Storia dei musulmani di Sicilia, vol. III, parte II - 11

Morreale, confermò la concessione di tutte le città, castella, casali,
ville, chiese, possessioni, villani e diritti di quella Chiesa, i
quali nel turbamento erano stati occupati, e tuttavia si tenevano
illecitamente, da Saraceni o da Cristiani.[518] A comprender meglio
l’importanza della cosa, notisi che cotesto diploma fu replicato dopo
otto mesi a Brindisi (marzo 1221) e fuvvi aggiunto che gli affidati
e i villani allontanatisi dal territorio, ritornasservi con tutte
le robe; e s’e’ fossero morti, si prendessero i beni de’ figli.[519]
Per somigliante concessione erano stati donati all’Ordine teutonico,
nel dugento diciannove, il casale di Miserella, i villani di Polizzi
dovunque e’ si trovassero, il podere di Artilgidia presso Palermo ed
altri possedimenti e diritti in varii luoghi.[520] Occorrendo nel
medesimo tempo di pagare debiti vecchi o nuovi, Federigo dava de’
casali, abitati, com’e’ sembra, da Musulmani; dei quali atti, due soli
ci sono pervenuti: la concessione di Scopello alla chiesa di Santa
Maria dell’Ammiraglio in Palermo, per prezzo del vasellame d’oro e di
argento, preso all’uopo della guerra;[521] e la donazione di Mussaro
e Minzaro al vescovo di Girgenti, in compenso di settemila tarì d’oro
forniti un tempo alla corte.[522]
Nè Federigo dovea tanto assicurare il possedimento de’ concessionarii,
quanto difender mezza l’isola dalle scorrerie di gente ormai straniera.
Minacciati, i Musulmani aveano risposto come li portava lor indole
fiera e rapace. Oltre i fatti raccontati poc’anzi,[523] sappiamo che
il milledugentodiciannove “i nemici della Croce” avean già dato il
guasto allo Spedale di San Giovanni de’ Leprosi, proprio alle porte
di Palermo.[524] Ritraggiamo ancora che Orso vescovo di Girgenti,
fu preso da’ Saraceni e tenuto prigione per quattordici mesi nella
rôcca di Guastanella, dalla quale ei si riscattò per danaro; e che
intanto i beni del vescovato erano occupati, impedito l’esercizio dei
diritti, e stanziavano i Saraceni nel campanile della cattedrale e
nella casa attigua, sì che i Fedeli non osavan pur andare in chiesa
a far battezzare i figliuoli: il qual fatto si dice avvenuto a’ tempi
di Federigo imperatore e torna al dugentoventuno.[525] Nella Sicilia
occidentale le scorrerie, o almeno i pericoli, arrivavano dall’uno
all’altro mare, da Girgenti a Cefalù: essendo stato provato non guari
appresso, dinanzi a commissarii papali, che il fisco levò danaro in
Cefalù e in Pollina, dominii del vescovo, per difenderli contro i
Saraceni; e che mandò presidio nella rôcca di Cefalù, non meno per
diritto di regalìa, che per assicurar la città, situata nella Marca de’
Saraceni.[526]
La quale denominazione, transitoria com’e’ pare e pervenuta a noi
in questo luogo solo, non può significare altro che contrada di
popolazione mescolata, esposta agli assalti, sì per la vicinanza
alle sedi dei ribelli, e sì per la frequenza de’ villani musulmani in
varie terre.[527] La Marca dunque tornava, su per giù, alle odierne
province di Palermo, Trapani e Girgenti; al val di Mazara del secolo
scorso; alla Sicilia di là dal Salso del periodo svevo; alla provincia
lilibetana de Romani. E par che quella divisione in due province
partite dal Salso, sia stata principalmente consigliata a Federigo
dalla diversità degli ordini sociali e dei costumi. Da’ fatti che
precedono e da que’ che seguono, parmi che i Musulmani occupassero
sempre il centro montuoso di codesta regione, dove s’erano afforzati
all’entrare del secolo; se non che or li veggiamo ingrossare alle foci
del Drago e del Platani, sia per novello movimento loro, sia perchè
i bricioli di lor memorie che il caso ci ha serbati, si riferiscono a
questo periodo ed a questi luoghi.
In vece de’ centomila Saraceni di Ruggiero De Hoveden,[528] abbiam
ora i ventimila combattenti di Lucera, secondo Giovanni Villani,[529]
e più autorevole attestato, quel di Riccardo da San Germano, cioè che
diecimila soldati Saraceni moveano di Lucera a’ comandi dell’imperatore
il milledugentrentasette,[530] quando non erano stati per anco
deportati tutti i Musulmani di Sicilia. Possiamo dunque supporre
in quella sola terra di Puglia, atteso le circostanze peculiari, un
cinquanta o sessanta migliaia di coloni. Ed altrettanti, per lo meno,
è da credere siano rimasti nell’isola, senza contare gli artigiani e
i servi delle città, dei quali abbiam qualche ricordo, nè i villani
che l’interesse o la carità dei padroni ritenne, com’egli è probabile,
nelle campagne. Del resto verosimil sembra che il numero de’ ribelli
variasse da stagione a stagione, per causa de’ villani che dalle parti
centrali e dalle orientali dell’isola corressero alla montagna del
val di Mazara, o al contrario fuggissero dalle bandiere de’ ribelli,
per andare a vivere tranquilli.[531] Si può supporre, secondo me, nel
periodo culminante della rivoluzione, un venticinque o trenta migliaia
di combattenti musulmani.
Le consuetudini immobili di quei popoli e i cenni che veggiamo nelle
memorie contemporanee,[532] ne fanno certi che i ribelli si ressero,
anche in questo movimento, per Kaid e Sceikhi. Ebber essi un capo
militare famigerato, morto nel primo anno della guerra, il cui nome
si legge in una cronica Benavert, per falsa correzione, cred’io, del
copista che si ricordava troppo d’aver letti i casi dell’ultimo signore
musulmano di Siracusa.[533] Le copie di Riccardo da San Germano,
scrittore di tanta autorità, hanno Mirabetto; la qual voce parmi
guasta dalle bocche de’ Cristiani che la ripeteano: e andrebbe corretta
_Morabit_ o, diremmo noi, frate guerriero, Marabutto, Almoravida.[534]
Possiamo anco supporre chiamato con tal denominazione un uomo il cui
casato, aggiunto ad un titolo notissimo, suonava Emir-Ibn-’Abs, e indi
Mir-’Abs. Ibn-Khaldûn racconta, nella storia degli Hafsiti di Tunis,
che morto il sultano Abu-Zakaria-Jehia, (2 ottobre 1249) i Cristiani
di Palermo dettero addosso a’ Musulmani, in favor de’ quali egli avea
stipulato col signore dell’isola la sicurtà delle persone e de’ beni
urbani e rurali; che i Musulmani, rifuggitisi nelle fortezze e nelle
rupi, presero per capo un fuoruscito della schiatta de’ Beni-’Abs
e resistettero al tiranno cristiano; che assediati, circondati e
costretti ad arrendersi, furono tramutati a Lugêrah, popolosa terra
d’Italia; e che indi il tiranno andò a Malta, caccionne i Musulmani,
mandolli insieme con quegli altri, e impadronitosi di tutte le isole
adiacenti, cancellò il nome musulmano in Sicilia.[535] L’identità
del qual fatto è evidente, al par che l’anacronismo di mezzo secolo
nel principio della ribellione, e al par che l’errore su la causa di
quella; le quali mende, del resto, non debbono rimandare dubbio sul
nome del condottiero. La possente tribù arabica, di ’Abs, dalla quale
nacque Antar, il famoso poeta classico ed eroe da romanzo, sembra
stanziata, fin dai primi tempi del conquisto musulmano dell’Affrica,
nella penisola di Scerîk, detta oggi Dakhel, la quale termina col capo
Bon, di faccia al Lilibeo.[536] Verosimil’è che i Beni-’Abs siano
venuti in Sicilia coi conquistatori; oppure che, rimanendo la tribù
nel Dakhel, un uomo facinoroso di quella, forse un pirata, si fosse
gittato in Sicilia al rumor della guerra; poichè il predicato che gli
dà Ibn-Khaldûn torna qui a masnadiere, facinoroso, o ribelle.[537]
Federigo passò nell’isola, di maggio del ventuno; tenne un parlamento
a Messina;[538] fece il giro delle città principali fino allo scorcio
dell anno;[539] ed attese di certo a preparare gli animi e le cose
alla guerra, con provvedimenti di maggiore rilievo che non ne veggiamo
nelle cronache e ne’ diplomi.[540] Talchè, sperando facile vittoria
o dicendolo, egli andò a trovare (febbraio 1222) Onorio III a Veroli;
gli promesse di bandire quanto prima la Croce a Verona; e ritornato nel
regno, messosi a strignere il ribelle conte di Celano, fu necessitato
a lasciar quello e sopraccorrere in Sicilia contro Mirabetto, che
infestava fieramente il paese.[541] Io penso che il caso fosse di
maggiore momento che nol dicano i cronisti; poichè Federigo avea fin
dall’anno innanzi offesi gravemente i Genovesi, a’ quali non mancava nè
l’animo nè il modo di vendicarsi: e in fatti veggiamo avvolto in questa
ribellione un de’ più valorosi marinai di lor gente.
I luoghi, i tempi, le fazioni della guerra capitanata da Federigo, sono
pressochè ignoti: sappiamo soltanto che l’imperatore, dalla metà di
luglio fin oltre la metà di agosto, stette all’assedio di Giato;[542]
che quivi o in altro luogo ei prese Mirabetto e due suoi figliuoli,
con Guglielmo Porco da Genova, poc’anzi capitano d’armata in Sicilia,
ed Ugo Fer da Marsiglia, il quale avea, molti anni prima accalappiati
a migliaia de’ fanciulli francesi e tedeschi, col pretesto di recarli
alla Crociata, ma li avea venduti schiavi in Affrica e in Egitto, e
dopo lunghe vicende s’era gittato, insieme col genovese, in Sicilia.
Federigo fece impiccare in Palermo Mirabetto e compagni; ma con ciò non
pose fine alla guerra.[543]
A ripigliarla con maggiori forze, ripassava l’imperatore in Puglia,
spegneavi altre faville di ribellione feudale, muniva le città e le
castella e nella state del ventitrè,[544] veniva in Sicilia, per
incalzare da presso i ribelli Musulmani. Leggiamo senz’altro che
parte gli s’arresero; i quali ei fece trasportare a Lucera; parte,
fidandosi nella fortezza de’ luoghi, tennero fermo.[545] Argomentiamo
da due documenti che i primi fossero abitatori dell’odierna provincia
di Girgenti;[546] e sappiamo che si arresero all’entrar della state,
poichè Federigo, in una lettera scritta allora a Corrado vescovo di
Hildesheim, si rallegrava che ogni cosa accadesse secondo i suoi
voti, “chè perfino egli avea fatti scendere alla pianura tutti i
Saraceni afforzatisi pria ne’ gioghi de’ monti e in altri luoghi
inespugnabili.[547]” Le quali parole, riscontrate con quelle che
l’imperatore scriveva un anno appresso a papa Onorio, ci mostrano che
smessi i combattimenti e gli assedii, ei s’era appigliato al disegno,
lento sì ma sicuro, di stringere i Musulmani con la fame, guastando
le ricolte loro ne’ monti e intercettando ogni altra vittuaglia. Così
avea dunque costretti alla resa i deportati di Lucera; così sperava
trionfare degli altri: e, sendo necessaria a quella maniera di guerra
molta gente e ben disciplinata, l’imperatore, come si ritrae da
Riccardo di San Germano, lo stesso anno ventitrè e i due seguenti,
chiamò i baroni al servizio militare e levò danaro per assoldare
stanziali.[548] La guerra de’ Saraceni era cagione e talvolta anco
pretesto; come sembra nel caso de’ quattro conti di Terraferma, i
quali, venuti in Sicilia a prestare il servigio feudale (1223), furon
presi e confiscati loro i beni.[549] Similmente l’epistola di Federigo
ad Onorio, alla quale abbiamo testè accennato, ricorda un fatto vero:
e pur non sarebbe calunnia ad affermare che l’imperatore l’usò per
differire la crociata, alla quale Onorio lo sforzava con animo di
tagliargli i passi in Lombardia. Scrisse Federigo, dunque, al papa
da Catania, il cinque marzo del ventiquattro, che allestiansi ne’
porti del reame, da poter salpare nella prossima state, cento galee,
cinquanta uscieri pe’ cavalli, e navi e legni senza fine e ch’egli
stava già per partire alla volta di Germania a fin di chiamare alle
armi i Crociati, quand’ecco il capitan generale dell’esercito che
osteggiava i Saraceni, gli avea menati in Catania i Kaid e gli Anziani,
i quali a nome di tutti i Saraceni della montagna, venivano a trattare
di sottomissione. Federigo continuò che, convocato il consiglio
di Stato, era parso a tutti non doversi il principe allontanare
in quell’incontro, per timore che i ribelli si pentissero e che,
prolungata la negoziazione, arrivassero a segare i grani, e addio pace
per quell’anno! Conchiuse pertanto l’imperatore ch’ei rimarrebbe in
Sicilia tanto che ultimasse l’accordo; che manderebbe Hermann, gran
maestro de’ cavalieri teutonici, a bandir la Croce di là dei monti
e che nella state, a Dio piacendo, ogni cosa sarebbe in punto ed ei
scioglierebbe il voto della Crociata.[550] Il fatto andò allora per le
bocche di tutti in Germania, leggendosi con poco divario negli annali
di Colonia; i quali aggiungono essere stata profferta la sottomissione
da’ Saraceni del monte Platano;[551] ma non sappiamo se s’abbia a
intendere del forte castello di tal nome che sorgea sulla sponda del
Platani a sette miglia dalla foce, o se piuttosto si volea significare
tutta la regione montuosa, bagnata da quel fiume.[552] Il fatto fu
che nè Federigo partì allora per Terrasanta, nè i Musulmani furono
altrimenti sottomessi o rappacificati in Sicilia. La sola impresa del
dugentoventiquattro par sia stata di cacciarli di Malta, tutti o parte;
poichè, oltre il cenno d’Ibn-Khaldûn, ritraggiamo che Federigo mandava
in quell’isola gli abitatori di Celano di Puglia, espulsi di lor terra
quando l’avean presa le forze del re, e poi richiamati in patria,
per coglierli alla rete e tramutarli in Sicilia.[553] Il bando de’
Musulmani da Malta sembra tanto più verosimile, quanto in quel tempo le
genti di Federigo avean dato il guasto all’isola delle Gerbe e fattavi
gran copia di schiavi.[554] L’occupazione delle isolette adiacenti
alla Sicilia, attestata da autori arabi e da latini, è da riferire al
medesimo tempo.[555] Coteste imprese marittime, compiute in una o due
stagioni, sembrano le prime prove dell’ammiraglio, forse genovese,
sostituito ad Arrigo conte di Malta, il quale era stato deposto e
privato del feudo, per l’oscitanza appostagli nella guerra contro
i Musulmani d’Egitto, o, com’altri scrisse, di Sicilia;[556] se pur
Federigo non colse il destro di liberarsi dal fiero marinaio, la cui
prepotenza e ambizione egli avea temuta di certo nei primi anni del suo
regno ed or gli dava sospetto la vecchia amistà di lui co’ Genovesi, o
faceva ombra a’ Pisani parteggianti per l’impero.[557]
Secondo Riccardo da San Germano, Federigo nel dugentoventicinque
chiamava alle armi tutti i baroni regnicoli, per dar l’ultimo crollo
a’ Saraceni di Sicilia, e andava egli stesso in Puglia a ragunare
l’esercito;[558] secondo un monaco tedesco, assiduo raccoglitor di
nuove, ei riportò nobile trionfo de’ Saraceni che tenean le montagne di
Sicilia:[559] un anonimo poi, che par sia vissuto in Sicilia ed abbia
scritto poco oltre la metà del decimoterzo secolo, mette insieme que’
due fatti quasi con le stesse parole, nella decimaterza indizione,
da riferirsi, com’io credo, al dugentoventicinque, ed aggiugne che
le genti dell’imperatore davano il guasto ogni anno alle terre dei
Saraceni, ond’essi furono costretti con gran vergogna a scendere di
lor monti e Federigo li fe’ dimorare ne’ casali della pianura.[560]
Poi per diciott’anni nè gli scrittori, nè i documenti fanno parola
di popolazioni musulmane ribelli: danno bensì notizie di singoli
musulmani ubbidienti nell’isola e de’ grossi stuoli che la colonia di
Lucera forniva agli eserciti ghibellini tra il Garigliano e le Alpi.
Si può inferir da cotesti indizii che, l’anno venticinque, quel grande
armamento abbia portato l’effetto che l’imperatore si proponeva; cioè
che i ribelli abbiano piegato il collo senza combattere. Plausibile
anco il supposto che que’ della provincia di Girgenti fossero stati
mandati in Terraferma come i vinti di due anni innanzi;[561] e che
que’ delle altre due province fossero stati lasciati nel possedimento
di terre o nell’esercizio d’industrie, dati pria gli ostaggi secondo
i costumi di lor gente. Certo egli è che i Musulmani di Sicilia non
molestaron punto nè poco lo imperatore, infino al dugentoquarantadue,
mentr’ei si travagliò nelle guerre di Palestina, del Regno, di
Lombardia e della Sicilia orientale.
Nelle prime caldezze della esaltazione all’impero, Federigo fe’ voto
di prender la Croce;[562] lo rinnovò il giorno dell’incoronamento e
più volte giurò o promesse d’andare, sforzato da’ papi; i quali non
sognavano forse la ricuperazione del Santo Sepolcro, ma lor premea
che l’imperatore, in vece di signoreggiare l’Italia, ne toccasse in
Levante come Corrado, o vi morisse come il Barbarossa. Il cui nipote,
non potendo disfare il cappio ch’ei s’era messo al collo, domandò
respitto al papa che il tirava duro; ed allegò sovente la guerra de’
Saraceni di Sicilia.[563] Furbo contro furbi, ei passò tutto l’anno
ventiquattro e i primi mesi del seguente in Sicilia, fermo la più
parte in Catania,[564] come s’egli avesse voluto stare in bilico tra
la Crociata e la guerra de’ Musulmani indigeni, guardando da un lato
Otranto e Brindisi, ritrovo delle armate e degli eserciti crocesegnati,
e dall’altro la via di Girgenti, più sicura di lì che da Palermo e più
facile e breve che da Messina. Privo alfine della scusa de’ Saraceni,
incalzato dal violento Gregorio IX, s’imbarcò a Brindisi, nonostante
la morìa che mieteva i Crociati (8 settembre 1227); tornò a terra
infermo; fu scomunicato dal papa e assalito anche con la spada; e partì
di nuovo (28 giugno 1228) con poche forze, fidandosi nella divisione
de’ principi aiubiti che occupavano la Siria e nelle negoziazioni
intavolate col più possente tra loro. L’ira studiata di Gregorio lo
perseguitò mentr’egli liberava il Santo Sepolcro; i Cristiani di quelle
parti pretestarono le scomuniche per attraversargli l’esaltazione
al trono di Gerusalemme, recatogli in dote dalla nuova sua sposa:
contuttociò, savio ed ardito, ei condusse a termine il trattato, come
sarà detto nel capitolo seguente.
Ritornò Federigo in Italia dopo undici mesi, a cacciare i papalini
da’ suoi dominii e gastigare i sudditi che s’eran gittati dalla parte
loro. Sforzò il papa a giurar la pace e s’avvolse nelle guerre della
seconda Lega Lombarda, nelle persecuzioni de’ Paterini d’Italia e di
Germania: la maledizione del falso impero romano, trascinava quest’uom
sì civile a combattere ciecamente contro la libertà e ad accendere i
roghi dell’Inquisizione. Gli umori di libertà municipale, ridesti in
Sicilia tra le popolazioni greche e un po’ tra le lombarde, per gli
esempii guelfi di Terraferma, per le istigazioni dei frati e, come
io credo, anche de’ Genovesi, portarono i moti che Federigo represse
co’ supplizii a Messina,[565] Siracusa[566] e Nicosia; e ch’ei punì a
Centorbi, Capizzi, Traina e Montalbano con la distruzione delle case
e il bando dei cittadini, sforzati a dimorare in altre città.[567] Ma
cedendo un poco all’opinione pubblica, Federigo nello stesso tempo rese
ordinarie le tornate de’ parlamenti regionali e chiamovvi espressamente
i Comuni.[568]
Rinforzaronlo nelle guerre di Terraferma le colonie di Musulmani
siciliani, stanziate dapprima a Lucera, come si è detto; ma poi ne
veggiamo un’altra a Girofalco ed anco ritraggiamo che l’imperatore
adoperasse spicciolati gli uomini di quella gente, in Puglia e in
Calabria a’ servigi suoi:[569] de’ quali il più profittevol era di
tenere a mezzeria delle mandrie di buoi, tra domi e salvatici.[570] Pur
traeva i Musulmani sì forte l’amor del luogo natìo, che quando n’aveano
il destro, tentavano di ripassare clandestinamente in Sicilia:[571]
onde Federigo comandò nel trentanove fosser tutti raccolti a
Lucera.[572] E quivi rimase infino al milletrecentotrè, quella
celebre colonia militare; quivi si notano tuttavia gli avanzi delle
fortificazioni, con le quali i principi svevi assicurarono il soggiorno
de’ lor fidi pretoriani.[573] Che se negli scritti contemporanei il
nome geografico si legge spesse volte Nocera, l’è stato errore ed è
nato dall’uso, che suol sempre sostituire le parole comunali alle
insolite; onde si preferì il derivato d’un vocabolo familiare al
nome d’un’antica città, la quale era molto scaduta ne’ principii del
secolo decimoterzo. Si confermò l’errore per due circostanze fortuite,
cioè che Nocera s’addimandava De’ Pagani ed anco, per antitesi, De’
Cristiani e Lucera fu detta de’ Saraceni; e che entrambe erano da
lunghissimo tempo sedi vescovili. Del resto quelle due città giacciono
molto lungi l’una dall’altra, divise dall’Appennino: Lucera in
Capitanata, Nocera in Principato, o, per usare i nomi odierni, quella
in provincia di Foggia, questa di Salerno; nè alcun documento prova,
nè egli è verosimile, che Federigo abbia raccolta una seconda colonia
di Musulmani in Nocera, come alcuni compilatori hanno scritto e come si
dice anch’oggi in que’ paesi.[574]
Gli ordinamenti di cotesta colonia e la fama ch’essa ebbe in guerra
per tutto il rimanente della dominazione sveva e nei primordii
dell’angioina, son degno argomento d’una storia particolare; per la
quale anzi tutto occorre di esaminare di pagina in pagina i registri
angioini e le molte pergamene contemporanee che serbansi nell’archivio
di Napoli. Secondo il proposito annunziato parecchi anni addietro, io
mi rimarrò da cotesto lavoro, al quale allor mi mancava il comodo di
ricercare le sorgenti, ed ora mi par troppo tardi.[575] Contuttociò,
portato dal mio subietto a investigare l’origine di quella popolazione,
dico crederla al tutto siciliana. E se or non fosse sospetta da capo a
fondo la Cronaca di Matteo Spinelli, io metterei sempre in forse quel
luogo nel quale si afferma che del dugentrentaquattro Federigo facea
venire in Calabria diciassette compagnie di Saraceni di Barbarìa.
Sì grave fatto, taciuto dai contemporanei, e incompatibile con le
condizioni dei Musulmani dell’Affrica settentrionale in quella età,
sembra foggiato in un tempo in cui gli eruditi, ignorando la storia de’
Musulmani di Sicilia, non sapevano spiegare altrimenti quel gran numero
d’Infedeli che conduceva in sue guerre l’imperator Federigo.[576]
Mentre gli esuli di là dal Faro s’acconciavano nella nuova patria, i
rimasi in Sicilia erano in parte allontanati da lor sedi. Il volume che
ci avanza de’ registri di Federigo, scritto nell’indizione che corse
tra il trentanove e il quaranta, ci fa fede che de’ Musulmani erano
stati mandati a servire, non sappiam se da soldati o da manovali, ne’
castelli regii di Siracusa e di Lentini,[577] ch’è a dire all’altra
estremità dell’isola. Nello stesso anno gli abitatori di parecchi
casali, della provincia, credo io, di Palermo, non ribellatisi o
perdonati, veniano alla capitale, nel quartiere di Seralcadi, che
nel decimo secolo era stato detto degli Schiavoni, ed or s’addimanda
parte il Capo e parte la Bandiera. I quali non parendo ben deliberati
a farvi stanza come bramava lo imperatore, scrivea questi a’ suoi
ufficiali che efficacemente li esortassero a ciò e lor promettessero
favore e grazia, ed allo stesso fine mandava lettere regie indirizzate
a que’ Saraceni.[578] Un altro rescritto di Federigo, spacciato prima
o dopo di questo, ci fa sapere che il Segreto della provincia oltre il
Salso, avea con soddisfazione dello imperatore, persuasi i Saraceni
a migliorar loro abituri; provvede siano affittate le bajulazioni
di cotesti Saraceni; e mostra anco esser lieto l’imperatore che que’
“della provincia, usi ed occulti misfatti, già smettano, e già temano
d’essere malvagi.”[579] Non sappiam di che nazione fossero, nel
dugenquaranta, gli uomini de’ casali di Arcuraci e Andrani, a’ quali
si comandava di passare ne’ nuovi casali fondati a levante e a ponente
di Girgenti.[580] Abbiamo bensì valido argomento di credere che nel
dugentoquarantadue, il territorio di Cefalà in provincia di Palermo,
fosse stato ancora abitato, tutto o parte, da contadini musulmani. Un
Goffredo, chierico della Cappella Palatina di Palermo, non sapendo
precisamente i limiti di un podere appartenente allo Spedale di
San Lorenzo di Cefalà, ch’egli teneva in beneficio dalla Chiesa di
Girgenti, domandò al Segreto di Sicilia che fossero determinati da’
magistrati della vicina terra di Vicari, su la testimonianza de’ Buoni
uomini e degli Anziani. E il Segreto, per nome Uberto Fallamonaca,
fatti appurare que’ confini come gli era stato richiesto, ne spedì un
attestato in lingua arabica e latina, ed appose il suo suggello in pie’
della pergamena, aggiugnendo in lingua arabica la formola, “Scritto
d’ordine nostro.” Il qual documento non essendo estratto da antichi
defetarii compilati in quella lingua, ma bensì atto nuovo, e’ mi sembra
manifesto che la spedizione arabica fu fatta ad uso degli abitatori del
luogo.[581] Che poi de’ Musulmani vivessero ancora in Val di Mazara la
vita di pastori, lo provano i rescritti del novembre del trentanove
e del marzo del quaranta, per lo primo dei quali è provveduto alla
riscossione del fitto da’ Saraceni che prendano a mezzeria le greggi
del demanio[582] e nel secondo si fa menzione di settecento pecore
consegnate dal saraceno Gufulone (Khalfûn?), le quali insieme con altre
si davano _in gabella_, per conto della corte.[583]
Despota, mercatante e gran proprietario di terreni rivendicati o
confiscati, Federigo, col suo genio novatore e audace, spesso usò quel
violento rimedio di tramutare le popolazioni; il quale d’altronde nel
decimoterzo secolo riusciva meno difficoltoso e forse men crudele,
che non sarebbe nella società moderna, per cagion della proprietà
sicura e suddivisa e de’ comodi maggiori ai quali or son avvezzi
gli uomini. Ci è occorso testè di ricordare alcuna delle città che
l’imperatore distrusse e di quelle ch’ei fondò, portandovi di peso
la popolazione delle prime.[584] Io credo inoltre che la ribellione
musulmana abbia turbato l’equilibrio della popolazione in un altro
modo che nessun ricordo contemporaneo fin qui ci attesta; cioè che
fece emigrare in Affrica gli abitatori ricchi o industri delle città.
Poichè veggiamo appunto in quel tempo assottigliati due grossi nuclei
di borghesi musulmani: Trapani, dove all’entrar del dugenquaranta si
distribuivan terre a nuovi abitatori;[585] e Palermo dove nel dicembre
del trentanove furono concedute a novelli abitatori alcune terre presso
il palagio della Zisa, a fine di piantar vigne. Si scorge dallo stesso
diploma che delle casipole erano state abbandonate nel bel mezzo
della città; che mancavano gli agricoltori ad una vasta piantagione
di palme nel regio podere della Favara, e che non era più in Palermo
chi sapesse estrarre lo zucchero. Allora una colonia di Giudei del
Garbo, cioè di Spagna o dello Stato di Marocco, dissidenti da’ Giudei
di Palermo e sì grossi che volean fabbricare una sinagoga per sè soli,
domandarono certi casalini nel Cassaro; ma l’imperatore, per antivenir,
com’e’ pare, le querele de’ Cristiani, permesse di conceder loro uno
stabile in altro luogo della città e che rifabbricasser pure qualche
antica sinagoga, ma non volle ne innalzassero una di pianta. Questo
diploma infine ci fa sapere che i Giudei del Garbo, oltre il palmeto
della Favara dato loro a mezzerìa, avean ottenuta nello stesso podere
la concessione d’altre terre per seminare l’indago e l’henna, non
coltivati allora in Sicilia.[586]
Improvvisamente comparisce in una cronica questo cenno: che in luglio
della terza indizione, l’anno dugentoquarantatrè, tutti i Saraceni
di Sicilia ribellati salirono alle montagne e presero Giato ed
Entella,[587] castelli fortissimi per natura e lontani l’un dall’altro
una ventina di miglia, de’ quali ci è occorso far parola.[588] Si
argomenta dal fatto stesso che le popolazioni musulmane in questo
tempo non erano rimaste se non che in piccola parte del Val di Mazara.
Ancorchè i cronisti taccian la causa di questa sollevazione, noi
sappiamo che, quattro anni innanzi, i pastori saraceni che avean
prese in affitto le greggi della Corte, doveano al fisco da lungo
tempo, delle grandi somme di danaro. Federigo comandava al Segreto
che pigliasse l’aver loro e, non bastando, le persone e li facesse
lavorare in servigio della corte, badando sì ad aggravarli di fatiche
durissime, affinchè gli altri apprendessero che col re non si scherza,
e chi non può soddisfare l’affitto, nol chiegga.[589] Disperati
dunque, maltrattati, avvezzi com’essi erano a’ delitti, e risapendo
forse le prodezze che faceano i lor fratelli di Lucera sotto le
insegne imperiali, si rituffarono nella ribellione o guerra, come
dir si voglia, contro tutti i padroni di questo mondo: il qual moto,
principiato in un luogo, dovea comunicarsi con prodigiosa rapidità a
tutti gli altri, nel sospetto continuo, nell’odio crescente ogni dì,
nello stato permanente di violenza in cui viveano ormai Cristiani e
Musulmani. Gli iloti siciliani del decimoterzo secolo si riconosceano