Storia dei musulmani di Sicilia, vol. III, parte II - 05

_magister_ latino, che risponde all’uficio e sembra testo o traduzione
dell’orientale _ostadâr_.[240] Son qui da ricordare i _kâid_ de’ quali
si è trattato a lungo, or capitani propriamente detti di pretoriani,
or segretarii, computisti e per fin camerieri,[241] come un _ferrâsc_
che appo noi suona “rifa’ letti.”[242] V’era anco un paggio musulmano
ispettore della cucina,[243] ed uno preposto al _tirâz_.
Con tal voce persiana chiamaronsi le vestimenta di seta ricamate
e l’opificio in cui le si lavoravano: parte essenziale d’una corte
musulmana, poichè soleano i principi donar que’ pallii in segno di
favore, o mandarne a’ grandi oficiali nel dar loro l’investitura,[244]
come appunto si disse in cristianità, per cagion di usanza non
dissimile. Ci è occorso di narrar come Ruggiero avesse inviati di tali
abbigliamenti al traditore che gli fece omaggio di Kâbes.[245] E rimane
del _tirâz_ di Palermo un lavorio sontuoso, il pallio semicircolare,
trapunto nell’area ad oro e perle con figura d’un lione che abbatte un
camelo, e in giro con bellissime lettere cufiche, portanti il nome e
le qualità di Ruggiero e la data della capitale di Sicilia e dell’anno
cinquecentoventotto (1133); il qual regio manto, per dono di alcun
re di Sicilia o rapina di Arrigo VI, andò in Germania; ed è serbato
ora a Vienna tra le reliquie del defunto impero di Carlomagno.[246]
Sappiamo dalla storia come quell’opificio fosse stato rifornito il
millecenquarantasette di belle corinzie e tebane,[247] e durasse in
fiore nel centottanta, quando l’eunuco prepostovi diceva all’orecchio
a Ibn-Giobair che le giovani musulmane del suo ovile tiravano spesso
all’islam lor compagne di nazione franca. Sembra da ciò che Ruggiero
abbia voluto onestare con quel nome l’_harem_ della reggia.[248] Da lui
o da’ successori fu anco usato l’ombrello di gala, ad imitazione dei
califi fatemiti.[249]
Alla corte musulmana rispondean gli usi orientali della cancelleria
arabica, distinta, com’e’ mi sembra, dalla cancelleria latina, e
addetta a trattar le faccende degli antichi abitatori, sì come la
latina quelle de’ coloni. Mentre quest’ultima usava il linguaggio
latino, la data dell’èra volgare, e il suggello co’ titoli occidentali,
l’altra cancelleria adoperava or il greco or l’arabico, secondo
le genti, e talvolta l’una e l’altra lingua insieme. In testa de’
rescritti arabici o bilingui non soscritti di propria man di Ruggiero,
si ponea all’uso musulmano lo _’alâma_, ossia il motto trascelto da
ciascun principe e scritto della man di segretario apposito, con che
si dava autenticità al diploma. Lo _’alâma_ di Ruggiero fu_ El hamd
lilaah sciakran linia’mih_ ossia “Lode a Dio per riconoscenza de’
suoi benefizii.”[250] Copiando un po’ i principi Musulmani e un po’
i Bizantini, Ruggiero si fece intitolare ne’ diplomi _El malek el
mo’adzdzam el kadîs_ o diremmo noi “Il re venerando e santo”[251] e
nelle monete, or _El malek el mo’adzdzam el mo’tazz billah_, ossia “Il
re venerando, esaltato per favor di Dio”[252] ora _Nâsir en nasrâniah_
che suona “Difensor del Cristianesimo”[253] Nè altrimenti par lo
addimandassero in corte; sendo detto egli da Edrîsi “il re venerando,
Ruggiero, esaltato da Dio, possente per divina virtù,[254] re di
Sicilia, Italia, Lombardia, Calabria, (sostegno dello) imâm di Roma,
difensore della religione cristiana”[255]; e chiamata _El-mo’tazzia_,
dal poeta Abd-er-Rahman da Trapani, la regia villa di Mare-dolce
presso Palermo.[256] Nei diplomi della cancelleria bilingue soscrisse
Ruggiero sempre in greco, rendendo que’ titoli di conio orientale con
la formola “Ruggiero in Cristo Dio, religioso e possente re, difensore
dei Cristiani”[257] e quest’ultimo attributo si ritrova anco tradotto
nell intitolazione di alcun diploma latino.[258] Si scorge infine dalle
monete e dall’uso degli scrittori arabi contemporanei, che Ruggiero,
intitolatosi secondo di tal nome pria ch’ei prendesse la corona reale,
continuò sempre a distinguersi dal padre con quella appellazione,
ancorchè ei fosse stato il primo re.[259]
Non pensava forse Ruggiero che il passatempo della scienza gli avesse a
fruttar tanta gloria, quanto le assidue cure dello Stato e le fatiche
della guerra. E pur l’Europa civile, se in oggi non ha scordato del
tutto il fondatore della monarchia siciliana, onora assai più il dotto
principe al quale è dovuta la maggiore opera geografica del medio
evo. Differendo a trattare il pregio di cotesta opera nella rassegna
scientifica e letteraria del presente periodo, noi qui toccheremo della
parte che torni a ciascuno de’ due creduti autori: Edrîsi, sotto il
cui nome corre in oggi il libro, e il re al quale l’attribuirono gli
eruditi musulmani chiamandolo “Il libro di Ruggiero” oltre il titolo
proprio, ch’è “Il sollazzo di chi ama a girare il mondo.”
Taccion le memorie cristiane di questa vaghezza del re per gli
studii geografici, male interpretata da Falcone Beneventano, là dove
ei racconta l’aneddoto, ch’entrato Ruggiero trionfante in Napoli,
allo scorcio di settembre millecenquaranta, fece una notte misurare
l’ambito delle mura; e la dimane, ragionando co’ principali cittadini
intorno le franchige da confermare, per mostrarsi tenero assai delle
cose loro, “Ma sapete voi, lor domandò, quanto giri la città vostra?”
e rispostogli di no, “ecco ch’io vel dico, replicò: son dumila
trecensessantatrè passi, per l’appunto.”[260]
Edrîsi descrive la formazione dell’opera con particolari di gran
momento.[261] Ei dice dottissimo il re nelle scienze “astruse e nelle
operative”[262] ossia le matematiche e le dottrine dell’amministrazione
pubblica; e che in cotesti due rami di sapere “egli creò modi novelli
maravigliosi e inventò peregrini trovati.” Allargato il regno, “ei
volle sapere con precisione e certezza le condizioni di ciascun paese
soggetto: quali fosserne i confini e le vie di comunicazione per terra
e per mare; a qual clima appartenesse, quali mari lo bagnassero, quai
golfi vi si aprissero. Volle conoscere, altresì, ogni altro paese e
regione de’ sette climi ideati da’ filosofi e determinati da’ narratori
e da’ compilatori in loro pergamene[263] e ricercar volle quanta parte
di ciascuno Stato entrasse in ciascun clima.” Nominati poi dodici
trattati geografici, tra d’antichi e d’arabi, che furono raccolti
per comando di Ruggiero, continua Edrîsi “che in tutti si notarono
discrepanze, omissioni ed errori; e che i geografi, chiamati apposta
e interrogati dal re, non ne sapeano più che i libri. Egli allor fece
venire da ogni parte de’ suoi dominii uomini esperti ed usi a’ viaggi,
e ordinò che interrogati per un suo ministro,[264] tutti insieme
e poi spicciolati, si tenesser buoni i ragguagli ne’ quali ciascun
s’accordava e si rigettassero gli altri. Durò quindici anni cotesta
esamina; nel qual tempo non passò giorno che il re non vegliasse
sul lavoro, non pigliasse conto de’ ragguagli raccolti e non facesse
opera ad appurarli. Indi ei volle vedere se tornassero precisamente
le distanze su le quali s’erano accordate le relazioni.[265] Fe’
recar dunque una tavola graduata[266] e trasportarvi col compasso,
ad una ad una, quelle distanze; tenendo anco sott’occhio i libri
citati dianzi e ponderando le opinioni diverse: e tanto studiò
sul complesso di quei dati, ch’egli arrivò a determinare le vere
posizioni. Fe’ allor gittare, di puro argento, un gran disco diviso in
segmenti,[267] che pesò quattrocento _rotl_ italici, di cento dodici
_dirhem_ ciascuno,[268] e fevvi incidere i sette climi con le loro
regioni e paesi, le marine e gli altipiani, i golfi, i mari, le fonti,
i fiumi, le terre abitate e le disabitate, le strade battute, con
lor misure in miglia, le distanze (marittime) e i porti: nella quale
incisione fu copiato per filo e per segno il planisfero delineato
già nella tavola. Ordinò in ultimo si compilasse una descrizione
corrispondente alle figure della mappa, aggiuntovi le condizioni di
ciascun paese e contado: la natura organica,[269] il suolo, la postura,
la configurazione, i mari, i monti, i fiumi, le terre infruttifere, i
cólti, i prodotti agrarii, le varie maniere di edifizii, i monumenti,
gli esercizii degli uomini, le arti che fiorissero, le merci che si
introducessero o si traesser fuori, le maraviglie raccontate e le
supposte; e in qual clima giacesse il paese ed ogni qualità degli
abitatori: sembiante, indole, religioni, ornamenti, vestire, lingua.”
I manoscritti che ci han dato il testo fin qui con poco divario, si
discostano venendo alla intitolazione di _Nozhat el Mosctâk_, la quale,
secondo un codice, fu messa da Edrîsi, ma gli altri due, e tra questi
il più prossimo all’originale, riferisconla a Ruggiero stesso;[270]
poscia tutti d’accordo notano quella che noi diremmo pubblicazione,
fatta nella prima metà di gennaio millecencinquantaquattro, che è a dir
cinque o sei settimane innanzi la morte del re.
La quale sendo avvenuta dopo lunga infermità, possiamo supporre che
Edrîsi abbia affrettato ed anco precipitato il lavoro da presentare,
e che per tal cagione quello sia venuto fuori men corretto, che non
portasse il disegno e non permettessero i mezzi del re. Ma di ciò
meglio a suo luogo. Fatta intanto nelle parole d’Edrîsi la tara
dell’adulazione e della rettorica, ognun vi legge che il dotto
affricano stese la descrizione, dopo avere raccolte e coordinate
le relazioni orali e confrontatele, se si voglia, coi trattati di
geografia; ch’ei forse die’ consigli su gli studii da fare e sul
metodo; ma che il concetto, l’impulso, l’ordinamento e perchè no?
un’assidua cooperazione, si deve a Ruggiero, nella cui mente le
tradizioni musulmane si univano alle bizantine ed alle latine, al genio
cosmopolita dei Normanni ed alla curiosità statistica del principe e
del capitano.[271] Tornano anco a ciò i ragguagli del Sefedi. Ruggiero
o Uggiero, egli dice, amando le dottrine filosofiche dell’antichità,
fece venir dall’_’Adwa_[272] lo sceriffo Edrîsi; indusselo a stanziare
appo di lui e fuggir i pericoli che la sua nascita regia gli attirava
ne’ paesi musulmani d’Occidente; Ruggiero gli assegnò entrate da
principe; l’onorò tanto che solea levarsi quand’egli veniva a corte
e andargli incontro e metterselo a sedere allato. La prima cosa,
costruì Edrîsi pel re una grande sfera armillare d’argento e n’ebbe in
guiderdone de’ milioni.[273] “Ruggiero poscia si consultò con Edrîsi
intorno i migliori modi d’appurare i ragguagli geografici con certezza,
non già copiando libri; ed entrambi consentirono in questo, che si
avesse a mandare apposta per tutti i paesi di levante e di ponente,
uomini sagaci e dotti, accompagnati da disegnatori, a fin di ritrarre
la figura d’ogni cosa notevole. E il re mandolli di fatto: i quali come
riportavano lor disegni, così Edrîsi li verificava; e compiuta che fu
la raccolta, ei distese la compilazione intitolata il _Nozhat_.”[274]
Opera collettiva questa fu dunque, lavoro d’una specie d’accademia
istituita da Ruggiero nella corte di Palermo, preseduta da lui stesso;
e il rampollo degli ultimi califi di Cordova n’era il Segretario
perpetuo, se ci sia permesso dar nomi nuovi e precisi a un abbozzo del
medio evo. Ognun poi vede che appo i letterati musulmani, Edrîsi dovea
a poco a poco ecclissare Ruggiero, ancorchè di questi rimanesse pure
onorato ricordo.[275] Non essendo stato il libro, per la intempestiva
morte del re, tradotto in latino, l’Europa l’ha riavuto dopo cinque,
anzi sette secoli, col nome del compilatore che forse gli rimarrà per
sempre. E così è avvenuta al regio autore fortuna contraria a quella
de’ Grandi d’oggidì che fan lavorare altrui e voglion per sè la lode.
Quando verremo a trattare particolarmente la storia letteraria di
cotesto periodo, noteremo altre vestigie dell’accademia rogeriana
e delle dotte elucubrazioni del re, bastandoci qui far cenno degli
uomini e delle opere che vi si riferiscono. Oltre l’Edrîsi, veggiamo
nella reggia di Palermo Abu-s-Salt-Omeia da Denia, medico, meccanico,
astronomo, dotto nella scienza che gli antichi addimandavan la musica,
poeta e cronista; il quale girando, come soleano i letterati Musulmani,
per tutte le corti amiche agli studii, passò dal Cairo in Palermo e
indi a Mehdia, prima che la fosse occupata da’ Siciliani. Diverso da
costui par sia stato l’autore dell’orologio ad acqua, congegnato per
comando di Ruggiero, come attesta una lapida trilingue della Cappella
palatina di Palermo e una notizia trasmessaci dal cosmografo Kazwini.
Credo si debba a incoraggiamento del re la versione latina dell’Ottica
di Tolomeo, fatta dall’ammiraglio Eugenio, sopra una versione
arabica del testo greco e sì la versione delle Profezie della Sibilla
Eritrea, tradotte, come dissero, dal caldaico in greco per opera di un
Doxopatro, e lo stesso Eugenio voltolle dal greco in latino. Il quale
Doxopatro, sembra il Nilo venuto a corte di Ruggiero da Costantinopoli,
autore del famoso libro su le sedi patriarcali; molestissimo al papa,
come quello che dimostrò aver la sede di Roma preso il primato in
Cristianità perchè la città era capital dell’impero e averlo perduto
di diritto con la traslazione a Costantinopoli; e i vescovi di Sicilia
essere stati soggetti al patriarca bizantino, fino al conquisto del
Conte Ruggiero.
Non affermeremmo noi che il re avesse onorato Nilo Doxopatro per
cagion di questa opera istorica e canonica, più tosto che per la
versione della Sibilla Eritrea. Come certe malattie, così corrono in
ciascun secolo certe aberrazioni di mente, dalle quali raro avvien
che campino i sommi ingegni: di che abbiam cento esempii antichi e
odierni. Ruggiero, tra gli altri, credette alle scienze occulte. Narra
il Dandolo che un famigerato astrologo inglese, richiesto dal re,
gli facea trovare le ossa di Virgilio nel masso della collina presso
Napoli e ch’ei comandava di riporle nel Castel dell’Uovo, sperando
costringere a suo bell’agio con gli scongiuri l’ombra del Mantovano,
sì che gli rivelasse tutta l’arte della negromanzia.[276] Attesta del
paro Ibn-el-Athîr cotesti vaneggiamenti del re, con tal racconto che
ritrae al vivo una scena della reggia palermitana. Sedendo un giorno
il re co’ suoi intimi in una loggia che guardava il mare, fu visto
entrare un legnetto reduce dalla costiera d’Affrica; dal quale si seppe
che l’armata del re avea fatta sanguinosa scorreria ne’ dintorni di
Tripoli. Sedeva allato a Ruggiero un dotto e pio musulmano, onorato
da lui sopra ogni altro uom della corte e preferito a’ suoi preti ed
a’ suoi monaci, tanto che bucinavano essere il re nè più nè men che
musulmano.[277] Or parendo che il barbassoro non avesse posta mente
alle nuove di Tripoli, “hai tu inteso?” interrogollo Ruggiero; e saputo
che no, ricontò il fatto e domandò per celia “dove era dunque Maometto
quando i Cristiani acconciarono così il popol suo?” — “Vuoi ch’io tel
dica davvero? rispose il musulmano: egli era alla presa di Edessa,
dove in quell’ora medesima e in quel punto irrompeano i Credenti.” E i
Cristiani a scoppiar dalle risa. Ma Ruggiero, rifatto serio in volto,
li ammonì non pigliasser la cosa a gabbo, chè quel savio non avea mai
fatta predizione che non si avverasse. Ed a capo di alquanti giorni si
riseppe che Zengui, il padre di Norandino, aveva occupata Edessa.[278]
Mi viene in mente che quel savio sia stato forse lo stesso Edrîsi.
Non poteano mancare, in corte così fatta, i poeti arabi. Ancorchè i
bacchettoni musulmani, compilatori d’antologie, abbiano soppressi
di molti versi, massime que’ che più ci premerebbe di leggere,
abbiam pure alcuni frammenti di _kasìde_, presentate a Ruggiero da
Abd-er-Rahman-ibn-Ramadhan di Malta, dal filologo Abu-Hafs-Omar, da
’Isa-ibn-Abd-el-Moni’m, da Abd-er-Rahman di Butera, da Ibn-Bescirûn
di Mehdia e da ’Abd-er-Rahman di Trapani; de’ quali i primi due,
perseguitati, imploravano la clemenza del re; il terzo volea consolarlo
della morte del figliuolo; e gli ultimi lodavan il regio Mecenate,
descrivendo il sontuoso palagio, le ville e il viver lieto della corte,
dove solean girare, colme di biondo vino, le coppe, e il suono della
lira accompagnar la voce di cantori, paragonati ai più celebri della
corte omeiade di Damasco.
Il genio di civiltà che risplende nella vita tutta di re Ruggiero, si
scerne ancora in que’ monumenti suoi che il tempo ha rispettati: la
cattedrale di Cefalù, la Cappella palatina di Palermo, il Monastero di
San Giovanni degli Eremiti nella stessa città, i sepolcri di porfido
del Duomo palermitano e qualche iscrizione arabica dove occorre il
suo nome. D’altri edifizii ch’egli innalzò abbiam qualche avanzo da
poterne argomentare la eleganza o la magnificenza: voglio dire la
villa della Favara, ossia Maredolce, e quella dell’Altarello di Baida:
entrambe alle porte di Palermo. I cronisti finalmente e i diplomi ci
ragguagliano di parecchi altri monumenti edificati per suo comando;
come sarebbe una parte della reggia di Palermo e il Monastero del
Salvatore di Messina, de’ quali non è agevole scorgere ora i vestigii
tra le costruzioni sovrapposte. Di certo Ruggiero non creò tutte le
arti che fiorivano in Sicilia fin da’ tempi musulmani, ma le ristorò
dopo le vicende della guerra, ed altre ne promosse per lo primo: v’ha
di certo nei monumenti siciliani della prima metà del secolo l’impronta
d’un intelletto superiore che raccolse, dispose e riformò. La mole,
le graziose e nuove proporzioni, la leggiadria e ricchezza degli
ornamenti, rivelano unità di concetto, sentimento del bello, altezza
d’animo e profusione di danaro, da confermare che il primo re di
Sicilia fu possente e grande in ogni cosa.


CAPITOLO IV.

Nell’operoso e lungo regno di Ruggiero le condizioni sociali dell’isola
mutaron da quelle dei primi anni del secolo XII. Verso la metà del
secolo era già la Sicilia ripiena di coloni cristiani, arricchita
coi traffichi d’Affrica e delle Crociate; il conquisto inoltre della
Terraferma, reagendo sul centro del governo, recava elementi novelli
nella corte, la quale era divenuta già primario corpo dello Stato
per cagion degli ufici pubblici che vi s’accentravano: corpo di gran
mole, vario di origine, reso omogeneo dallo interesse; onde, salvo le
gelosie, fraternizzavan quivi gli arcivescovi coi liberti musulmani, i
chierici d’oltremonti coi borghesi delle Puglie, i condottieri francesi
coi corsari greci di Messina. Mancata quella man ferma del re, le nuove
parti sbrigliaronsi. Il baronaggio, provocato o no, cercò di ripigliare
lo Stato in Terraferma e di far novità anco in Sicilia. La corte
volle possedere, sotto il nome di Guglielmo, l’autorità ch’essa avea
esercitata sotto il comando di Ruggiero. Per lei teneano i Musulmani
e fors’anco le schiatte più antiche dell’isola; per lei, in tutto il
reame, i cittadini, bramosi di sicurezza e di franchige: se non che i
baroni avean sèguito anch’essi nelle città e talvolta prevaleanvi per
l’invidia che desta sempre il governo e gli interessi ch’egli offende.
Avveniva ancora nell’isola che il popolo delle grandi città e i coloni
lombardi delle montagne, si accostassero al baronaggio per odio de’
Musulmani e cupidigia dell’aver loro. Coteste parti che talvolta,
com’egli avviene, mutavano sembianze, compariscono chiaramente nelle
tragedie di Guglielmo il Malo; nelle commedie delle quali fu spettatore
il Buono; anzi l’azione è da riferirsi a loro più tosto che ai
personaggi aulici, descritti dalla mano maestra del Falcando, con le
bellezze e la imperfezione dell’arte antica.
Al di fuori, la monarchia siciliana si travagliava contro i soliti tre
nemici; con questo avvantaggio che tutti non si poteano collegare, nè
pur durava a lungo l’accordo tra due. Il papa, incorreggibile, colse
immantinenti l’occasione del nuovo regno, per ritentare l’Italia
meridionale. Federigo Barbarossa ambì anch’egli quelle estreme
province; richiese le forze navali a Genova ed a Pisa, nemiche del
regno per gare di mercatanti; ma nulla ei conchiuse. I Bizantini
all’incontro aveano in punto ogni cosa per assaltare la Puglia. Da
lungi, gli Almohadi minacciavano gli acquisti d’Affrica. E rompeasi
di presente la guerra contro i Fatimiti d’Egitto, non sappiamo appunto
l’anno nè il perchè; dopo la morte di Ruggiero, credo io, e per cagion
di commercio; potendo supporsi che i Pisani, ben visti allora a corte
del Cairo, avessero fatto disdire i privilegi stipulati poc’anzi con la
Corona di Sicilia.[279]
Guglielmo era indolente, feroce, superbo, avaro. Majone da Bari,
promosso dal padre ai maggiori ufizi pubblici, fatto ammiraglio alla
esaltazione del nuovo re, non torna nè quel valente e savio statista
che dice l’Arcivescovo di Salerno, nè quel forsennato malfattore che
vuole il Falcando. Parmi si personificasse in costui la corte con tutti
i suoi vizii: e la testimonianza non sospetta de’ Musulmani ci assicura
che la voce pubblica attribuì alla malvagità sua e del re tutti gli
sconvolgimenti che inaugurarono il regno.[280] Divampò la ribellione
feudale in Terraferma (1155); s’apprese in Sicilia; il re in persona
domolla quivi con le armi e con la clemenza; la represse con immanità
(1156) in Calabria e in Puglia, dov’era aggravata dall’invasione de’
Bizantini, dall’aggressione del papa e dalle mene del Barbarossa.
E furono scacciati i Bizantini; poi sconfitti di nuovo in grande
battaglia navale[281] a Negroponto (estate del 1157): dopo la quale
Guglielmo fermò la pace col Comneno (1158). Aveala già ottenuta dal
papa in grazia delle sue vittorie (luglio 1156). E pria l’armata,
di giumadi secondo del cinquecencinquanta (agosto 1155) avea dato
il guasto a Damiata, Tennis, Rosetta, Alessandria e riportatone gran
preda d’oro, argento e vesti preziose.[282] In quel torno i Masmudi,
dice una Cronica, saccheggiarono il castel di Pozzuoli; ma sopraccorse
le navi regie, furono presi e tagliati a pezzi.[283] Così le armi di
Guglielmo trionfarono per ogni luogo. Nè par ch’egli abbia gittato
via il danaro con che volle tagliare i passi a Federigo, che veniva a
incoronarsi in Roma. Narra Ottone di Frisingen che nel tumulto surto il
dì stesso dell’incoronamento (18 giugno 1155) i soldati imperiali dando
addosso ai Romani, gridavano: «Prendete questo ferro tedesco in cambio
dell’oro arabico! Questa mancia vi dà il Signor vostro. Ed ecco come i
Franchi accattan l’impero!»[284] S’io ben m’appongo, l’oro arabico che
i soldati imperiali maledicean tanto e lo cercavano sì avidamente nelle
tasche dei Romani, erano i tarì d’oro coniati da’ principi di Sicilia
di quel tempo con leggende arabiche: bella e comoda moneta comunissima
allora nell’Italia meridionale. Il fatto è che, tra il movimento di
Roma, la scarsezza delle vittuaglie e la morìa, l’esercito imperiale,
anzi che calare in Puglia, fu costretto a ritornare frettoloso in
Germania.
Mentre Guglielmo per tal modo si assodava sul trono, perdette
i conquisti del padre in Affrica. Comparvero immediatamente in
quelle province gli effetti del mal governo: i presidii cristiani
cominciarono ad aggravare i Musulmani. Vivea da otto anni in Palermo
Abu-l-Hasan-Hosein-el-Forriâni dotto e religioso sceikh di Sfax, del
quale abbiam detto[285] che designato a governar la sua terra per lo re
di Sicilia, avea chiesto lo scambio in persona del figliuolo Omar, e si
era dato statico egli stesso in man de’ Cristiani. Ei sapeva il figlio
uom di grande animo e risoluto. Nel partire di Sfax per la Sicilia,
«Vedi, io son vecchio, gli disse; io m’avvicino alla tomba: questo
fiato di vita che m’avanza, lo vo’ consacrar tutto ai Musulmani. Quando
ti si offra il destro, sorgi tu contro il nemico cristiano; distruggilo
senza badare ad altro; e fa conto ch’io sia già morto.» Risaputi i
soprusi de’ Cristiani a Sfax, viste da presso le cose in Palermo, il
Forriâni scrive al figliuolo che l’ora è suonata; che si affidi in Dio
e rivendichi i diritti dei Musulmani.
Omar convocava una notte i cittadini; esortavali a pigliar l’arme:
ch’altri si mettesse a guardia delle mura, altri corresse alle case
de’ Franchi e di tutti i Cristiani e sì li trucidassero. «E lo sceikh,
domandarongli, il signor nostro e padre tuo, che sarà di lui?» — «Egli
stesso me l’ha comandato, rispose Omar. Se cadranno insieme con lo
sceikh mille e mille cristiani, ei no, non morrà.»[286] Levandosi il
sole, era consumata la strage, dalla quale nessun cristiano campò. Era
il primo giorno dell’anno cinquecencinquantuno dell’egira (25 febb.
1156).
Risaputo il caso in Palermo, il re chiamava il Forriâni; gli intimava
di scrivere ad Omar che ritornasse all’obbedienza, se volea salvar
la vita al padre. Il vecchio rispose tranquillamente: «Chi è corso
tant’oltre non tornerà addietro per forza d’una lettera.» E fu chiuso
in prigione coi ceppi ai piè; e mandato a’ ribelli un messaggio con
minacce e promesse. Il quale arrivato a Sfax, non gli permessero di
sbarcare quel dì. Venuta la dimane, dalla nave ei sentì gran clamore in
città; vide aprir la porta di mare e uscirne la gente in processione,
salmeggiando: «Iddio è grande. Non v’ha dio che il Dio; Maometto è
l’apostol suo:» e recavan sulle spalle una bara. La messer giù; Omar
si fece innanzi; recitò la preghiera; fe’ sotterrar la bara: e tutti
gli furono attorno, com’era uso ne’ funerali, poi dileguaronsi a poco a
poco. Instando l’ambasciatore presso le guardie perchè lo conducessero
ad Omar, dissergli: «Lo sceikh è occupato nella cerimonia del duolo,
sendo stato sepolto poc’anzi il padre, quel desso di Sicilia. Riferisci
ciò ch’hai veduto e non occorre altra risposta.» Nè tardò guari
in Palermo il supplizio dell’Attilio Regolo musulmano. Alzaron la
forca su le sponde del Wadi-’Abbâs, come s’addimandava l’Oreto appo
i Musulmani, e torna appunto alla pianura di Sant’Erasmo, or tutta
ingombra di fabbriche e di giardini, nella quale un tempo si eseguivano
le sentenze capitali e fuvvi acceso nel secol decimottavo l’ultimo rogo
dell’Inquisizione. Malmenato da’ carnefici, strascinato al patibolo,
Abu-l-Hasan recitava impavido e posato il Corano; e con le sacre parole
in bocca morì.[287]
All’esempio di Sfax sollevaronsi le popolazioni delle Gerbe e di
Kerkeni, dissanguate com’elle erano.[288] Tripoli tardò alquanto; sia
che il presidio sapesse guardarsi meglio, sia che le due fazioni da
noi già citate mal si potessero accordare insieme. Si trattò dapprima
un caso legale. Per comando, com’egli è verosimile, della corte di
Palermo, il capitano del presidio volea che da’ pulpiti delle moschee
fosse recitato un sermone contro gli Almohadi, eretici, usurpatori,
e quel ch’era peggio, possenti, vicini, e sospetti di pratiche in
Tripoli. Rispondeano i cittadini che, secondo la capitolazione, nessun
potea costringerli a cosa contraria all’islâm; e che tal sarebbe
stato il detrarre pubblicamente ad altri Musulmani, fosser pure di
rito diverso. Il giureconsulto che tenea la magistratura[289] allegò
coteste ragioni al capitano; e conchiuse che s’ei non fosse persuaso,
il popolo di Tripoli gli lascerebbe la città e andrebbe con Dio.
Il Siciliano accettò, buona o trista, la scusa e stette in guardia;
i Musulmani passaron dalle parole ai fatti. Fu il governator della
terra, Jehia-ibn-Matrûh, quel desso che ordì coi notabili del paese
la congiura di dar addosso al presidio, una notte di luna piena, per
attirarli fuor della fortezza e avvilupparli in lor trappole. Venuta
l’ora, congegnano per le strade legname e funi e levan quindi il
romore. I soldati del presidio prendono incontanente le armi, montano
in sella e spronano addosso alla turba: quand’ecco i cavalli incespano,
s’avviluppano; i cavalieri son presi senza potersi difendere. Così
del cinquantatrè (2 febb. 1158 a 22 genn. 1159) la città di Tripoli
scosse il giogo e rimasene capo lo stesso Jehia-ibn-Matrûh.[290] Come
a Sfax ed a Tripoli, così anco a Kâbes rivoltavasi il governatore del
re di Sicilia, per nome Mohammed-ibn-Rescîd.[291] Gli Almohadi intanto,
occupata Bona, stendeansi verso levante fin presso Tunis.[292] Rimanea
soltanto alla corona di Sicilia la città di Mehdia, col borgo di Zawila
e con Susa.[293]
Nel primo impeto della riscossa, Oraar-el-Forriâni avea mandata gente
a sollevare Zawila, sì che i Cristiani fossero minacciati nel centro
delle forze loro. Gli Arabi del vicinato eran pronti a correre ad
ogni odor di preda; de’ Cristiani in Zawila par vivessero pochi o
nessuno. Agevol cosa fu dunque a gridar nel borgo “morte ai Rûm” e