Storia dei musulmani di Sicilia, vol. III, parte I - 12
adunanza.[647] A cotesto esempio possiamo aggiugnere i privilegi
della Chiesa di Palermo confermati il 1112 dalla contessa e dal suo
figliuolo Ruggiero «ormai cavaliere e conte», sedenti nelle aule
del castello della città, con l’arcivescovo Gualtiero e molti altri
chierici, baroni e cavalieri.[648] Chiamato il 1130 nel parlagio[649]
della medesima reggia palermitana l’arcivescovo della città con molti
altri vescovi e baroni, fermavasi la divisione delle decime di Termini
tra l’arcivescovo e l’abate di Lipari.[650] Ma, quel che tronca ogni
dubbio, un documento citato in altro luogo dal Gregorio e dimenticato
poi nel trattare de’ parlamenti, prova che pretendendosi da’ vescovi
le decime ecclesiastiche sulle entrate tutte dell’isola e negandole i
Terrieri, come sono appellati genericamente i feudatarii nelle carte
latine, greche ed arabiche de’ Normanni di Sicilia, il primo conte
Ruggiero convocò gli uni e gli altri in Mazara e definì la contesa in
questo modo: ch’ei medesimo pagasse la decima a’ vescovi su i beni
proprii; che i Terrieri pagasserne due terzi, usando dassè l’altra
terza parte al servigio delle cappelle di lor castelli; e che del
rimanente e’ fossero giudicati dai sinodi per loro colpe spirituali
e ne pagassero ammenda a tenor delle consuetudini vescovili.[651]
Ancorchè promulgata come decisione del principe, cotesta legge mi par
delle più gravi che mai fosse stata deliberata in Parlamento moderno
d’Europa: e prova gli ordini costituzionali della Sicilia fin dal primo
principio della monarchia.
Per distinguersi da’ conti di Terraferma, padroni di minore territorio
e soggetti al duca di Puglia, Ruggiero prese talvolta il titolo
di Gran Conte.[652] Ma i suoi successori immediati più volentieri
s’intitolarono consoli; la quale classica denominazione venne in tanta
voga a corte di Palermo entrando il duodecimo secolo, che cancellieri e
cronisti, non solamente la usavano nel presente, ma anco riportavanla
allo stesso conquistatore.[653] Per vero le tradizioni del consolato
non s’erano mai dileguate nel mondo: e specialmente nell’Italia
meridionale, i reggitori di Napoli, Gaeta, Amalfi, emancipati dal
governo bizantino, s’erano chiamati duchi e consoli;[654] e console
Rainolfo conte d’Aversa, che fu il primo feudatario normanno in
Italia.[655] Dopo mezzo secolo, quando già quel titolo a Pisa, Genova,
Asti, San Remo e senza dubbio in altre città italiane, designava capi
politici costituiti senza volontà d’imperatori nè di papi, assunserlo
i principi della Sicilia, che aveano a noia di chiamarsi conti, ma non
osavano prendere alcun altro dei titoli consueti nell’ordine feudale,
o lo sdegnavano. Non succedean essi in Sicilia ai _basilei_ bizantini
ed ai califi fatemiti, gli uni e gli altri principi independenti e
pontefici, per arrota? Ma non andò guari che, allargato il dominio, e’
smessero le appellazioni di conti e di consoli, per chiamarsi re.
Passando alle altre parti dell’ordinamento politico, seguiamo l’ordine
de’ tempi con dir la prima cosa de’ municipii, poichè parte erano in
piè innanzi il conquisto. Contuttociò il Gregorio li vide e non vide
ne’ tempi normanni; e conchiuse che allora «ebbero le popolazioni
siciliane quasi una forma di corpo municipale.[656]» Sapea pure il
Gregorio che, nella prima metà del duodecimo secolo, Caltagirone
possedette vasti fondi e comperonne dallo Stato;[657] che Nicosia,
colonia lombarda, tenne la terra di Migeti; che ambo le città fornivano
all’armata grande numero di marinai, e legname da costruzione;[658] che
altre colonie lombarde furono soggette agli stessi pesi, contrassegno
di proprietà.[659] Vedeasi in ciò la persona legale del comune. Vedeasi
agli atti, perfino nelle terre feudali: gli uomini di Patti muover lite
contro il vescovo; i lor procuratori accettare una transazione;[660]
quei di Cefalù proporre ordinariamente al vescovo feudatario tre
persone per la scelta del bajulo.[661] Il Gregorio dunque si avviluppò
in quel suo giro di parole, un poco per paura dell’assurdo e tirannico
governo de’ Borboni in Sicilia, un poco per non aver bene studiata
la materia e soprattutto perch’ei rabbrividiva a quel nome di comune,
quasi ne fosse stata unica forma la repubblica italiana del medio evo,
o quella di Francia che suonava sì tremenda nell’età sua.
Avendo toccato dei municipii, sì degli antichi abitatori cristiani
e sì dei musulmani,[662] ne ricercheremo noi le vestigie durante la
guerra e sotto la dominazione normanna. Avvertiamo intanto, a proposito
dei municipii cristiani, avanzo dal tempo bizantino, che nella stessa
Grecia gli ordini municipali rimasero o rinacquero, non ostante la
dichiarazione di Leone il Sapiente, della quale s’è detto a suo luogo;
che, dopo quella, le leggi bizantine riconobbero nelle città e nelle
campagne alcune corporazioni di mestiere e associazioni d’interessi, le
quali, se non abbracciavano l’universale de’ cittadini, aveano forme
più democratiche dell’antico municipio e gittavan le basi del nuovo;
e che al tempo della dominazione latina e poi della turca, vennero su
nella Terraferma al par che nelle isole della Grecia, veri magistrati
o rappresentanti municipali, di nomi diversi secondo i luoghi,
_proesti, demogeronti, arconti, epitropi_, i quali ufizi per certo non
erano stati stampati di fresco nel XIII o nel XV secolo.[663] Nelle
province bizantine della Terraferma d’Italia, le frequenti mutazioni
di signoria avean dato occasione alle maggiori città di costituirsi in
corpi politici, come si ritrae dagli esempii di Bari e di Salerno che
cita lo stesso Gregorio[664] e dagli accordi che altre città fermavano
coi capitani normanni:[665] e perfin si legge in un diploma greco
dell’undecimo secolo, che villani dimoranti nelle terre d’un Monastero
e d’un feudatario, pagassero tributo personale al comune di Geraci
in Calabria.[666] La quale tendenza generale della schiatta greca,
non solamente non trovò ostacoli in Sicilia, ma fu promossa dalla
dominazione musulmana. Le città, sciolte da’ fastidii degli ufiziali
bizantini e costrette a far dassè sotto il giogo degli Infedeli,
aveano dovuto rinforzare lor ordini municipali nel IX e X secolo,
per provvedere all’amministrazione della giustizia, soddisfare a lor
obblighi verso i nuovi signori e difendersi civilmente dai soprusi.
Che se il nome delle città torna raro ed incerto nelle memorie della
guerra, non ne maraviglierà chi conosca la tiepidezza de’ Greci in quel
grande avvenimento e il laconismo delle croniche normanne quand’esse
non raccontino il valore e la pietà de’ protagonisti. Pertanto abbiam
due soli ricordi: che que’ di Traina fermarono patti con Ruggiero e,
quando sollevaronsi e l’assediarono nel suo palagio, aveano, al par
delle città di Calabria, una torre afforzata in altra parte della
terra; e che in Petralia i Cristiani e i Musulmani, tenuto consiglio,
deliberavano di darsi al condottiero normanno.[667] Ma cotesti atti
possono riferirsi tanto a magistrati costituiti, quanto al popolo che
nei casi estremi ripigli l’esercizio di tutti i suoi diritti. Le carte
delle generazioni seguenti ci danno assai più precise notizie sugli
ufizii municipali.
Il sonante vocabolo _Arcon_ comparisce in que’ diplomi, com’abbiam
noi detto nel capitolo precedente, con due significati diversi, de’
quali il primo tornava genericamente a signore, e lo s’attribuì in
particolare a’ grandi ufiziali dello Stato, a un dipresso come or si
fa dell’eccellenza.[668] L’altro significato specificava un ufizio.
Basilio Tricari, arconte di Demenna, è noverato (1090) tra i testimoni
d’una donazione del conte Ruggiero a favore di quel monastero di San
Filippo.[669] Gli arconti di Galati, convocati dal feudatario (1116)
assistono all’atto per lo quale ei donava un villano al monastero di
Mueli.[670] Lo stratego di Demenna aduna (1136) i capi de’ monasteri,
i sacerdoti e gli arconti della terra di San Marco per appurare un
titolo di proprietà.[671] Mezzo secolo appresso (1182) son chiamati
da’ giudici regii a somigliante effetto in San Marco, insieme
co’ Buoni uomini e con gli Anziani, gli arconti di Naso, Fitalia,
Mirto, San Marco ed un arconte di Traina.[672] Que’ di Capizzi,
insieme con gli Anziani han carico (1168) di descrivere i limiti di
un piccol podere che la regina vuol donare ad una chiesa.[673] In
Oppido di Calabria, dove i Buoni uomini e gli Anziani aveano già
(1138) assistito gli ufiziali dello Stato a determinare i diritti
del feudatario, nata quistione il 1188 per alcuni poderi, era decisa
dal Gran giudice di Calabria secondo l’avviso degli arconti.[674]
Eran questi dunque assessori o giurati in cause civili. Nell’impero
bizantino il vocabolo arconte avea seguito cammino diverso, e pur
non troppo discosto. Serbando l’antica significazione di magistrato
giudiziale, prese in particolare quella di presidente d’un tribunale
e talvolta di governatore di provincia; poichè questo presedeva ai
giudizii: e indi l’_arcontia_ comparisce tra le divisioni territoriali.
Da un altra mano il mal vezzo dei titoli e la ripugnanza a tutta
aristocrazia ereditaria, portarono la corte bizantina a chiamare
arconti gli uomini cospicui per merito, ricchezza, o favore: anco il
clero appellò _arcontichia_ il corpo de’ suoi dignitarii; e, venuta la
feudalità con le genti occidentali, s’appiccicò quella denominazione
ai baroni. Si ritrae infine ch’essa era rimasa come occulta, chi
sa per quanti secoli, nei corpi municipali; poichè squarciato il
velo dell’amministrazione bizantina, nel conquisto de’ Latini e poi
de’ Turchi, si veggono venire alla luce, insieme con le istituzioni
comunali, gli arconti e le altre denominazioni che ci accadde citare
poc’anzi; le quali in luoghi diversi denotavano ufizii identici o molto
somiglianti.[675] A cotesti ufizi municipali, s’io mal non mi appongo,
fu dato in alcune terre il titolo di arconti, per cagion di quella
parte del podere giudiziale che tennero i municipii dell’antichità
e la trasmisero a que’ del medio evo. L’ufizio municipale poi,
sendo ereditario tra’ possessori, come nella curia romana, potea
divenire qua e là nelle province, denominazione volgare d’un ceto di
gentiluomini; denominazione non legale, che pur insinuossi nell’aula
di Costantinopoli. In Sicilia, come ognun vede, venne alla luce nel
XII secolo l’ufizio municipale, e possiam anco dire l’appellazione
di classe; la grande magistratura d’arconte non esistè; ma, tra gli
altri orpelli che i principi normanni tolsero in prestito dalla corte
bizantina, foggiarono questo titolo di arconti pei grandi ufiziali
dello Stato, a suggestione, com’egli è manifesto, de’ valentuomini
stranieri di schiatta greca, i quali nella prima metà del duodecimo
secolo collaborarono col secondo Ruggiero all’assetto del reame.
L’ufizio di giurati nelle cause di confini e di proprietà rurali si
vede anco esercitato in Sicilia dagli _Anziani_ (Γέροντες), or soli,
come (1142) a Traina, Cerami, San Filippo d’Argirò[676] e, quel ch’è
più, nominati a mo’ di corporazione, come (1123) a Ciminna;[677]
or insieme coi Buoni uomini, come (1095) a Rametta,[678] (1182) a
San Marco, Naso, Fitalia, Mirto,[679] e (1183) a Centorbi[680] ed
occorre anco il caso (1138) in Oppido di Calabria;[681] or insieme
con gli arconti come (1168) a Capizzi.[682] Quand’egli avvenia che
soggiornassero Cristiani e Musulmani nella medesima terra o in quelle
attorno un podere di cui fossero contesi i confini, si chiamavano gli
anziani degli uni e degli altri, col titolo comune di _sceikh_ ovvero
di _geronti_, secondo la lingua del diploma. Così (1134) a Giattini e
Mertu[683] e poscia (1172) a Misilmeri[684] e poco appresso (1183) a
Vicari, Petralia, Caltavuturo, Polizzi, Ciminna, Cammarata, Cuscasin
Michiken, Casba, Cassaro, Gurfa, Iali.[685] I geronti e il maestro
de’ borghesi di Traina, i geronti, cristiani e musulmani di Gagliano,
i geronti e gli uomini, (che di certo significa i «Buoni uomini») di
Centorbi, eran chiamati (1142) al par che quelli di Castrogiovanni e di
Adernò, cristiani e musulmani, a definire insieme con un protonotaro
delegato dal re i confini di Regalbuto, pei quali disputava il
feudatario di Argira contro il vescovo di Messina.[686] Per un altro
diploma (1149) gli sceikh musulmani e cristiani di Giato avean carico
di assister lo stratego a designare su i luoghi una quantità di terreno
donato dal re su i beni demaniali.[687] In parecchi atti pubblici,
greci, inoltre, del XII e XIII secolo, si veggono de’ testimonii
soscritti col medesimo titolo nelle terre di Mistretta, Naso, Mirto e
nuovamente in San Marco e in Centorbi.[688]
Erano convocati dai giudici del re i _Buoni uomini_ (Καλοὶ ἀνδρώποι),
di San Marco (1109), que’ di Traina, Gagliano e Milga (1154) e insieme
con gli Anziani, i Buoni uomini di Naso, Fitalia, Mirto e San Marco
(1182) e infine, que’ di Centorbi (1183) per determinare i confini di
territorii sui quali si contendea.[689] I Buoni uomini, di Ἀχάρων,
ch’io credo torni ad Alcara di Val Demone, chiamati dal vescovo di
Messina, lor signore, per far testimonianza sul diritto di proprietà
di certi pascoli tenuti da un monastero (1125), rispondeano aver essi
medesimi conceduto quel fondo al monastero, in grazia di alcuni loro
concittadini che vollero farsi frati.[690] Ottant’anni dopo, que’ di
Nicosia, insieme con due commissarii del re «e con tutto il popolo»
disponeano della chiesa del Salvatore, fondata un tempo dallo stesso
municipio.[691] Nel primo caso tornano dunque i Buoni uomini ad
assessori, o giurati: quello ufizio appunto che lor veggiamo esercitare
nel IX o X secolo, secondo la _Lex romana_ del manoscritto di Udine, la
quale li mostra allo stesso tempo rappresentanti di comuni in giudizio
ed esercenti altri atti d’amministrazione.[692] Nel caso d’Alcara e
di Nicosia evidentemente rappresentan essi il comune, come il nostro
odierno Consiglio municipale. Tali appunto i _Boni homines_ di Savona,
secondo i diplomi latini del 1056, 1062, 1080, 1125 pubblicati dal
San Quintino.[693] Nè l’è maraviglia di trovar lo stesso nome ed
ufizio in Sicilia, quando tanta parte delle nuove colonie venne dalla
Marca aleramica; e d’altronde quella appellazione durava qua e là
in tutta Italia, per esempio al principio dell’undecimo secolo in
Benevento;[694] e lungo tempo appresso ricomparve nella repubblica
fiorentina.
Pongo in ultimo, tra gli ufiziali dei comuni cristiani, i _Maestri
de’ borghesi_, che il Gregorio notava in Collesano (1141) e in Traina
(1142) e prendeane animo a confessare le «quasi forme» di municipio,
aggiugnendo, senza prova nè indizio altro che il nome, che «il maestro
dei borghesi intimava e dirigea come capo» il consiglio comunale.[695]
Senza riandar l’antico significato militare del vocabolo _Magister_,
nè il militare e civile che prese passando nell’impero bizantino, lo
veggiamo noi nell’Europa, centrale e occidentale, per tutto il medio
evo, rispondere a prefetto, o preposto ad una classe di impiegati o
di cittadini,[696] e ci occorre in Messina nel duodecimo secolo il
maestro degli Amalfitani;[697] ma non troviamo esempio da mostrare,
certo nè verosimile, che _Magister_ tanto valesse allora nel linguaggio
legale di Sicilia, quanto _Major_ e che quest’ultima voce denotasse
lo stesso ufizio in Sicilia che nella Francia settentrionale e
nell’Inghilterra.[698] All’incontro, il solo documento dal quale
intender si possa la natura dell’ufizio, lo mostra pari in grado agli
anziani[699] e ci conduce a supporlo capo elettivo d’un consorzio di
coloni i quali, stanziando in mezzo a popolo diverso di condizioni o
di origine, avessero interessi lor proprii da curare; come le scholae
del Medio evo, le corporazioni d’arti di tutti i tempi e, nei primi
principii loro, le _compagne_ di Genova e d’altre città italiane. Un
piccol numero di borghesi italiani, ovvero oltramontani, stanziati in
Collesano, feudo degli Avenel,[700] avrebbe potuto richiedere questa
maniera di consolato, com’or si direbbe: e lo stesso valga per Traina,
prima possessione del conte Ruggiero, nella quale si veggono alla metà
del XII secolo abitatori greci, italici e francesi.[701]
Di simili consorzii legalmente riconosciuti ci danno esempio le
_università_, come allor chiamavansi, degli Israeliti in Sicilia.
Senza argomentare dalle loro istituzioni congeneri in altri paesi,
abbiamo del XV secolo i Capitoli concessi da re Alfonso alle università
dei Giudei del regno di Sicilia;[702] abbiamo del secolo XIV memorie
del loro Proto, de’ loro anziani e delle loro università in Mazara
e in Messina:[703] e le medesime istituzioni risalgono senza dubbio
al duodecimo secolo, quando il vescovo di Cefalù, possessore della
Chiesa di Santa Lucia in Siracusa, concedeva in enfiteusi alla _gemâ’_
de’ Giudei in quella città un pezzo di terreno per ampliare lor
cimitero.[704]
La voce _gemâ’_ usata in quello scritto arabico per designare la
corporazione de’ Giudei di Siracusa, prova che così anco fossero
chiamate in Sicilia le università de’ Musulmani, le quali, per lo
grande numero e il soggiorno separato, tornavano spesso a veri comuni.
Gli è impossibile d’altronde immaginare il soggiorno di sì grosse
popolazioni musulmane senza i loro magistrati municipali: e, se ciò non
bastasse, noi potremmo allegare gli _antique_, ossia sceikh, de’ quali
fa menzione Amato nella resa di Palermo;[705] gli accordi di Mazara e
di tutte le altre città che sembrano fermati dalla _gemâ’_ di ciascuna;
e, sotto il principato normanno, gli sceikh di Giattini, Misilmeri,
Giato, Vicari e d’altre terre, chiamati geronti in greco, e incaricati
come gli arconti, gli Anziani e i Buoni uomini, di determinare i
confini delle possessioni rurali.[706]
Veramente e’ mi par di vedere sotto quelle denominazioni, che variano
secondo le genti, unico uficio di rappresentanti dei municipii; salvo
il divario che nascea, nell’ordinamento e ne’ limiti dell’autorità,
dalle condizioni e consuetudini locali di ciascuna terra, di ciascuna
gente e di ciascun consorzio; perocchè trattando del Medio evo erra
sempre chi suppone uniformità. Anzi mi farebbe maraviglia a veder sì
frequente quel titolo di anziani col medesimo significato in greco e
in arabico, se l’autorità de’ padri di famiglia, e però dei vecchi,
non occorresse nelle forme primitive d’ogni umano consorzio; e se non
potessimo supporre con verosimiglianza che le municipalità cristiane
di Sicilia si fossero spontaneamente riformate nel IX o X secolo,
ad esempio delle musulmane, per provvedere ai bisogni prodotti nella
società loro dalla nuova dominazione.[707] E’ non occorre dimostrare
che gli sceikh appartennero ai Musulmani; i geronti e gli arconti a’
Greci e credo io, agli altri antichi abitatori; e i Buoni uomini alle
nuove colonie italiche. Evidente anco parmi che ciascuna gente ritenne
o portò seco la propria forma di municipio; poichè il principato
normanno non potea distruggere, nè fondare, nè pur modificare
profondamente istituzioni di tal fatta. Gli arconti, come ho detto,
sembrano in Sicilia anziani che ritenessero quel titolo, per antica
consuetudine, come possessori; non altrimenti che i kaid, nobili
e condottieri, entravano nelle faccende municipali come ogni altro
notabile; ma nè i primi nè i secondi io tengo ufiziali esecutivi,
come sarebbero podestà, sindaci, giurati, giunte municipali. Nè tali
mi sembrano i maestri de’ borghesi, meri capi di consorzii minori.
Necessario fatto egli era poi, e l’attestano i diplomi, che nelle
terre abitate insieme da due o più genti diverse, ciascuna avesse i
suoi proprii rappresentanti, come abbiamo visto a San Marco, Capizzi,
Giattini e in molti altri luoghi.
Ho detto rappresentanti dei comuni per usar locuzione moderna ed
esprimere un fatto simile nato da diritto diverso; poichè non è da
supporre elezione popolare nè regia, in cotesti corpi municipali
composti di uomini privilegiati in virtù di antichissime consuetudini,
gli uni delle città italiche o elleniche, gli altri della tribù nomade
e de’ primi tempi dell’islam: possidenti, capi di alcune arti, scribi,
chierici cristiani, giuristi musulmani ed altri notabili. I quali in
che modi e tempi si ragunassero, e se nominassero delegati appositi
per ciascun negozio, lo ignoriamo; nè abbiamo vestigie di magistrati
incaricati ordinariamente del potere esecutivo del Municipio. Pure
il diploma inedito di Nicosia che abbiam dato poc’anzi, solo e tardo
com’esso è, gitta molta luce su l’ordinamento municipale de’ tempi
normanni; dovendo supporsi che le costituzioni delle colonie lombarde
fossero le più larghe dell’isola e che le tornassero al principio del
duodecimo secolo, non già alla fanciullezza di Federigo secondo, nè
al breve regno d’Arrigo. Or il diritto di proprietà è esercitato in
quell’atto «da due commissari regii, da’ Buoni uomini e dal popolo» e
tra i Buoni uomini sono soscritti due giudici giurati e due bajuli.
Compariscono dunque due ordini di rappresentanti municipali, il
Consiglio grande, cioè, dov’era chiamato tutto il popolo a suon di
campana, come si usò in Sicilia fin sotto la dominazione spagnuola;
e i Buoni uomini che par componessero un Consiglio ristretto, nel
quale intervenivano i bajuli, oficiali amministrativi e giudici
regii, istituiti da re Ruggiero in luogo de’ vicecomiti e strateghi
dei primi tempi normanni: risulta poi evidente che la presidenza
del gran Consiglio era affidata ad appositi delegati del principe.
Possiamo dunque supporre con fondamento che tutti i corpi municipali
fossero stati convocati e preseduti da commissarii regii, per generale
provvedimento promulgato fin dai principii della dominazione normanna;
poichè sembra impossibile che Ruggiero avesse ristrette con tal
freno le colonie lombarde e lasciate senza alcuno le terre greche o
musulmane; e d’altronde si è visto,[708] senza eccezione chiamare
dal feudatario i Buoni uomini di Alcara, e dai commissarii regii
que’ di Nicosia, terra demaniale, per esercitare atti di dominio; e
similmente da giudici regii o altri ufiziali gli sceikhi, anziani,
arconti o Buoni uomini di tante altre terre, per far le veci di
giurati in cause civili. Il consiglio generale poi, aperto a tutto
il popolo, cioè a tutti i borghesi, sembra privilegio delle colonie
lombarde; nè può ammettersi nelle altre città, se nol provino nuovi
documenti. E i due giudici giurati di Nicosia soscritti nel diploma
del 1204, sembrano veramente ufiziali esecutivi del municipio, come
que’ di Messina, soscritti in una carta del 1172; ma non si potrà su
questo solo indizio determinar la giurisdizione loro.[709] Nè potrassi
definire precisamente quella degli stessi municipii; la quale se la
ci torna oscura in oggi, fu dubbia e mutabile e diversa nell’undecimo
e duodecimo secolo, e sol ritraggiamo la personalità del municipio,
la magistratura affidata a’ suoi rappresentanti e che fors’anco erano
richiesti que’ notabili di cooperare nell’azienda dello Stato.[710]
L’istituzione de’ municipii è provata anco dalle franchige, le quali
non furono mai disgiunte dall’ordinamento della società chiamata a
goderle. Che il principe e i feudatarii, costretti a rifornire la
Sicilia di coloni cristiani, li avessero invitati con ogni maniera di
concessioni, si ritrae da testimonianze concordi. Ruggiero, liberati
i prigioni di Malta, profferia di fabbricar loro a proprie spese un
villaggio, là dove lor paresse; di fornire i capitali fissi bisognevoli
a loro industrie e di francare la terra perpetuamente da gravezze
ed angarie.[711] Similmente era accordato ai borghesi di Catania,
Patti e Cefalù,[712] lo esercizio di diritti promiscui nelle terre
del signore, la immunità da certe gravezze e impedimenti feudali, la
guarentigia della libertà personale e, nella prima di quelle città, che
Latini, Greci, Saraceni ed Ebrei fossero giudicati ciascuno secondo sua
legge. Abbiamo noi accennato alle immunità delle colonie lombarde di
Randazzo e di Santa Lucia:[713] i diritti e le buone consuetudini di
Caltagirone, attestati da un diploma di Arrigo VI, tornavano parimenti
ai tempi di re Ruggiero[714] e son da supporre le une e le altre
più antiche. Inoltre, dovendosi tener generale il bisogno di colonie
cristiane, possiam noi dire che quasi tutta la Sicilia ottenne, in
breve e di queto, franchigie municipali non dissimili da quelle che
tante popolazioni italiane e straniere, nella stessa età, strapparon di
mano ai feudatarii con ostinati sforzi e sanguinosi.
Or è da spiegare perchè il municipio non si vegga distintamente, pria
dello scorcio del duodecimo secolo, nelle primarie città dell’isola,
le quali pur godettero larghissime franchige personali e reali fin da’
primi anni della dominazione normanna.[715] Il difetto non va apposto
a casi fortuiti che avessero distrutto ogni avanzo di loro carte nei
frequenti disastri della diplomatica siciliana: ma più plausibile
supposto e’ sembra che nessuna di quelle città abbia avuto municipio
di momento in que’ primi tempi. Lasciate da canto Siracusa e Catania,
soggette a feudatarii, diremo sol di Palermo e di Messina, tenute
sempre in demanio e importanti sette secoli addietro, così come le son
oggi.
Palermo che agguagliava o vincea per frequenza di abitatori ogni
altra città d’Italia, racchiudea forse, verso il 1150, una diecina
di _università_, come allor si chiamavano: Musulmani, Greci, Ebrei,
Lombardi, Amalfitani, Genovesi, Baresi ed antichi abitatori cristiani;
e i Musulmani e qualche altra gente suddivisi, com’egli è verosimile,
per quartieri, Cassaro, Khalesa, Halka, Schiavoni:[716] tra i quali
corpi e’ non è possibile d’immaginare alcuna comunanza di vita
municipale. Fu mestieri che si dissipassero i Musulmani, e che la
lingua, i costumi e le violenze dei feudatari e poi de’ Tedeschi,
accomunassero i cittadini cristiani, cioè che volgesse più d’un secolo,
per mettere insieme quel grosso di borghesia, il cui municipio prevalse
su tutte le università minori e rappresentò la cittadinanza della
capitale che proteggea Federigo lo Svevo nella sua fanciullezza. Chi
ricordava allora la _gemâ’_ musulmana o l’israelita, o i magistrati de
piccoli consorzi cristiani, e chi ne serbava gli archivi?
Sembrano diverse a prima vista le condizioni di Messina, la città
cristiana, la testa di ponte, direbbe un militare, per la quale i
conquistatori soleano sboccare contro i Musulmani dell’isola. Ma
secondo la testimonianza d’Amato, rincalzata da fatti anteriori,
Messina, al primo assalto dei Normanni, era quasi vota d’abitatori
battezzati.[717] Nè al certo valsero a ripopolarla in breve tratto le
poche centinaia di uomini che vi facea passare di quando in quando
il conte Ruggiero; nè gli stuoli più grossi che recovvi tre fiate
Roberto Guiscardo. Greci di Sicilia e di Calabria vi si raccolsero,
com’e’ pare, a poco a poco, e genti italiche di varii paesi, finchè
il tramestìo delle Crociate e le guerre marittime de’ Normanni non
riempirono di navi il porto e non accelerarono la ristorazione della
terra.[718] La diversità delle genti che l’abitavano, attestata
dagli scrittori del duodecimo secolo,[719] portò necessariamente
molti consorzii e ritardò, sì come in Palermo, la formazione del vero
municipio.
Le conghietture alle quali io sono stato troppo spesso necessitato,
provano la scarsezza de’ documenti e il poco zelo che s’è messo fin qui
a rintracciarli. Or v’ha cagione di sperare che il generale movimento
degli studii storici conduca gli eruditi ad approfondire la istituzione
delle municipalità siciliane. Ce ne danno arra i lavori di Isidoro La
Lumìa e di Ottone Hartwig, l’un de’ quali nella Storia di Guglielmo il
Buono e l’altro nell’Introduzione alle consuetudini municipali della
Sicilia, hanno toccato con dottrina, ancorchè di passaggio, questo
grave argomento.
Della feudalità non tratteremo a lungo, sendo stati gli ordini di
quella descritti largamente dal Gregorio,[720] e qualche minuzia che
questi lasciò addietro, spigolata con diligenza dal professore Diego
Orlando.[721] La somma è che, istituita per lo primo allo scorcio
dell’undecimo secolo, da un conquistatore che sapea comandare a’ suoi
seguaci, la feudalità siciliana nacque ubbidiente e moderata; che
il principe trasferì a ciascun barone, tanto o quanto determinati,
que’ ch’egli credea suoi diritti su le cose e sulle persone; ch’e’
riserbossi il più delle volte la suprema giurisdizione criminale, e
della Chiesa di Palermo confermati il 1112 dalla contessa e dal suo
figliuolo Ruggiero «ormai cavaliere e conte», sedenti nelle aule
del castello della città, con l’arcivescovo Gualtiero e molti altri
chierici, baroni e cavalieri.[648] Chiamato il 1130 nel parlagio[649]
della medesima reggia palermitana l’arcivescovo della città con molti
altri vescovi e baroni, fermavasi la divisione delle decime di Termini
tra l’arcivescovo e l’abate di Lipari.[650] Ma, quel che tronca ogni
dubbio, un documento citato in altro luogo dal Gregorio e dimenticato
poi nel trattare de’ parlamenti, prova che pretendendosi da’ vescovi
le decime ecclesiastiche sulle entrate tutte dell’isola e negandole i
Terrieri, come sono appellati genericamente i feudatarii nelle carte
latine, greche ed arabiche de’ Normanni di Sicilia, il primo conte
Ruggiero convocò gli uni e gli altri in Mazara e definì la contesa in
questo modo: ch’ei medesimo pagasse la decima a’ vescovi su i beni
proprii; che i Terrieri pagasserne due terzi, usando dassè l’altra
terza parte al servigio delle cappelle di lor castelli; e che del
rimanente e’ fossero giudicati dai sinodi per loro colpe spirituali
e ne pagassero ammenda a tenor delle consuetudini vescovili.[651]
Ancorchè promulgata come decisione del principe, cotesta legge mi par
delle più gravi che mai fosse stata deliberata in Parlamento moderno
d’Europa: e prova gli ordini costituzionali della Sicilia fin dal primo
principio della monarchia.
Per distinguersi da’ conti di Terraferma, padroni di minore territorio
e soggetti al duca di Puglia, Ruggiero prese talvolta il titolo
di Gran Conte.[652] Ma i suoi successori immediati più volentieri
s’intitolarono consoli; la quale classica denominazione venne in tanta
voga a corte di Palermo entrando il duodecimo secolo, che cancellieri e
cronisti, non solamente la usavano nel presente, ma anco riportavanla
allo stesso conquistatore.[653] Per vero le tradizioni del consolato
non s’erano mai dileguate nel mondo: e specialmente nell’Italia
meridionale, i reggitori di Napoli, Gaeta, Amalfi, emancipati dal
governo bizantino, s’erano chiamati duchi e consoli;[654] e console
Rainolfo conte d’Aversa, che fu il primo feudatario normanno in
Italia.[655] Dopo mezzo secolo, quando già quel titolo a Pisa, Genova,
Asti, San Remo e senza dubbio in altre città italiane, designava capi
politici costituiti senza volontà d’imperatori nè di papi, assunserlo
i principi della Sicilia, che aveano a noia di chiamarsi conti, ma non
osavano prendere alcun altro dei titoli consueti nell’ordine feudale,
o lo sdegnavano. Non succedean essi in Sicilia ai _basilei_ bizantini
ed ai califi fatemiti, gli uni e gli altri principi independenti e
pontefici, per arrota? Ma non andò guari che, allargato il dominio, e’
smessero le appellazioni di conti e di consoli, per chiamarsi re.
Passando alle altre parti dell’ordinamento politico, seguiamo l’ordine
de’ tempi con dir la prima cosa de’ municipii, poichè parte erano in
piè innanzi il conquisto. Contuttociò il Gregorio li vide e non vide
ne’ tempi normanni; e conchiuse che allora «ebbero le popolazioni
siciliane quasi una forma di corpo municipale.[656]» Sapea pure il
Gregorio che, nella prima metà del duodecimo secolo, Caltagirone
possedette vasti fondi e comperonne dallo Stato;[657] che Nicosia,
colonia lombarda, tenne la terra di Migeti; che ambo le città fornivano
all’armata grande numero di marinai, e legname da costruzione;[658] che
altre colonie lombarde furono soggette agli stessi pesi, contrassegno
di proprietà.[659] Vedeasi in ciò la persona legale del comune. Vedeasi
agli atti, perfino nelle terre feudali: gli uomini di Patti muover lite
contro il vescovo; i lor procuratori accettare una transazione;[660]
quei di Cefalù proporre ordinariamente al vescovo feudatario tre
persone per la scelta del bajulo.[661] Il Gregorio dunque si avviluppò
in quel suo giro di parole, un poco per paura dell’assurdo e tirannico
governo de’ Borboni in Sicilia, un poco per non aver bene studiata
la materia e soprattutto perch’ei rabbrividiva a quel nome di comune,
quasi ne fosse stata unica forma la repubblica italiana del medio evo,
o quella di Francia che suonava sì tremenda nell’età sua.
Avendo toccato dei municipii, sì degli antichi abitatori cristiani
e sì dei musulmani,[662] ne ricercheremo noi le vestigie durante la
guerra e sotto la dominazione normanna. Avvertiamo intanto, a proposito
dei municipii cristiani, avanzo dal tempo bizantino, che nella stessa
Grecia gli ordini municipali rimasero o rinacquero, non ostante la
dichiarazione di Leone il Sapiente, della quale s’è detto a suo luogo;
che, dopo quella, le leggi bizantine riconobbero nelle città e nelle
campagne alcune corporazioni di mestiere e associazioni d’interessi, le
quali, se non abbracciavano l’universale de’ cittadini, aveano forme
più democratiche dell’antico municipio e gittavan le basi del nuovo;
e che al tempo della dominazione latina e poi della turca, vennero su
nella Terraferma al par che nelle isole della Grecia, veri magistrati
o rappresentanti municipali, di nomi diversi secondo i luoghi,
_proesti, demogeronti, arconti, epitropi_, i quali ufizi per certo non
erano stati stampati di fresco nel XIII o nel XV secolo.[663] Nelle
province bizantine della Terraferma d’Italia, le frequenti mutazioni
di signoria avean dato occasione alle maggiori città di costituirsi in
corpi politici, come si ritrae dagli esempii di Bari e di Salerno che
cita lo stesso Gregorio[664] e dagli accordi che altre città fermavano
coi capitani normanni:[665] e perfin si legge in un diploma greco
dell’undecimo secolo, che villani dimoranti nelle terre d’un Monastero
e d’un feudatario, pagassero tributo personale al comune di Geraci
in Calabria.[666] La quale tendenza generale della schiatta greca,
non solamente non trovò ostacoli in Sicilia, ma fu promossa dalla
dominazione musulmana. Le città, sciolte da’ fastidii degli ufiziali
bizantini e costrette a far dassè sotto il giogo degli Infedeli,
aveano dovuto rinforzare lor ordini municipali nel IX e X secolo,
per provvedere all’amministrazione della giustizia, soddisfare a lor
obblighi verso i nuovi signori e difendersi civilmente dai soprusi.
Che se il nome delle città torna raro ed incerto nelle memorie della
guerra, non ne maraviglierà chi conosca la tiepidezza de’ Greci in quel
grande avvenimento e il laconismo delle croniche normanne quand’esse
non raccontino il valore e la pietà de’ protagonisti. Pertanto abbiam
due soli ricordi: che que’ di Traina fermarono patti con Ruggiero e,
quando sollevaronsi e l’assediarono nel suo palagio, aveano, al par
delle città di Calabria, una torre afforzata in altra parte della
terra; e che in Petralia i Cristiani e i Musulmani, tenuto consiglio,
deliberavano di darsi al condottiero normanno.[667] Ma cotesti atti
possono riferirsi tanto a magistrati costituiti, quanto al popolo che
nei casi estremi ripigli l’esercizio di tutti i suoi diritti. Le carte
delle generazioni seguenti ci danno assai più precise notizie sugli
ufizii municipali.
Il sonante vocabolo _Arcon_ comparisce in que’ diplomi, com’abbiam
noi detto nel capitolo precedente, con due significati diversi, de’
quali il primo tornava genericamente a signore, e lo s’attribuì in
particolare a’ grandi ufiziali dello Stato, a un dipresso come or si
fa dell’eccellenza.[668] L’altro significato specificava un ufizio.
Basilio Tricari, arconte di Demenna, è noverato (1090) tra i testimoni
d’una donazione del conte Ruggiero a favore di quel monastero di San
Filippo.[669] Gli arconti di Galati, convocati dal feudatario (1116)
assistono all’atto per lo quale ei donava un villano al monastero di
Mueli.[670] Lo stratego di Demenna aduna (1136) i capi de’ monasteri,
i sacerdoti e gli arconti della terra di San Marco per appurare un
titolo di proprietà.[671] Mezzo secolo appresso (1182) son chiamati
da’ giudici regii a somigliante effetto in San Marco, insieme
co’ Buoni uomini e con gli Anziani, gli arconti di Naso, Fitalia,
Mirto, San Marco ed un arconte di Traina.[672] Que’ di Capizzi,
insieme con gli Anziani han carico (1168) di descrivere i limiti di
un piccol podere che la regina vuol donare ad una chiesa.[673] In
Oppido di Calabria, dove i Buoni uomini e gli Anziani aveano già
(1138) assistito gli ufiziali dello Stato a determinare i diritti
del feudatario, nata quistione il 1188 per alcuni poderi, era decisa
dal Gran giudice di Calabria secondo l’avviso degli arconti.[674]
Eran questi dunque assessori o giurati in cause civili. Nell’impero
bizantino il vocabolo arconte avea seguito cammino diverso, e pur
non troppo discosto. Serbando l’antica significazione di magistrato
giudiziale, prese in particolare quella di presidente d’un tribunale
e talvolta di governatore di provincia; poichè questo presedeva ai
giudizii: e indi l’_arcontia_ comparisce tra le divisioni territoriali.
Da un altra mano il mal vezzo dei titoli e la ripugnanza a tutta
aristocrazia ereditaria, portarono la corte bizantina a chiamare
arconti gli uomini cospicui per merito, ricchezza, o favore: anco il
clero appellò _arcontichia_ il corpo de’ suoi dignitarii; e, venuta la
feudalità con le genti occidentali, s’appiccicò quella denominazione
ai baroni. Si ritrae infine ch’essa era rimasa come occulta, chi
sa per quanti secoli, nei corpi municipali; poichè squarciato il
velo dell’amministrazione bizantina, nel conquisto de’ Latini e poi
de’ Turchi, si veggono venire alla luce, insieme con le istituzioni
comunali, gli arconti e le altre denominazioni che ci accadde citare
poc’anzi; le quali in luoghi diversi denotavano ufizii identici o molto
somiglianti.[675] A cotesti ufizi municipali, s’io mal non mi appongo,
fu dato in alcune terre il titolo di arconti, per cagion di quella
parte del podere giudiziale che tennero i municipii dell’antichità
e la trasmisero a que’ del medio evo. L’ufizio municipale poi,
sendo ereditario tra’ possessori, come nella curia romana, potea
divenire qua e là nelle province, denominazione volgare d’un ceto di
gentiluomini; denominazione non legale, che pur insinuossi nell’aula
di Costantinopoli. In Sicilia, come ognun vede, venne alla luce nel
XII secolo l’ufizio municipale, e possiam anco dire l’appellazione
di classe; la grande magistratura d’arconte non esistè; ma, tra gli
altri orpelli che i principi normanni tolsero in prestito dalla corte
bizantina, foggiarono questo titolo di arconti pei grandi ufiziali
dello Stato, a suggestione, com’egli è manifesto, de’ valentuomini
stranieri di schiatta greca, i quali nella prima metà del duodecimo
secolo collaborarono col secondo Ruggiero all’assetto del reame.
L’ufizio di giurati nelle cause di confini e di proprietà rurali si
vede anco esercitato in Sicilia dagli _Anziani_ (Γέροντες), or soli,
come (1142) a Traina, Cerami, San Filippo d’Argirò[676] e, quel ch’è
più, nominati a mo’ di corporazione, come (1123) a Ciminna;[677]
or insieme coi Buoni uomini, come (1095) a Rametta,[678] (1182) a
San Marco, Naso, Fitalia, Mirto,[679] e (1183) a Centorbi[680] ed
occorre anco il caso (1138) in Oppido di Calabria;[681] or insieme
con gli arconti come (1168) a Capizzi.[682] Quand’egli avvenia che
soggiornassero Cristiani e Musulmani nella medesima terra o in quelle
attorno un podere di cui fossero contesi i confini, si chiamavano gli
anziani degli uni e degli altri, col titolo comune di _sceikh_ ovvero
di _geronti_, secondo la lingua del diploma. Così (1134) a Giattini e
Mertu[683] e poscia (1172) a Misilmeri[684] e poco appresso (1183) a
Vicari, Petralia, Caltavuturo, Polizzi, Ciminna, Cammarata, Cuscasin
Michiken, Casba, Cassaro, Gurfa, Iali.[685] I geronti e il maestro
de’ borghesi di Traina, i geronti, cristiani e musulmani di Gagliano,
i geronti e gli uomini, (che di certo significa i «Buoni uomini») di
Centorbi, eran chiamati (1142) al par che quelli di Castrogiovanni e di
Adernò, cristiani e musulmani, a definire insieme con un protonotaro
delegato dal re i confini di Regalbuto, pei quali disputava il
feudatario di Argira contro il vescovo di Messina.[686] Per un altro
diploma (1149) gli sceikh musulmani e cristiani di Giato avean carico
di assister lo stratego a designare su i luoghi una quantità di terreno
donato dal re su i beni demaniali.[687] In parecchi atti pubblici,
greci, inoltre, del XII e XIII secolo, si veggono de’ testimonii
soscritti col medesimo titolo nelle terre di Mistretta, Naso, Mirto e
nuovamente in San Marco e in Centorbi.[688]
Erano convocati dai giudici del re i _Buoni uomini_ (Καλοὶ ἀνδρώποι),
di San Marco (1109), que’ di Traina, Gagliano e Milga (1154) e insieme
con gli Anziani, i Buoni uomini di Naso, Fitalia, Mirto e San Marco
(1182) e infine, que’ di Centorbi (1183) per determinare i confini di
territorii sui quali si contendea.[689] I Buoni uomini, di Ἀχάρων,
ch’io credo torni ad Alcara di Val Demone, chiamati dal vescovo di
Messina, lor signore, per far testimonianza sul diritto di proprietà
di certi pascoli tenuti da un monastero (1125), rispondeano aver essi
medesimi conceduto quel fondo al monastero, in grazia di alcuni loro
concittadini che vollero farsi frati.[690] Ottant’anni dopo, que’ di
Nicosia, insieme con due commissarii del re «e con tutto il popolo»
disponeano della chiesa del Salvatore, fondata un tempo dallo stesso
municipio.[691] Nel primo caso tornano dunque i Buoni uomini ad
assessori, o giurati: quello ufizio appunto che lor veggiamo esercitare
nel IX o X secolo, secondo la _Lex romana_ del manoscritto di Udine, la
quale li mostra allo stesso tempo rappresentanti di comuni in giudizio
ed esercenti altri atti d’amministrazione.[692] Nel caso d’Alcara e
di Nicosia evidentemente rappresentan essi il comune, come il nostro
odierno Consiglio municipale. Tali appunto i _Boni homines_ di Savona,
secondo i diplomi latini del 1056, 1062, 1080, 1125 pubblicati dal
San Quintino.[693] Nè l’è maraviglia di trovar lo stesso nome ed
ufizio in Sicilia, quando tanta parte delle nuove colonie venne dalla
Marca aleramica; e d’altronde quella appellazione durava qua e là
in tutta Italia, per esempio al principio dell’undecimo secolo in
Benevento;[694] e lungo tempo appresso ricomparve nella repubblica
fiorentina.
Pongo in ultimo, tra gli ufiziali dei comuni cristiani, i _Maestri
de’ borghesi_, che il Gregorio notava in Collesano (1141) e in Traina
(1142) e prendeane animo a confessare le «quasi forme» di municipio,
aggiugnendo, senza prova nè indizio altro che il nome, che «il maestro
dei borghesi intimava e dirigea come capo» il consiglio comunale.[695]
Senza riandar l’antico significato militare del vocabolo _Magister_,
nè il militare e civile che prese passando nell’impero bizantino, lo
veggiamo noi nell’Europa, centrale e occidentale, per tutto il medio
evo, rispondere a prefetto, o preposto ad una classe di impiegati o
di cittadini,[696] e ci occorre in Messina nel duodecimo secolo il
maestro degli Amalfitani;[697] ma non troviamo esempio da mostrare,
certo nè verosimile, che _Magister_ tanto valesse allora nel linguaggio
legale di Sicilia, quanto _Major_ e che quest’ultima voce denotasse
lo stesso ufizio in Sicilia che nella Francia settentrionale e
nell’Inghilterra.[698] All’incontro, il solo documento dal quale
intender si possa la natura dell’ufizio, lo mostra pari in grado agli
anziani[699] e ci conduce a supporlo capo elettivo d’un consorzio di
coloni i quali, stanziando in mezzo a popolo diverso di condizioni o
di origine, avessero interessi lor proprii da curare; come le scholae
del Medio evo, le corporazioni d’arti di tutti i tempi e, nei primi
principii loro, le _compagne_ di Genova e d’altre città italiane. Un
piccol numero di borghesi italiani, ovvero oltramontani, stanziati in
Collesano, feudo degli Avenel,[700] avrebbe potuto richiedere questa
maniera di consolato, com’or si direbbe: e lo stesso valga per Traina,
prima possessione del conte Ruggiero, nella quale si veggono alla metà
del XII secolo abitatori greci, italici e francesi.[701]
Di simili consorzii legalmente riconosciuti ci danno esempio le
_università_, come allor chiamavansi, degli Israeliti in Sicilia.
Senza argomentare dalle loro istituzioni congeneri in altri paesi,
abbiamo del XV secolo i Capitoli concessi da re Alfonso alle università
dei Giudei del regno di Sicilia;[702] abbiamo del secolo XIV memorie
del loro Proto, de’ loro anziani e delle loro università in Mazara
e in Messina:[703] e le medesime istituzioni risalgono senza dubbio
al duodecimo secolo, quando il vescovo di Cefalù, possessore della
Chiesa di Santa Lucia in Siracusa, concedeva in enfiteusi alla _gemâ’_
de’ Giudei in quella città un pezzo di terreno per ampliare lor
cimitero.[704]
La voce _gemâ’_ usata in quello scritto arabico per designare la
corporazione de’ Giudei di Siracusa, prova che così anco fossero
chiamate in Sicilia le università de’ Musulmani, le quali, per lo
grande numero e il soggiorno separato, tornavano spesso a veri comuni.
Gli è impossibile d’altronde immaginare il soggiorno di sì grosse
popolazioni musulmane senza i loro magistrati municipali: e, se ciò non
bastasse, noi potremmo allegare gli _antique_, ossia sceikh, de’ quali
fa menzione Amato nella resa di Palermo;[705] gli accordi di Mazara e
di tutte le altre città che sembrano fermati dalla _gemâ’_ di ciascuna;
e, sotto il principato normanno, gli sceikh di Giattini, Misilmeri,
Giato, Vicari e d’altre terre, chiamati geronti in greco, e incaricati
come gli arconti, gli Anziani e i Buoni uomini, di determinare i
confini delle possessioni rurali.[706]
Veramente e’ mi par di vedere sotto quelle denominazioni, che variano
secondo le genti, unico uficio di rappresentanti dei municipii; salvo
il divario che nascea, nell’ordinamento e ne’ limiti dell’autorità,
dalle condizioni e consuetudini locali di ciascuna terra, di ciascuna
gente e di ciascun consorzio; perocchè trattando del Medio evo erra
sempre chi suppone uniformità. Anzi mi farebbe maraviglia a veder sì
frequente quel titolo di anziani col medesimo significato in greco e
in arabico, se l’autorità de’ padri di famiglia, e però dei vecchi,
non occorresse nelle forme primitive d’ogni umano consorzio; e se non
potessimo supporre con verosimiglianza che le municipalità cristiane
di Sicilia si fossero spontaneamente riformate nel IX o X secolo,
ad esempio delle musulmane, per provvedere ai bisogni prodotti nella
società loro dalla nuova dominazione.[707] E’ non occorre dimostrare
che gli sceikh appartennero ai Musulmani; i geronti e gli arconti a’
Greci e credo io, agli altri antichi abitatori; e i Buoni uomini alle
nuove colonie italiche. Evidente anco parmi che ciascuna gente ritenne
o portò seco la propria forma di municipio; poichè il principato
normanno non potea distruggere, nè fondare, nè pur modificare
profondamente istituzioni di tal fatta. Gli arconti, come ho detto,
sembrano in Sicilia anziani che ritenessero quel titolo, per antica
consuetudine, come possessori; non altrimenti che i kaid, nobili
e condottieri, entravano nelle faccende municipali come ogni altro
notabile; ma nè i primi nè i secondi io tengo ufiziali esecutivi,
come sarebbero podestà, sindaci, giurati, giunte municipali. Nè tali
mi sembrano i maestri de’ borghesi, meri capi di consorzii minori.
Necessario fatto egli era poi, e l’attestano i diplomi, che nelle
terre abitate insieme da due o più genti diverse, ciascuna avesse i
suoi proprii rappresentanti, come abbiamo visto a San Marco, Capizzi,
Giattini e in molti altri luoghi.
Ho detto rappresentanti dei comuni per usar locuzione moderna ed
esprimere un fatto simile nato da diritto diverso; poichè non è da
supporre elezione popolare nè regia, in cotesti corpi municipali
composti di uomini privilegiati in virtù di antichissime consuetudini,
gli uni delle città italiche o elleniche, gli altri della tribù nomade
e de’ primi tempi dell’islam: possidenti, capi di alcune arti, scribi,
chierici cristiani, giuristi musulmani ed altri notabili. I quali in
che modi e tempi si ragunassero, e se nominassero delegati appositi
per ciascun negozio, lo ignoriamo; nè abbiamo vestigie di magistrati
incaricati ordinariamente del potere esecutivo del Municipio. Pure
il diploma inedito di Nicosia che abbiam dato poc’anzi, solo e tardo
com’esso è, gitta molta luce su l’ordinamento municipale de’ tempi
normanni; dovendo supporsi che le costituzioni delle colonie lombarde
fossero le più larghe dell’isola e che le tornassero al principio del
duodecimo secolo, non già alla fanciullezza di Federigo secondo, nè
al breve regno d’Arrigo. Or il diritto di proprietà è esercitato in
quell’atto «da due commissari regii, da’ Buoni uomini e dal popolo» e
tra i Buoni uomini sono soscritti due giudici giurati e due bajuli.
Compariscono dunque due ordini di rappresentanti municipali, il
Consiglio grande, cioè, dov’era chiamato tutto il popolo a suon di
campana, come si usò in Sicilia fin sotto la dominazione spagnuola;
e i Buoni uomini che par componessero un Consiglio ristretto, nel
quale intervenivano i bajuli, oficiali amministrativi e giudici
regii, istituiti da re Ruggiero in luogo de’ vicecomiti e strateghi
dei primi tempi normanni: risulta poi evidente che la presidenza
del gran Consiglio era affidata ad appositi delegati del principe.
Possiamo dunque supporre con fondamento che tutti i corpi municipali
fossero stati convocati e preseduti da commissarii regii, per generale
provvedimento promulgato fin dai principii della dominazione normanna;
poichè sembra impossibile che Ruggiero avesse ristrette con tal
freno le colonie lombarde e lasciate senza alcuno le terre greche o
musulmane; e d’altronde si è visto,[708] senza eccezione chiamare
dal feudatario i Buoni uomini di Alcara, e dai commissarii regii
que’ di Nicosia, terra demaniale, per esercitare atti di dominio; e
similmente da giudici regii o altri ufiziali gli sceikhi, anziani,
arconti o Buoni uomini di tante altre terre, per far le veci di
giurati in cause civili. Il consiglio generale poi, aperto a tutto
il popolo, cioè a tutti i borghesi, sembra privilegio delle colonie
lombarde; nè può ammettersi nelle altre città, se nol provino nuovi
documenti. E i due giudici giurati di Nicosia soscritti nel diploma
del 1204, sembrano veramente ufiziali esecutivi del municipio, come
que’ di Messina, soscritti in una carta del 1172; ma non si potrà su
questo solo indizio determinar la giurisdizione loro.[709] Nè potrassi
definire precisamente quella degli stessi municipii; la quale se la
ci torna oscura in oggi, fu dubbia e mutabile e diversa nell’undecimo
e duodecimo secolo, e sol ritraggiamo la personalità del municipio,
la magistratura affidata a’ suoi rappresentanti e che fors’anco erano
richiesti que’ notabili di cooperare nell’azienda dello Stato.[710]
L’istituzione de’ municipii è provata anco dalle franchige, le quali
non furono mai disgiunte dall’ordinamento della società chiamata a
goderle. Che il principe e i feudatarii, costretti a rifornire la
Sicilia di coloni cristiani, li avessero invitati con ogni maniera di
concessioni, si ritrae da testimonianze concordi. Ruggiero, liberati
i prigioni di Malta, profferia di fabbricar loro a proprie spese un
villaggio, là dove lor paresse; di fornire i capitali fissi bisognevoli
a loro industrie e di francare la terra perpetuamente da gravezze
ed angarie.[711] Similmente era accordato ai borghesi di Catania,
Patti e Cefalù,[712] lo esercizio di diritti promiscui nelle terre
del signore, la immunità da certe gravezze e impedimenti feudali, la
guarentigia della libertà personale e, nella prima di quelle città, che
Latini, Greci, Saraceni ed Ebrei fossero giudicati ciascuno secondo sua
legge. Abbiamo noi accennato alle immunità delle colonie lombarde di
Randazzo e di Santa Lucia:[713] i diritti e le buone consuetudini di
Caltagirone, attestati da un diploma di Arrigo VI, tornavano parimenti
ai tempi di re Ruggiero[714] e son da supporre le une e le altre
più antiche. Inoltre, dovendosi tener generale il bisogno di colonie
cristiane, possiam noi dire che quasi tutta la Sicilia ottenne, in
breve e di queto, franchigie municipali non dissimili da quelle che
tante popolazioni italiane e straniere, nella stessa età, strapparon di
mano ai feudatarii con ostinati sforzi e sanguinosi.
Or è da spiegare perchè il municipio non si vegga distintamente, pria
dello scorcio del duodecimo secolo, nelle primarie città dell’isola,
le quali pur godettero larghissime franchige personali e reali fin da’
primi anni della dominazione normanna.[715] Il difetto non va apposto
a casi fortuiti che avessero distrutto ogni avanzo di loro carte nei
frequenti disastri della diplomatica siciliana: ma più plausibile
supposto e’ sembra che nessuna di quelle città abbia avuto municipio
di momento in que’ primi tempi. Lasciate da canto Siracusa e Catania,
soggette a feudatarii, diremo sol di Palermo e di Messina, tenute
sempre in demanio e importanti sette secoli addietro, così come le son
oggi.
Palermo che agguagliava o vincea per frequenza di abitatori ogni
altra città d’Italia, racchiudea forse, verso il 1150, una diecina
di _università_, come allor si chiamavano: Musulmani, Greci, Ebrei,
Lombardi, Amalfitani, Genovesi, Baresi ed antichi abitatori cristiani;
e i Musulmani e qualche altra gente suddivisi, com’egli è verosimile,
per quartieri, Cassaro, Khalesa, Halka, Schiavoni:[716] tra i quali
corpi e’ non è possibile d’immaginare alcuna comunanza di vita
municipale. Fu mestieri che si dissipassero i Musulmani, e che la
lingua, i costumi e le violenze dei feudatari e poi de’ Tedeschi,
accomunassero i cittadini cristiani, cioè che volgesse più d’un secolo,
per mettere insieme quel grosso di borghesia, il cui municipio prevalse
su tutte le università minori e rappresentò la cittadinanza della
capitale che proteggea Federigo lo Svevo nella sua fanciullezza. Chi
ricordava allora la _gemâ’_ musulmana o l’israelita, o i magistrati de
piccoli consorzi cristiani, e chi ne serbava gli archivi?
Sembrano diverse a prima vista le condizioni di Messina, la città
cristiana, la testa di ponte, direbbe un militare, per la quale i
conquistatori soleano sboccare contro i Musulmani dell’isola. Ma
secondo la testimonianza d’Amato, rincalzata da fatti anteriori,
Messina, al primo assalto dei Normanni, era quasi vota d’abitatori
battezzati.[717] Nè al certo valsero a ripopolarla in breve tratto le
poche centinaia di uomini che vi facea passare di quando in quando
il conte Ruggiero; nè gli stuoli più grossi che recovvi tre fiate
Roberto Guiscardo. Greci di Sicilia e di Calabria vi si raccolsero,
com’e’ pare, a poco a poco, e genti italiche di varii paesi, finchè
il tramestìo delle Crociate e le guerre marittime de’ Normanni non
riempirono di navi il porto e non accelerarono la ristorazione della
terra.[718] La diversità delle genti che l’abitavano, attestata
dagli scrittori del duodecimo secolo,[719] portò necessariamente
molti consorzii e ritardò, sì come in Palermo, la formazione del vero
municipio.
Le conghietture alle quali io sono stato troppo spesso necessitato,
provano la scarsezza de’ documenti e il poco zelo che s’è messo fin qui
a rintracciarli. Or v’ha cagione di sperare che il generale movimento
degli studii storici conduca gli eruditi ad approfondire la istituzione
delle municipalità siciliane. Ce ne danno arra i lavori di Isidoro La
Lumìa e di Ottone Hartwig, l’un de’ quali nella Storia di Guglielmo il
Buono e l’altro nell’Introduzione alle consuetudini municipali della
Sicilia, hanno toccato con dottrina, ancorchè di passaggio, questo
grave argomento.
Della feudalità non tratteremo a lungo, sendo stati gli ordini di
quella descritti largamente dal Gregorio,[720] e qualche minuzia che
questi lasciò addietro, spigolata con diligenza dal professore Diego
Orlando.[721] La somma è che, istituita per lo primo allo scorcio
dell’undecimo secolo, da un conquistatore che sapea comandare a’ suoi
seguaci, la feudalità siciliana nacque ubbidiente e moderata; che
il principe trasferì a ciascun barone, tanto o quanto determinati,
que’ ch’egli credea suoi diritti su le cose e sulle persone; ch’e’
riserbossi il più delle volte la suprema giurisdizione criminale, e
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