Storia dei musulmani di Sicilia, vol. III, parte II - 13
Giaffa, Cesarea, Sidone ed un castello dei Templari presso Acri.[662]
Del resto avvenne tra’ Musulmani lo stesso che in Cristianità: che il
volgo dei fanatici maledisse Kâmil e la ignominiosa sua pace;[663] e il
papa di Bagdad se ne crucciò come quel di Roma, ma s’acquetò assai più
facilmente.[664]
Federigo andò a prender possesso di Gerusalemme, accompagnato da
un commissario di Kâmil,[665] ammirato da’ Musulmani per dottrina,
arguzia, tolleranza o, come dicean essi, inclinazione all’islamismo,
e irrisione del cristianesimo; onde altri lo definì _dahri_ che
oggidì suonerebbe panteista:[666] e tutti maravigliarono di questo
imperatore, filosofo e guerriero, calvo, losco, rossigno, che al
mercato degli schiavi non n’avresti dati dugento dirhem.[667] Tra
i molti aneddoti che se ne legge, noteremo sol quello ch’ei menò
seco a Gerusalemme il suo maestro di dialettica, e paggi e guardie,
tutti Musulmani di Sicilia, i quali si prosternavano alla preghiera
sentendo far l’appello del muezzin da’ minareti della moschea di Omar;
ed anco l’imperatore avea a grado quella cantilena, nè s’adirava che
si recitassero i versetti del Corano dove i Cristiani son chiamati
politeisti.[668] Sepper poco i Musulmani di quella scandalosa nimistà
del papa, del patriarca Gerosolimitano, de’ frati guerrieri e di quanti
s’affaticavano a tagliare i passi di Federigo in questa Crociata:[669]
delle quali brighe trapelò negli annali arabici sol quella, riferita
anco da’ latini, cioè che avendo alcuni Crociati profferto a Kâmil
di uccidere Federigo, il sultano mandò a lui stesso le lettere de
traditori.[670] Del resto gli Arabi ci danno con precisione tutti i
particolari dell’impresa, perfino il giorno che l’imperatore sbarcò,
reduce, in Italia.[671]
La possessione precaria di Gerusalemme condusse l’imperatore a
più strette pratiche nelle province che stendonsi dall’Istmo di
Suez all’Eufrate, nelle quali, frati e baroni cristiani e principi
musulmani, grandi e piccini, attendevano or più che mai a svaligiarsi
tra loro, collegandosi a viso aperto coi nemici della propria fede,
contro i fratelli in Cristo o in Maometto. Spregiatori dell’uno e
dell’altro, e però maledetti, perseguitati, ridotti allo stremo e
pur temuti per le inespugnabili fortezze e pe’ sicarii audacissimi,
rimaneano ancora gli Ismaeliani, detti in Cristianità _Assassini_, e il
loro sceikh, o capo setta, chiamato, con versione troppo letterale, il
Vecchio della Montagna.[672] E su quel brulichìo di feudi dominavano le
due potenze del Cairo e di Damasco, finchè l’una inghiottì l’altra.
Ascraf, insignoritosi di Damasco (1229) mentre Kâmil cedea Gerusalemme,
collegato con lui contro i Kharezmii, quindi inimicatosi, e morto
il seicentrentacinque (1237), avea lasciata la sua parte di Siria al
fratello Ismaele; e Kâmil non avea tardato a spogliare quest’altro ed
a farsi, tra signoria diretta e signoria feudale, sovrano di tutti i
dominii aiubiti. Ma trapassato egli stesso sei mesi dopo Ascraf (marzo
1238), e lasciata la Siria ad un figliuolo e l’Egitto ad un altro, si
ripigliò l’usanza di famiglia; onde l’un fu morto, l’altro, intitolato
Malek-Sâleh, occupò tutto il dominio (giugno 1240). Intanto nuovi
Crociati, non curando gli accordi di Federigo, ruppero la guerra;
afforzarono a modo loro Gerusalemme; ritentarono l’Egitto, e toccarono
quivi una sconfitta. In que’ trambusti, Nâsir, che i due fratelli
del padre avean già spogliato (1229) di Damasco e lasciatogli il
principato di Karak, volle ripigliare la roba sua; onde saputa la rotta
de’ Cristiani, piombò sopra Gerusalemme, uccise o fece schiavi quanti
v’eran dentro, e demolì le fortezze (1241). Nello stesso tempo Ismaele,
nominato dianzi, riprese Damasco, e si collegò con chi potè, senza
distinguere religione: onde seguirono nuovi scontri e stragi, e guasti,
e tregue fino al dugenquarantaquattro; quando i Kharezmii piombarono
addosso a tutti.[673]
Molte vestigia ci rimangono delle negoziazioni di Federigo in
quel periodo. Sappiamo venuti a lui in Puglia, del dugentrentadue,
ambasciatori del sultano di Damasco;[674] ch’era in quell’anno Ascraf,
il quale, soverchiato da’ Kharezmii in Armenia, avea perfin chiesto
aiuto al suo fratello Kâmil.[675] In questo, o in altro incontro,
Federigo donò ad Ascraf un orso bianco; del quale i Musulmani scrissero
con maraviglia ch’e’ rassomigliava il lione per la qualità del pelo
e che tuffava in mare a prender pesci. Si notò anco il dono d’un
pavone bianco.[676] A’ dì ventidue luglio del medesimo anno, Federigo
imbandiva a Melfi un gran convito agli ambasciatori del sultano
d’Egitto e del Vecchio della Montagna, dov’ebbe a mensa parecchi
vescovi e molti cavalieri tedeschi;[677] spettacolo di tolleranza assai
più strano a corte imperiale che l’orso bianco a Damasco. Ma non si
ignoravano in Germania coteste relazioni con gli Ismaeliani; e s’era
perfin detto l’anno innanzi che gli Assassini avessero pugnalato il
duca di Baviera per pratica dell’imperatore, suo nemico mortale.[678]
Così fatta calunnia, ripetuta volentieri tra i clericali di quell’età,
die’ origine ad una delle nostre _Cento novelle antiche_, nella quale
si legge che andato Federigo alla “Montagna del Veglio,” volendo
costui mostrargli la sua possanza, “vide in su la torre due Assassini:
presesi per la gran barba: quelli se ne gittaro in terra e moriro
incontanente.”[679]
Il legame col sultano d’Egitto si ristrinse dopo la resa di Gerusalemme
e divenne schietta amistade al dir d’uno scrittore musulmano,[680]
confermato dalla espressa accusa di papa Innocenzo IV.[681] Pare anco
siasi fermato tra Federigo e Kâmil, lo stesso anno dugenventinove,
o poco appresso, com’egli è più verosimile, un trattato politico e
commerciale, sì civile, che si potrebbe rifare con poco divario nel
secolo decimonono. Dico una lega offensiva e difensiva e reciproche
sicurtà e franchige pei sudditi, poco diverse da quelle che furono
stipulate il milledugentottantanove tra il sultano Kelaun e il suo
erede presuntivo da una parte, e re Alfonso d’Aragona, re Giacomo di
Sicilia con due loro fratelli dall’altra; i quali capitoli, afferma il
cronista della corte del Cairo in quel tempo, essere stati proposti da
casa di Aragona secondo la pace che avea fatta un tempo Malek-Kâmil
coll’imperatore.[682] Di certo nelle negoziazioni di Gerusalemme
s’era discorso di franchigia doganale nel porto d’Alessandria:[683]
e il genio de’ due principi e delle due corti portava ad allargare
e concretare quelle idee, anzi che lasciarle svanire. E se la
splendidezza de’ doni fosse argomento della importanza del patto,
quello di cui diciamo si potrebbe riferire allo stesso anno trentadue,
quando gli ambasciatori d’Egitto, festeggiati nel convito di Melfi,
avean recato all’imperatore un capo lavoro d’arte e di scienza,
ricchissimo dono apprezzato ventimila marchi di Colonia: un padiglione
la cui vôlta fingeva il firmamento, dove il sole e la luna, movendosi
per occulto congegno, notavan le ore del giorno e della notte; la qual
macchina lo imperatore fe’ serbare a Venosa.[684] Degli ambasciatori
egiziani di questa o d’altra legazione sappiam che uno, per nome
Makhlûf, morì in Messina e fu sepolto nella spiaggia di Mosella, dove
la sua tomba si vedea sino allo scorcio del secol decimoterzo.[685] E
forse de’ cavalieri venuti in somiglianti missioni del sultano, furono
notati nel campo dello imperatore sotto Brescia (1238).[686]
Non mancò con la vita di Kâmil l’amistà delle due corti. L’anno
novecencinquantotto de’ Martiri (29 agosto 1241, a 28 agosto
1242) approdava in Alessandria una nave siciliana, ben chiamata il
Mezzomondo,[687] poichè recava, come si disse, novecento uomini
e merci senza fine e con esse i doni che mandava l’imperatore al
novello sultano, affidati a due ambasciatori, de’ quali il maggiore
in dignità, alla descrizione che ne fa il cronista copto, parrebbe
alcun frate fatto arcivescovo, se noi non sapessimo ch’ei fu Ruggiero
degli Amici.[688] I due legati aspettarono lunga pezza la licenza
di presentarsi al sultano; avutala, essi e il seguito, che montava
ad un centinaio di persone, furono menati alla capitale, con lungo
giro per Faium, le piramidi, e Giza; trovarono il nuovo e il vecchio
Cairo parati a festa, l’esercito schierato in mostra, la cittadinanza
uscita loro all’incontro. Il sultano avea lor mandati due cavalli di
Nubia e fornita di palafreni la famiglia: ei li fece alloggiare in
due palagi principeschi, li colmò di doni, provvide in abbondanza ad
ogni lor comodo. Si rinnovò la festa il giorno della presentazione
solenne al castello del sultano, e durò questa larga ospitalità tutto
l’inverno ch’e’ rimasero al Cairo, in liete brigate, conviti e feste
e cacce, e tiri a segno con le balestre.[689] Un altro ambasciatore
arrivò l’anno appresso ad Alessandria con un buzzo che s’addimandava
anch’esso il Mezzomondo, della cui mole la gente maravigliò. Si dicea
portasse un immenso carico di olio, vino, caci, miele ed altre derrate
e con ciò trecento marinai, senza contare i passeggieri.[690] Altri
fatti provano le strette relazioni tra la Sicilia e l’Egitto. Del
dugenquarantacinque o quarantasei, l’affermava il Sultano stesso al
papa, il quale non avea sdegnato di scrivergli chiedendo una tregua
pe’ Cristiani di Palestina.[691] Una nave approdata in Alessandria il
secenquarantaquattro (19 maggio 1246 a 7 maggio 1247) recò, svisate
alquanto ma vere in fondo, le nuove della gran lite che ardeva
in Europa: il papa perseguitar l’imperatore com’apostata e mezzo
musulmano; avere perciò stigati tre baroni regnicoli ad ucciderlo,
promettendo all’uno la Sicilia, all’altro la Puglia, al terzo la
Toscana; ma che l’imperatore, saputo dalle spie che i congiurati
doveano assalirlo mentr’ei dormiva, fe’ coricare nel proprio letto
uno schiavo, s’appostò con cento cavalieri, e mentre gli assassini
pugnalavano il servo, ei li trucidò tutti di sua mano, fece scorticare
i cadaveri e le pelli piene di paglia appese alla porta d’un suo
castello. Come ognun vede, cotesta favola raffigurava, direi quasi,
a scorcio le congiure scoperte allora nel napoletano. La novella,
ritornando alla pura verità, conchiudea che, fallito quel colpo,
il papa mandò un esercito contro l’imperatore.[692] Scrivon anco
i Musulmani che Malek-Sâleh fu avvertito da lui della mossa di San
Luigi contro l’Egitto:[693] e veramente il trattato di Kelaun, dianzi
citato, porterebbe a creder questo racconto, poichè Alfonso d’Aragona e
Giacomo di Sicilia, tra le altre cose, s’obbligarono a dar somiglianti
avvisi al Sultano.[694] Abbiamo infine nelle memorie musulmane di
questo periodo, il titolo che usava la cancelleria del Cairo scrivendo
a Federigo, cioè: “il gran re, illustre, eccelso, potentissimo, re
di Alemagna, di Lombardia e di Sicilia, custode della santa città
(di Gerusalemme), sostegno dell’imâm di Roma, re dei re cristiani,
difensore de’ reami franchi, duce degli eserciti crociati.”[695]
Che così fatta amistà co’ sultani d’Egitto non sia stata interrotta
sino al fine della dominazione sveva, si argomenta dal dono del
sultano Bibars il quale mandò a Manfredi una giraffa.[696] Più
espressamente l’attestava ad Abulfeda il suo maestro Gemâl-ed-dîn, cadì
supremo di scuola sciafeita in Hama, storico, matematico, giurista,
autore di varie opere e, tra le altre, d’un trattato di dialettica,
dedicato a re Manfredi e intitolato l’(epistola) imperatoria; poichè
i Musulmani chiamarono anco imperatori i figliuoli di Federigo II.
Narrava Gemâl-ed-dîn che Bibars mandollo ambasciatore a Manfredi il
secencinquantanove (dal 6 dicembre 1260, al 25 novembre 1261) e ch’ei
ripartì dalla corte sveva quando il papa stava per concedere il reame
a Carlo d’Angiò. Raccontava essersi abboccato parecchie volte col re,
in una città di Puglia distante cinque giornale da Roma e vicina assai
alla terra di Lucera, i cui abitatori eran tutti Musulmani, oriundi
di Sicilia; che in Lucera osservavasi il rituale musulmano, anco la
preghiera solenne del venerdì; che nella gente di Manfredi molti erano
di quella schiatta e che nel campo si facea pubblicamente l’appello
alle cinque preghiere quotidiane. Affermava che Federigo e i successori
Corrado e Manfredi, ai quali e’ dava anco il titolo d’imperatori,
erano stati tutti scomunicati dal papa per la benevolenza loro verso
i Musulmani, e narrava su la elezione di Federigo all’impero una
novelletta che gli avean data ad intendere a corte: la solita magagna
del candidato che raccoglie tutte le voci, promettendo la sua propria a
ciascuno elettore.[697]
Tanto si ritrae delle relazioni politiche della corte di Palermo con
quella del Cairo e con altre di Musulmani, nella prima metà del secolo
decimoterzo. Del commercio tra i popoli, il quale a volta a volta fu
causa ed effetto di quelle consuetudini de’ principi, toccheremo nei
capitoli seguenti, passando a rassegna le parti di civiltà che si
notano in quest’ultimo periodo delle colonie musulmane della Sicilia.
CAPITOLO X.
Dagli emiri Kelbiti la storia letteraria di Sicilia passa a re
Ruggiero, saltando pressochè un secolo, che cominciò con la guerra
civile de’ Musulmani e terminò con l’assetto de’ conquistatori
cristiani d’oltre il Faro e d’oltre le Alpi: nel qual tempo molti
Credenti cultori delle scienze e delle lettere, lasciata l’isola,
s’illustravano in altre terre musulmane; ed all’incontro i germi della
civiltà occidentale, parte indigeni e parte stranieri, penavano a
fiorire in sì profondo mutamento di religione, di lingua, d’ordini
politici e sociali. I germi indigeni non eran morti. Que’ trecento
codici che il Prete Scholaro legava al nascente suo monastero di
Messina, l’ultim’anno appunto dell’undecimo secolo,[698] attestano che
gli studii non fossero dimenticati; nè parmi inverosimile che tra le
omelìe, i canoni e i breviali, si fosse intruso nella biblioteca del
fondatore qualche classico, qualche libro di storia o di matematica.
A capo di mezzo secolo, Giorgio d’Antiochia, uomo d’altra origine
e d’altra tempra, fondando in Palermo la chiesa di Santa Maria che
in oggi s’addimanda della Martorana, le donò tra tante ricchezze
«non pochi libri.»[699] Dond’ei si argomenta che coteste collezioni
erano già tenute bell’ornamento ne’ palagi de’ grandi siciliani,
e suppellettile necessaria negli stabilimenti ecclesiastici: i
quali sendo tanto cresciuti nella prima metà del XII secolo, doveva
aumentarsi anco il numero de codici raccolti e la tentazione di
guardarci dentro.
Ma pervenuti alla emancipazione di Ruggiero, secondo conte e non guari
dopo re di Sicilia, smettiamo le induzioni, possedendo testimonianze
espresse e fatti permanenti. Abbiamo già notato il grande ingegno
di quel principe, lo zelo per la scienza, la lode meritata nella
compilazione della Geografia che ebbe nome da lui: abbiamo altresì
fatta menzione dei dotti della corte di Palermo, tra i quali ei
primeggia sempre per l’altezza della mente, come per la dignità del
grado. Or diremo di que’ valentuomini e delle opere loro, secondo le
poche notizie pervenute infino a noi.
Gli Arabi salvarono dal naufragio della scienza antica, tra tante altre
opere, quelle di Tolomeo; le tradussero in loro linguaggio, nel nono
secolo dell’èra volgare: e così l’Europa, assai prima di possedere il
testo greco, studiò l’«Almagesto» ritradotto dallo arabico in latino.
La «Geografia» che veniva per la stessa via, s’arrestò in Sicilia,
come or sarà detto. Ma perduto è il testo dell’«Ottica,» nè altro
or ne abbiamo che la traduzione latina, elaborata dall’ammiraglio
siciliano Eugenio sopra una versione arabica. Questo scritto che fu
ecclissato dalle altre due compilazioni dello stesso autore, le quali
abbagliavan la gente con la vastità del subietto, vale assai più
che quelle, secondo il giudizio della scienza moderna. Qui Tolomeo,
invece di sviare con grosse ipotesi le menti degli studiosi, fonda
la teoria su gli sperimenti e su le verità matematiche. Donde i dotti
del medioevo che aspiravano a scoprir le leggi fisiche, tra gli altri
Ruggiero Bacone e Regiomontano, usarono come libro classico l’Ottica
di Tolomeo: la quale se in oggi può servire solamente alla storia della
scienza, vi segna pure un gran progresso, svolgendo per bene la teoria
della refrazione, alla quale gli altri scrittori antichi aveano appena
accennato. Così pensava Alessandro Humboldt.[700] L’ammiraglio Eugenio,
in brevissimo proemio, tocca la importanza di quel trattato, il diverso
genio delle lingue, onde tornava sì difficoltoso a voltare l’arabico
in greco o in latino, e protesta che in alcuni luoghi, anzichè tradurre
verbalmente, ei cercherà di cogliere il pensier dell’autore e renderlo
quanto più concisamente per lui si possa. Avverte con ciò che nella
versione arabica mancava il primo de’ cinque discorsi ond’è composto
il trattato, e che de’ due codici ch’egli aveva alle mani, uno era
buono sì, ma non vi si trovava nè anco il primo discorso.[701] Dond’e’
si vede che Eugenio sentiva molto innanzi in fisica e in filologia;
oltrechè scrivea molto bene, secondo i suoi tempi, il latino. Pertanto
lo direi siciliano di nazione, non già greco di Levante come Giorgio
d’Antiochia. L’opera non è stampata finora, ma spero esca alla luce tra
non guari in Italia, sette secoli dopo che fu fatta la traduzione nel
nostro suolo stesso. Basti qui aggiungnere, che il nome e il titolo
officiale del traduttore si leggono in tutti i testi a penna quasi
senza varianti; tal non sembrando a chiunque abbia pratica d’antiche
scritture, lo scambio d’una lettera, onde alcuni codici hanno ammiraco
in luogo d’ammirato. E che l’autore sia stato contemporaneo di re
Ruggiero, si argomenta dalla qualità stessa dell’opera; si prova coi
diplomi; e lo conferma, secondo me, un’altra versione latina che si
attribuisce a questo medesimo ammiraglio.
Dico le profezie della Sibilla Eritrea, scritte in caldaico in forma
di epistola ai Greci, quand’essi andavano alla guerra di Troja; voltate
in greco da un Doxopatro e quindi in latino da Eugenio, ammiraglio del
reame di Sicilia, dove capitò il libro greco, sottratto dal tesoro di
Manuele imperatore. Veramente il nome dell’ultimo traduttore potrebbe
esser falso quanto quello dell’autrice ispirata, e l’epoca di Manuele
Comneno potrebbe essere supposta come quella di Priamo: tanto più
che gli avvenimenti ai quali si allude sotto strano velame di leoni,
serpenti, aquile, vulcani, tremuoti, tempeste del cielo e misfatti
degli uomini, sono evidentemente quei che commossero l’Italia e
l’Europa nel duodecimo e decimoterzo secolo. Pur egli è da riflettere
che cotesti libri profetici, dall’antichità fino agli ultimi tempi
del medioevo, sono stati piuttosto copiati e interpolati che rifatti
di pianta. Onde non parmi inverosimile che qualche barattiere abbia
venduto a re Ruggiero, a peso d’oro, alcun manoscritto greco, lacero
e insudiciato, vantandosi d’averlo rubato proprio al rivale Comneno;
ovvero che l’impostore, vissuto nel secolo seguente, abbia scritto a
dirittura in latino, fingendo al paro i nomi dell’imperiale possessore
e dello ammiraglio siciliano, i quali ognun sapeva essere stati
contemporanei, e l’uno perduto nell’astrologia, l’altro famoso per
traduzioni d’opere scientifiche dalle lingue del Levante.[702] Nel
primo caso, il Doxopatro, supposto traduttore dal caldaico, sarebbe
forse il retore Giovanni, autore dei Comentarii d’Aphthontio e d’altre
opere che sembran dettate allo scorcio dell’undecimo secolo.[703]
Nell’altra ipotesi, potrebbe dirsi che il falsario volle mettere
innanzi quel Nilo Doxopatro venuto di Grecia alla corte di Ruggiero, e
ch’ei finse anco il nome del traduttore latino, per allontanare sempre
più dal secolo decimoterzo le favole ch’ei spacciava.
Avendo esaminato altrove[704] qual parte ebbe Ruggiero nella
composizione della geografia che in oggi corre sotto il nome d’Edrîsi,
e avendo toccato il soggiorno di questo dotto musulmano a corte
di Palermo, convien or dire quant’altro sappiamo della sua vita, e
provarci a dar giudizio dell’opera.
Sua Eccellenza Edrîsi, chè a ciò torna il titolo di _Scerîf_ dato a
lui come ad ogni rampollo d’Alì e di Fatima, esciva della linea di
un Edrîs, discendente in quarto grado dalla figliuola del Profeta;
il quale, cercato a morte per ribellione contro il califo di Bagdad,
era fuggito l’anno centrentanove (786) dallo Hegiâz fino all’odierno
impero di Marocco, dove i Berberi lo gridarono califo (789) e dove
il suo figliuolo fondò poi Fez (807). Cadde la dinastia di Edrîs nel
decimo secolo; e toccata la stessa sorte, ne’ principii dell’undecimo,
a’ califi omeiadi di Spagna, salì al trono loro Alì, figliuolo d’un
edrisita per nome Hammûd: onde questo novello ramo fu appellato de’
Beni-Hammûd. I quali non tennero a lungo il califato di Cordova. Quando
si sfasciò, essi detter di piglio a Malaga e ad Algeziras (1035-1038),
e perdute anche queste, signoreggiarono qualche altra terra
dell’Affrica settentrionale. Un uomo di lor gente venuto in Sicilia,
ebbe Castrogiovanni e consegnolla al conte Ruggiero.[705] Il geografo,
nato nei Beni-Hammûd di Malaga, par abbia preso questo nome d’edrisita
più tosto che hammudita, per distinguere il suo casato da quello di
Sicilia, ovvero per ricordare insieme il glorioso capo della dinastia
in Occidente e l’Edrîs bisavol suo, primo principe di Malaga.[706]
Nè il nobil sangue nè la dottrina bastarono ad ottenere in onor
dell’Edrîsi una biografia, tra le mille e mille che compilavano
assiduamente gli autori arabi del medio evo.[707] Leone Affricano che
ci si provò nel secolo decimosesto, per troppa brama di soddisfare la
curiosità letteraria degli Italiani, scrisse di memoria e in parte
di fantasia; oltrechè il suo abbozzo ci è pervenuto per lo mezzo,
niente diafano, di una doppia traduzione.[708] Frugando qua e là, pur
si è raccolta, in questi ultimi anni, qualche notizia degna di fede.
Edrîsi ebbe nome Abu-Abd-Allah-Mohammed, figlio di Mohammed, figlio di
Abd-Allah, figlio di quell’Edrîs che prese a Malaga (1035) il titolo
di Principe de’ Credenti e il soprannome di El’-âli biamr-illah.[709]
Dicesi che il geografo fosse nato in Ceuta il quattrocennovantatrè
dell’Egira (1100) e avesse fatti gli studi a Cordova:[710] di certo ei
viaggiò nella penisola spagnuola fino alle rive dell’Atlantico; vide in
Affrica Costantina e le regioni meridionali del Marocco; e in Levante
arrivò per lo meno infino a Nicea, poichè egli scrive essere entrato
l’anno cinquecentodieci (1116) nella grotta de’ Sette Dormienti, sì
celebri nell’agiografia musulmana.[711]
Men oscuro il periodo ch’ei visse in Sicilia, onde fu chiamato
siciliano; com’era uso di trarre i nomi etnici da’ luoghi, sia della
nascita, sia dell’educazione o del soggiorno. E però abbiam detto
ne’ capitoli terzo e quarto di questo libro come, allettato dalla
munificenza di Ruggiero, venne Edrîsi dalla costiera d’Affrica in
Palermo, dove il sangue hammudita gli portava onore senza pericolo,
e com’egli rimase alla corte di Guglielmo primo.[712] In qual paese
poi fosse andato e quando fosse morto, non si ritrae;[713] poichè le
ultime notizie che abbiam di lui vengono da Ibn-Bescirûn, autore del
_Mokhtar-el-Andalusiin_, ossia «Scelta di [poeti] Spagnuoli,» il quale
incontrò Edrîsi in Palermo, e dice ch’egli avea compilato il _Nozhat_
per Ruggiero e che scrisse per Guglielmo primo, su lo stesso argomento,
il _Rûdh-el-Uns wa nozhat-en-nefs_ ossia «Giardino del diletto e
sollazzo dell’intelletto.» Imâd-ed-dîn Ispahani trascrive questo e
molti altri squarci dell’Antologia d’Ibn-Bescirûn, nella _Kharida_,
fonte principale delle nostre notizie su i poeti arabi in Sicilia.
Ed ambo gli antologisti, senza dir altro delle opere geografiche di
Edrîsi, mettonsi a lodare con iperboli e bisticci le poesie, che il
primo dice aver avute dall’autore stesso e il secondo ce ne serba varii
squarci, che sommano a trentacinque versi.[714] I quali potrebbero
stare nella raccolta degli Arcadi nostri. Immagini copiate per la
millesima volta, sonvi espresse con grazia e lindura. La lingua stessa
in coteste poesie non è tanto leccata quanto nella geografia; dove
Edrîsi intarsiò tanti pezzi di rettorica e ricami d’arcaismi che,
invece d’infiorare la descrizione, la rendono monotona e talvolta anche
ambigua.
Passando dalla forma alla sostanza, è da rammentare in primo luogo
qual fosse la condizione degli studii geografici alla metà del secol
duodecimo. L’antichità greca e romana aveva insegnato a misurar la
terra con le osservazioni del cielo; avea cominciato a notare le
distanze delle città, il corso dei fiumi, la configurazione de’ mari;
a descrivere la natura organica e le schiatte ed opere degli uomini;
avea lasciati abbozzi di carte e d’itinerarii figurati: i quai lavori,
ancorchè fossero imperfetti per vizio degli strumenti, scarsezza
di osservazioni e abuso delle ipotesi, pur mostrano che la scienza
era fondata. Il trattato di Tolomeo la ricapitolava tutta insieme,
coordinandovi gli errori proprii del compilatore. Sopravvenute le
tenebre della barbarie, la geografia rimbambì in Europa, come ogni
altra scienza; si ridusse a scarabocchi informi, a compendii di
compendii; peggiorando sempre in Occidente, dal quinto all’undecimo
secolo dell’èra cristiana:[715] e appena v’incominciava col duodecimo
una ristorazione, promossa dalle Crociate. De’ Bizantini si potrebbe
dir ch’e’ serbarono i libri di geografia, senza studiarli giammai. Ma
entrati gli Arabi nel consorzio de’ popoli, ricercarono con impeto
giovanile le scienze geografiche. Alle quali erano predisposti
dalla vita nomade, da’ viaggi di carovana, dalla curiosità dei segni
celesti, fors’anco da’ commerci con gli abitatori della Mesopotamia
che almanaccarono ab antico sul firmamento. Allettò poi gli Arabi
all’astrologia, quella continua vicenda di loro società riottosa;
e da un altro canto, il culto li obbligò a sciogliere problemi di
cosmografia, richiedendo, in paesi lontanissimi del Settentrione e
dell’Occidente, qual fosse la _kibla_, ossia dirittura della Mecca, e
quali le cinque ore della preghiera, variabili secondo la lunghezza de’
giorni.
Si stese l’ordito della geografia generale co’ lavori della Persia
sassanide, dell’India e della Grecia, soprattutto co’ libri di Marin da
Tiro e di Tolomeo, tradotti in arabico da’ testi greci o da versioni
siriache. La geografia descrittiva, iniziata con le relazioni de’
capitani che reggeano i reami conquistati, con gli itinerarii postali,
coi catasti, e con ogni altro ritratto ufiziale di loro sottile
azienda, s’impinguò coi frequentissimi viaggi che i pellegrini, i
mercatanti, i letterati vagabondi, faceano nell’immenso territorio
musulmano.[716] Dalla fine così dell’ottavo secolo alla prima metà del
duodecimo, i Musulmani rimisurarono il grado del meridiano terrestre;
rifecero a poco a poco le tavole delle latitudini e longitudini;
allargarono la cognizione dell’abitato fino alle estreme costiere
orientali dell’Asia e, in Affrica, fino all’equatore; compilarono
itinerarii, descrizioni, abbozzi statistici; rinnovarono il planisfero
e delinearono carte parziali.[717] Quantunque e’ non fossero arrivati
a dileguare alcune favole geografiche, anzi ne avessero aggiunte delle
proprie loro; quantunque non si fossero liberati al tutto dal giogo
di Tolomeo ed avessero conosciuta molto imperfettamente l’Europa, gli
Arabi pur batteano le vere vie della scienza, mentre in Occidente la
feudalità chiudeva in angusti limiti i corpi e le menti.
S’accinse Ruggiero in questo, a compilare la geografia universale,
usando insieme le cognizioni dell’Oriente e dell’Occidente e il
ritratto di nuovi studii: la qual opera, nella prima metà del
duodecimo secolo, il solo re di Sicilia e dell’Italia meridionale
poteva intraprendere. Nella prefazione d’Edrîsi già riferita[718]
leggonsi i nomi di dodici geografi, studiati, come si dice, dal
re; de’ quali, dieci son arabi, Tolomeo greco e l’ultimo sembra
Orosio, il celebre compendiatore latino de’ bassi tempi.[719] Degli
arabi, sei ci son noti: Mas’ûdi, Geihani, Ibn-Khordabeh, Ibn-Haukal,
Ja’kûbi, Kodama, ottimi compilatori di geografia descrittiva;[720]
ma gli altri quattro, cioè Ahmed-ibn-el-’Odsri (ovvero el-’Adsari),
Giânâkh-ibn-Khakân-el-Kîmâki,[721] Musa-ibn-Kasim-el-K..r..di, ed
Del resto avvenne tra’ Musulmani lo stesso che in Cristianità: che il
volgo dei fanatici maledisse Kâmil e la ignominiosa sua pace;[663] e il
papa di Bagdad se ne crucciò come quel di Roma, ma s’acquetò assai più
facilmente.[664]
Federigo andò a prender possesso di Gerusalemme, accompagnato da
un commissario di Kâmil,[665] ammirato da’ Musulmani per dottrina,
arguzia, tolleranza o, come dicean essi, inclinazione all’islamismo,
e irrisione del cristianesimo; onde altri lo definì _dahri_ che
oggidì suonerebbe panteista:[666] e tutti maravigliarono di questo
imperatore, filosofo e guerriero, calvo, losco, rossigno, che al
mercato degli schiavi non n’avresti dati dugento dirhem.[667] Tra
i molti aneddoti che se ne legge, noteremo sol quello ch’ei menò
seco a Gerusalemme il suo maestro di dialettica, e paggi e guardie,
tutti Musulmani di Sicilia, i quali si prosternavano alla preghiera
sentendo far l’appello del muezzin da’ minareti della moschea di Omar;
ed anco l’imperatore avea a grado quella cantilena, nè s’adirava che
si recitassero i versetti del Corano dove i Cristiani son chiamati
politeisti.[668] Sepper poco i Musulmani di quella scandalosa nimistà
del papa, del patriarca Gerosolimitano, de’ frati guerrieri e di quanti
s’affaticavano a tagliare i passi di Federigo in questa Crociata:[669]
delle quali brighe trapelò negli annali arabici sol quella, riferita
anco da’ latini, cioè che avendo alcuni Crociati profferto a Kâmil
di uccidere Federigo, il sultano mandò a lui stesso le lettere de
traditori.[670] Del resto gli Arabi ci danno con precisione tutti i
particolari dell’impresa, perfino il giorno che l’imperatore sbarcò,
reduce, in Italia.[671]
La possessione precaria di Gerusalemme condusse l’imperatore a
più strette pratiche nelle province che stendonsi dall’Istmo di
Suez all’Eufrate, nelle quali, frati e baroni cristiani e principi
musulmani, grandi e piccini, attendevano or più che mai a svaligiarsi
tra loro, collegandosi a viso aperto coi nemici della propria fede,
contro i fratelli in Cristo o in Maometto. Spregiatori dell’uno e
dell’altro, e però maledetti, perseguitati, ridotti allo stremo e
pur temuti per le inespugnabili fortezze e pe’ sicarii audacissimi,
rimaneano ancora gli Ismaeliani, detti in Cristianità _Assassini_, e il
loro sceikh, o capo setta, chiamato, con versione troppo letterale, il
Vecchio della Montagna.[672] E su quel brulichìo di feudi dominavano le
due potenze del Cairo e di Damasco, finchè l’una inghiottì l’altra.
Ascraf, insignoritosi di Damasco (1229) mentre Kâmil cedea Gerusalemme,
collegato con lui contro i Kharezmii, quindi inimicatosi, e morto
il seicentrentacinque (1237), avea lasciata la sua parte di Siria al
fratello Ismaele; e Kâmil non avea tardato a spogliare quest’altro ed
a farsi, tra signoria diretta e signoria feudale, sovrano di tutti i
dominii aiubiti. Ma trapassato egli stesso sei mesi dopo Ascraf (marzo
1238), e lasciata la Siria ad un figliuolo e l’Egitto ad un altro, si
ripigliò l’usanza di famiglia; onde l’un fu morto, l’altro, intitolato
Malek-Sâleh, occupò tutto il dominio (giugno 1240). Intanto nuovi
Crociati, non curando gli accordi di Federigo, ruppero la guerra;
afforzarono a modo loro Gerusalemme; ritentarono l’Egitto, e toccarono
quivi una sconfitta. In que’ trambusti, Nâsir, che i due fratelli
del padre avean già spogliato (1229) di Damasco e lasciatogli il
principato di Karak, volle ripigliare la roba sua; onde saputa la rotta
de’ Cristiani, piombò sopra Gerusalemme, uccise o fece schiavi quanti
v’eran dentro, e demolì le fortezze (1241). Nello stesso tempo Ismaele,
nominato dianzi, riprese Damasco, e si collegò con chi potè, senza
distinguere religione: onde seguirono nuovi scontri e stragi, e guasti,
e tregue fino al dugenquarantaquattro; quando i Kharezmii piombarono
addosso a tutti.[673]
Molte vestigia ci rimangono delle negoziazioni di Federigo in
quel periodo. Sappiamo venuti a lui in Puglia, del dugentrentadue,
ambasciatori del sultano di Damasco;[674] ch’era in quell’anno Ascraf,
il quale, soverchiato da’ Kharezmii in Armenia, avea perfin chiesto
aiuto al suo fratello Kâmil.[675] In questo, o in altro incontro,
Federigo donò ad Ascraf un orso bianco; del quale i Musulmani scrissero
con maraviglia ch’e’ rassomigliava il lione per la qualità del pelo
e che tuffava in mare a prender pesci. Si notò anco il dono d’un
pavone bianco.[676] A’ dì ventidue luglio del medesimo anno, Federigo
imbandiva a Melfi un gran convito agli ambasciatori del sultano
d’Egitto e del Vecchio della Montagna, dov’ebbe a mensa parecchi
vescovi e molti cavalieri tedeschi;[677] spettacolo di tolleranza assai
più strano a corte imperiale che l’orso bianco a Damasco. Ma non si
ignoravano in Germania coteste relazioni con gli Ismaeliani; e s’era
perfin detto l’anno innanzi che gli Assassini avessero pugnalato il
duca di Baviera per pratica dell’imperatore, suo nemico mortale.[678]
Così fatta calunnia, ripetuta volentieri tra i clericali di quell’età,
die’ origine ad una delle nostre _Cento novelle antiche_, nella quale
si legge che andato Federigo alla “Montagna del Veglio,” volendo
costui mostrargli la sua possanza, “vide in su la torre due Assassini:
presesi per la gran barba: quelli se ne gittaro in terra e moriro
incontanente.”[679]
Il legame col sultano d’Egitto si ristrinse dopo la resa di Gerusalemme
e divenne schietta amistade al dir d’uno scrittore musulmano,[680]
confermato dalla espressa accusa di papa Innocenzo IV.[681] Pare anco
siasi fermato tra Federigo e Kâmil, lo stesso anno dugenventinove,
o poco appresso, com’egli è più verosimile, un trattato politico e
commerciale, sì civile, che si potrebbe rifare con poco divario nel
secolo decimonono. Dico una lega offensiva e difensiva e reciproche
sicurtà e franchige pei sudditi, poco diverse da quelle che furono
stipulate il milledugentottantanove tra il sultano Kelaun e il suo
erede presuntivo da una parte, e re Alfonso d’Aragona, re Giacomo di
Sicilia con due loro fratelli dall’altra; i quali capitoli, afferma il
cronista della corte del Cairo in quel tempo, essere stati proposti da
casa di Aragona secondo la pace che avea fatta un tempo Malek-Kâmil
coll’imperatore.[682] Di certo nelle negoziazioni di Gerusalemme
s’era discorso di franchigia doganale nel porto d’Alessandria:[683]
e il genio de’ due principi e delle due corti portava ad allargare
e concretare quelle idee, anzi che lasciarle svanire. E se la
splendidezza de’ doni fosse argomento della importanza del patto,
quello di cui diciamo si potrebbe riferire allo stesso anno trentadue,
quando gli ambasciatori d’Egitto, festeggiati nel convito di Melfi,
avean recato all’imperatore un capo lavoro d’arte e di scienza,
ricchissimo dono apprezzato ventimila marchi di Colonia: un padiglione
la cui vôlta fingeva il firmamento, dove il sole e la luna, movendosi
per occulto congegno, notavan le ore del giorno e della notte; la qual
macchina lo imperatore fe’ serbare a Venosa.[684] Degli ambasciatori
egiziani di questa o d’altra legazione sappiam che uno, per nome
Makhlûf, morì in Messina e fu sepolto nella spiaggia di Mosella, dove
la sua tomba si vedea sino allo scorcio del secol decimoterzo.[685] E
forse de’ cavalieri venuti in somiglianti missioni del sultano, furono
notati nel campo dello imperatore sotto Brescia (1238).[686]
Non mancò con la vita di Kâmil l’amistà delle due corti. L’anno
novecencinquantotto de’ Martiri (29 agosto 1241, a 28 agosto
1242) approdava in Alessandria una nave siciliana, ben chiamata il
Mezzomondo,[687] poichè recava, come si disse, novecento uomini
e merci senza fine e con esse i doni che mandava l’imperatore al
novello sultano, affidati a due ambasciatori, de’ quali il maggiore
in dignità, alla descrizione che ne fa il cronista copto, parrebbe
alcun frate fatto arcivescovo, se noi non sapessimo ch’ei fu Ruggiero
degli Amici.[688] I due legati aspettarono lunga pezza la licenza
di presentarsi al sultano; avutala, essi e il seguito, che montava
ad un centinaio di persone, furono menati alla capitale, con lungo
giro per Faium, le piramidi, e Giza; trovarono il nuovo e il vecchio
Cairo parati a festa, l’esercito schierato in mostra, la cittadinanza
uscita loro all’incontro. Il sultano avea lor mandati due cavalli di
Nubia e fornita di palafreni la famiglia: ei li fece alloggiare in
due palagi principeschi, li colmò di doni, provvide in abbondanza ad
ogni lor comodo. Si rinnovò la festa il giorno della presentazione
solenne al castello del sultano, e durò questa larga ospitalità tutto
l’inverno ch’e’ rimasero al Cairo, in liete brigate, conviti e feste
e cacce, e tiri a segno con le balestre.[689] Un altro ambasciatore
arrivò l’anno appresso ad Alessandria con un buzzo che s’addimandava
anch’esso il Mezzomondo, della cui mole la gente maravigliò. Si dicea
portasse un immenso carico di olio, vino, caci, miele ed altre derrate
e con ciò trecento marinai, senza contare i passeggieri.[690] Altri
fatti provano le strette relazioni tra la Sicilia e l’Egitto. Del
dugenquarantacinque o quarantasei, l’affermava il Sultano stesso al
papa, il quale non avea sdegnato di scrivergli chiedendo una tregua
pe’ Cristiani di Palestina.[691] Una nave approdata in Alessandria il
secenquarantaquattro (19 maggio 1246 a 7 maggio 1247) recò, svisate
alquanto ma vere in fondo, le nuove della gran lite che ardeva
in Europa: il papa perseguitar l’imperatore com’apostata e mezzo
musulmano; avere perciò stigati tre baroni regnicoli ad ucciderlo,
promettendo all’uno la Sicilia, all’altro la Puglia, al terzo la
Toscana; ma che l’imperatore, saputo dalle spie che i congiurati
doveano assalirlo mentr’ei dormiva, fe’ coricare nel proprio letto
uno schiavo, s’appostò con cento cavalieri, e mentre gli assassini
pugnalavano il servo, ei li trucidò tutti di sua mano, fece scorticare
i cadaveri e le pelli piene di paglia appese alla porta d’un suo
castello. Come ognun vede, cotesta favola raffigurava, direi quasi,
a scorcio le congiure scoperte allora nel napoletano. La novella,
ritornando alla pura verità, conchiudea che, fallito quel colpo,
il papa mandò un esercito contro l’imperatore.[692] Scrivon anco
i Musulmani che Malek-Sâleh fu avvertito da lui della mossa di San
Luigi contro l’Egitto:[693] e veramente il trattato di Kelaun, dianzi
citato, porterebbe a creder questo racconto, poichè Alfonso d’Aragona e
Giacomo di Sicilia, tra le altre cose, s’obbligarono a dar somiglianti
avvisi al Sultano.[694] Abbiamo infine nelle memorie musulmane di
questo periodo, il titolo che usava la cancelleria del Cairo scrivendo
a Federigo, cioè: “il gran re, illustre, eccelso, potentissimo, re
di Alemagna, di Lombardia e di Sicilia, custode della santa città
(di Gerusalemme), sostegno dell’imâm di Roma, re dei re cristiani,
difensore de’ reami franchi, duce degli eserciti crociati.”[695]
Che così fatta amistà co’ sultani d’Egitto non sia stata interrotta
sino al fine della dominazione sveva, si argomenta dal dono del
sultano Bibars il quale mandò a Manfredi una giraffa.[696] Più
espressamente l’attestava ad Abulfeda il suo maestro Gemâl-ed-dîn, cadì
supremo di scuola sciafeita in Hama, storico, matematico, giurista,
autore di varie opere e, tra le altre, d’un trattato di dialettica,
dedicato a re Manfredi e intitolato l’(epistola) imperatoria; poichè
i Musulmani chiamarono anco imperatori i figliuoli di Federigo II.
Narrava Gemâl-ed-dîn che Bibars mandollo ambasciatore a Manfredi il
secencinquantanove (dal 6 dicembre 1260, al 25 novembre 1261) e ch’ei
ripartì dalla corte sveva quando il papa stava per concedere il reame
a Carlo d’Angiò. Raccontava essersi abboccato parecchie volte col re,
in una città di Puglia distante cinque giornale da Roma e vicina assai
alla terra di Lucera, i cui abitatori eran tutti Musulmani, oriundi
di Sicilia; che in Lucera osservavasi il rituale musulmano, anco la
preghiera solenne del venerdì; che nella gente di Manfredi molti erano
di quella schiatta e che nel campo si facea pubblicamente l’appello
alle cinque preghiere quotidiane. Affermava che Federigo e i successori
Corrado e Manfredi, ai quali e’ dava anco il titolo d’imperatori,
erano stati tutti scomunicati dal papa per la benevolenza loro verso
i Musulmani, e narrava su la elezione di Federigo all’impero una
novelletta che gli avean data ad intendere a corte: la solita magagna
del candidato che raccoglie tutte le voci, promettendo la sua propria a
ciascuno elettore.[697]
Tanto si ritrae delle relazioni politiche della corte di Palermo con
quella del Cairo e con altre di Musulmani, nella prima metà del secolo
decimoterzo. Del commercio tra i popoli, il quale a volta a volta fu
causa ed effetto di quelle consuetudini de’ principi, toccheremo nei
capitoli seguenti, passando a rassegna le parti di civiltà che si
notano in quest’ultimo periodo delle colonie musulmane della Sicilia.
CAPITOLO X.
Dagli emiri Kelbiti la storia letteraria di Sicilia passa a re
Ruggiero, saltando pressochè un secolo, che cominciò con la guerra
civile de’ Musulmani e terminò con l’assetto de’ conquistatori
cristiani d’oltre il Faro e d’oltre le Alpi: nel qual tempo molti
Credenti cultori delle scienze e delle lettere, lasciata l’isola,
s’illustravano in altre terre musulmane; ed all’incontro i germi della
civiltà occidentale, parte indigeni e parte stranieri, penavano a
fiorire in sì profondo mutamento di religione, di lingua, d’ordini
politici e sociali. I germi indigeni non eran morti. Que’ trecento
codici che il Prete Scholaro legava al nascente suo monastero di
Messina, l’ultim’anno appunto dell’undecimo secolo,[698] attestano che
gli studii non fossero dimenticati; nè parmi inverosimile che tra le
omelìe, i canoni e i breviali, si fosse intruso nella biblioteca del
fondatore qualche classico, qualche libro di storia o di matematica.
A capo di mezzo secolo, Giorgio d’Antiochia, uomo d’altra origine
e d’altra tempra, fondando in Palermo la chiesa di Santa Maria che
in oggi s’addimanda della Martorana, le donò tra tante ricchezze
«non pochi libri.»[699] Dond’ei si argomenta che coteste collezioni
erano già tenute bell’ornamento ne’ palagi de’ grandi siciliani,
e suppellettile necessaria negli stabilimenti ecclesiastici: i
quali sendo tanto cresciuti nella prima metà del XII secolo, doveva
aumentarsi anco il numero de codici raccolti e la tentazione di
guardarci dentro.
Ma pervenuti alla emancipazione di Ruggiero, secondo conte e non guari
dopo re di Sicilia, smettiamo le induzioni, possedendo testimonianze
espresse e fatti permanenti. Abbiamo già notato il grande ingegno
di quel principe, lo zelo per la scienza, la lode meritata nella
compilazione della Geografia che ebbe nome da lui: abbiamo altresì
fatta menzione dei dotti della corte di Palermo, tra i quali ei
primeggia sempre per l’altezza della mente, come per la dignità del
grado. Or diremo di que’ valentuomini e delle opere loro, secondo le
poche notizie pervenute infino a noi.
Gli Arabi salvarono dal naufragio della scienza antica, tra tante altre
opere, quelle di Tolomeo; le tradussero in loro linguaggio, nel nono
secolo dell’èra volgare: e così l’Europa, assai prima di possedere il
testo greco, studiò l’«Almagesto» ritradotto dallo arabico in latino.
La «Geografia» che veniva per la stessa via, s’arrestò in Sicilia,
come or sarà detto. Ma perduto è il testo dell’«Ottica,» nè altro
or ne abbiamo che la traduzione latina, elaborata dall’ammiraglio
siciliano Eugenio sopra una versione arabica. Questo scritto che fu
ecclissato dalle altre due compilazioni dello stesso autore, le quali
abbagliavan la gente con la vastità del subietto, vale assai più
che quelle, secondo il giudizio della scienza moderna. Qui Tolomeo,
invece di sviare con grosse ipotesi le menti degli studiosi, fonda
la teoria su gli sperimenti e su le verità matematiche. Donde i dotti
del medioevo che aspiravano a scoprir le leggi fisiche, tra gli altri
Ruggiero Bacone e Regiomontano, usarono come libro classico l’Ottica
di Tolomeo: la quale se in oggi può servire solamente alla storia della
scienza, vi segna pure un gran progresso, svolgendo per bene la teoria
della refrazione, alla quale gli altri scrittori antichi aveano appena
accennato. Così pensava Alessandro Humboldt.[700] L’ammiraglio Eugenio,
in brevissimo proemio, tocca la importanza di quel trattato, il diverso
genio delle lingue, onde tornava sì difficoltoso a voltare l’arabico
in greco o in latino, e protesta che in alcuni luoghi, anzichè tradurre
verbalmente, ei cercherà di cogliere il pensier dell’autore e renderlo
quanto più concisamente per lui si possa. Avverte con ciò che nella
versione arabica mancava il primo de’ cinque discorsi ond’è composto
il trattato, e che de’ due codici ch’egli aveva alle mani, uno era
buono sì, ma non vi si trovava nè anco il primo discorso.[701] Dond’e’
si vede che Eugenio sentiva molto innanzi in fisica e in filologia;
oltrechè scrivea molto bene, secondo i suoi tempi, il latino. Pertanto
lo direi siciliano di nazione, non già greco di Levante come Giorgio
d’Antiochia. L’opera non è stampata finora, ma spero esca alla luce tra
non guari in Italia, sette secoli dopo che fu fatta la traduzione nel
nostro suolo stesso. Basti qui aggiungnere, che il nome e il titolo
officiale del traduttore si leggono in tutti i testi a penna quasi
senza varianti; tal non sembrando a chiunque abbia pratica d’antiche
scritture, lo scambio d’una lettera, onde alcuni codici hanno ammiraco
in luogo d’ammirato. E che l’autore sia stato contemporaneo di re
Ruggiero, si argomenta dalla qualità stessa dell’opera; si prova coi
diplomi; e lo conferma, secondo me, un’altra versione latina che si
attribuisce a questo medesimo ammiraglio.
Dico le profezie della Sibilla Eritrea, scritte in caldaico in forma
di epistola ai Greci, quand’essi andavano alla guerra di Troja; voltate
in greco da un Doxopatro e quindi in latino da Eugenio, ammiraglio del
reame di Sicilia, dove capitò il libro greco, sottratto dal tesoro di
Manuele imperatore. Veramente il nome dell’ultimo traduttore potrebbe
esser falso quanto quello dell’autrice ispirata, e l’epoca di Manuele
Comneno potrebbe essere supposta come quella di Priamo: tanto più
che gli avvenimenti ai quali si allude sotto strano velame di leoni,
serpenti, aquile, vulcani, tremuoti, tempeste del cielo e misfatti
degli uomini, sono evidentemente quei che commossero l’Italia e
l’Europa nel duodecimo e decimoterzo secolo. Pur egli è da riflettere
che cotesti libri profetici, dall’antichità fino agli ultimi tempi
del medioevo, sono stati piuttosto copiati e interpolati che rifatti
di pianta. Onde non parmi inverosimile che qualche barattiere abbia
venduto a re Ruggiero, a peso d’oro, alcun manoscritto greco, lacero
e insudiciato, vantandosi d’averlo rubato proprio al rivale Comneno;
ovvero che l’impostore, vissuto nel secolo seguente, abbia scritto a
dirittura in latino, fingendo al paro i nomi dell’imperiale possessore
e dello ammiraglio siciliano, i quali ognun sapeva essere stati
contemporanei, e l’uno perduto nell’astrologia, l’altro famoso per
traduzioni d’opere scientifiche dalle lingue del Levante.[702] Nel
primo caso, il Doxopatro, supposto traduttore dal caldaico, sarebbe
forse il retore Giovanni, autore dei Comentarii d’Aphthontio e d’altre
opere che sembran dettate allo scorcio dell’undecimo secolo.[703]
Nell’altra ipotesi, potrebbe dirsi che il falsario volle mettere
innanzi quel Nilo Doxopatro venuto di Grecia alla corte di Ruggiero, e
ch’ei finse anco il nome del traduttore latino, per allontanare sempre
più dal secolo decimoterzo le favole ch’ei spacciava.
Avendo esaminato altrove[704] qual parte ebbe Ruggiero nella
composizione della geografia che in oggi corre sotto il nome d’Edrîsi,
e avendo toccato il soggiorno di questo dotto musulmano a corte
di Palermo, convien or dire quant’altro sappiamo della sua vita, e
provarci a dar giudizio dell’opera.
Sua Eccellenza Edrîsi, chè a ciò torna il titolo di _Scerîf_ dato a
lui come ad ogni rampollo d’Alì e di Fatima, esciva della linea di
un Edrîs, discendente in quarto grado dalla figliuola del Profeta;
il quale, cercato a morte per ribellione contro il califo di Bagdad,
era fuggito l’anno centrentanove (786) dallo Hegiâz fino all’odierno
impero di Marocco, dove i Berberi lo gridarono califo (789) e dove
il suo figliuolo fondò poi Fez (807). Cadde la dinastia di Edrîs nel
decimo secolo; e toccata la stessa sorte, ne’ principii dell’undecimo,
a’ califi omeiadi di Spagna, salì al trono loro Alì, figliuolo d’un
edrisita per nome Hammûd: onde questo novello ramo fu appellato de’
Beni-Hammûd. I quali non tennero a lungo il califato di Cordova. Quando
si sfasciò, essi detter di piglio a Malaga e ad Algeziras (1035-1038),
e perdute anche queste, signoreggiarono qualche altra terra
dell’Affrica settentrionale. Un uomo di lor gente venuto in Sicilia,
ebbe Castrogiovanni e consegnolla al conte Ruggiero.[705] Il geografo,
nato nei Beni-Hammûd di Malaga, par abbia preso questo nome d’edrisita
più tosto che hammudita, per distinguere il suo casato da quello di
Sicilia, ovvero per ricordare insieme il glorioso capo della dinastia
in Occidente e l’Edrîs bisavol suo, primo principe di Malaga.[706]
Nè il nobil sangue nè la dottrina bastarono ad ottenere in onor
dell’Edrîsi una biografia, tra le mille e mille che compilavano
assiduamente gli autori arabi del medio evo.[707] Leone Affricano che
ci si provò nel secolo decimosesto, per troppa brama di soddisfare la
curiosità letteraria degli Italiani, scrisse di memoria e in parte
di fantasia; oltrechè il suo abbozzo ci è pervenuto per lo mezzo,
niente diafano, di una doppia traduzione.[708] Frugando qua e là, pur
si è raccolta, in questi ultimi anni, qualche notizia degna di fede.
Edrîsi ebbe nome Abu-Abd-Allah-Mohammed, figlio di Mohammed, figlio di
Abd-Allah, figlio di quell’Edrîs che prese a Malaga (1035) il titolo
di Principe de’ Credenti e il soprannome di El’-âli biamr-illah.[709]
Dicesi che il geografo fosse nato in Ceuta il quattrocennovantatrè
dell’Egira (1100) e avesse fatti gli studi a Cordova:[710] di certo ei
viaggiò nella penisola spagnuola fino alle rive dell’Atlantico; vide in
Affrica Costantina e le regioni meridionali del Marocco; e in Levante
arrivò per lo meno infino a Nicea, poichè egli scrive essere entrato
l’anno cinquecentodieci (1116) nella grotta de’ Sette Dormienti, sì
celebri nell’agiografia musulmana.[711]
Men oscuro il periodo ch’ei visse in Sicilia, onde fu chiamato
siciliano; com’era uso di trarre i nomi etnici da’ luoghi, sia della
nascita, sia dell’educazione o del soggiorno. E però abbiam detto
ne’ capitoli terzo e quarto di questo libro come, allettato dalla
munificenza di Ruggiero, venne Edrîsi dalla costiera d’Affrica in
Palermo, dove il sangue hammudita gli portava onore senza pericolo,
e com’egli rimase alla corte di Guglielmo primo.[712] In qual paese
poi fosse andato e quando fosse morto, non si ritrae;[713] poichè le
ultime notizie che abbiam di lui vengono da Ibn-Bescirûn, autore del
_Mokhtar-el-Andalusiin_, ossia «Scelta di [poeti] Spagnuoli,» il quale
incontrò Edrîsi in Palermo, e dice ch’egli avea compilato il _Nozhat_
per Ruggiero e che scrisse per Guglielmo primo, su lo stesso argomento,
il _Rûdh-el-Uns wa nozhat-en-nefs_ ossia «Giardino del diletto e
sollazzo dell’intelletto.» Imâd-ed-dîn Ispahani trascrive questo e
molti altri squarci dell’Antologia d’Ibn-Bescirûn, nella _Kharida_,
fonte principale delle nostre notizie su i poeti arabi in Sicilia.
Ed ambo gli antologisti, senza dir altro delle opere geografiche di
Edrîsi, mettonsi a lodare con iperboli e bisticci le poesie, che il
primo dice aver avute dall’autore stesso e il secondo ce ne serba varii
squarci, che sommano a trentacinque versi.[714] I quali potrebbero
stare nella raccolta degli Arcadi nostri. Immagini copiate per la
millesima volta, sonvi espresse con grazia e lindura. La lingua stessa
in coteste poesie non è tanto leccata quanto nella geografia; dove
Edrîsi intarsiò tanti pezzi di rettorica e ricami d’arcaismi che,
invece d’infiorare la descrizione, la rendono monotona e talvolta anche
ambigua.
Passando dalla forma alla sostanza, è da rammentare in primo luogo
qual fosse la condizione degli studii geografici alla metà del secol
duodecimo. L’antichità greca e romana aveva insegnato a misurar la
terra con le osservazioni del cielo; avea cominciato a notare le
distanze delle città, il corso dei fiumi, la configurazione de’ mari;
a descrivere la natura organica e le schiatte ed opere degli uomini;
avea lasciati abbozzi di carte e d’itinerarii figurati: i quai lavori,
ancorchè fossero imperfetti per vizio degli strumenti, scarsezza
di osservazioni e abuso delle ipotesi, pur mostrano che la scienza
era fondata. Il trattato di Tolomeo la ricapitolava tutta insieme,
coordinandovi gli errori proprii del compilatore. Sopravvenute le
tenebre della barbarie, la geografia rimbambì in Europa, come ogni
altra scienza; si ridusse a scarabocchi informi, a compendii di
compendii; peggiorando sempre in Occidente, dal quinto all’undecimo
secolo dell’èra cristiana:[715] e appena v’incominciava col duodecimo
una ristorazione, promossa dalle Crociate. De’ Bizantini si potrebbe
dir ch’e’ serbarono i libri di geografia, senza studiarli giammai. Ma
entrati gli Arabi nel consorzio de’ popoli, ricercarono con impeto
giovanile le scienze geografiche. Alle quali erano predisposti
dalla vita nomade, da’ viaggi di carovana, dalla curiosità dei segni
celesti, fors’anco da’ commerci con gli abitatori della Mesopotamia
che almanaccarono ab antico sul firmamento. Allettò poi gli Arabi
all’astrologia, quella continua vicenda di loro società riottosa;
e da un altro canto, il culto li obbligò a sciogliere problemi di
cosmografia, richiedendo, in paesi lontanissimi del Settentrione e
dell’Occidente, qual fosse la _kibla_, ossia dirittura della Mecca, e
quali le cinque ore della preghiera, variabili secondo la lunghezza de’
giorni.
Si stese l’ordito della geografia generale co’ lavori della Persia
sassanide, dell’India e della Grecia, soprattutto co’ libri di Marin da
Tiro e di Tolomeo, tradotti in arabico da’ testi greci o da versioni
siriache. La geografia descrittiva, iniziata con le relazioni de’
capitani che reggeano i reami conquistati, con gli itinerarii postali,
coi catasti, e con ogni altro ritratto ufiziale di loro sottile
azienda, s’impinguò coi frequentissimi viaggi che i pellegrini, i
mercatanti, i letterati vagabondi, faceano nell’immenso territorio
musulmano.[716] Dalla fine così dell’ottavo secolo alla prima metà del
duodecimo, i Musulmani rimisurarono il grado del meridiano terrestre;
rifecero a poco a poco le tavole delle latitudini e longitudini;
allargarono la cognizione dell’abitato fino alle estreme costiere
orientali dell’Asia e, in Affrica, fino all’equatore; compilarono
itinerarii, descrizioni, abbozzi statistici; rinnovarono il planisfero
e delinearono carte parziali.[717] Quantunque e’ non fossero arrivati
a dileguare alcune favole geografiche, anzi ne avessero aggiunte delle
proprie loro; quantunque non si fossero liberati al tutto dal giogo
di Tolomeo ed avessero conosciuta molto imperfettamente l’Europa, gli
Arabi pur batteano le vere vie della scienza, mentre in Occidente la
feudalità chiudeva in angusti limiti i corpi e le menti.
S’accinse Ruggiero in questo, a compilare la geografia universale,
usando insieme le cognizioni dell’Oriente e dell’Occidente e il
ritratto di nuovi studii: la qual opera, nella prima metà del
duodecimo secolo, il solo re di Sicilia e dell’Italia meridionale
poteva intraprendere. Nella prefazione d’Edrîsi già riferita[718]
leggonsi i nomi di dodici geografi, studiati, come si dice, dal
re; de’ quali, dieci son arabi, Tolomeo greco e l’ultimo sembra
Orosio, il celebre compendiatore latino de’ bassi tempi.[719] Degli
arabi, sei ci son noti: Mas’ûdi, Geihani, Ibn-Khordabeh, Ibn-Haukal,
Ja’kûbi, Kodama, ottimi compilatori di geografia descrittiva;[720]
ma gli altri quattro, cioè Ahmed-ibn-el-’Odsri (ovvero el-’Adsari),
Giânâkh-ibn-Khakân-el-Kîmâki,[721] Musa-ibn-Kasim-el-K..r..di, ed
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