Storia dei musulmani di Sicilia, vol. III, parte II - 09
diffidando di loro e stanchi altresì di tanti torti, non si levino in
armi, non prendano qua un castello su la marina, là una rôcca tra i
monti. Il che se avvenisse, come potrebbero i Siciliani difendersi con
una mano dalle scorrerie de’ Saraceni e con l’altra combattere dure
battaglie contro i Teutoni?... Oh piaccia al cielo che nobili e plebe,
Cristiani e Saraceni, accordinsi unanimi nella elezione d’un re; e con
tutte le forze, con estremi conati s’adoprino a stornare l’irruzione
de’ Barbari!” Con ciò, l’autore va rampognando i Pugliesi, i Messinesi,
la regina Costanza, tutti fuorchè i due veri colpevoli: Guglielmo e
l’arcivescovo. E tocca i pregi delle primarie città della Sicilia; e
assai più largamente descrive Palermo, ch’egli amava quasi cittadino
e premeagli di salvar quivi le bellezze della natura e l’opera della
civiltà.[437]
Cotesto appassionato discorso politico su i principali eventi che
seguirono in Sicilia e in Puglia dall’autunno dell’ottantanove alla
primavera del novanta, racchiude, a creder mio, un racconto sotto
specie di vaticinii, timori e speranze; perocchè l’epistola fu dettata
in primavera, se non all’entrar della state, e allor l’autore vivea
fuor di Sicilia e forse oltremonti.[438] Or non avvenne mai a profeti
di predire i fatti per filo e per segno; nè egli è verosimile che il
Falcando abbia, per cagion d’esempio, ignorata dopo tre o quattro mesi
la esaltazione di Tancredi, quando in tutta Europa, massime in Ponente,
gli appresti della Crociata rendeano frequenti le comunicazioni co’
porti meridionali, e la gente ansiosamente procacciava le nuove di que’
paesi. Più che un caso di avventurata sagacità, è qui da supporre un
artifizio oratorio. Se il Falcando avesse voluto ammonire l’arcivescovo
di Palermo a secondare ormai i voti dell’universale e salvar la sua
patria adottiva, ei non avrebbe potuto usare forma più discreta, nè
più arguta che quella; nè avrebbe potuto indirizzare meglio il sermone
che ad un famigliare dell’arcivescovo. Or ei l’intitola per l’appunto
a Pietro, tesoriere della Chiesa palermitana; onde si direbbe col
proverbio moderno che la soprascritta andava a costui; la lettera a
Gualtiero Offamilio.
Presagiti o narrati, i fatti pur avvennero così. Il giuramento prestato
a Costanza per comando di re Guglielmo, non valse a far accettare
di queto, dai baroni e da’ grandi, la dominazione tedesca. Seguirono
giorni d’anarchia, ne’ quali molti Cristiani di Palermo, sì com’era
avvenuto nella sedizione del millecensessanta,[439] dettero addosso
ai Musulmani. La città fu allagata di sangue. Gli scampati alla strage
rifuggironsi nelle montagne, dicono i cronisti:[440] e deve intendersi
del centro occidentale dell’isola, poichè dall’orientale aveanli
già cacciati i Lombardi[441] e d’altronde, i ricordi che abbiamo de’
Musulmani nella seconda metà del duodecimo secolo tornan tutti al val
di Mazara. A quelle montagne trassero, al dir di un altro cronista,
con le famiglie loro e con le greggi, i Pagani servi di re Guglielmo,
sperando sottrarsi al giogo di Tancredi e sommavano a centomila tra
uomini e donne:[442] il qual numero, dato così in arcata, mi par troppo
scarso. Erano i villani del demanio e quei, credo anco, de’ poderi
che Guglielmo avea testè donati al Monistero di Morreale appunto in
que’ luoghi. Capitanavano la sollevata popolazione musulmana cinque
suoi regoli, dice Riccardo da San Germano.[443] Dopo aver fatti danni
gravissimi a’ Cristiani, i ribelli si sottomessero, quando la pace
fermata con Riccardo Cuor di Leone in Messina, die’ forza e riputazione
a Tancredi.[444] Durò dunque la rivolta de’ Musulmani dallo scorcio
dell’ottantanove all’ottobre del novanta, o in quel torno. Sforzati
dalle persuasioni piuttosto che dalle armi e pure riluttanti per
rancore e sospetto, i capi ritornavano a lor case in Palermo; i villani
a lor glebe e davano statichi.[445] I guasti di tal guerra civile non
sono ricordati particolarmente nelle frettolose e scarse memorie del
tempo; ma si possono misurare dal caso di alcuni poderi di mano morta
in val di Mazara. Arrigo VI, appena salito sul trono, per diploma
dato di Palermo il trenta dicembre millecentonovantaquattro, in favor
del monastero di Santa Maria De Latina in Messina, tra le altre cose
permetteagli “di riedificare i suoi casali, distrutti nella guerra
che avea divampato alla morte di re Guglielmo.[446]” Il giardino che
Ibn-Giobair vide in quei luoghi pochi anni innanzi, cominciava dunque a
diventare foresta.
La fuga de’ Musulmani dalla capitale, la sollevazione de’ contadini,
i cinque regoli che vuol dir uomini di nobil sangue, non marabutti
fanatici surti nello scompiglio, mostrano la gravità di questo
movimento sociale, che finì di corto con la dispersione delle schiatte
musulmane dell’isola. Prevedeanla i savi loro, come dicemmo; pur non si
aspettavano sì vicino il martirio. Primi a tirar la spada i Cristiani;
accaniti al resistere e forse preparati i Musulmani: e sembra che que’
delle campagne fossero stati spinti a disperazione dalle avanie de’
nuovi lor signori tonsurati, più ingordi e più duri al certo che gli
ufiziali, mezzo musulmani, della corte. Provaronsi a ripigliare le
lance e gli archi de’ lor padri, ed una sembianza dell’aristocratico
reggimento della tribù; vissero di preda; si volsero forse ai lor
fratelli dell’Affrica propria, che non li poteano aiutare: ed a capo
di parecchi mesi, la vita nomade venne a noia a que’ cittadini e
agricoltori. Dileguata ogni speranza; vedendo rassodato re Tancredi e
pronte le armi sue e quelle de’ Crociati che fean sosta a Messina, i
Musulmani s’affidarono piuttosto nella protezione delle leggi normanne,
e ripigliarono il vivere consueto. Li mansuefece altresì, com’io penso,
la riputazione e l’arte del Cancelliere Matteo, ch’era stato sempre
amico de’ Musulmani e ch’or trionfava della fazione oltramontana. La
quale, per vero, non sarebbe calunniata da chi la facesse promotrice
immediata della sedizione; poichè, chiarito il popolo a favor di
Tancredi, giovava a lei sola il partito d’istigare i Cristiani di
Palermo contro i Musulmani; di gittar la fiaccola della guerra civile,
che ritenesse in Sicilia le forze del nuovo principe, mentre i Tedeschi
assalivano la Puglia: appunto il caso al quale allude il Falcando. Così
io mi raffiguro il principio e la fine della ribellione musulmana.
Agli altri eventi accennerò appena, sendo notissimi e rischiarati
ora dalla critica moderna.[447] Tancredi fu eletto per opera del
cancelliere Matteo, pur con assentimento della maggior parte de’
regnicoli e con gran plauso della corte di Roma. Educato un po’
nel regno e un po’ ne’ paesi bizantini, uom colto secondo i tempi,
ma pusillanime o almeno irresoluto, e disgraziatissimo capitano,
fe’ prova pure di saviezza politica, egli o il cancelliere Matteo.
S’acconciò a forza di danari con Riccardo d’Inghilterra, ospite
pericolosissimo;[448] racchetò in Sicilia i Musulmani; si difese in
Terraferma da’ nemici di dentro e di fuori; ma venuto a morte dopo
quattro anni (20 febbraio 1194), lasciò la corona a un bambino; la
reggenza a una donna che non va noverata tra le illustri. Era morto,
con ciò, il cancelliere; all’incontro, Arrigo VI, divenuto imperatore,
strigatosi da’ suoi avversarii in Germania, impinguatosi col riscatto
di Riccardo Cuor di Leone, armava mercenarii; conducea vassalli
tedeschi e italiani; si facea prestare con bugiarde promesse le armate
di Genova e di Pisa; assicuravasi il passo nell’Italia centrale, dando
in preda al popol di Roma il sangue, l’avere e perfin le mura de’
Tusculani, affidatisi in un presidio imperiale. La corte romana che
avea favorito Tancredi, or s’avvilì dinanzi ad Arrigo. Il quale in tre
mesi occupò il regno con lieve resistenza, e non fu men crudele per
questo.
Tra’ pochi fatti d’arme di quella guerra, seguì in Catania uno scontro
di maggior momento che non sembri a prima vista nelle memorie del
tempo. I Catanesi avean gridato il nome di Arrigo; onde la vedova
di Tancredi avea mandate a domar quella città le sue genti, tra le
quali si notavano delle schiere di Musulmani. Tanto narrano gli Annali
genovesi e aggiungono che il navilio della repubblica andò da Messina
in aiuto degli assediati e ruppe i Musulmani con molta strage.[449]
Un annalista tedesco, senza far menzione di Musulmani nè di Genovesi,
attribuisce la vittoria ad Arrigo di Kallindin; dice raccolti in
Catania tutti i baroni con esercito innumerevole; fattane grande
strage; entrati i vincitori insieme coi fuggiaschi in Catania; arsa la
città; arsa la chiesa di Sant’Agata, col popolo che avevavi cercato
asilo; preso anco il vescovo e tutti recati prigioni ad Arrigo.[450]
Donde si vede che ciascuno de’ due scrittori trascelse i fatti che
gli andavano più a genio: ma le due mezze narrazioni s’attagliano bene
una all’altra, e messe insieme, bastano a mostrare che le ultime forze
della dinastia normanna in Sicilia, piuttosto disordinate che poche, si
provarono contro il nemico fuor di tempo e di luogo; talchè la guerra
fu precocemente decisa allo scorcio d’ottobre del novantaquattro, sì
com’io credo. Tanto più sicuro allor mosse l’imperatore sopra Palermo.
Da’ versi di Pietro d’Eboli, brutto adulatore ma scrittor vivace,[451]
dalla ingenua parola di Ottone di San Biagio, si ritrae lo stupore onde
furon presi i capi dell’esercito imperiale allo scoprir quel mondo
nuovo, ch’era per essi la Sicilia del duodecimo secolo: la Sicilia
feracissima di preziosi metalli;[452] Palermo, città felice, dotata
di popolo trilingue, paradiso irrigato di miele.[453] Appressandosi
ostilmente alla capitale, avea già Arrigo ammirata la magnificenza
del suocero nella regia villa della Favara.[454] Il parco regio
che stendeasi fino alle mura della città, avea fornita cacciagione
all’esercito. Crebbe la maraviglia quando, fermato l’accordo, entrando
Arrigo solennemente in Palermo, (30 novembre 1194) uscirongli incontro
i cittadini a ceto a ceto, preceduti da bande di musica, vestiti a
festa e i ricchi montati su bei destrieri.[455] In città, l’esercito
trionfante trovò i palagi adorni di tappeti e ghirlande, le contrade
olezzanti di profumi orientali. Parve strano a’ fieri Germani che il
popolo, i soli Musulmani credo io, facessero omaggio all’imperatore
prostrandosi con la fronte al suolo.[456] Venuto alfine Arrigo alla
reggia, gli eunuchi presentavangli le chiavi dei tesori; e quale apriva
i forzieri pieni di moneta, gemme e robe preziose; qual mostrava i
libri delle entrate regie in Calabria, Puglia e Sicilia, e perfino in
Affrica.[457] Delle preziose spoglie, parte fu dispensata a’ nobili ed
a’ capitani e parte mandata al malauguroso castello di Trifels, insieme
co’ prigioni da mutilare o serrar nelle mude.[458] Sembrano avanzi di
quella gran rapina i più bei drappi delle insegne imperiali, serbate in
oggi a Vienna, dico il mantello di Ruggiero, la tunica e le gambiere
di Guglielmo II, ricamati tutti d’oro e di perle, a caratteri arabici
di varie forme, con figure e rabeschi; i guanti, i sandali rabescati
con la stessa maniera di disegni, e parecchi tessuti di seta o d’oro,
anch’essi di fattura siciliana del duodecimo secolo.[459]
Le memorie di questo soggiorno di Arrigo VI in Palermo, dànno a
veder la civiltà orientale, non solamente nelle suppellettili e
nelle usanze, ma perfino ne’ nomi di luogo. Leggiamo negli Annali di
Genova che i deputati di quel Comune, compiuta felicemente, come lor
parea, l’impresa, andarono a trovar l’imperatore in una palazzina del
giardino regio detto _Giloloardo_, chiedendo il guiderdone pattuito;
e ch’ei prima differì la risposta e alfine ricusò con ingiurie, e
con la minaccia di spiantare Genova e di ritorle anco i privilegii
commerciali goduti in Sicilia sotto i Normanni.[460] Dall’altra mano,
un documento contemporaneo dice del campo che messe lo esercito della
reggenza (luglio 1200), nel giardino regio di _Januardo_:[461] ed una
cronica siciliana del decimoquarto secolo riferisce la tradizione, vera
o falsa, che Arrigo avesse fatto arder gente nel piano di _Genoardo_,
fuor le mura del palagio di Palermo, presso il giardin della Cuba
dalla parte di Ainisindi.[462] I quali nomi riferendosi evidentemente
ad unico luogo, è da ritenere erronea una sola lettera della prima
lezione, e le altre due tornano ad una denominazione piuttosto
pronunziata in fretta che veramente alterata. Sarebbe a creder mio
«_Gennolard_» apocope di _Gennet-ol-Ardh_, che suona «il paradiso della
Terra» e si legge, col solo divario d’un sinonimo, nell’ultimo verso
della iscrizione arabica ond’è adorna la sala terrena della Zisa.[463]
I Musulmani e i Giudei dell’isola si sottomessero ad Arrigo e rimasero
ne’ luoghi e nelle condizioni di prima;[464] nè si fa menzione di essi
nelle atroci vendette dell’imperatore. Andato in Germania e ritornato
quindi in Sicilia (1196), Arrigo rassettò l’amministrazione, mandò
l’armata nelle isole adiacenti, per ridurle all’obbedienza e riscuotere
i tributi. Fors’anco ne levò nelle isole della costiera africana;[465]
al qual fatto par che alluda un verso di Pietro d’Eboli.[466]
Debbo far qui una digressione, perchè autorevoli critici tedeschi,
invaghiti d’Arrigo VI per la potenza ch’egli accrebbe all’impero e per
la monarchia universale ch’ei sognò, hanno impreso in questi ultimi
anni a scolparlo delle gravi accuse accumulate dalla storia sopra il
suo nome. E bene hanno essi cancellato qualche episodio che scrittori
moderni cavaron già da guaste tradizioni orali e li esagerarono per le
passioni dell’animo loro; bene han fatto a rassegnare le testimonianze
contemporanee e pesarne sottilmente il valore;[467] ma poi, quando la
critica dee levarsi a indovinare il passato e ricomporre il quadro
degli avvenimenti con tanti brani sparsi, sovente inorpellati da’
contemporanei stessi, allora, io dico, gli odierni partigiani di casa
sveva son caduti in falli molto simili a que’ ch’e’ rinfacciano a’
compilatori del decimosesto secolo e de’ seguenti. Un eruditissimo
scrittore vivente, non ostile all’Italia, ma disposto a far plauso,
ad ogni costo, al Cesare che la flagellò allo scorcio del duodecimo
secolo, volendo provare che Arrigo non fu poi quel perfido tiranno che
ognuno ha detto, pon mano alle recriminazioni, allega che i suoi nemici
erano cento volte più tristi di lui; che gli abitatori della Sicilia,
figli di astuti Normanni, di perfidi Greci e di feroci Musulmani,
erano genìa sanguinaria e traditora; che se l’imperatore non li avesse
trattati com’ei fece, i Tedeschi tutti che soggiornavano in Sicilia
il millecentonovantasette, avrebbero incontrata la sorte che toccò,
ottantacinque anni appresso, ai Francesi.[468]
Non essendo disposto, com’io credo, chi ha scritte queste parole a
condannare i Tedeschi, che cospirarono contro i Francesi ne’ principii
del secolo XIX, gli si potrebbe domandare qual assioma di giustizia
obbligava i Siciliani, nel XII e nel XIII secolo, a lasciarsi
calpestare da’ conquistatori stranieri, e se, in tesi generale, i
popoli datisi con certe condizioni, sieno tenuti in coscenza ad ubbidir
il vincitore, anche nel caso ch’egli infranga i patti o trapassi
ogni limite. Noterò inoltre che i popoli men civili non sono sempre
i più virtuosi; che non vanno presi per oro schietto nè i regni
Saturnii della favola, nè i costumi de’ Germani secondo Tacito; che
il reame di Sicilia, da’ tempi di Ruggiero a que’ di Guglielmo II, fu
invidiato da tutta Europa, per la sicurezza pubblica e l’osservanza
delle leggi; che quivi, pochi anni appresso la morte di Guglielmo, la
rapina, la violenza e la crudeltà furon chiamati costumi tedeschi;
e che quando si volesse compilare, sulle cronache e i diplomi, la
statistica penale dell’Europa nel Medio Evo, non si vedrebbe tra la
Germania e l’Italia quel gran divario ch’ei suppone. Il vero è che
la morale pubblica, per ogni parte di Europa, allor fu quale poteva
essere avanti la ristorazione del dritto romano, avanti la riforma di
Lutero, la caduta della feudalità, la filosofia del decimottavo secolo
e la rivoluzione francese. Sforzandomi a trattare questo argomento
senza preoccupazioni patriottiche, esporrò il concetto ch’io traggo
dalle diverse testimonianze contemporanee; dalla natura degli uomini
in tutti i tempi e in tutti i luoghi; dalle peculiari condizioni
di quelli che si disputarono il terreno e le ricchezze dell’Italia
meridionale allo scorcio del duodecimo secolo, e dalla indole stessa
d’Arrigo, la quale nessuno disconosce: indole ambiziosa, violenta,
astuta, avara, necessaria, mi si dirà forse, ad abbattere la potenza
de’ papi, ad unificare la Germania e ad assoggettarle il mondo; ma
capace d’infrangere i più ovvii principii della giustizia; di tradire,
per cagion d’esempio, i Tusculani e di fare una truffa da mariuolo ai
Genovesi ed ai Pisani.
I principali capi d’accusa da esaminare son due: l’ingiustizia delle
persecuzioni e la immanità delle pene; e nel primo è da distinguere
due serie di fatti; nel secondo è da risguardare a’ costumi del tempo.
Incominciando da ciò che avvenne in Palermo negli ultimi giorni del
novantaquattro e primi del novantacinque, i ricordi tedeschi, che
son molti e uniformi da due all’infuori,[469] o fan parola appena
della cattura e deportazione de’ grandi, senza aggiugnerne la causa,
o notano brevemente una congiura contro Arrigo, rivelata pochi dì
appresso il suo coronamento; alla quale si accenna, pressochè con le
loro stesse parole, in una lettera scritta da Arrigo all’arcivescovo
di Rouen, pochi giorni dopo il fatto.[470] Venendo alle testimonianze
particolareggiate, noi lasceremo addietro, come ogni giudice farebbe,
quella di Pietro d’Eboli, la quale val quanto le parole del suo monaco
rivelator della congiura, e prova soltanto la notizia officiale data in
corte a quei giorni.[471] Ci occorre quindi in una cronica italiana che
«Arrigo, ricapitate certe lettere fittizie e bugiarde contro la regina
Sibilla, il figliuolo Guglielmo ed altri personaggi, ai quali egli e i
grandi della corte avean data sicurtà, tutti li prese, e avviolli in
Germania ed alcuni anco accecò.[472] Un altro italiano aggiugne che
Arrigo ingannò, con falso giuramento, il re fanciullo e i conti del
reame, e che, messili in ceppi e preso tutto l’oro e l’argento che
potea, mandò ogni cosa in Germania.[473] Similmente è scritto nelle
Gesta d’Innocenzo III che l’imperatore, dopo avere stipulato a favor
della vedova e del fanciullo la concessione degli Stati di Lecce e
Taranto, “còlta una occasione,” imprigionò l’una e l’altro e parecchi
ottimati, de’ quali molti accecò; e tenne in carcere duro la Regina, i
figli e l’arcivescovo di Salerno.[474] Ma cotesti scrittori son guelfi.
I fautori della parte contraria, tanto più autorevoli, confermano
il medesimo sospetto; se non che essi non fanno distinzione tra
la prima persecuzione e la seconda. Così Riccardo da San Germano,
ufiziale di casa sveva, una ventina d’anni appresso, scrivea che
convocato il parlamento in Palermo, Arrigo fece condannare il re, la
regina e parecchi vescovi e conti «apponendo loro alto tradimento;»
de’ quali, altri accecò, altri bruciò, altri impiccò, altri mandò in
Germania.[475] Nè men grave l’attestato di Ottone di San Biagio, monaco
tedesco, quel desso che loda tanto Arrigo «per l’arte e il valore con
che avea ristorata l’antica potenza dell’impero.» Ottone ristrinse il
conquisto del regno in due capitoli; nel primo dei quali egli accennò
ai casi di Terraferma e della Sicilia orientale; e nel secondo narrò
con molti particolari la occupazione di Palermo e terminolla dicendo
della famiglia di Tancredi, menata in prigionìa di là dai monti. Ma
nel primo di que’ capitoli si legge, che gli ottimati siciliani presi
da Arrigo di Kallindin, nel combattimento di Catania (1194) e condotti
all’imperatore, «per disperazione si proposero di ucciderlo; che a
fin di conseguire lo scopo, gli prestarono ubbidienza;[476] ch’ei,
volendoli vincere d’astuzia, li ammesse a corte; e che poi, chiamati
alla sua presenza, quando men se l’aspettavano, andarono senza sospetto
e furon còlti tutti a una rete. Brutta cosa gli è a vendicare la
perfidia, con la perfidia.» sciama qui lo scrittore, e seguita narrando
«la studiata crudeltà dei supplizii.»[477] Dond’egli è chiaro che
Ottone volle seguir la connessione de fatti più tosto che l’ordine
rigoroso de’ tempi, o il fece senza volere: poichè gli uomini d’arme, e
i cortigiani d’Arrigo, i quali dopo la sua morte, cacciati da Costanza,
ritornavano dispettosamente in Germania, doveano raccontar tutti, in un
fascio, i casi avvenuti in Sicilia dal novantaquattro al novantasette
e doveansi allargare sui più recenti, come quelli ne’ quali il signor
loro era stato provocato alla vendetta e i loro nemici erano stati
calpestati e straziati.[478] In ogni modo e’ non è da maravigliare che
i cronisti abbian gittato il peso delle congiure e delle vendette tutto
in un posto, chi sul principio del regno d’Arrigo e chi su la fine;
poichè niun contemporaneo potea vantarsi di veder chiaro ne’ labirinti
della reggia di Palermo o nelle mude del castello di Trifels.
Noi diciamo dunque che i critici odierni a ragione distinguono
le due proscrizioni; e lor concediamo volentieri che Arrigo abbia
sparso men sangue nella prima, e che, in quel tempo, i grandi laici
ed ecclesiastici della Sicilia, sottomettendosi alla forza, abbiano
serbata la speranza, o il proponimento di liberarsi, e fors’anco
n’abbiano parlato tra loro. Ma una grande cospirazione, contro
l’esercito vincitore, non si può supporre incominciata e compiuta in
quattro settimane. Arrigo riseppe i pensieri, acconciò i rapporti
delle spie in disegno di congiura bella e fatta, e avvolsevi tutti
i grandi che gli davan ombra o gli faceano impaccio, incominciando
dalla sventurata famiglia di Tancredi, la quale ei volea frodare del
compenso pattuito. Adunò il parlamento, cioè gli ottimati partigiani
suoi; poichè gli avversari eran lì ammanettati, condotti a funate, come
li veggiamo nelle figure del codice di Pietro d’Eboli. Il parlamento
condannolli per lesa maestà; chi potea dir contro? E Arrigo perdonò
loro la vita, poich’era più sicuro partito farli maturare ne’ ferri di
Trifels, che immolarli pubblicamente sì presto. Tale mi sembra il vero
aspetto della persecuzione, con la quale Arrigo inaugurò in Sicilia il
suo regno e l’anno millecentonovantacinque.
Ma, come avviene ne’ profondi movimenti de’ popoli, tolta di mezzo
con le prigioni e co’ patiboli una prima fila, due o tre nuove si
rannodavano: partigiani malcontenti, uomini dabbene spaventati che
ripiglian animo, sangui tiepidi che si riscaldano per interessi offesi,
per novelle speranze, per l’orgoglio nazionale calpestato, per la
pietà stessa dei proscritti. I feudi conceduti a’ Tedeschi erano di
certo tanti stecchi negli occhi a tutti i regnicoli. Quando Arrigo
poi, racchetati i suoi nemici di Germania, con la riputazione e coi
guadagni delle vittorie meridionali, chiamò la nazione a nuove imprese
in Costantinopoli e in Palestina, e ritornò in riva al Mediterraneo con
l’esercito, ei s’accorse che il suolo gli tremava sotto i piè. Già in
Puglia la gente, conversando coi Crociati alemanni, dicea loro a viso
aperto ritornassero a casa, per l’amor del cielo, e non servissero, per
troppa bonarietà, di sgherri a un tiranno.[479] Costanza stessa, donna
d’alto animo e innocente causa di tanta ruina, mal soffrì lo strazio
de’ compatriotti, la ingorda rapina dei tesori aviti, l’avvilimento del
paese e il suo proprio. Arrigo, assai più giovane di lei, l’avea quasi
abbandonata; l’avea lasciata in Palermo a comandar di nome, mentre i
grandi ufiziali dell’impero comandavan di fatto. Fors’ella rimostrò
contro alcun provvedimento, o biasimò la condotta dell’imperatore e
de’ ministri; nè ci volle altro perchè i Sejani d’Arrigo allor la
dicessero partecipe delle trame e poi ne spacciassero tante altre
favole suggerite dall’odio grandissimo che le portavano.[480] In
tale condizione di cose fu scoperta una congiura; il che si ritrae
con certezza storica, ma ignoriamo i particolari, e quel po’ che ne
sappiamo fa supporre tentata più tosto la ribellione che il regicidio.
Nè la natura poi di quella trama, nè la ferocia stessa de’ tempi,
basta a scolpare Arrigo de’ supplizii che allora parvero sì atroci in
Germania, in Francia e in Inghilterra, sì come in Italia. I critici
tedeschi de’ nostri giorni cancellano que’ supplizii con un filosofico
frego di penna, per la sola ragione che lor sembrano troppo insoliti e
crudeli; ma n’abbiam noi tante e tali testimonianze che non s’arriverà
mai a smentirle. In Italia la voce pubblica ripetea, come si ritrae
dalle epistole d’Innocenzo III, de’ casi d’uomini e donne, laici e
sacerdoti, mutilati, annegati, arsi, o bolliti nello strutto;[481] e
tre annalisti tedeschi ed un bizantino s’accordano per lo appunto nel
dir che Arrigo fece inchiodare una corona in capo a Giordano, uomo di
schiatta normanna, com’e’ parmi dal nome, designato da’ congiurati al
trono e alla man di Costanza.[482] Io non veggo perchè la invenzione
di sì barbari supplizii s’abbia da riferire ai cronisti italiani,
francesi, inglesi, bizantini e tedeschi più tosto che ai carnefici
d’Arrigo!
Da coteste orribilità all’infuori, è molto oscuro l’ultimo periodo
della vita dell’imperatore in Sicilia. Venuto a minacciare la moglie e
punire i congiurati, trovò tra costoro chi volle vender cara la vita. I
fratelli d’Aquino s’eran difesi in Roccasecca di Puglia; un Guglielmo
Monaco, feudatario o castellano di Castrogiovanni, si ribellò, e
afforzossi in quel sito inespugnabile. Andò l’imperatore in persona
all’assedio,[483] il quale par si prolungasse: ed egli intanto, per
fazione di guerra, o caso di caccia o di viaggio, fu còlto di freddo
su quelle alture, una notte d’agosto, e ritornò in Messina infermo di
dissenteria. Parve poi migliorasse, tanto che fece partire i Crociati
tedeschi adoprati nel pericolo della ribellione, ed ei medesimo si
messe in via alla volta di Palermo; ma una ricrudescenza della malattia
lo tolse di vita, il ventotto settembre del novantasette.[484] Fu
sepolto in Palermo, nell’arca sontuosa dove giacciono ancora le sue
ossa, dalla quale si legge ch’egli avea fatto gittar fuori i cadaveri
di Tancredi e del suo figliuolo.[485]
CAPITOLO VII.
Padrona ormai del suo regno, Costanza messe da canto il testamento
del marito che chiamava alla reggenza il gran siniscalco imperiale
Marcualdo de Anweiler; accomiatò i condottieri tedeschi; fe’ venire
in Palermo Federigo, bambino di quattro anni; domandò per lui
l’investitura papale; e, senza aspettar quella, fecelo incoronare re di
Sicilia (17 maggio 1198).[486] Dell’affrettarsi ella avea ben donde.
Sendo morto Celestino poco appresso l’imperatore, e rifatto pontefice
Innocenzo III (8 gennaio 1198), apparve fin dai primi istanti quel
genio dominatore, del quale noi riconosciamo la possanza, ma dobbiamo
condannare talvolta gli intenti e le vie; mentre gli scrittori papalini
ed anco alcuni acattolici levanlo al cielo, invaghiti del dispotismo
religioso e politico ch’egli esercitò a tutta possa. Innocenzo gridò:
fuori i Tedeschi; ma volle stender la mano su i territorii occupati
da loro nell’Italia di mezzo; ei fece plauso alla regina di Sicilia
iniziatrice di quella riscossa nazionale, ma volle dar corpo all’ombra
dell’alta sovranità pontificia su la Puglia e cancellare le regalìe
ecclesiastiche in Sicilia.[487] Morì Costanza (27 novembre 1498) mentre
si schermiva come potea contro quel molesto amico; e per manco male,
chiamò lui stesso tutore di Federigo e del reame, affidando, con tutto
ciò, il governo a quattro ministri: che fu buona cautela e salvò la
corona, ma sprofondò il paese per dieci anni nella guerra civile.
Dei ministri reggenti, l’arcivescovo di Capua venne presto a
morte;[488] il gran cancelliere Gualtiero de Palearia, vescovo di
Troja, diffidava forte del papa; al contrario, Caro arcivescovo di
Morreale parteggiava per lui; e Bartolomeo Offamilio arcivescovo di
Palermo, fratello di quel Gualtiero che fu sì malaugurato consigliere
di Guglielmo II, pendeva a parte tedesca. La quale rinacque per timor
dell’ambizione romana, che i regnicoli non poteano dimenticare e non
sapeano rintuzzare da sè soli. I condottieri d’Arrigo creati feudatarii
armi, non prendano qua un castello su la marina, là una rôcca tra i
monti. Il che se avvenisse, come potrebbero i Siciliani difendersi con
una mano dalle scorrerie de’ Saraceni e con l’altra combattere dure
battaglie contro i Teutoni?... Oh piaccia al cielo che nobili e plebe,
Cristiani e Saraceni, accordinsi unanimi nella elezione d’un re; e con
tutte le forze, con estremi conati s’adoprino a stornare l’irruzione
de’ Barbari!” Con ciò, l’autore va rampognando i Pugliesi, i Messinesi,
la regina Costanza, tutti fuorchè i due veri colpevoli: Guglielmo e
l’arcivescovo. E tocca i pregi delle primarie città della Sicilia; e
assai più largamente descrive Palermo, ch’egli amava quasi cittadino
e premeagli di salvar quivi le bellezze della natura e l’opera della
civiltà.[437]
Cotesto appassionato discorso politico su i principali eventi che
seguirono in Sicilia e in Puglia dall’autunno dell’ottantanove alla
primavera del novanta, racchiude, a creder mio, un racconto sotto
specie di vaticinii, timori e speranze; perocchè l’epistola fu dettata
in primavera, se non all’entrar della state, e allor l’autore vivea
fuor di Sicilia e forse oltremonti.[438] Or non avvenne mai a profeti
di predire i fatti per filo e per segno; nè egli è verosimile che il
Falcando abbia, per cagion d’esempio, ignorata dopo tre o quattro mesi
la esaltazione di Tancredi, quando in tutta Europa, massime in Ponente,
gli appresti della Crociata rendeano frequenti le comunicazioni co’
porti meridionali, e la gente ansiosamente procacciava le nuove di que’
paesi. Più che un caso di avventurata sagacità, è qui da supporre un
artifizio oratorio. Se il Falcando avesse voluto ammonire l’arcivescovo
di Palermo a secondare ormai i voti dell’universale e salvar la sua
patria adottiva, ei non avrebbe potuto usare forma più discreta, nè
più arguta che quella; nè avrebbe potuto indirizzare meglio il sermone
che ad un famigliare dell’arcivescovo. Or ei l’intitola per l’appunto
a Pietro, tesoriere della Chiesa palermitana; onde si direbbe col
proverbio moderno che la soprascritta andava a costui; la lettera a
Gualtiero Offamilio.
Presagiti o narrati, i fatti pur avvennero così. Il giuramento prestato
a Costanza per comando di re Guglielmo, non valse a far accettare
di queto, dai baroni e da’ grandi, la dominazione tedesca. Seguirono
giorni d’anarchia, ne’ quali molti Cristiani di Palermo, sì com’era
avvenuto nella sedizione del millecensessanta,[439] dettero addosso
ai Musulmani. La città fu allagata di sangue. Gli scampati alla strage
rifuggironsi nelle montagne, dicono i cronisti:[440] e deve intendersi
del centro occidentale dell’isola, poichè dall’orientale aveanli
già cacciati i Lombardi[441] e d’altronde, i ricordi che abbiamo de’
Musulmani nella seconda metà del duodecimo secolo tornan tutti al val
di Mazara. A quelle montagne trassero, al dir di un altro cronista,
con le famiglie loro e con le greggi, i Pagani servi di re Guglielmo,
sperando sottrarsi al giogo di Tancredi e sommavano a centomila tra
uomini e donne:[442] il qual numero, dato così in arcata, mi par troppo
scarso. Erano i villani del demanio e quei, credo anco, de’ poderi
che Guglielmo avea testè donati al Monistero di Morreale appunto in
que’ luoghi. Capitanavano la sollevata popolazione musulmana cinque
suoi regoli, dice Riccardo da San Germano.[443] Dopo aver fatti danni
gravissimi a’ Cristiani, i ribelli si sottomessero, quando la pace
fermata con Riccardo Cuor di Leone in Messina, die’ forza e riputazione
a Tancredi.[444] Durò dunque la rivolta de’ Musulmani dallo scorcio
dell’ottantanove all’ottobre del novanta, o in quel torno. Sforzati
dalle persuasioni piuttosto che dalle armi e pure riluttanti per
rancore e sospetto, i capi ritornavano a lor case in Palermo; i villani
a lor glebe e davano statichi.[445] I guasti di tal guerra civile non
sono ricordati particolarmente nelle frettolose e scarse memorie del
tempo; ma si possono misurare dal caso di alcuni poderi di mano morta
in val di Mazara. Arrigo VI, appena salito sul trono, per diploma
dato di Palermo il trenta dicembre millecentonovantaquattro, in favor
del monastero di Santa Maria De Latina in Messina, tra le altre cose
permetteagli “di riedificare i suoi casali, distrutti nella guerra
che avea divampato alla morte di re Guglielmo.[446]” Il giardino che
Ibn-Giobair vide in quei luoghi pochi anni innanzi, cominciava dunque a
diventare foresta.
La fuga de’ Musulmani dalla capitale, la sollevazione de’ contadini,
i cinque regoli che vuol dir uomini di nobil sangue, non marabutti
fanatici surti nello scompiglio, mostrano la gravità di questo
movimento sociale, che finì di corto con la dispersione delle schiatte
musulmane dell’isola. Prevedeanla i savi loro, come dicemmo; pur non si
aspettavano sì vicino il martirio. Primi a tirar la spada i Cristiani;
accaniti al resistere e forse preparati i Musulmani: e sembra che que’
delle campagne fossero stati spinti a disperazione dalle avanie de’
nuovi lor signori tonsurati, più ingordi e più duri al certo che gli
ufiziali, mezzo musulmani, della corte. Provaronsi a ripigliare le
lance e gli archi de’ lor padri, ed una sembianza dell’aristocratico
reggimento della tribù; vissero di preda; si volsero forse ai lor
fratelli dell’Affrica propria, che non li poteano aiutare: ed a capo
di parecchi mesi, la vita nomade venne a noia a que’ cittadini e
agricoltori. Dileguata ogni speranza; vedendo rassodato re Tancredi e
pronte le armi sue e quelle de’ Crociati che fean sosta a Messina, i
Musulmani s’affidarono piuttosto nella protezione delle leggi normanne,
e ripigliarono il vivere consueto. Li mansuefece altresì, com’io penso,
la riputazione e l’arte del Cancelliere Matteo, ch’era stato sempre
amico de’ Musulmani e ch’or trionfava della fazione oltramontana. La
quale, per vero, non sarebbe calunniata da chi la facesse promotrice
immediata della sedizione; poichè, chiarito il popolo a favor di
Tancredi, giovava a lei sola il partito d’istigare i Cristiani di
Palermo contro i Musulmani; di gittar la fiaccola della guerra civile,
che ritenesse in Sicilia le forze del nuovo principe, mentre i Tedeschi
assalivano la Puglia: appunto il caso al quale allude il Falcando. Così
io mi raffiguro il principio e la fine della ribellione musulmana.
Agli altri eventi accennerò appena, sendo notissimi e rischiarati
ora dalla critica moderna.[447] Tancredi fu eletto per opera del
cancelliere Matteo, pur con assentimento della maggior parte de’
regnicoli e con gran plauso della corte di Roma. Educato un po’
nel regno e un po’ ne’ paesi bizantini, uom colto secondo i tempi,
ma pusillanime o almeno irresoluto, e disgraziatissimo capitano,
fe’ prova pure di saviezza politica, egli o il cancelliere Matteo.
S’acconciò a forza di danari con Riccardo d’Inghilterra, ospite
pericolosissimo;[448] racchetò in Sicilia i Musulmani; si difese in
Terraferma da’ nemici di dentro e di fuori; ma venuto a morte dopo
quattro anni (20 febbraio 1194), lasciò la corona a un bambino; la
reggenza a una donna che non va noverata tra le illustri. Era morto,
con ciò, il cancelliere; all’incontro, Arrigo VI, divenuto imperatore,
strigatosi da’ suoi avversarii in Germania, impinguatosi col riscatto
di Riccardo Cuor di Leone, armava mercenarii; conducea vassalli
tedeschi e italiani; si facea prestare con bugiarde promesse le armate
di Genova e di Pisa; assicuravasi il passo nell’Italia centrale, dando
in preda al popol di Roma il sangue, l’avere e perfin le mura de’
Tusculani, affidatisi in un presidio imperiale. La corte romana che
avea favorito Tancredi, or s’avvilì dinanzi ad Arrigo. Il quale in tre
mesi occupò il regno con lieve resistenza, e non fu men crudele per
questo.
Tra’ pochi fatti d’arme di quella guerra, seguì in Catania uno scontro
di maggior momento che non sembri a prima vista nelle memorie del
tempo. I Catanesi avean gridato il nome di Arrigo; onde la vedova
di Tancredi avea mandate a domar quella città le sue genti, tra le
quali si notavano delle schiere di Musulmani. Tanto narrano gli Annali
genovesi e aggiungono che il navilio della repubblica andò da Messina
in aiuto degli assediati e ruppe i Musulmani con molta strage.[449]
Un annalista tedesco, senza far menzione di Musulmani nè di Genovesi,
attribuisce la vittoria ad Arrigo di Kallindin; dice raccolti in
Catania tutti i baroni con esercito innumerevole; fattane grande
strage; entrati i vincitori insieme coi fuggiaschi in Catania; arsa la
città; arsa la chiesa di Sant’Agata, col popolo che avevavi cercato
asilo; preso anco il vescovo e tutti recati prigioni ad Arrigo.[450]
Donde si vede che ciascuno de’ due scrittori trascelse i fatti che
gli andavano più a genio: ma le due mezze narrazioni s’attagliano bene
una all’altra, e messe insieme, bastano a mostrare che le ultime forze
della dinastia normanna in Sicilia, piuttosto disordinate che poche, si
provarono contro il nemico fuor di tempo e di luogo; talchè la guerra
fu precocemente decisa allo scorcio d’ottobre del novantaquattro, sì
com’io credo. Tanto più sicuro allor mosse l’imperatore sopra Palermo.
Da’ versi di Pietro d’Eboli, brutto adulatore ma scrittor vivace,[451]
dalla ingenua parola di Ottone di San Biagio, si ritrae lo stupore onde
furon presi i capi dell’esercito imperiale allo scoprir quel mondo
nuovo, ch’era per essi la Sicilia del duodecimo secolo: la Sicilia
feracissima di preziosi metalli;[452] Palermo, città felice, dotata
di popolo trilingue, paradiso irrigato di miele.[453] Appressandosi
ostilmente alla capitale, avea già Arrigo ammirata la magnificenza
del suocero nella regia villa della Favara.[454] Il parco regio
che stendeasi fino alle mura della città, avea fornita cacciagione
all’esercito. Crebbe la maraviglia quando, fermato l’accordo, entrando
Arrigo solennemente in Palermo, (30 novembre 1194) uscirongli incontro
i cittadini a ceto a ceto, preceduti da bande di musica, vestiti a
festa e i ricchi montati su bei destrieri.[455] In città, l’esercito
trionfante trovò i palagi adorni di tappeti e ghirlande, le contrade
olezzanti di profumi orientali. Parve strano a’ fieri Germani che il
popolo, i soli Musulmani credo io, facessero omaggio all’imperatore
prostrandosi con la fronte al suolo.[456] Venuto alfine Arrigo alla
reggia, gli eunuchi presentavangli le chiavi dei tesori; e quale apriva
i forzieri pieni di moneta, gemme e robe preziose; qual mostrava i
libri delle entrate regie in Calabria, Puglia e Sicilia, e perfino in
Affrica.[457] Delle preziose spoglie, parte fu dispensata a’ nobili ed
a’ capitani e parte mandata al malauguroso castello di Trifels, insieme
co’ prigioni da mutilare o serrar nelle mude.[458] Sembrano avanzi di
quella gran rapina i più bei drappi delle insegne imperiali, serbate in
oggi a Vienna, dico il mantello di Ruggiero, la tunica e le gambiere
di Guglielmo II, ricamati tutti d’oro e di perle, a caratteri arabici
di varie forme, con figure e rabeschi; i guanti, i sandali rabescati
con la stessa maniera di disegni, e parecchi tessuti di seta o d’oro,
anch’essi di fattura siciliana del duodecimo secolo.[459]
Le memorie di questo soggiorno di Arrigo VI in Palermo, dànno a
veder la civiltà orientale, non solamente nelle suppellettili e
nelle usanze, ma perfino ne’ nomi di luogo. Leggiamo negli Annali di
Genova che i deputati di quel Comune, compiuta felicemente, come lor
parea, l’impresa, andarono a trovar l’imperatore in una palazzina del
giardino regio detto _Giloloardo_, chiedendo il guiderdone pattuito;
e ch’ei prima differì la risposta e alfine ricusò con ingiurie, e
con la minaccia di spiantare Genova e di ritorle anco i privilegii
commerciali goduti in Sicilia sotto i Normanni.[460] Dall’altra mano,
un documento contemporaneo dice del campo che messe lo esercito della
reggenza (luglio 1200), nel giardino regio di _Januardo_:[461] ed una
cronica siciliana del decimoquarto secolo riferisce la tradizione, vera
o falsa, che Arrigo avesse fatto arder gente nel piano di _Genoardo_,
fuor le mura del palagio di Palermo, presso il giardin della Cuba
dalla parte di Ainisindi.[462] I quali nomi riferendosi evidentemente
ad unico luogo, è da ritenere erronea una sola lettera della prima
lezione, e le altre due tornano ad una denominazione piuttosto
pronunziata in fretta che veramente alterata. Sarebbe a creder mio
«_Gennolard_» apocope di _Gennet-ol-Ardh_, che suona «il paradiso della
Terra» e si legge, col solo divario d’un sinonimo, nell’ultimo verso
della iscrizione arabica ond’è adorna la sala terrena della Zisa.[463]
I Musulmani e i Giudei dell’isola si sottomessero ad Arrigo e rimasero
ne’ luoghi e nelle condizioni di prima;[464] nè si fa menzione di essi
nelle atroci vendette dell’imperatore. Andato in Germania e ritornato
quindi in Sicilia (1196), Arrigo rassettò l’amministrazione, mandò
l’armata nelle isole adiacenti, per ridurle all’obbedienza e riscuotere
i tributi. Fors’anco ne levò nelle isole della costiera africana;[465]
al qual fatto par che alluda un verso di Pietro d’Eboli.[466]
Debbo far qui una digressione, perchè autorevoli critici tedeschi,
invaghiti d’Arrigo VI per la potenza ch’egli accrebbe all’impero e per
la monarchia universale ch’ei sognò, hanno impreso in questi ultimi
anni a scolparlo delle gravi accuse accumulate dalla storia sopra il
suo nome. E bene hanno essi cancellato qualche episodio che scrittori
moderni cavaron già da guaste tradizioni orali e li esagerarono per le
passioni dell’animo loro; bene han fatto a rassegnare le testimonianze
contemporanee e pesarne sottilmente il valore;[467] ma poi, quando la
critica dee levarsi a indovinare il passato e ricomporre il quadro
degli avvenimenti con tanti brani sparsi, sovente inorpellati da’
contemporanei stessi, allora, io dico, gli odierni partigiani di casa
sveva son caduti in falli molto simili a que’ ch’e’ rinfacciano a’
compilatori del decimosesto secolo e de’ seguenti. Un eruditissimo
scrittore vivente, non ostile all’Italia, ma disposto a far plauso,
ad ogni costo, al Cesare che la flagellò allo scorcio del duodecimo
secolo, volendo provare che Arrigo non fu poi quel perfido tiranno che
ognuno ha detto, pon mano alle recriminazioni, allega che i suoi nemici
erano cento volte più tristi di lui; che gli abitatori della Sicilia,
figli di astuti Normanni, di perfidi Greci e di feroci Musulmani,
erano genìa sanguinaria e traditora; che se l’imperatore non li avesse
trattati com’ei fece, i Tedeschi tutti che soggiornavano in Sicilia
il millecentonovantasette, avrebbero incontrata la sorte che toccò,
ottantacinque anni appresso, ai Francesi.[468]
Non essendo disposto, com’io credo, chi ha scritte queste parole a
condannare i Tedeschi, che cospirarono contro i Francesi ne’ principii
del secolo XIX, gli si potrebbe domandare qual assioma di giustizia
obbligava i Siciliani, nel XII e nel XIII secolo, a lasciarsi
calpestare da’ conquistatori stranieri, e se, in tesi generale, i
popoli datisi con certe condizioni, sieno tenuti in coscenza ad ubbidir
il vincitore, anche nel caso ch’egli infranga i patti o trapassi
ogni limite. Noterò inoltre che i popoli men civili non sono sempre
i più virtuosi; che non vanno presi per oro schietto nè i regni
Saturnii della favola, nè i costumi de’ Germani secondo Tacito; che
il reame di Sicilia, da’ tempi di Ruggiero a que’ di Guglielmo II, fu
invidiato da tutta Europa, per la sicurezza pubblica e l’osservanza
delle leggi; che quivi, pochi anni appresso la morte di Guglielmo, la
rapina, la violenza e la crudeltà furon chiamati costumi tedeschi;
e che quando si volesse compilare, sulle cronache e i diplomi, la
statistica penale dell’Europa nel Medio Evo, non si vedrebbe tra la
Germania e l’Italia quel gran divario ch’ei suppone. Il vero è che
la morale pubblica, per ogni parte di Europa, allor fu quale poteva
essere avanti la ristorazione del dritto romano, avanti la riforma di
Lutero, la caduta della feudalità, la filosofia del decimottavo secolo
e la rivoluzione francese. Sforzandomi a trattare questo argomento
senza preoccupazioni patriottiche, esporrò il concetto ch’io traggo
dalle diverse testimonianze contemporanee; dalla natura degli uomini
in tutti i tempi e in tutti i luoghi; dalle peculiari condizioni
di quelli che si disputarono il terreno e le ricchezze dell’Italia
meridionale allo scorcio del duodecimo secolo, e dalla indole stessa
d’Arrigo, la quale nessuno disconosce: indole ambiziosa, violenta,
astuta, avara, necessaria, mi si dirà forse, ad abbattere la potenza
de’ papi, ad unificare la Germania e ad assoggettarle il mondo; ma
capace d’infrangere i più ovvii principii della giustizia; di tradire,
per cagion d’esempio, i Tusculani e di fare una truffa da mariuolo ai
Genovesi ed ai Pisani.
I principali capi d’accusa da esaminare son due: l’ingiustizia delle
persecuzioni e la immanità delle pene; e nel primo è da distinguere
due serie di fatti; nel secondo è da risguardare a’ costumi del tempo.
Incominciando da ciò che avvenne in Palermo negli ultimi giorni del
novantaquattro e primi del novantacinque, i ricordi tedeschi, che
son molti e uniformi da due all’infuori,[469] o fan parola appena
della cattura e deportazione de’ grandi, senza aggiugnerne la causa,
o notano brevemente una congiura contro Arrigo, rivelata pochi dì
appresso il suo coronamento; alla quale si accenna, pressochè con le
loro stesse parole, in una lettera scritta da Arrigo all’arcivescovo
di Rouen, pochi giorni dopo il fatto.[470] Venendo alle testimonianze
particolareggiate, noi lasceremo addietro, come ogni giudice farebbe,
quella di Pietro d’Eboli, la quale val quanto le parole del suo monaco
rivelator della congiura, e prova soltanto la notizia officiale data in
corte a quei giorni.[471] Ci occorre quindi in una cronica italiana che
«Arrigo, ricapitate certe lettere fittizie e bugiarde contro la regina
Sibilla, il figliuolo Guglielmo ed altri personaggi, ai quali egli e i
grandi della corte avean data sicurtà, tutti li prese, e avviolli in
Germania ed alcuni anco accecò.[472] Un altro italiano aggiugne che
Arrigo ingannò, con falso giuramento, il re fanciullo e i conti del
reame, e che, messili in ceppi e preso tutto l’oro e l’argento che
potea, mandò ogni cosa in Germania.[473] Similmente è scritto nelle
Gesta d’Innocenzo III che l’imperatore, dopo avere stipulato a favor
della vedova e del fanciullo la concessione degli Stati di Lecce e
Taranto, “còlta una occasione,” imprigionò l’una e l’altro e parecchi
ottimati, de’ quali molti accecò; e tenne in carcere duro la Regina, i
figli e l’arcivescovo di Salerno.[474] Ma cotesti scrittori son guelfi.
I fautori della parte contraria, tanto più autorevoli, confermano
il medesimo sospetto; se non che essi non fanno distinzione tra
la prima persecuzione e la seconda. Così Riccardo da San Germano,
ufiziale di casa sveva, una ventina d’anni appresso, scrivea che
convocato il parlamento in Palermo, Arrigo fece condannare il re, la
regina e parecchi vescovi e conti «apponendo loro alto tradimento;»
de’ quali, altri accecò, altri bruciò, altri impiccò, altri mandò in
Germania.[475] Nè men grave l’attestato di Ottone di San Biagio, monaco
tedesco, quel desso che loda tanto Arrigo «per l’arte e il valore con
che avea ristorata l’antica potenza dell’impero.» Ottone ristrinse il
conquisto del regno in due capitoli; nel primo dei quali egli accennò
ai casi di Terraferma e della Sicilia orientale; e nel secondo narrò
con molti particolari la occupazione di Palermo e terminolla dicendo
della famiglia di Tancredi, menata in prigionìa di là dai monti. Ma
nel primo di que’ capitoli si legge, che gli ottimati siciliani presi
da Arrigo di Kallindin, nel combattimento di Catania (1194) e condotti
all’imperatore, «per disperazione si proposero di ucciderlo; che a
fin di conseguire lo scopo, gli prestarono ubbidienza;[476] ch’ei,
volendoli vincere d’astuzia, li ammesse a corte; e che poi, chiamati
alla sua presenza, quando men se l’aspettavano, andarono senza sospetto
e furon còlti tutti a una rete. Brutta cosa gli è a vendicare la
perfidia, con la perfidia.» sciama qui lo scrittore, e seguita narrando
«la studiata crudeltà dei supplizii.»[477] Dond’egli è chiaro che
Ottone volle seguir la connessione de fatti più tosto che l’ordine
rigoroso de’ tempi, o il fece senza volere: poichè gli uomini d’arme, e
i cortigiani d’Arrigo, i quali dopo la sua morte, cacciati da Costanza,
ritornavano dispettosamente in Germania, doveano raccontar tutti, in un
fascio, i casi avvenuti in Sicilia dal novantaquattro al novantasette
e doveansi allargare sui più recenti, come quelli ne’ quali il signor
loro era stato provocato alla vendetta e i loro nemici erano stati
calpestati e straziati.[478] In ogni modo e’ non è da maravigliare che
i cronisti abbian gittato il peso delle congiure e delle vendette tutto
in un posto, chi sul principio del regno d’Arrigo e chi su la fine;
poichè niun contemporaneo potea vantarsi di veder chiaro ne’ labirinti
della reggia di Palermo o nelle mude del castello di Trifels.
Noi diciamo dunque che i critici odierni a ragione distinguono
le due proscrizioni; e lor concediamo volentieri che Arrigo abbia
sparso men sangue nella prima, e che, in quel tempo, i grandi laici
ed ecclesiastici della Sicilia, sottomettendosi alla forza, abbiano
serbata la speranza, o il proponimento di liberarsi, e fors’anco
n’abbiano parlato tra loro. Ma una grande cospirazione, contro
l’esercito vincitore, non si può supporre incominciata e compiuta in
quattro settimane. Arrigo riseppe i pensieri, acconciò i rapporti
delle spie in disegno di congiura bella e fatta, e avvolsevi tutti
i grandi che gli davan ombra o gli faceano impaccio, incominciando
dalla sventurata famiglia di Tancredi, la quale ei volea frodare del
compenso pattuito. Adunò il parlamento, cioè gli ottimati partigiani
suoi; poichè gli avversari eran lì ammanettati, condotti a funate, come
li veggiamo nelle figure del codice di Pietro d’Eboli. Il parlamento
condannolli per lesa maestà; chi potea dir contro? E Arrigo perdonò
loro la vita, poich’era più sicuro partito farli maturare ne’ ferri di
Trifels, che immolarli pubblicamente sì presto. Tale mi sembra il vero
aspetto della persecuzione, con la quale Arrigo inaugurò in Sicilia il
suo regno e l’anno millecentonovantacinque.
Ma, come avviene ne’ profondi movimenti de’ popoli, tolta di mezzo
con le prigioni e co’ patiboli una prima fila, due o tre nuove si
rannodavano: partigiani malcontenti, uomini dabbene spaventati che
ripiglian animo, sangui tiepidi che si riscaldano per interessi offesi,
per novelle speranze, per l’orgoglio nazionale calpestato, per la
pietà stessa dei proscritti. I feudi conceduti a’ Tedeschi erano di
certo tanti stecchi negli occhi a tutti i regnicoli. Quando Arrigo
poi, racchetati i suoi nemici di Germania, con la riputazione e coi
guadagni delle vittorie meridionali, chiamò la nazione a nuove imprese
in Costantinopoli e in Palestina, e ritornò in riva al Mediterraneo con
l’esercito, ei s’accorse che il suolo gli tremava sotto i piè. Già in
Puglia la gente, conversando coi Crociati alemanni, dicea loro a viso
aperto ritornassero a casa, per l’amor del cielo, e non servissero, per
troppa bonarietà, di sgherri a un tiranno.[479] Costanza stessa, donna
d’alto animo e innocente causa di tanta ruina, mal soffrì lo strazio
de’ compatriotti, la ingorda rapina dei tesori aviti, l’avvilimento del
paese e il suo proprio. Arrigo, assai più giovane di lei, l’avea quasi
abbandonata; l’avea lasciata in Palermo a comandar di nome, mentre i
grandi ufiziali dell’impero comandavan di fatto. Fors’ella rimostrò
contro alcun provvedimento, o biasimò la condotta dell’imperatore e
de’ ministri; nè ci volle altro perchè i Sejani d’Arrigo allor la
dicessero partecipe delle trame e poi ne spacciassero tante altre
favole suggerite dall’odio grandissimo che le portavano.[480] In
tale condizione di cose fu scoperta una congiura; il che si ritrae
con certezza storica, ma ignoriamo i particolari, e quel po’ che ne
sappiamo fa supporre tentata più tosto la ribellione che il regicidio.
Nè la natura poi di quella trama, nè la ferocia stessa de’ tempi,
basta a scolpare Arrigo de’ supplizii che allora parvero sì atroci in
Germania, in Francia e in Inghilterra, sì come in Italia. I critici
tedeschi de’ nostri giorni cancellano que’ supplizii con un filosofico
frego di penna, per la sola ragione che lor sembrano troppo insoliti e
crudeli; ma n’abbiam noi tante e tali testimonianze che non s’arriverà
mai a smentirle. In Italia la voce pubblica ripetea, come si ritrae
dalle epistole d’Innocenzo III, de’ casi d’uomini e donne, laici e
sacerdoti, mutilati, annegati, arsi, o bolliti nello strutto;[481] e
tre annalisti tedeschi ed un bizantino s’accordano per lo appunto nel
dir che Arrigo fece inchiodare una corona in capo a Giordano, uomo di
schiatta normanna, com’e’ parmi dal nome, designato da’ congiurati al
trono e alla man di Costanza.[482] Io non veggo perchè la invenzione
di sì barbari supplizii s’abbia da riferire ai cronisti italiani,
francesi, inglesi, bizantini e tedeschi più tosto che ai carnefici
d’Arrigo!
Da coteste orribilità all’infuori, è molto oscuro l’ultimo periodo
della vita dell’imperatore in Sicilia. Venuto a minacciare la moglie e
punire i congiurati, trovò tra costoro chi volle vender cara la vita. I
fratelli d’Aquino s’eran difesi in Roccasecca di Puglia; un Guglielmo
Monaco, feudatario o castellano di Castrogiovanni, si ribellò, e
afforzossi in quel sito inespugnabile. Andò l’imperatore in persona
all’assedio,[483] il quale par si prolungasse: ed egli intanto, per
fazione di guerra, o caso di caccia o di viaggio, fu còlto di freddo
su quelle alture, una notte d’agosto, e ritornò in Messina infermo di
dissenteria. Parve poi migliorasse, tanto che fece partire i Crociati
tedeschi adoprati nel pericolo della ribellione, ed ei medesimo si
messe in via alla volta di Palermo; ma una ricrudescenza della malattia
lo tolse di vita, il ventotto settembre del novantasette.[484] Fu
sepolto in Palermo, nell’arca sontuosa dove giacciono ancora le sue
ossa, dalla quale si legge ch’egli avea fatto gittar fuori i cadaveri
di Tancredi e del suo figliuolo.[485]
CAPITOLO VII.
Padrona ormai del suo regno, Costanza messe da canto il testamento
del marito che chiamava alla reggenza il gran siniscalco imperiale
Marcualdo de Anweiler; accomiatò i condottieri tedeschi; fe’ venire
in Palermo Federigo, bambino di quattro anni; domandò per lui
l’investitura papale; e, senza aspettar quella, fecelo incoronare re di
Sicilia (17 maggio 1198).[486] Dell’affrettarsi ella avea ben donde.
Sendo morto Celestino poco appresso l’imperatore, e rifatto pontefice
Innocenzo III (8 gennaio 1198), apparve fin dai primi istanti quel
genio dominatore, del quale noi riconosciamo la possanza, ma dobbiamo
condannare talvolta gli intenti e le vie; mentre gli scrittori papalini
ed anco alcuni acattolici levanlo al cielo, invaghiti del dispotismo
religioso e politico ch’egli esercitò a tutta possa. Innocenzo gridò:
fuori i Tedeschi; ma volle stender la mano su i territorii occupati
da loro nell’Italia di mezzo; ei fece plauso alla regina di Sicilia
iniziatrice di quella riscossa nazionale, ma volle dar corpo all’ombra
dell’alta sovranità pontificia su la Puglia e cancellare le regalìe
ecclesiastiche in Sicilia.[487] Morì Costanza (27 novembre 1498) mentre
si schermiva come potea contro quel molesto amico; e per manco male,
chiamò lui stesso tutore di Federigo e del reame, affidando, con tutto
ciò, il governo a quattro ministri: che fu buona cautela e salvò la
corona, ma sprofondò il paese per dieci anni nella guerra civile.
Dei ministri reggenti, l’arcivescovo di Capua venne presto a
morte;[488] il gran cancelliere Gualtiero de Palearia, vescovo di
Troja, diffidava forte del papa; al contrario, Caro arcivescovo di
Morreale parteggiava per lui; e Bartolomeo Offamilio arcivescovo di
Palermo, fratello di quel Gualtiero che fu sì malaugurato consigliere
di Guglielmo II, pendeva a parte tedesca. La quale rinacque per timor
dell’ambizione romana, che i regnicoli non poteano dimenticare e non
sapeano rintuzzare da sè soli. I condottieri d’Arrigo creati feudatarii
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