Storia dei musulmani di Sicilia, vol. III, parte II - 12
al viso, a’ panni, al linguaggio, al simbolo della fede, alla
miseria: se un branco irrompea, doveano seguirlo tutti gli altri.
Quantunque la povertà non sia buon ausiliare in guerra, par che gli
ultimi avanzi di quel fiero popolo abbiano resistito più di tre anni
alle armi imperiali. Dice la cronica che l’imperatore, nella quinta
indizione, anno dugenquarantacinque, mandò con l’esercito il conte
Riccardo di Caserta, il quale li cacciò di Sicilia; ma va aggiunto
un anno alla data, leggendosi nel quarantasei, verso l’agosto, una
sdegnosa epistola di Federigo, per la quale è detto ai ribelli che,
s’e’ fosser uomini, non starebbero con quella bestiale fidanza,
ad aspettare che lor calasse sul capo la spada della vendetta, e
conchiudea che s’e’ non smettessero entro un mese, vedrebbero sì
gli effetti di queste minacce.[590] E del novembre, com’e’ par, di
quest’anno, l’imperatore scriveva al terribile Ezzelino, esser ormai
libero dalle brighe che l’avevano impedito fin qui di soccorrere
gli amici: tra le altre, la temerità di cotesti Saraceni, i quali
ostinatamente resisteano, afforzati nelle montagne, ed alfine sono
scesi a chiedere misericordia.[591] Ciò prova che non furono vinti per
battaglia, ma presi per fame. Federigo li fe’ tramutare in Lucera.[592]
Manca d’allora in poi ogni notizia di Musulmani in Sicilia: ond’egli
è manifesto che se alcuni ve ne rimasero, abbracciarono la religione
de’ vincitori e, com’avean fatto tanti altri uomini di lor gente in un
secolo e mezzo dal conquisto, si confuser essi nel novello popolo, nel
quale già si andavano dileguando le distinzioni di origine.
Come l’Oreste della favola greca, Federigo sembra spinto dal Destino
a immolare gli educatori suoi, fossero personificazioni come le
municipalità, il baronaggio e il papato, o fossero persone come il
Cancelliere Gualtiero De Palear, il conte di Malta e Pietro Della
Vigna. E veramente il nipote di Barbarossa, venuto al mondo in Italia,
cresciuto tra i nemici naturali del suo nome, dovea sforzarsi a
ritor loro quella possanza che pareagli rubata alla sua casa: ond’ei
si disfece delle persone quando potè; assalì le personificazioni,
volgendo la spada contro gli uomini che le sosteneano, e combattendo
le idee ostili con le armi della ragione. Le quali si spuntarono su
l’eterna tempra della libertà ond’erano cinti i municipii, e valsero
un poco a intaccare il triregno, fabbricato di teocrazia giudaica,
dispotismo romano, e barbarie settentrionale. I Musulmani di Sicilia
subirono la stessa sorte d’ogni altro maestro del lioncello svevo, non
già per sua rabbia, ma perch’ei non ebbe tanta forza che li salvasse
da’ nemici loro, com’ei forse bramava e il provò mutando i ribelli in
pretoriani. Chè del resto, le consuetudini dell’adolescenza, il genio
dell’incivilimento, l’amore degli studi e l’antagonismo filosofico e
politico contro Roma, portavano l’imperatore, meglio che niun altro
uomo europeo del suo secolo, ad onorarli e favorirli.
CAPITOLO IX.
Il genio dell’incivilimento, l’utilità politica e più assai gli
interessi commerciali della Sicilia e i suoi proprii, portarono
Federigo a frequenti accordi coi principi musulmani. Abbiano noi
accennato ai patti fermati con esso loro dalle nostre repubbliche
marittime ed abbiamo descritti quei del conte Ruggiero e del re suo
figliuolo coi Ziriti, e di Guglielmo II, col novello impero degli
Almohadi.[593] A’ tempi di Federigo, questo era già dimezzato,
rimanendogli, a un dipresso, l’attuale Stato di Marocco e parte
della Spagna; nè v’ha ricordo allora di ostilità tra quello impero
e la Sicilia, nè se ne vede cagione: anzi sembra continuata la pace
de’ tempi normanni. Perchè sappiamo che Uberto Fallamonaca che
fu de’ primarii magistrati di Federigo in Sicilia[594] andava il
dugenquarantuno ambasciatore a Marocco.[595] Alla quale missione, od
altra che l’abbia preceduta o seguìta, si accenna nel trattato delle
“Tesi siciliane” d’Ibn-Sab’în, leggendovisi che l’imperatore signor
della Sicilia, avea mandati per nave apposta, con un suo ambasciatore,
al califo almohade i quesiti di logica e metafisica; de’ quali noi
diremo nel capitol seguente.
Intanto la decadenza della dinastia almohade avea fatto rinascere lo
Stato dell’Affrica propria, più forte sì che al tempo degli Ziriti e
chiamato ormai da’ Cristiani il reame di Tunis, perchè gli Almohadi
avean fatta capitale della provincia quella città, primaria per popolo
e commercio e più aperta alle armi loro che non fosse la malaugurosa
fortezza di Mehdia. Seguì allora la necessaria vicenda delle grandi
province musulmane. Il terzo califo almohade En-Nâsir, non sapendo
come tener la provincia, ne fe’ governatore (1207) un uomo fidatissimo
della dinastia: Abu-Mohammed, figliuolo di Abu-Hafs-Omar, ch’era
stato _sceikh_ della tribù berbera di Masmuda, primo per valore e
consiglio tra i capi della confederazione almohade, braccio dritto
d’Abd-el-Mumen e sostegno de’ suoi figliuoli. Ma nella generazione
seguente, i Beni-Hafs, come si chiamarono dal nome familiare del capo
di lor casa, avean messe radici profonde nella provincia; i califi,
lontani, peggiorati di padre in figlio, non aveano riputazione nè
forza da cacciar via cotesti prefetti: onde Abu-Zakaria, figliuolo
d’Abu-Mohammed, colta un’occasione, disdisse (1228) l’obbedienza al
califo El-Mamûn, com’empio e tiranno. Non guari dopo (1236), tolto
l’equivoco, ei fece fare a suo proprio nome la preghiera del venerdì,
con qualità di Emir, lasciando a’ cortigiani il vanto d’aggiugnervi
“de’ Credenti” per compiere il sacro titolo, onde fregiaronsi
Abd-el-Mumen, Harûn-Rascîd e il grande Omar, che gli Hafsiti falsamente
vantavano lor progenitore.[596] Notisi che gli Hafsiti usarono sempre
chiamarsi col Keniet, o diremmo noi soprannome familiare, e che il
padre e l’avolo di Abu-Zakaria s’addimandarono meramente _sceikh_,
ch’era il titolo della dignità loro nella tribù, e però il vero
fondamento della loro potenza.[597]
Cotesti particolari ho io notati a rischiarare il trattato dello
imperatore Federigo, del quale abbiam solo una traduzione latina
molto arruffata, ma non tanto che non trasparisca spesso il genuino
testo arabico e talvolta gli errori di chi interpretollo. È dato del
quindici giumadi secondo dell’anno secentoventotto (20 aprile 1231),
quando Abu-Zakaria avea già ricusato d’ubbidire al califo Mamùn,
senza per anco chiarirsi independente dal califato; del quale stadio
d’usurpazione rendono testimonianza alcune parole del trattato. Se
questo poi non è stipulato a nome dell’emîr Abu-Zakaria, ma dello
«illustre e magnifico sceikh[598] Abu-Ishak, figliuolo del defunto
sceikh Abu-Ibrahim, figliuolo dello sceikh Abu-Hafs,» non dobbiamo
noi mettere in forse l’autenticilà del documento. Si può spiegar bene
con due supposti plausibili e compatibili tra loro: che Abu-Zakaria
abbia avuto quest’altro cugino, ignoto ne’ nostri ricordi[599] e che
l’abbia lasciato luogotenente in Tunis, quand’egli avventurossi infino
a Wergla, dando la caccia a quell’Ibn-Ghania che avea sì fieramente
molestato il paese per quarantacinque anni.[600]
Del resto le forme del trattato rispondono a quelle che conosciamo
in atti somiglianti, autentici di certo; e le condizioni parte si
riscontrano con quelle solite a stipular tra i Musulmani di Ponente
e le repubbliche italiane del Mediterraneo, parte si adattano
alle relazioni particolari dello Stato di Tunis, con la Sicilia.
Noveransi tra le prime la tregua fermata per dieci anni, la reciproca
restituzione dei prigioni non convertiti alla religione del paese;
che mercatanti e viaggiatori di Sicilia, Calabria, Principato e
Puglia siano liberi di tutta esazione e vessazione in Affrica e,
reciprocamente gli affricani in quelle province; che rendansi le prede
fatte da corsari sudditi di Federigo, esclusi espressamente Genovesi,
Pisani, Marsigliesi e Veneziani, i quali aveano stipulati patti
apposta col califo almohade.[601] La mancanza di reciprocità in questo
patto, se non venisse da dimenticanza del traduttore, mostrerebbe
che, soverchiati dalle forze navali italiane, gli Affricani aveano
smessa in quel tempo la piraterìa. Che i Cristiani, al contrario, la
esercitassero nelle parti meridionali del Mediterraneo e fin dentro
terra, si scorge da’ capitoli successivi, pei quali Federigo assicura
dalle offese de’ mercatanti e militi suoi, i Musulmani che viaggino da
un luogo d’Affrica all’altro, o d’Affrica in Egitto, sì in nave, e sì
in caravane; ed anco promette che i suoi sudditi non parteggino nelle
fazioni civili dell’Affrica, non vi facciano rapine, nè menin cattivi
per seduzione nè per forza; e perfino che, riparati per fortuna di mare
su le spiagge d’Affrica, non offendano gli abitatori: nei quali casi
tutti è stipulato il risarcimento dei danni. Per un capitolo aggiunto
in fine, Federigo permetteva a’ Musulmani di recare e trarre merci dal
suo reame, pagando la decima del valore.
L’ignoranza de’ copisti, non corretta infino al tempo nostro da
critici, ha affibbiato alla Corsica un importante capitolo di questo
trattato, risguardante, senza alcun dubbio Cossira, o, com’oggi
si chiama, Pantelleria. Per questa isoletta gli Stati contraenti
fecero a mezzo: stipularono che i Cristiani, non avessero alcuna
giurisdizione sopra i Musulmani, ma che un prefetto musulmano eletto
dal re di Sicilia reggesse gli Unitarii, o, com’io tradurrei più
volentieri, i Wahabiti, e che l’entrata pubblica del paese andasse
divisa tra i due Stati, metà e metà.[602] Cotesti patti di Pantellaria
rispondono su per giù a quelli che Ibn-Khaldûn suppone stipulati tra
gli stessi due principi a favor di tutti i Musulmani di Sicilia; onde
la tradizione storica di certo aggiugne fede al documento.[603] Ma
il documento, secondo me, serve a correggere la tradizione più tosto
che a convalidarla, sendo evidente che quelle condizioni poteano star
bene per un’isoletta gittata tra l’Europa e l’Affrica, non già per
tutte le colonie musulmane rimaste in Sicilia dopo le deportazioni del
ventitrè e del venticinque. Penso doversi leggere Wahabiti perchè,
da una mano, non sappiamo, nè ci pare verosimile che fosse stata
trapiantata in Pantellaria una colonia di “Unitarii”, che in quel tempo
significherebbe Almohadi, e molto meno possiam credere che tal colonia
della tribù dominante, fosse stata lasciata sotto un prefetto siciliano
e quindi inferiore agli altri musulmani del paese.[604] Dall’altra
mano sappiamo che Pantellaria non aveva abitatori cristiani nella
seconda metà del duodecimo secolo;[605] che i geografi musulmani del
decimoterzo tenean tutta la popolazione come wahabita,[606] seguace,
cioè, d’una setta che appigliatasi tra’ Berberi nel nono secolo,
rimase nell’isola delle Gerbe[607] almen fino al decimoquarto; e che i
Pantellereschi eran chiamati da’ Musulmani contemporanei con l’odioso
nome posto a’ Credenti che subissero il giogo cristiano.[608] Non mi
sembra verosimile il supposto che Musulmani di Sicilia si fossero, al
tempo della ribellione, rifuggiti in Pantelleria e che alludesse a loro
il capitolo di cui ragioniamo.
Il trattato del milledugentrentuno, come ognun vede, suppone
antecedenti ostilità, o per lo meno lunga desuetudine degli accordi di
Guglielmo II; e ciò si riscontra con le imprese dell’armata siciliana
nel dugenventiquattro.[609] Ma il patto fu mantenuto e forse rinnovato,
non ostante i dissapori che a quando a quando sorgeano; come nel
caso, credo io, di ’Abd-el-Azîz, nipote del re di Tunis, il quale, per
accusa di maestà, rifuggissi in Puglia pria della state del trentasei;
e l’imperatore l’accolse e spesollo almen fino alla primavera del
quaranta, allorchè lo vediamo soggiornare in Lucera con tre scudieri
e con un Perrono da Palermo, addetto a servirlo o guardarlo. Federigo
n’ebbe che dire col papa, il quale volea gli fosse mandato quel gran
personaggio a Roma, pretendendo che costui era venuto in Italia apposta
per farsi cristiano e che l’imperatore lo ritenea. Ma questi negò e la
vocazione e l’impedimento; nè volle ad alcun patto levarsi di mano tal
pegno, per darlo al papa ed a’ suoi amici guelfi.[610]
I quali in vero non se ne stavano oziosi in Tunis. In su lo scorcio
del trentanove, l’imperatore s’accorse del favore che godeano in
Tunis i Genovesi e’ Veneziani suoi nemici; ond’ei si dispose a mandar
ambasciatore Arrigo Abate appo l’emiro Abu-Zakaria e avvertì il grande
ammiraglio Niccolino Spinola, che stesse pronto, e intanto osservasse
la tregua conceduta per imperiale clemenza a quel principe.[611]
La quistione, qual che fosse la origine, finì con un bel colpo da
mercatante. Sendo afflitto lo Stato di Tunis dalla solita carestia, i
Genovesi veniano in Sicilia a incettare grano per conto d’Abu-Zakaria,
e ci faceano grossi guadagni. Ecco che allo scorcio di febbraio del
quaranta, l’imperatore fa chiudere i porti; fa caricare su le sue navi
cinquantamila salme di frumento e commette all’ammiraglio che mandi a
venderle in Tunis.[612]
Ciò conferma, s’io non erro, il detto di Saba Malaspina, che al
tempo della seconda crociata di san Luigi, il re di Tunis pagava
al re di Sicilia una prestazione o censo (_redditum sive censum_)
annuale, per ottenere che dall’isola si recassero liberamente le
vittuaglie in quello Stato e che le sue navi fossero salve da’ corsari
siciliani.[613] Tornava dunque ad una composizione o transatto,
com’oggi si dice, per la uscita de’ grani. E veramente il fatto de’
Genovesi venuti a comperare a nome del re di Tunis e l’espediente al
quale si appigliò Federigo per frustrarli, ci conducono necessariamente
a supporre un patto che assicurava a quel re la tratta libera
ovvero soggetta a dazio fisso e moderato. Poco monta che in qualche
documento il transatto si chiami tributo, e che il Malespini aggiunga
all’avvantaggio della tratta quello della sicura navigazione; potendo
supporsi ch’ei non fosse bene informato de’ particolari e che la
voce pubblica confondesse le condizioni pecuniarie della tratta,
con le politiche della tregua del dugentrentuno, della quale si è
fatta menzione. Che che ne sia, la prestazione montava, negli ultimi
trent’anni del secolo decimoterzo, a trecento trentatremila trecento
trentatrè bizantini, ed un terzo, i quali valgon oggi, secondo il
peso dell’oro, trecenventicinque mila lire nostrali ed a quel tempo
tornavano in mercato a più d’un milione de’ nostri, per quanto si
possano ragguagliar le valute alla distanza di sei secoli, con le
mutate condizioni economiche e sociali. Venendo in giù dal tempo
di Federigo, noi veggiamo intermesso il pagamento della prestazione
nel dugensessantacinque, alla caduta di casa sveva; ripigliato nel
settanta, per lo trattato di Monstanser con Filippo l’Ardito e con
Carlo d’Angiò, al quale si stipulò di soddisfare i decorsi e raddoppiar
la somma annuale in avvenire; sospeso di nuovo nell’ottantadue, per la
guerra del Vespro; indi promesso da Abu-Hafs a Pier d’Aragona, nella
somma primitiva e coi decorsi di tre anni, per lo trattato stipulato
a Paniças l’ottantacinque; finchè nel trecento le case d’Angiò e
d’Aragona si disputano il tributo, ma non si ritrae che gli Hafsiti
lo soddisfacciano.[614] E non parmi verosimile che il pagamento
fosse incominciato al tempo di Federigo. Nei capitoli ch’ei dettò
per l’ammiragliato di Sicilia pria del dugentrentanove, concedendo a
Niccolino Spinola larghissima potestà e guadagni senza limite, gli diè,
tra le altre cose, il dieci per cento di ciò che “con la sua prudenza
ed arte arrivi a riscuotere da Saraceni qualunque, sia de’ tributi
soliti a pagarsi ai re di Sicilia, sia degli insoliti e novelli imposti
da lui stesso.”[615] Or lo Stato di Tunis non sembra sì piccolo, nè
sì scompigliato in quel tempo, da assoggettarsi a tributo per caso
tanto lieve da non rimanerne vestigia negli annali suoi o della
Sicilia. Pertanto il tributo va noverato più tosto tra i soliti. E
veramente, da Federigo in su, occorre l’imperatore Arrigo VI ch’ebbe da
Marocco, l’anno mille centonovantacinque, de’ carichi d’oro e di robe
preziose,[616] ne’ quali par si ascondesse la prestazione dell’Affrica
propria, non chiarita per anco ribelle a gli Almohadi. E in cima
si scorge il trattato di Guglielmo secondo col califo Abu-Ja’kub:
onde si può ritenere che la composizione per la tratta de’ grani, o
prestazione, censo o tributo che dir vogliamo, si fosse cominciato a
riscuotere sopra i califi almohadi nel millecentottanta, per cagione
della carestia; e si può supporre che qualche città dell’Affrica
propria l’avesse pagato fin da tempo più antico. Nè è da maravigliare
che il trattato del milledugentrentuno non ne faccia menzione, poichè
non era necessario scrivere la consuetudine di quel transatto in un
pubblico strumento politico e commerciale; e quand’anco fosse stata
scritta nel testo latino, potea mancar nell’arabico, sola sorgente alla
quale noi attingiamo il fatto, per mezzo di una traduzione assai più
recente. Confrontando il testo arabico e il testo latino di parecchi
trattati stipulati nel medio evo tra Musulmani e Cristiani, avviene
talvolta che si trovi mutilo l’uno o l’altro, perchè ciascuno solea
sopprimere nel testo da pubblicare in casa propria, le condizioni delle
quali egli arrossiva. A un dipresso han fatto così i principi d’Europa
nei trattati segreti o negli articoli segreti di trattato solenne.[617]
Adescato dal commercio onde arricchiansi Venezia, Pisa e Genova, e
trascinato contro sua voglia dalle ultime onde della Crociata, Federigo
tenne frequenti pratiche coi principi musulmani di Levante, delle quali
ci son rimasi non pochi ricordi e dobbiamo tenerne perduti assai più.
Ma il supposto ch’egli abbia mandati ambasciatori al califo abbasida, è
nato da un errore, cioè che il classico nome di Babilonia col quale gli
scrittori cristiani del medio evo designavano il Cairo vecchio,[618]
significasse, in vece, Bagdad. Poco verosimile parrà d’altronde quel
supposto, quando si pensi che i successori di Harûn-Rascîd contavano
ormai poco o nulla nel mondo. Fin dallo scorcio del duodecimo secolo,
la frontiera settentrionale del territorio musulmano da Barca alla
foce dell’Oronte ed all’Eufrate, era occupata da’ figliuoli, fratelli e
cugini di Saladino. Vasto impero feudale o federale che dir si voglia,
discorde al certo e lacerato da cupidigia, violenza e slealtà; nel
quale disputaronsi per poco il primato due figliuoli del conquistatore,
che avea lasciata (1193), all’uno la Siria e all’altro l’Egitto: ma non
andò guari che Malek Adel, fratello di Saladino, raccolse il frutto di
quella discordia. Insignoritosi di Damasco (1196) e del Cairo (1200),
Malek-Adel lasciò ai suoi proprii figli l’esempio e il comodo della
usurpazione, facendo Malek-Mo’azzam erede della Siria e Malek-Kâmil
dell’Egitto.
Insolito documento ci attesta aver Federigo mandata un’ambasceria a
cotesti due sultani, credo io nel dugendiciassette, quando Malek-Adel
avea già divisi i dominii a’ suoi figliuoli, prima di venire a morte
(31 agosto 1218). Dico d’un compartimento a mosaico, rimaso infino
al decimoquarto e fors’anco al decimosesto secolo, nel portico
della cattedrale di Cefalù, dov’era effigiato Federigo in atto di
accomiatare Giovanni Cicala detto il Veneziano, vescovo di Cefalù,
con questo scritto: “Va in Babilonia e in Damasco; trova i figli di
Paladino (Safadino?) e parla ad essi audacemente in mio nome....”[619]
La recente esaltazione di papa Onorio; la ressa ch’ei facea per la
crociata e il bisogno che avea di lui Federigo, disponendosi a venire
in Italia e quasi a riconquistare i proprii suoi Stati, danno la
ragione di cotesta ambascerìa, o piuttosto vana minaccia; alla quale
par che il sultano di Damasco abbia risposto per le rime, nella forma
che or or si dirà.
A capo di pochi anni, quando Kâmîl s’innalzò su tutti i principi
aiubiti e l’imperatore, sposata la erede del reame di Gerusalemme,
cominciò a considerare quell’impresa con altro intento che di sciorre
il voto sul Santo Sepolcro, ei diessi a coltivare in particolar
modo l’amistà del sultano d’Egitto. E poichè coteste pratiche in
breve tempo condussero alla restituzione di Gerusalemme, che parve
calamità pubblica a’ Musulmani, gli scrittori arabi ce ne danno tanti
particolari da confermare, e in parte raddrizzare e allargare, le
narrazioni di origine cristiana.[620]
Corse voce in Levante che Federigo avesse ridomandata Gerusalemme a
Malek-Mo’azzam, e che il valoroso e dotto principe avesse risposto
all’ambasciatore: “Di’ al signor tuo che per lui io ho la spada e
niente altro.” Questa sentenza, a dir vero, si potrebbe supporre
foggiata in odio di Kâmil, dopo l’abbandono di Gerusalemme e la morte
di Mo’azzam: pur non sembra inverosimile nè la pratica di Federigo,
nè lo sdegnoso rifiuto, s’e’ si riferisse al dugendiciassette,
com’abbiamo notato poc’anzi.[621] Più certo è che Mo’azzam, mal
soffrendo la supremazia del fratello (1226) tentò di muovergli
contro tutti i principi aiubiti e infine collegossi con Gelâl-ed-dîn,
principe dei barbari Kharezmii, i quali, cacciati da orde più feroci
di loro, venian ora dalle rive del Caspio a desolare l’Armenia e
la Mesopotamia. Kâmil in tal frangente, per guastare i disegni del
fratello, chiamò Federigo promettendogli Gerusalemme[622] e gli altri
acquisti di Saladino.[623] S’appiccò la pratica, com’e’ pare, il
milledugenventisette, quando, venuto al Cairo l’arcivescovo di Palermo,
legato dell’imperatore, il sultano fece immediatamente ripartire con
esso lui Fakhr-ed-dîn, gran personaggio a corte d’Egitto;[624] il
quale poi piacque tanto a Federigo, ch’ei gli concedè lo stemma di
casa sveva, poichè i Musulmani s’erano già invaghiti di coteste vanità
occidentali, nelle prime Crociate.[625] L’arcivescovo e Fakhr-ed-dîn,
ritornavano l’anno appresso in Egitto; insieme coi quali andò un
cavaliere, portatore di splendidi presenti:[626] il proprio destrier
di battaglia dell’imperatore, con sella d’oro tempestata di gemme
preziosissime,[627] ed altri nobili cavalli, vestimenta, minuterie
d’oro, falconi e tante rarità.[628] Il Sultano fece spesare gli inviati
siciliani fin dallo sbarco in Alessandria; uscì egli stesso fuor del
Cairo a incontrarli; die’ loro sontuoso ospizio; lor fece ogni maniera
d’onoranza[629] e ricambiò Federigo con molte preziosità d’India,
Jemen, Persia, Mesopotamia, Siria ed Egitto, che valeano, come si dice,
tanti doppi de’ doni suoi.[630]
E tantosto ei mosse con le genti (agosto 1228);[631] occupò Gerusalemme
ed altre terre de’ dominii di Mo’azzam,[632] il quale era morto
da nove mesi (11 novembre 1227) ed eragli succeduto il figliuolo
Dawûd, col titolo di Malek-Nâsir.[633] Seguendo le pratiche iniziate
dal padre,[634] avea questi intanto chiamato lo zio Malek-Ascraf,
principe di Khelât in Armenia; il quale s’affrettò a venire a Damasco
con le forze che aveva in pronto.[635] Onde, sbarcato l’imperatore
ad Acri (7 settembre 1228), tre eserciti si trovarono a fronte,
nessuno de’ quali sapeva con chi avesse ad azzuffarsi; se non che
i furbi capitani avean poca voglia di venire alle mani, quand’era
lì in mezzo il povero Dawûd per pagar lo scotto a tutti. E in vero
Kâmil ed Ascraf, dopo breve carteggio pien di belle sentenze sopra
l’onore di casa aiubita e la gloria dell’islam,[636] abboccaronsi
(10 novembre 1228) presso Ascalona, ridendo sotto i baffi; divisero
a lor modo i dominii del nipote,[637] e stettero insieme un gran
pezzo a veder come acconciare la cosa con Federigo.[638] Il quale
ridomandava Gerusalemme e la costiera tutta di Siria e chiedea con ciò
la franchigia d’ogni gabella in Alessandria. Tanto ei diceva essere
stato profferto al suo luogotenente in Palestina durante la guerra
di Damiata; ond’egli or non voleva accettar meno di ciò che era stato
concesso all’ultimo de’ suoi paggi.[639] Rincrebbe a Kâmil di trovarsi
addosso[640] quest’ausiliare, contro il quale ei non potea tirar la
spada, perchè l’avea chiamato egli stesso e perchè la guerra avrebbe
sciupati i suoi disegni, appunto quand’ei stava per compierli, scrive
un cronista,[641] alludendo di certo al partaggio dello Stato di Dawûd,
ch’era lo scopo di tutti que’ raggiri. Ma Federigo, accorgendosene,
afforzava Sidone,[642] Cesarea, Giaffa[643] e racchetava alla meglio,
come sappiamo dagli scrittori occidentali, i Crociati, ippocriti o
bacchettoni e turbolenti tutti. Le negoziazioni dunque si prolungarono
e con esse le cortesie tra il campo crociato e l’egiziano.[644] Giunto
appena ad Acri, Federigo avea mandati oratori a Kâmil, con doni da
re, Balian signor di Sidone e Tommaso conte di Acerra suo vicario in
Terrasanta; i quali furono accolti a grandissimo onore.[645] Seguì
un continuo andirivieni di ambasciatori.[646] Kâmil adoprava a tal
uficio degli uomini di scienze e di lettere sì accetti all’imperatore:
Fakhr-ed-din, già nominato;[647] il poeta Selâh’-ed-dîn di Arbela[648]
e lo sceriffo Scems-ed-dîn da Ormeia, cadì dell’esercito:[649] mandava
in dono gioielli, preziose vestimenta ed utili animali, dromedarii,
cavalle, muli;[650] e un’altra volta fe’ venire apposta d’Egitto il
solo elefante che rimanea vivo di que’ donatigli da Malek-Mes’ûd,
principe d’Arabia.[651] Federigo poi, non avendo al campo altri tesori,
proponeva al Sultano problemi di filosofia o di matematica e quegli li
facea risolvere dal celebre scrittore ’Alem-ed-dîn, giurista di scuola
hanefita.[652]
Corsero per tal modo sei mesi, allo scorcio dei quali è da supporre
Federigo stanco di soffrire gli insolenti Cristiani armati o disarmati
della Palestina, ed impaziente di star lungi dal suo reame, ch’era
commosso e osteggiato dalle armi papali. E sembra ch’egli abbia
abbassate alquanto le pretensioni; ma di certo seppe mostrarsi a’
Musulmani più tranquillo e forte che mai. Disse chiaro a Fâkhr-ed-dîn,
che gli premea poco di regnare in Terrasanta, ma che volea mantenere il
credito suo in Europa; e se non fosse per questo, non infastidirebbe
il Sultano con tanta pertinacia.[653] Nè egli fece, secondo le
circostanze, un magro accordo. Tutti gli scrittori arabi narrano che
Kâmil fuvvi sforzato da lui: e, chi scrive che il Sultano comprese
non potersi cavare altrimenti dal mal terreno in che avea messo il
pie’;[654] chi afferma ch’ei non potea resistere in verun modo alle
armi di Federigo;[655] chi l’accusa di avere scansata la guerra, perchè
lo avrebbe frustrato nello intento per lo quale ei s’era mosso d’Egitto
e stava ormai per conseguirlo,[656] che vuol dire la usurpazione di
mezzo lo Stato di Damasco. Quando poi Federigo fermò quel patto, il
legato Salâh-ed-dîn d’Arbela, affrettossi a scrivere al suo signore,
scherzando in versi, come s’egli avesse fatto un bel tiro, che
“l’imperatore s’immaginava di conchiuder la pace a suo modo; ma or ha
stesa la destra a giurare; ch’ei se la roda, quando si pentirà di ciò
che ha fatto.”[657]
Gli assentì anco il Sultano d’includere nel patto, per la signoria di
Thoron, una principessa che gli scrittori arabi chiamano la figlia
d’Umfredo.[658] Kâmil poi si vantò coi suoi, che, rimanendo in mano
loro i santuarii musulmani di Gerusalemme, si veniva a ceder poco o
nulla all’imperatore: de’ mucchi di case e chiese cadenti, circondate
di terre musulmane, sì che ad un cenno si potrebbero ripigliare senza
contrasto.[659] Così fu fermata tra i due monarchi la tregua per dieci
anni, cinque mesi e quaranta giorni,[660] contati dal ventotto di rebi’
primo del secenventisei (24 febbraio 1229), e i capitoli principali
furono: che si rendesse a Federigo la città di Gerusalemme, con
Nazareth, Betlemme, Ludd, Ramla e gli altri villaggi su la via d’Acri e
di Giaffa e inoltre il territorio di Thoron e la città di Sidone; che
la moschea d’Omar e la cappella della Sakhra, o diremmo noi del Sasso
e s’intenda di quello nel quale Maometto lasciò l’orma del piede nello
spiccare il volo alle regioni di lassù, fossero custodite da Musulmani
e vi si officiasse secondo loro legge, ma potessero i Cristiani visitar
que’ santuarii; che i poderi del territorio rimanessero ai possessori
musulmani governati da un prefetto di loro nazione.[661] Aggiungono
i Musulmani una clausola data ad intender loro da Kâmil, per la quale
era vietato di rifabbricare le mura di Gerusalemme; ma Federigo affermò
espressamente il contrario all’Europa e scrisse poter anco fortificare
miseria: se un branco irrompea, doveano seguirlo tutti gli altri.
Quantunque la povertà non sia buon ausiliare in guerra, par che gli
ultimi avanzi di quel fiero popolo abbiano resistito più di tre anni
alle armi imperiali. Dice la cronica che l’imperatore, nella quinta
indizione, anno dugenquarantacinque, mandò con l’esercito il conte
Riccardo di Caserta, il quale li cacciò di Sicilia; ma va aggiunto
un anno alla data, leggendosi nel quarantasei, verso l’agosto, una
sdegnosa epistola di Federigo, per la quale è detto ai ribelli che,
s’e’ fosser uomini, non starebbero con quella bestiale fidanza,
ad aspettare che lor calasse sul capo la spada della vendetta, e
conchiudea che s’e’ non smettessero entro un mese, vedrebbero sì
gli effetti di queste minacce.[590] E del novembre, com’e’ par, di
quest’anno, l’imperatore scriveva al terribile Ezzelino, esser ormai
libero dalle brighe che l’avevano impedito fin qui di soccorrere
gli amici: tra le altre, la temerità di cotesti Saraceni, i quali
ostinatamente resisteano, afforzati nelle montagne, ed alfine sono
scesi a chiedere misericordia.[591] Ciò prova che non furono vinti per
battaglia, ma presi per fame. Federigo li fe’ tramutare in Lucera.[592]
Manca d’allora in poi ogni notizia di Musulmani in Sicilia: ond’egli
è manifesto che se alcuni ve ne rimasero, abbracciarono la religione
de’ vincitori e, com’avean fatto tanti altri uomini di lor gente in un
secolo e mezzo dal conquisto, si confuser essi nel novello popolo, nel
quale già si andavano dileguando le distinzioni di origine.
Come l’Oreste della favola greca, Federigo sembra spinto dal Destino
a immolare gli educatori suoi, fossero personificazioni come le
municipalità, il baronaggio e il papato, o fossero persone come il
Cancelliere Gualtiero De Palear, il conte di Malta e Pietro Della
Vigna. E veramente il nipote di Barbarossa, venuto al mondo in Italia,
cresciuto tra i nemici naturali del suo nome, dovea sforzarsi a
ritor loro quella possanza che pareagli rubata alla sua casa: ond’ei
si disfece delle persone quando potè; assalì le personificazioni,
volgendo la spada contro gli uomini che le sosteneano, e combattendo
le idee ostili con le armi della ragione. Le quali si spuntarono su
l’eterna tempra della libertà ond’erano cinti i municipii, e valsero
un poco a intaccare il triregno, fabbricato di teocrazia giudaica,
dispotismo romano, e barbarie settentrionale. I Musulmani di Sicilia
subirono la stessa sorte d’ogni altro maestro del lioncello svevo, non
già per sua rabbia, ma perch’ei non ebbe tanta forza che li salvasse
da’ nemici loro, com’ei forse bramava e il provò mutando i ribelli in
pretoriani. Chè del resto, le consuetudini dell’adolescenza, il genio
dell’incivilimento, l’amore degli studi e l’antagonismo filosofico e
politico contro Roma, portavano l’imperatore, meglio che niun altro
uomo europeo del suo secolo, ad onorarli e favorirli.
CAPITOLO IX.
Il genio dell’incivilimento, l’utilità politica e più assai gli
interessi commerciali della Sicilia e i suoi proprii, portarono
Federigo a frequenti accordi coi principi musulmani. Abbiano noi
accennato ai patti fermati con esso loro dalle nostre repubbliche
marittime ed abbiamo descritti quei del conte Ruggiero e del re suo
figliuolo coi Ziriti, e di Guglielmo II, col novello impero degli
Almohadi.[593] A’ tempi di Federigo, questo era già dimezzato,
rimanendogli, a un dipresso, l’attuale Stato di Marocco e parte
della Spagna; nè v’ha ricordo allora di ostilità tra quello impero
e la Sicilia, nè se ne vede cagione: anzi sembra continuata la pace
de’ tempi normanni. Perchè sappiamo che Uberto Fallamonaca che
fu de’ primarii magistrati di Federigo in Sicilia[594] andava il
dugenquarantuno ambasciatore a Marocco.[595] Alla quale missione, od
altra che l’abbia preceduta o seguìta, si accenna nel trattato delle
“Tesi siciliane” d’Ibn-Sab’în, leggendovisi che l’imperatore signor
della Sicilia, avea mandati per nave apposta, con un suo ambasciatore,
al califo almohade i quesiti di logica e metafisica; de’ quali noi
diremo nel capitol seguente.
Intanto la decadenza della dinastia almohade avea fatto rinascere lo
Stato dell’Affrica propria, più forte sì che al tempo degli Ziriti e
chiamato ormai da’ Cristiani il reame di Tunis, perchè gli Almohadi
avean fatta capitale della provincia quella città, primaria per popolo
e commercio e più aperta alle armi loro che non fosse la malaugurosa
fortezza di Mehdia. Seguì allora la necessaria vicenda delle grandi
province musulmane. Il terzo califo almohade En-Nâsir, non sapendo
come tener la provincia, ne fe’ governatore (1207) un uomo fidatissimo
della dinastia: Abu-Mohammed, figliuolo di Abu-Hafs-Omar, ch’era
stato _sceikh_ della tribù berbera di Masmuda, primo per valore e
consiglio tra i capi della confederazione almohade, braccio dritto
d’Abd-el-Mumen e sostegno de’ suoi figliuoli. Ma nella generazione
seguente, i Beni-Hafs, come si chiamarono dal nome familiare del capo
di lor casa, avean messe radici profonde nella provincia; i califi,
lontani, peggiorati di padre in figlio, non aveano riputazione nè
forza da cacciar via cotesti prefetti: onde Abu-Zakaria, figliuolo
d’Abu-Mohammed, colta un’occasione, disdisse (1228) l’obbedienza al
califo El-Mamûn, com’empio e tiranno. Non guari dopo (1236), tolto
l’equivoco, ei fece fare a suo proprio nome la preghiera del venerdì,
con qualità di Emir, lasciando a’ cortigiani il vanto d’aggiugnervi
“de’ Credenti” per compiere il sacro titolo, onde fregiaronsi
Abd-el-Mumen, Harûn-Rascîd e il grande Omar, che gli Hafsiti falsamente
vantavano lor progenitore.[596] Notisi che gli Hafsiti usarono sempre
chiamarsi col Keniet, o diremmo noi soprannome familiare, e che il
padre e l’avolo di Abu-Zakaria s’addimandarono meramente _sceikh_,
ch’era il titolo della dignità loro nella tribù, e però il vero
fondamento della loro potenza.[597]
Cotesti particolari ho io notati a rischiarare il trattato dello
imperatore Federigo, del quale abbiam solo una traduzione latina
molto arruffata, ma non tanto che non trasparisca spesso il genuino
testo arabico e talvolta gli errori di chi interpretollo. È dato del
quindici giumadi secondo dell’anno secentoventotto (20 aprile 1231),
quando Abu-Zakaria avea già ricusato d’ubbidire al califo Mamùn,
senza per anco chiarirsi independente dal califato; del quale stadio
d’usurpazione rendono testimonianza alcune parole del trattato. Se
questo poi non è stipulato a nome dell’emîr Abu-Zakaria, ma dello
«illustre e magnifico sceikh[598] Abu-Ishak, figliuolo del defunto
sceikh Abu-Ibrahim, figliuolo dello sceikh Abu-Hafs,» non dobbiamo
noi mettere in forse l’autenticilà del documento. Si può spiegar bene
con due supposti plausibili e compatibili tra loro: che Abu-Zakaria
abbia avuto quest’altro cugino, ignoto ne’ nostri ricordi[599] e che
l’abbia lasciato luogotenente in Tunis, quand’egli avventurossi infino
a Wergla, dando la caccia a quell’Ibn-Ghania che avea sì fieramente
molestato il paese per quarantacinque anni.[600]
Del resto le forme del trattato rispondono a quelle che conosciamo
in atti somiglianti, autentici di certo; e le condizioni parte si
riscontrano con quelle solite a stipular tra i Musulmani di Ponente
e le repubbliche italiane del Mediterraneo, parte si adattano
alle relazioni particolari dello Stato di Tunis, con la Sicilia.
Noveransi tra le prime la tregua fermata per dieci anni, la reciproca
restituzione dei prigioni non convertiti alla religione del paese;
che mercatanti e viaggiatori di Sicilia, Calabria, Principato e
Puglia siano liberi di tutta esazione e vessazione in Affrica e,
reciprocamente gli affricani in quelle province; che rendansi le prede
fatte da corsari sudditi di Federigo, esclusi espressamente Genovesi,
Pisani, Marsigliesi e Veneziani, i quali aveano stipulati patti
apposta col califo almohade.[601] La mancanza di reciprocità in questo
patto, se non venisse da dimenticanza del traduttore, mostrerebbe
che, soverchiati dalle forze navali italiane, gli Affricani aveano
smessa in quel tempo la piraterìa. Che i Cristiani, al contrario, la
esercitassero nelle parti meridionali del Mediterraneo e fin dentro
terra, si scorge da’ capitoli successivi, pei quali Federigo assicura
dalle offese de’ mercatanti e militi suoi, i Musulmani che viaggino da
un luogo d’Affrica all’altro, o d’Affrica in Egitto, sì in nave, e sì
in caravane; ed anco promette che i suoi sudditi non parteggino nelle
fazioni civili dell’Affrica, non vi facciano rapine, nè menin cattivi
per seduzione nè per forza; e perfino che, riparati per fortuna di mare
su le spiagge d’Affrica, non offendano gli abitatori: nei quali casi
tutti è stipulato il risarcimento dei danni. Per un capitolo aggiunto
in fine, Federigo permetteva a’ Musulmani di recare e trarre merci dal
suo reame, pagando la decima del valore.
L’ignoranza de’ copisti, non corretta infino al tempo nostro da
critici, ha affibbiato alla Corsica un importante capitolo di questo
trattato, risguardante, senza alcun dubbio Cossira, o, com’oggi
si chiama, Pantelleria. Per questa isoletta gli Stati contraenti
fecero a mezzo: stipularono che i Cristiani, non avessero alcuna
giurisdizione sopra i Musulmani, ma che un prefetto musulmano eletto
dal re di Sicilia reggesse gli Unitarii, o, com’io tradurrei più
volentieri, i Wahabiti, e che l’entrata pubblica del paese andasse
divisa tra i due Stati, metà e metà.[602] Cotesti patti di Pantellaria
rispondono su per giù a quelli che Ibn-Khaldûn suppone stipulati tra
gli stessi due principi a favor di tutti i Musulmani di Sicilia; onde
la tradizione storica di certo aggiugne fede al documento.[603] Ma
il documento, secondo me, serve a correggere la tradizione più tosto
che a convalidarla, sendo evidente che quelle condizioni poteano star
bene per un’isoletta gittata tra l’Europa e l’Affrica, non già per
tutte le colonie musulmane rimaste in Sicilia dopo le deportazioni del
ventitrè e del venticinque. Penso doversi leggere Wahabiti perchè,
da una mano, non sappiamo, nè ci pare verosimile che fosse stata
trapiantata in Pantellaria una colonia di “Unitarii”, che in quel tempo
significherebbe Almohadi, e molto meno possiam credere che tal colonia
della tribù dominante, fosse stata lasciata sotto un prefetto siciliano
e quindi inferiore agli altri musulmani del paese.[604] Dall’altra
mano sappiamo che Pantellaria non aveva abitatori cristiani nella
seconda metà del duodecimo secolo;[605] che i geografi musulmani del
decimoterzo tenean tutta la popolazione come wahabita,[606] seguace,
cioè, d’una setta che appigliatasi tra’ Berberi nel nono secolo,
rimase nell’isola delle Gerbe[607] almen fino al decimoquarto; e che i
Pantellereschi eran chiamati da’ Musulmani contemporanei con l’odioso
nome posto a’ Credenti che subissero il giogo cristiano.[608] Non mi
sembra verosimile il supposto che Musulmani di Sicilia si fossero, al
tempo della ribellione, rifuggiti in Pantelleria e che alludesse a loro
il capitolo di cui ragioniamo.
Il trattato del milledugentrentuno, come ognun vede, suppone
antecedenti ostilità, o per lo meno lunga desuetudine degli accordi di
Guglielmo II; e ciò si riscontra con le imprese dell’armata siciliana
nel dugenventiquattro.[609] Ma il patto fu mantenuto e forse rinnovato,
non ostante i dissapori che a quando a quando sorgeano; come nel
caso, credo io, di ’Abd-el-Azîz, nipote del re di Tunis, il quale, per
accusa di maestà, rifuggissi in Puglia pria della state del trentasei;
e l’imperatore l’accolse e spesollo almen fino alla primavera del
quaranta, allorchè lo vediamo soggiornare in Lucera con tre scudieri
e con un Perrono da Palermo, addetto a servirlo o guardarlo. Federigo
n’ebbe che dire col papa, il quale volea gli fosse mandato quel gran
personaggio a Roma, pretendendo che costui era venuto in Italia apposta
per farsi cristiano e che l’imperatore lo ritenea. Ma questi negò e la
vocazione e l’impedimento; nè volle ad alcun patto levarsi di mano tal
pegno, per darlo al papa ed a’ suoi amici guelfi.[610]
I quali in vero non se ne stavano oziosi in Tunis. In su lo scorcio
del trentanove, l’imperatore s’accorse del favore che godeano in
Tunis i Genovesi e’ Veneziani suoi nemici; ond’ei si dispose a mandar
ambasciatore Arrigo Abate appo l’emiro Abu-Zakaria e avvertì il grande
ammiraglio Niccolino Spinola, che stesse pronto, e intanto osservasse
la tregua conceduta per imperiale clemenza a quel principe.[611]
La quistione, qual che fosse la origine, finì con un bel colpo da
mercatante. Sendo afflitto lo Stato di Tunis dalla solita carestia, i
Genovesi veniano in Sicilia a incettare grano per conto d’Abu-Zakaria,
e ci faceano grossi guadagni. Ecco che allo scorcio di febbraio del
quaranta, l’imperatore fa chiudere i porti; fa caricare su le sue navi
cinquantamila salme di frumento e commette all’ammiraglio che mandi a
venderle in Tunis.[612]
Ciò conferma, s’io non erro, il detto di Saba Malaspina, che al
tempo della seconda crociata di san Luigi, il re di Tunis pagava
al re di Sicilia una prestazione o censo (_redditum sive censum_)
annuale, per ottenere che dall’isola si recassero liberamente le
vittuaglie in quello Stato e che le sue navi fossero salve da’ corsari
siciliani.[613] Tornava dunque ad una composizione o transatto,
com’oggi si dice, per la uscita de’ grani. E veramente il fatto de’
Genovesi venuti a comperare a nome del re di Tunis e l’espediente al
quale si appigliò Federigo per frustrarli, ci conducono necessariamente
a supporre un patto che assicurava a quel re la tratta libera
ovvero soggetta a dazio fisso e moderato. Poco monta che in qualche
documento il transatto si chiami tributo, e che il Malespini aggiunga
all’avvantaggio della tratta quello della sicura navigazione; potendo
supporsi ch’ei non fosse bene informato de’ particolari e che la
voce pubblica confondesse le condizioni pecuniarie della tratta,
con le politiche della tregua del dugentrentuno, della quale si è
fatta menzione. Che che ne sia, la prestazione montava, negli ultimi
trent’anni del secolo decimoterzo, a trecento trentatremila trecento
trentatrè bizantini, ed un terzo, i quali valgon oggi, secondo il
peso dell’oro, trecenventicinque mila lire nostrali ed a quel tempo
tornavano in mercato a più d’un milione de’ nostri, per quanto si
possano ragguagliar le valute alla distanza di sei secoli, con le
mutate condizioni economiche e sociali. Venendo in giù dal tempo
di Federigo, noi veggiamo intermesso il pagamento della prestazione
nel dugensessantacinque, alla caduta di casa sveva; ripigliato nel
settanta, per lo trattato di Monstanser con Filippo l’Ardito e con
Carlo d’Angiò, al quale si stipulò di soddisfare i decorsi e raddoppiar
la somma annuale in avvenire; sospeso di nuovo nell’ottantadue, per la
guerra del Vespro; indi promesso da Abu-Hafs a Pier d’Aragona, nella
somma primitiva e coi decorsi di tre anni, per lo trattato stipulato
a Paniças l’ottantacinque; finchè nel trecento le case d’Angiò e
d’Aragona si disputano il tributo, ma non si ritrae che gli Hafsiti
lo soddisfacciano.[614] E non parmi verosimile che il pagamento
fosse incominciato al tempo di Federigo. Nei capitoli ch’ei dettò
per l’ammiragliato di Sicilia pria del dugentrentanove, concedendo a
Niccolino Spinola larghissima potestà e guadagni senza limite, gli diè,
tra le altre cose, il dieci per cento di ciò che “con la sua prudenza
ed arte arrivi a riscuotere da Saraceni qualunque, sia de’ tributi
soliti a pagarsi ai re di Sicilia, sia degli insoliti e novelli imposti
da lui stesso.”[615] Or lo Stato di Tunis non sembra sì piccolo, nè
sì scompigliato in quel tempo, da assoggettarsi a tributo per caso
tanto lieve da non rimanerne vestigia negli annali suoi o della
Sicilia. Pertanto il tributo va noverato più tosto tra i soliti. E
veramente, da Federigo in su, occorre l’imperatore Arrigo VI ch’ebbe da
Marocco, l’anno mille centonovantacinque, de’ carichi d’oro e di robe
preziose,[616] ne’ quali par si ascondesse la prestazione dell’Affrica
propria, non chiarita per anco ribelle a gli Almohadi. E in cima
si scorge il trattato di Guglielmo secondo col califo Abu-Ja’kub:
onde si può ritenere che la composizione per la tratta de’ grani, o
prestazione, censo o tributo che dir vogliamo, si fosse cominciato a
riscuotere sopra i califi almohadi nel millecentottanta, per cagione
della carestia; e si può supporre che qualche città dell’Affrica
propria l’avesse pagato fin da tempo più antico. Nè è da maravigliare
che il trattato del milledugentrentuno non ne faccia menzione, poichè
non era necessario scrivere la consuetudine di quel transatto in un
pubblico strumento politico e commerciale; e quand’anco fosse stata
scritta nel testo latino, potea mancar nell’arabico, sola sorgente alla
quale noi attingiamo il fatto, per mezzo di una traduzione assai più
recente. Confrontando il testo arabico e il testo latino di parecchi
trattati stipulati nel medio evo tra Musulmani e Cristiani, avviene
talvolta che si trovi mutilo l’uno o l’altro, perchè ciascuno solea
sopprimere nel testo da pubblicare in casa propria, le condizioni delle
quali egli arrossiva. A un dipresso han fatto così i principi d’Europa
nei trattati segreti o negli articoli segreti di trattato solenne.[617]
Adescato dal commercio onde arricchiansi Venezia, Pisa e Genova, e
trascinato contro sua voglia dalle ultime onde della Crociata, Federigo
tenne frequenti pratiche coi principi musulmani di Levante, delle quali
ci son rimasi non pochi ricordi e dobbiamo tenerne perduti assai più.
Ma il supposto ch’egli abbia mandati ambasciatori al califo abbasida, è
nato da un errore, cioè che il classico nome di Babilonia col quale gli
scrittori cristiani del medio evo designavano il Cairo vecchio,[618]
significasse, in vece, Bagdad. Poco verosimile parrà d’altronde quel
supposto, quando si pensi che i successori di Harûn-Rascîd contavano
ormai poco o nulla nel mondo. Fin dallo scorcio del duodecimo secolo,
la frontiera settentrionale del territorio musulmano da Barca alla
foce dell’Oronte ed all’Eufrate, era occupata da’ figliuoli, fratelli e
cugini di Saladino. Vasto impero feudale o federale che dir si voglia,
discorde al certo e lacerato da cupidigia, violenza e slealtà; nel
quale disputaronsi per poco il primato due figliuoli del conquistatore,
che avea lasciata (1193), all’uno la Siria e all’altro l’Egitto: ma non
andò guari che Malek Adel, fratello di Saladino, raccolse il frutto di
quella discordia. Insignoritosi di Damasco (1196) e del Cairo (1200),
Malek-Adel lasciò ai suoi proprii figli l’esempio e il comodo della
usurpazione, facendo Malek-Mo’azzam erede della Siria e Malek-Kâmil
dell’Egitto.
Insolito documento ci attesta aver Federigo mandata un’ambasceria a
cotesti due sultani, credo io nel dugendiciassette, quando Malek-Adel
avea già divisi i dominii a’ suoi figliuoli, prima di venire a morte
(31 agosto 1218). Dico d’un compartimento a mosaico, rimaso infino
al decimoquarto e fors’anco al decimosesto secolo, nel portico
della cattedrale di Cefalù, dov’era effigiato Federigo in atto di
accomiatare Giovanni Cicala detto il Veneziano, vescovo di Cefalù,
con questo scritto: “Va in Babilonia e in Damasco; trova i figli di
Paladino (Safadino?) e parla ad essi audacemente in mio nome....”[619]
La recente esaltazione di papa Onorio; la ressa ch’ei facea per la
crociata e il bisogno che avea di lui Federigo, disponendosi a venire
in Italia e quasi a riconquistare i proprii suoi Stati, danno la
ragione di cotesta ambascerìa, o piuttosto vana minaccia; alla quale
par che il sultano di Damasco abbia risposto per le rime, nella forma
che or or si dirà.
A capo di pochi anni, quando Kâmîl s’innalzò su tutti i principi
aiubiti e l’imperatore, sposata la erede del reame di Gerusalemme,
cominciò a considerare quell’impresa con altro intento che di sciorre
il voto sul Santo Sepolcro, ei diessi a coltivare in particolar
modo l’amistà del sultano d’Egitto. E poichè coteste pratiche in
breve tempo condussero alla restituzione di Gerusalemme, che parve
calamità pubblica a’ Musulmani, gli scrittori arabi ce ne danno tanti
particolari da confermare, e in parte raddrizzare e allargare, le
narrazioni di origine cristiana.[620]
Corse voce in Levante che Federigo avesse ridomandata Gerusalemme a
Malek-Mo’azzam, e che il valoroso e dotto principe avesse risposto
all’ambasciatore: “Di’ al signor tuo che per lui io ho la spada e
niente altro.” Questa sentenza, a dir vero, si potrebbe supporre
foggiata in odio di Kâmil, dopo l’abbandono di Gerusalemme e la morte
di Mo’azzam: pur non sembra inverosimile nè la pratica di Federigo,
nè lo sdegnoso rifiuto, s’e’ si riferisse al dugendiciassette,
com’abbiamo notato poc’anzi.[621] Più certo è che Mo’azzam, mal
soffrendo la supremazia del fratello (1226) tentò di muovergli
contro tutti i principi aiubiti e infine collegossi con Gelâl-ed-dîn,
principe dei barbari Kharezmii, i quali, cacciati da orde più feroci
di loro, venian ora dalle rive del Caspio a desolare l’Armenia e
la Mesopotamia. Kâmil in tal frangente, per guastare i disegni del
fratello, chiamò Federigo promettendogli Gerusalemme[622] e gli altri
acquisti di Saladino.[623] S’appiccò la pratica, com’e’ pare, il
milledugenventisette, quando, venuto al Cairo l’arcivescovo di Palermo,
legato dell’imperatore, il sultano fece immediatamente ripartire con
esso lui Fakhr-ed-dîn, gran personaggio a corte d’Egitto;[624] il
quale poi piacque tanto a Federigo, ch’ei gli concedè lo stemma di
casa sveva, poichè i Musulmani s’erano già invaghiti di coteste vanità
occidentali, nelle prime Crociate.[625] L’arcivescovo e Fakhr-ed-dîn,
ritornavano l’anno appresso in Egitto; insieme coi quali andò un
cavaliere, portatore di splendidi presenti:[626] il proprio destrier
di battaglia dell’imperatore, con sella d’oro tempestata di gemme
preziosissime,[627] ed altri nobili cavalli, vestimenta, minuterie
d’oro, falconi e tante rarità.[628] Il Sultano fece spesare gli inviati
siciliani fin dallo sbarco in Alessandria; uscì egli stesso fuor del
Cairo a incontrarli; die’ loro sontuoso ospizio; lor fece ogni maniera
d’onoranza[629] e ricambiò Federigo con molte preziosità d’India,
Jemen, Persia, Mesopotamia, Siria ed Egitto, che valeano, come si dice,
tanti doppi de’ doni suoi.[630]
E tantosto ei mosse con le genti (agosto 1228);[631] occupò Gerusalemme
ed altre terre de’ dominii di Mo’azzam,[632] il quale era morto
da nove mesi (11 novembre 1227) ed eragli succeduto il figliuolo
Dawûd, col titolo di Malek-Nâsir.[633] Seguendo le pratiche iniziate
dal padre,[634] avea questi intanto chiamato lo zio Malek-Ascraf,
principe di Khelât in Armenia; il quale s’affrettò a venire a Damasco
con le forze che aveva in pronto.[635] Onde, sbarcato l’imperatore
ad Acri (7 settembre 1228), tre eserciti si trovarono a fronte,
nessuno de’ quali sapeva con chi avesse ad azzuffarsi; se non che
i furbi capitani avean poca voglia di venire alle mani, quand’era
lì in mezzo il povero Dawûd per pagar lo scotto a tutti. E in vero
Kâmil ed Ascraf, dopo breve carteggio pien di belle sentenze sopra
l’onore di casa aiubita e la gloria dell’islam,[636] abboccaronsi
(10 novembre 1228) presso Ascalona, ridendo sotto i baffi; divisero
a lor modo i dominii del nipote,[637] e stettero insieme un gran
pezzo a veder come acconciare la cosa con Federigo.[638] Il quale
ridomandava Gerusalemme e la costiera tutta di Siria e chiedea con ciò
la franchigia d’ogni gabella in Alessandria. Tanto ei diceva essere
stato profferto al suo luogotenente in Palestina durante la guerra
di Damiata; ond’egli or non voleva accettar meno di ciò che era stato
concesso all’ultimo de’ suoi paggi.[639] Rincrebbe a Kâmil di trovarsi
addosso[640] quest’ausiliare, contro il quale ei non potea tirar la
spada, perchè l’avea chiamato egli stesso e perchè la guerra avrebbe
sciupati i suoi disegni, appunto quand’ei stava per compierli, scrive
un cronista,[641] alludendo di certo al partaggio dello Stato di Dawûd,
ch’era lo scopo di tutti que’ raggiri. Ma Federigo, accorgendosene,
afforzava Sidone,[642] Cesarea, Giaffa[643] e racchetava alla meglio,
come sappiamo dagli scrittori occidentali, i Crociati, ippocriti o
bacchettoni e turbolenti tutti. Le negoziazioni dunque si prolungarono
e con esse le cortesie tra il campo crociato e l’egiziano.[644] Giunto
appena ad Acri, Federigo avea mandati oratori a Kâmil, con doni da
re, Balian signor di Sidone e Tommaso conte di Acerra suo vicario in
Terrasanta; i quali furono accolti a grandissimo onore.[645] Seguì
un continuo andirivieni di ambasciatori.[646] Kâmil adoprava a tal
uficio degli uomini di scienze e di lettere sì accetti all’imperatore:
Fakhr-ed-din, già nominato;[647] il poeta Selâh’-ed-dîn di Arbela[648]
e lo sceriffo Scems-ed-dîn da Ormeia, cadì dell’esercito:[649] mandava
in dono gioielli, preziose vestimenta ed utili animali, dromedarii,
cavalle, muli;[650] e un’altra volta fe’ venire apposta d’Egitto il
solo elefante che rimanea vivo di que’ donatigli da Malek-Mes’ûd,
principe d’Arabia.[651] Federigo poi, non avendo al campo altri tesori,
proponeva al Sultano problemi di filosofia o di matematica e quegli li
facea risolvere dal celebre scrittore ’Alem-ed-dîn, giurista di scuola
hanefita.[652]
Corsero per tal modo sei mesi, allo scorcio dei quali è da supporre
Federigo stanco di soffrire gli insolenti Cristiani armati o disarmati
della Palestina, ed impaziente di star lungi dal suo reame, ch’era
commosso e osteggiato dalle armi papali. E sembra ch’egli abbia
abbassate alquanto le pretensioni; ma di certo seppe mostrarsi a’
Musulmani più tranquillo e forte che mai. Disse chiaro a Fâkhr-ed-dîn,
che gli premea poco di regnare in Terrasanta, ma che volea mantenere il
credito suo in Europa; e se non fosse per questo, non infastidirebbe
il Sultano con tanta pertinacia.[653] Nè egli fece, secondo le
circostanze, un magro accordo. Tutti gli scrittori arabi narrano che
Kâmil fuvvi sforzato da lui: e, chi scrive che il Sultano comprese
non potersi cavare altrimenti dal mal terreno in che avea messo il
pie’;[654] chi afferma ch’ei non potea resistere in verun modo alle
armi di Federigo;[655] chi l’accusa di avere scansata la guerra, perchè
lo avrebbe frustrato nello intento per lo quale ei s’era mosso d’Egitto
e stava ormai per conseguirlo,[656] che vuol dire la usurpazione di
mezzo lo Stato di Damasco. Quando poi Federigo fermò quel patto, il
legato Salâh-ed-dîn d’Arbela, affrettossi a scrivere al suo signore,
scherzando in versi, come s’egli avesse fatto un bel tiro, che
“l’imperatore s’immaginava di conchiuder la pace a suo modo; ma or ha
stesa la destra a giurare; ch’ei se la roda, quando si pentirà di ciò
che ha fatto.”[657]
Gli assentì anco il Sultano d’includere nel patto, per la signoria di
Thoron, una principessa che gli scrittori arabi chiamano la figlia
d’Umfredo.[658] Kâmil poi si vantò coi suoi, che, rimanendo in mano
loro i santuarii musulmani di Gerusalemme, si veniva a ceder poco o
nulla all’imperatore: de’ mucchi di case e chiese cadenti, circondate
di terre musulmane, sì che ad un cenno si potrebbero ripigliare senza
contrasto.[659] Così fu fermata tra i due monarchi la tregua per dieci
anni, cinque mesi e quaranta giorni,[660] contati dal ventotto di rebi’
primo del secenventisei (24 febbraio 1229), e i capitoli principali
furono: che si rendesse a Federigo la città di Gerusalemme, con
Nazareth, Betlemme, Ludd, Ramla e gli altri villaggi su la via d’Acri e
di Giaffa e inoltre il territorio di Thoron e la città di Sidone; che
la moschea d’Omar e la cappella della Sakhra, o diremmo noi del Sasso
e s’intenda di quello nel quale Maometto lasciò l’orma del piede nello
spiccare il volo alle regioni di lassù, fossero custodite da Musulmani
e vi si officiasse secondo loro legge, ma potessero i Cristiani visitar
que’ santuarii; che i poderi del territorio rimanessero ai possessori
musulmani governati da un prefetto di loro nazione.[661] Aggiungono
i Musulmani una clausola data ad intender loro da Kâmil, per la quale
era vietato di rifabbricare le mura di Gerusalemme; ma Federigo affermò
espressamente il contrario all’Europa e scrisse poter anco fortificare
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