quale avea studiata già la dialettica.[815] Ed abbiamo
per prima prova l’opinione generale del secolo, quando la Corte papale
e i frati, e i nemici dell’impero e la turba infinita de’ ciechi di
quella età, più arrabbiati assai che i ciechi d’oggidì, accusavano
Federigo di miscredenza e gittavangli addosso le più sciocche
calunnie;[816] e, quel ch’è più, i Cristiani mormoranti contro Roma in
Italia e fuori, lo biasimavano di liberi pensieri, e persino il Poeta
che avea messi in inferno tanti papi, lo chiuse entro un’arca ardente
della città di Dite. Ma da pochi anni in qua son venute fuori notizie
dirette e precise intorno la scuola ch’ei seguì.
Un codice arabico della Biblioteca bodlejana d’Oxford, intitolato «I
Quesiti siciliani» racchiude le quistioni filosofiche «mandate a’ dotti
di Levante e di Ponente dal re de’ Romani, imperatore e principe della
Sicilia, e le risposte che fecevi in Ceuta, per volere di Rascid califo
almohade, il dottissimo sceikh ’Abd-el-Hakk-ibn-Sab’in.» Cotesto re de’
Romani era ben Federigo, poichè il riscontro delle date, conduce per
l’appunto al suo regno. Ed ecco il tenor de’ quesiti:
Primo. «Il filosofo (Aristotile) in tutte le opere sue dice espresso
esistere il Mondo _ab aeterno_: ei così pensava di certo. Or, s’ei
lo dimostrò, quali furon le prove; e se no, in che maniera ei ne
discorre?»
Secondo. «Qual è lo scopo della scienza teologica e quali sono i suoi
postulati preliminari, se postulati essa ha?»
Terzo. «Che cosa sono le categorie? E come quelle dieci che ne
conosciamo servon di chiave ad ogni maniera di scienza? Ma le son
veramente dieci; e perchè non se ne può togliere nè aggiugnere alcuna?
Come poi si prova tuttociò?»
Della quarta tesi non è trascritto il testo, ma si ritrae
che risguardava la natura dell’anima, la sua immortalità e la
contraddizione che appariva in questo subietto tra Aristotile ed
Alessandro d’Afrodisia.
Quinto, «Come vanno spiegate queste parole di Maometto: «Il cuor del
Credente sta tra due dita del (Dio) Misericordioso?»
Bastano così fatte domande a svelare lo scettico. Ibn-Sab’în che non
l’era meno di Federigo, rispose pure in tutti i capi da specchiato
ortodosso musulmano, pratico dell’arsenale della scienza e bene
informato della storia de’ filosofi greci; poichè oltre i molti
peripatetici, ei cita a proposito dalla immortalità dell’anima, «il
divino Piatone e Socrate suo maestro,» non che il Corano, il Vangelo,
il Pentateuco, i Salmi e i Fogli (_Sohof_), antichissima rivelazione,
com’e’ pare, de’ Sabii. Ma di sotto il casto ammanto uscìa la zampa di
Satan. Discorrendo della teologia e de’ suoi fondamenti scientifici,
Ibn-Sab’în scrivea che, se l’imperatore pur volesse chiarirsene meglio,
venisse in persona a parlargli o mandassegli alcun suo scolastico
(_motekallim_) o almeno un uom fidato al quale consegnare sicuramente
lo scritto: tanto più che coteste sospette proposizioni eran già note
a tutti in quel paese, come fuoco che s’accenda in alto: e v’era di
molti barbassori ignoranti e maligni, che al solo odore di quesiti così
fatti, davano dell’asino al proponente e di matto all’interrogato.
Leggiamo nel preambolo di questo dotto squarcio peripatetico, che il
messaggier dell’imperatore, avuto lo scritto, offrì grossa somma di
danaro per mani del governatore di Ceuta; che Ibn-Sab’în la rifiutò, e
ch’ei ricusò al paro i ricchi doni mandatigli da Federigo, quand’ebbe
sotto gli occhi la risposta. La proposizione de’ Quesiti Siciliani va
riferita, su per giù, al milledugenquaranta.[817]
Noi non ritraggiamo se Federigo abbia soddisfatta la curiosità
filosofica, al modo che gli proponeva Ibn-Sab’în. Questo sapiente,
che allor avea forse venticinque anni, e s’era già, di Murcia sua
patria, rifuggito in Ceuta per una prima persecuzione religiosa, fu
costretto nuovamente a mutare soggiorno, da’ teologi Musulmani che non
gli perdonavano l’audacia, nè il sapere. Passò da Ceuta a Bugia, indi
a Tunis e al Cairo, e infine alla Mecca; precorso e avviluppato sempre
dalla fama di _zindik_ e panteista, ancorchè ei cercasse di nascondersi
sotto il mantello del sufismo e delle scienze mistiche. Ebbe, come gli
antichi filosofi, gran seguito di discepoli e di gente che ammirava la
sua dottrina ed eloquenza, o gli era grata per la inesauribile carità.
Ma prevalendo i nemici, ei, con esempio singolare appo i Musulmani, si
fe’ segar le vene e morì da stoico: onde crebbe l’ammirazione de’ suoi
discepoli e il trionfo de’ nemici.[818] Se non fallisce un cronista
anonimo trascritto dal Makkari, la fama di questo filosofo arrivò
in Italia. Abd-Allah signore di Murcia, della dinastia de’ Beni Hûd,
spogliato improvvisamente da Alfonso di Castiglia che avea accettato da
lui l’omaggio feudale, tentò un appello al papa pel falsato giuramento,
com’io credo. Mandò a quest’effetto in Roma un fratello d’Ibn-Sab’în,
per nome Abu-Taleb; il quale presentatosi al papa, s’accorse che
questi al vederlo si messe a parlare di lui “in lingua barbara” co’
suoi cortigiani; onde informatosi arrivò a sapere aver detto il papa
che il suo fratello era in vero il principe de’ teologi musulmani.
Tornando l’ambasceria al dugenquarantatrè, perchè allora i Castigliani
occuparono Murcia; si dee riferire quel giudizio ad Innocenzo IV, uomo
di molta dottrina e testè amico dell’Imperatore. E sembra cosa molto
verosimile che Innocenzo avesse anco lette le risposte ai Quesiti
Siciliani, le quali di certo levarono gran romore tra gli adètti della
scienza.[819]
In tal frequenza di commerci intellettuali, non poteano rimanere
ignote a corte di Sicilia le opere del gran filosofo israelita di
Spagna morto nei primi anni di quel secolo, Musa-ibn-Meimûn, chiamato
dagli scrittori cristiani Maimonide. E già l’erudizione moderna,
frugando gli scritti degli Israeliti italiani, ha scoperte vestigia
dell’abboccamento di Federigo con un dotto, non sappiamo se ebreo o
musulmano, col quale lo imperatore si maravigliò che Maimonide non
avesse spiegato nella «Guida de’ Dubbiosi» nè tra le «Ragioni de
Precetti» l’origine del rito mosaico di purificazione con le ceneri
della giovenca rossa (_Numeri_, cap. XIX); e soggiunse parergli
che quell’uso fosse nato per vero dall’olocausto del lione fulvo,
ch’egli ritraea dal «Libro de’ Sapienti indiani»[820] Da cotesto cenno
si è conchiuso a ragione, che Federigo ebbe alle mani la versione
ebraica, o piuttosto l’originale arabico, della famosa «Guida;» e si è
supposto con verosimiglianza ch’egli stesso n’abbia fatta far la prima
traduzione latina.[821] Speriamo che ulteriori indagini rischiarino
cotesti particolari di Storia letteraria. Intanto non è da porre in
dubbio tal aneddoto, che allarga sempre più il campo delle cognizioni
da attribuirsi a Federigo.
Nè egli coltivò la filosofia sol per utile e diletto proprio, ma sì la
promosse ne’ suoi domimi e in tutta Cristianità. Accenneremo appena
alla Università fondata in Napoli; a’ sussidii assegnati per gli
studenti poveri; ai “dottori chiamati da ogni parte del mondo, come
dice il Jamsilla, con liberali premii e provvisioni.”[822] Raccolti
nella sua biblioteca moltissimi codici arabici e greci, Federigo li
facea tradurre in latino, per comodo pubblico. Ci rimane la nobile
epistola con la quale ei mandava in dono ai professori ed agli studenti
di Bologna la versione di «certi scritti di Aristotile e d’altri
filosofi su la dialettica e la cosmologia,» affinchè giovassero a
propagare la scienza, «senza la quale, ei dicea, la vita dei mortali
non si conduce liberalmente.» Impossibile e’ sembra che Federigo non
abbia arricchita, di quelli e d’altri trattati, la sua cara Università
di Napoli; e si ritrae che Manfredi, imitando l’esempio del padre,
inviò all’Università di Parigi, forse le stesse opere e di certo la
stessa epistola, ricopiata e mutatovi il nome.[823] Pensano gli eruditi
che coteste versioni siano state, tutte o parte, opera di Michele
Scoto.[824] Non guari dopo, Bartolomeo da Messina, per commissione di
Manfredi, tradusse dal greco in latino l’Etica d’Aristotile;[825] e
un tedesco per nome Hermann voltò in latino, per voler dello stesso
principe, le parafrasi arabiche, o compendii del medesimo e d’altri
libri d’Aristotile.[826] Aggiungansi le altre versioni d’opere di
matematica, di medicina, di storia naturale, d’astronomia o astrologia,
dovute al patrocinio di Federigo o del figliuolo, delle quali abbiam
già fatta menzione. Come poi i Giudei furono in Occidente, per tutto
il medio evo, gli interpreti più assidui della dottrina araba, così
Federigo favorì, insieme con le latine, le traduzioni o compilazioni
ebraiche degli scritti arabi di scienza. Oltre i supposti che abbiamo
riferiti poc’anzi intorno la versione della «Guida de’ Dubbiosi,»
si ritrae per positive testimonianze che Giacobbe figlio di Abba
Mari, medico di Marsiglia, stipendiato largamente dall’imperatore,
e venuto a Napoli, compì quivi il dugentrentuno la versione ebraica
dell’Almagesto, e il trentadue, quella del comento di quattro libri
d’Aristotile per Averroes.[827] Similmente si ritrae che Giuda
Cohen figlio di Salomone, ebreo spagnuolo, compilatore di una grande
enciclopedia scientifica ch’ei dettò in arabo e tradusse in ebraico,
passò in Italia del quarantasette, dopo avere risposto per ben
due volte ai quesiti scientifici di Federigo:[828] onde possiamo
argomentare che questi l’abbia chiamato di qua dalle Alpi, allettandolo
con quella savia liberalità che usò verso ogni altro scienziato.
Quindi si è creduto che Federigo intendea l’ebraico; ed altri ha
aggiunto, con maggiore verosimiglianza, il greco, poichè v’ha una
versione greca delle sue costituzioni,[829] e si sa che al suo tempo
questo idioma prevaleva in alcune città della Sicilia e del Napoletano.
Per buoni argomenti si ritiene che Federigo seppe il provenzale e il
francese;[830] nè è da mettere in forse ch’ei parlò, qual meno e qual
più spedito, l’italiano, il latino, l’arabico e il tedesco.[831] Dubbio
è che in latino e in provenzale,[832] certo ch’egli abbia verseggiato
in italiano, al par che alcuni suoi figliuoli e cortigiani: il che
non vuol dir che Federigo inventò la nostra poesia, nè che fondò,
propriamente parlando, un’Arcadia in Palermo, come sognavano gli
eruditi del secol passato; ma che primo, o tra i primi, egli introdusse
in Italia la moda arabica e provenzale di recitare a corte, de’ versi
dettati nella lingua che ciascun parlava. La quale usanza aulica,
promosse la nostra letteratura assai più ch’e’ non sembri a prima
vista. Federigo rese popolari le novelle rime, con le attrattive del
canto e dei suoni.[833] E se ben mi appongo, suscitossi nell’animo
de’ contemporanei una indefinita ma irresistibile brama di civiltà, a
veder il nipote di Barbarossa, che scendea dal trono per conversare
co’ dotti e mescolarsi negli esercizii delle arti liberali e ne’
sollazzi: gentile, piacevole di tratto, arguto, tollerante degli altrui
detti,[834] vivace e versatile ingegno, ed a volte profondo, nudrito
e non soffocato dalla erudizione, splendido ed elegante negli arredi e
negli edifizii ch’ei fece costruire.[835] Con la potenza, la ricchezza
e l’alto animo, egli cooperò quanto niun altro uomo del medio evo, a’
progredimenti dell’intelletto umano in Europa.
Noi non abbiamo qui a giudicar Federigo statista, nè legislatore;
non abbiamo a biasimar, nè a scusare i vizii che lo macchiarono,
l’avarizia, la crudeltà, la dissolutezza, la perfidia: vizii di tutti i
tempi e maggiori assai nel medio evo che in oggi. A considerar la sola
tempra dello intelletto, Federigo ci sembra uom del secolo decimottavo,
venuto su nei principii del decimoterzo, come quelle piante che per
singolar caso di natura o per arte dell’uomo, fioriscono fuor di clima
e di stagione. Così fatti fenomeni morali, la Storia non arriva a
spiegare pienamente, poichè la più parte delle cause si sottraggono
alla critica: può nulladimeno, investigare le condizioni di cose
che abbiano favorito lo sviluppo d’un buon germe. Or l’intelletto di
Federigo prese forma e vigore tra due serie di fatti non ordinarii,
alle quali noi abbiamo accennato; cioè il turbine politico che
l’aggirò fin dai suoi primi anni e l’ambiente di civiltà nel quale
ei fu educato. Il nostro subietto ne conduce a ricapitolare quanto su
quest’ultimo punto si è detto da altri e da noi stessi.
All’entrar del secolo decimoterzo, la civiltà musulmana, con le sue
parti buone e triste, s’era infiltrata un poco in tutta Europa, molto
nella terraferma italiana e moltissimo in Sicilia; dove, oltre i
frequenti commerci con le rive meridionali del Mediterraneo, rimaneano
avanzi degli ordini e delle schiatte musulmane. Tra gli avanzi di
quelle schiatte, ci sono occorsi nella infanzia di Federigo de’
famigliari della corte di Palermo e n’abbiamo visti nel suo seguito
a Gerusalemme e per tutta Italia, in pace, in viaggio, in guerra;
maestri o collaboratori di studio, essi e i Giudei e i Musulmani
avventizii d’altri paesi, cortigiani, ufiziali, ministri di passatempi
onesti, o di lusso e talvolta di non lodevol costume. Giovanni detto
il Moro, celebre per misfatti nei regni di Corrado e di Manfredi, nato
d’una schiava di corte, segretario dell’imperatore, tesorier generale
del reame, quel desso ch’ebbe feudi da Innocenzo IV e volle tradire
Manfredi a Lucera, Giovanni somiglia, così d’origine come di vita e
di costumi, ad un liberto di reggia musulmana di Spagna, Affrica o
Egitto.[836]
La corte sveva d’Italia parve musulmana a tutti i buoni Cristiani
dell’Occidente, secondo l’attestato di Carlo di Angiò, che appellava
Manfredi il Sultano di Lucera. Avendo largamente discorso in questo
capitolo e nei precedenti del patrimonio intellettuale che Federigo
prese da’ Musulmani, accenneremo qui ai costumi e alle usanze
passate per la medesima via. Gregorio IX denunziò all’orbe cattolico
l’imperatore che in Acri avea fatte venir ballerine per offrire
spettacolo o peggio, a’ suoi ospiti Saraceni:[837] e si ritrae da
testimonianze autorevoli che anco in Europa ei si sollazzava con
le pantomime, i giochi di equilibrio, i suoni e i canti di quelle
saltatrici.[838] Innocenzo IV, accagionandolo ingiustamente per le
relazioni politiche col Cairo, gli rinfacciava di tenere paggi saraceni
e di far custodire la sua moglie da eunuchi.[839] E ch’egli s’era
acconcio un serraglio a Lucera e n’aveva un altro da campo nelle guerre
d’Italia, lo provano documenti e scrittori contemporanei.[840] Così i
vizii avean preso a corte di Federigo le sembianze musulmane; non ch’e’
mancassero o fossero men laidi nelle reggie cristiane del medio evo.
Musulmano anco il lusso. Parrebbe che Federigo volesse imitar qualche
sultano Gaznevida dell’India, quand’egli all’assedio di Pontevico
(1237) fece menare da Saraceni un elefante, che portava sul dosso una
torricciuola con le bandiere imperiali.[841] Parrebbe ch’egli avesse
voluto recare in Europa le apparenze tutte dell’Oriente, quando si
legge il rescritto, col quale comandava a’ suoi ufiziali in Palermo di
trascegliere subito nella famiglia della corte alquanti schiavi negri
in su i venti anni, e comperarli al bisogno, i quali apprendessero a
suonare, chi la tromba e chi la trombetta, e fossero subito mandati
allo imperatore.[842] E sia caso, o che i più be’ paramenti della corte
uscissero ancora dal tirâz di Palermo, si è perfin vista una iscrizione
arabica, trapunta in oro, su i paramani della tunica nella quale fu
composto nell’avello il grande imperatore del secolo decimoterzo.[843]


CAPITOLO XI.

Mentre le scienze fisiche e filosofiche manteneansi in onore appo i
soggiogati Musulmani di Sicilia, e la poesia arabica suonava gradita
nella reggia cristiana di Palermo, gli studii religiosi e legali
decaddero e con essi la filologia. Nè dovea succedere altrimenti,
quando si dileguavano a mano a mano gli uomini eletti per educazione
e virtù, lasciando nell’isola que’ delle infime classi e gli ufiziali
e servitori di corte. L’emigrazione de’ migliori, attestata negli
annali arabici dell’undecimo secolo, taciuta in que’ del duodecimo che
dimenticavano già la Sicilia, comparisce ormai dalle biografie.
Secondo l’ordine posto ne’ libri precedenti, farem di principiare la
rassegna con le scienze coraniche. Delle quali troviam solo cultore
un letterato, diremmo quasi, enciclopedico, rinomato appo i Musulmani
infino ad oggi. In luogo di scompartire i ragguagli per tutto il
capitolo, ritornando a questo valentuomo in ciascuna delle classi cui
vanno ascritte le svariate opere sue, discorrerem di tutte insieme; e
daremo per primo la biografia, che si ritrae da ’Imâd-ed-dîn d’Ispahan,
contemporaneo; da Ibn-Khallikân, scrittore del secolo decimoterzo e da
quattro eruditi compilatori del decimoquarto e decimoquinto.[844]
L’autore, per nome proprio Mohammed, per patronimico
ibn-abi-Mohammed-ibn-Mohammed-ibn-Zafer, ebbe il nome familiare
d’Abu-Hascim,[845] i titoli onorifici di _Hogget-ed-dîn_ e
_Borhân-el-islâm_ (Dimostrazione della fede e argomento dell’islamismo)
e gli veggiam dati i nomi etnici di Sikilli e Mekki, or l’uno, or
l’altro, ed or entrambi; il quale raddoppiamento accade spesso appo i
Musulmani, com’altrove abbiam detto.[846]
Ibn-Khallikân afferma a drittura ch’ei nacque in Sicilia e fu educato
alla Mecca; il che ripete Abulfeda; e il Makrizi dice di più che il
nostro autore, oriundo della Mecca, fu educato in Maghreb e stanziò
in Hama, dopo breve fermata in Egitto. Da un’altra mano ’Imâd-ed-dîn,
che lo conobbe di persona ad Hama, lo novera tra i poeti dell’Arabia
propria; lo dice meccano “d’origine”, maghrebino di educazione, vissuto
in Siria: e notisi che la voce _asl_, usata da questo scrittore,
risponde appunto alla nostra “origine,” e si adopera più propriamente
per designare la patria del padre. All’incontro il Fasi, che compilò
nel decimoquinto secolo gli annali della Mecca sua patria, lo fa
oriundo del Maghreb, ma nato e cresciuto nella santa città. Egli cita
il Katifi, annalista di Bagdad; il quale alla sua volta allega un
discepolo d’Ibn-Zafer, che avea sentito dalla propria bocca di lui,
esser nato alla Mecca, di scia’bân quattrocennovantasette (maggio
1104): e il discepolo aggiugnea che una volta ch’ei giunse ad Hama
di rebi primo del cinquecensessantasette (novembre 1171), domandando
d’Ibn-Zafer, seppe esser morto pochi dì innanzi. Secondo la raccolta di
biografie dei dottori Malekiti, dalla quale cavò notizie un cronista
d’Egitto citato dallo stesso Fasi, Ibn-Zafer partì fanciullo dalla
Mecca; studiò con varii dottori in Alessandria, Affrica e Spagna; tenne
conferenze pubbliche nelle moschee; dal Maghreb poi passò in Sicilia;
andò a Damasco e stanziò alfine in Hama. I quali dati non accordandosi
tra loro e molto meno con quei d’Ibn-Khallikân, il Fasi se ne cava
fuori con la formola di critica musulmana, che il vero lo sa Iddio.
Il Soiuti par abbia avuti alle mani questi ed altri ricordi. Ei nota
la nascita alla Mecca, l’andata in Egitto; poi fa vivere Ibn-Zafer
lunga pezza in Affrica e soggiornare per l’appunto in Mehdia quando la
fu presa da’ Cristiani (1148); indi lo fa vagare in Sicilia, Egitto,
Aleppo e gli fa scrivere la più parte delle opere in Hama. Infine la
nota anonima di un antico codice del Solwân, dice l’autore nato in
Sicilia e rimasovi nella prima gioventù.[847]
Io non vo’ sciorre la quistione con la sola autorità degli scrittori,
la quale pende pur da un lato: poichè, se Imâd-ed-dîn è dubbio, sta
per la Sicilia il gran biografo de’ Musulmani, con Abulfeda signore di
Hama dove Ibn-Zafer fu sepolto e lasciò più ricordi che altrove, e con
Makrizi, sì avveduto e diligente; e al contrario sta per la Mecca un
contemporaneo citato dal Katifi e notato di contraddizione in alcuni
particolari;[848] il Fasi alquanto incerto e il Soiuti, fecondissimo
tra tutti gli scrittori del mondo, e però frettoloso, oltrechè egli
die’ queste notizie in un’opera giovanile e senza citazioni.
Considerata dunque la incertezza dell’uno e le due opposte sentenze
degli altri, occorre il sospetto che sien corsi falsi o equivoci
ragguagli fin dal tempo dell’autore stesso. Nè mancherebbe il perchè.
Il nome siciliano dovea suonar male in Siria nella seconda metà del
duodecimo secolo, quando ardea quivi tanto fanatismo religioso,
e Ibn-Zafer ritornava in quel paese con animo di rimanervi: onde
non sarebbe inverosimile che l’autore medesimo, o gli amici, anzi
che ripetere il nome della Sicilia, avessero vantata ed allargata
nel significato l’origine meccana. Se tuttavia rimase ad Ibn-Zafer
l’appellazione etnica di Siciliano, è da supporre ch’ei non se la potè
levare d’addosso, sia ch’egli fosse nato propriamente in Sicilia, o che
vi fosse stato educato.
Parmi inoltre che l’errore potè sorgere o confermarsi per date mal
appurate; le date io dico che talvolta pongonsi nei codici musulmani
per affermare che tal testo fu, in tal mese ed anno e in tal paese,
consegnato dall’autore al rawi, ossia ripetitore, con licenza di
leggerlo altrui e darne copie. Occorre anco nelle notizie biografiche
dei dotti, e specialmente de’ tradizionisti, che segnisi la data in
cui il tale «ascoltò» da un tal altro, come chiamano tecnicamente
il prendere lezioni della tradizione profetica. All’una o all’altra
sorgente mi sembra ch’abbia attinto il Soiuti. Ma documenti analoghi ci
abilitano a correggere alcuni errori suoi ed a provare un fatto, ignoto
finora a tutti i biografi, cioè che Ibn-Zafer dimorò in Siria ben due
volte in tempi diversi; il qual fatto rende poco verosimile il racconto
di chi dice quel dotto andato nella sua fanciullezza in Maghreb e
ritornato in Levante dopo il breve soggiorno di Sicilia. Cotesto
itinerario par fondato sul supposto che Ibn-Zafer abbia dato in Sicilia
la prima, anzichè la seconda edizione del Solwân: ma si prova appunto
il contrario.
Il primo documento del soggiorno in Siria si trova
nel _Kheir-el-biscer_, dedicato da Ibn-Zafer a un
Sefi-ed-dîn-Ahmed-ibn-Kornâs, direttore, com’io credo, di qualche
_medresa_, o vogliam dir liceo, in Aleppo o in Hama.[849] L’autore,
fraseggiando nella prefazione, racconta come partito da’ “remoti paesi
occidentali” per cercare asilo nel possente reame di Norandino, quel
che abbatte con la sua grandezza gli animi di tutti i re di Levante
e di Ponente e copre i suoi nemici con la polvere della distruzione,
ec. «il destino l’avea balestrato ne’ precipizii, l’avea ricolmo di
affanni e gli avea fatto vedere in pien meriggio la stella Soha;»[850]
se non che Iddio gli mandò nel maggior uopo questo suo fratello
ed amico, Sefi-ed-dîn, al quale, volendo mostrare gratitudine e
rimeritarlo con la celebrità, gli presentava quel libro. Qui possiam
segnare la data: poco più o poco meno il millecenquarantotto; poichè
Nur-ed-dîn-ibn-Zengui si impadronì d’Aleppo alla morte del padre
(1146), ed entro pochi anni allargò il dominio e la fama; mentre Mehdia
cadea nelle mani di re Ruggiero.
Ci occorre, non guari dopo, quella che abbiam chiamata, a modo nostro,
la prima edizione del Solwân, in fondo della quale l’autore pone il
catalogo de’ libri compilati da lui, che incomincia così:[851] “Or
ch’esce quest’opera dal mio scrittoio e passa nelle mani de’ _rawi_
(ripetitori), sendo questo l’ultimo de’ miei libri, miei per _tesnif_
(composizione) e _talîf_ (dettato), nei quali mi sono studiato a
dilettare i lettori con l’eleganza e ad ammonirli co’ precetti, ragion
vuole ch’io conchiuda il volume, notandovi i titoli e gli argomenti di
que’ miei lavori, quantunque i ribaldi abbiano fatta rapina di molti
tra’ volumi così intitolati.” E seguono diciannove trattati, tra i
quali si legge il Kheir-el-biscer, ond’è manifesto che era stato già
scritto; ed all’incontro mancano, le tre opere dedicate ad Abu-l-Kasim
in Sicilia, dond’è certo al pari che non erano state composte e che
perciò la prima edizione del Solwân non è quella che porta il nome
del nobile siciliano. Comparisce in capo del catalogo il _Janbû’_,
gran comento del Corano, il quale l’autore avverte avere scritto per
la seconda volta, sendogli stata rubata la copia: onde par che egli
alluda con questo e col cenno precedente, al fatto narrato dal Soiuti,
cioè che gli Sciiti d’Aleppo, dando addosso un giorno ai Sunniti,
saccheggiarono la medresa ortodossa d’Ibn-Abi-’Asrûn e quivi rapiron
tutti i libri d’Ibn-Zafer.[852]
Cotesta edizione del Solwân è preceduta da tale dedica che allude,
senza dubbio, ad un fatto politico nel quale l’autore trovossi avvolto.
Un re suo benefattore ed amico intimo e palese, dice egli senza dare
il nome, principe savio, illustre, ed amante della scienza, viveasi
in grandi angosce, minacciato e stretto da un ribelle, il quale avea
a volta a volta assaliti e sedotti i suoi sudditi; e, arrivato a
guadagnare tutti gli ottimati, stava già per cacciarlo dal trono.
Bramando conforto a’ suoi mali, il tradito principe avea chiesto
all’autore (oh beati tempi!) un libro di filosofia e d’erudizione,
che fosse composto ad imitazione delle favole di Kalila e Dimna; e
Ibn-Zafer, non sapendogli ricusar nulla, gli offria cotesto libro,