Storia dei musulmani di Sicilia, vol. III, parte I - 09

intervengono insieme parecchi marchesi: poi, nel duodecimo secolo,
si veggono divisi e suddivisi i territorii tra’ varii rami del ceppo
aleramico e chiamati finalmente marchesati, ancorchè ormai tornassero
a mere contee, le quali talvolta non oltrepassarono l’ordinario
territorio giurisdizionale d’un visconte. Così nacquero i marchesati
del Vasto, Incisa, Busca, del Carreto, del Bosco, Ponzone, Monferrato,
Occimiano, Albenga, Ceva, Clavesana, Cortemiglia, Loreto.
Già a mezzo dell’undecimo secolo, separate le due parti estreme
della Marca, veggiam tre fratelli, Otone, Manfredo e Anselmo, giurare
insieme e con uguale titolo, un patto con Savona; la quale tendendo
al reggimento municipale, svincolavasi come potea da’ Signori. Ma
succeduto ad Otone il figliuolo Bonifazio detto del Vasto, e morti
innanzi il 1079 Anselmo e Manfredo,[439] fratelli o figliuoli di Otone,
Bonifazio accrebbe il territorio a scapito della Marca occidentale
che abbracciava Torino, Asti ed altri luoghi. Disputando l’eredità di
Adelaide di Susa a Corrado figliuolo di Arrigo IV, a Umberto di Savoja
e al conte di Mombeliard, Bonifazio fu segno all’ira di Gregorio VII;
parteggiò sempre per gli imperatori contro i papi; guerreggiò con
cittadi che s’emancipavano; e imprigionato una volta, osteggiato dal
proprio figliuolo per nome anch’egli Bonifazio, marchese d’Incisa,
arrivò pure a scompartire un vasto dominio agli altri figliuoli. Non è
meraviglia dunque che Malaterra il vanti famosissimo marchese d’Italia.
Nè torna inverosimile la nobile educazione data, secondo l’Anonimo,
all’Adelaide, figliuola orfana di Manfredo. Un fratello di Adelaide per
nome Arrigo, ricordato ne’ diplomi siciliani al par che nei piemontesi,
ebbe poscia alto stato in Sicilia; e forse altri rampolli di Casa
aleramica eran venuti quivi a combattere sotto le insegne de’ Normanni:
di certo molti nobili uomini della Marca aleramica vi tennero feudi,
siccome più largamente sarà detto nei capitoli che seguono.


CAPITOLO VIII.

Convien ora esporre le condizioni politiche e sociali che i Musulmani
sortirono nel conquisto e con essi i precedenti e novelli abitatori
dell’isola; alla quale investigazione spianò la strada il maestro
del Diritto pubblico siciliano, il sagace e dotto Rosario Gregorio,
nella «Introduzione» e nei primi libri delle “Considerazioni.” Dal
suo tempo in qua le fonti di quel tratto di storia non sono cresciute
gran fatto. Mancano tuttavia le antiche leggi, da qualche incerto
brano all’infuori. Tace tuttavia la cronica della corte e del campo,
da Malaterra all’abate di Telese; cioè tra la morte del conquistatore
e la gioventù del secondo Ruggiero: pressochè un quarto di secolo, che
racchiude la reggenza della contessa Adelaide e forse l’assetto delle
nuove colonie. Pur si raccatta qualche cenno nei ricordi d’altre età
o d’altri paesi; e un po’ di luce si prende dai diplomi pubblicati o
inediti. In grazia poi degli strumenti di critica storica, perfezionati
nel corso di questo secolo, si cava miglior costrutto da’ materiali:
talchè per tutti i versi dobbiamo a’ nostri tempi di potere più
dirittamente giudicare e più liberamente scrivere, che non osasse
il cauto prelato siciliano sotto i Borboni di Napoli, aizzati dalla
rivoluzione francese. Or non sembri prosunzione se noi ci proviamo a
correggere qualche parte del disegno che il Gregorio delineò, son or
sessant’anni.
Il quale avendo lavorato principalmente su’ diplomi, e sendo noi
costretti a far lo stesso, premettiamo alcune avvertenze intorno la
diplomatica siciliana dell’undecimo e duodecimo secolo. In primo luogo
è da eliminare un documento accolto alcuni anni addietro nell’Archivio
di Napoli e presentato il 1845 al congresso degli Scienziati
d’Italia: niente meno che un editto del vecchio conte Ruggiero,
dato il quattrocensettantaquattro dell’egira (1081), promulgato in
pien _divano_ a Messina, per notificare ai presenti ed ai posteri
la istituzione dei sette grandi uficii della Corona siciliana e il
ceremoniale di corte. Il tempo, il luogo e il titolo dell’adunanza,
la natura stessa e i termini dello statuto, ripugnan tanto ai fatti
fondamentali della storia siciliana, da potersi rigettare quella
scrittura senza pure guardarla. Per lo contrario, ad occhi pratici
basterebbe guardarla senza badare al contenuto; scorgendosi una
rozza mano moderna che si prova per la prima volta a imitare la
scrittura arabica, o piuttosto una confusione di caratteri cufici,
neskhi e affricani, or da carteggio plebeo, or da stile numismatico o
monumentale; e un terzo forse de’ vocaboli, contraffatti a ghirigori;
e ne’ luoghi leggibili tanti errori d’ortografia, di grammatica o di
lingua, quante parole. Ai quali segni e allo stile e tendenza dello
scritto, ben si riconosce la fattura dell’ignorante e temerario abate
Vella, del quale facemmo parola nel primo volume.[440]
Ancorchè non occorrano di tali brutture nelle carte siciliane
pubblicate innanzi o dopo il Gregorio, egli è da usare con precauzione
tutte quelle scritte originalmente in arabico o in greco; sendo
la più parte pieni di errori i testi, e sbagliate o stranamente
scontorte le versioni. Il qual vizio notai già particolarmente pei
diplomi arabici.[441] Poco minor guasto hanno patito i greci, presi a
deciferare da ellenisti digiuni della erudizione storica della Sicilia,
come il Lascari, ovvero da eruditi siciliani, come il Pasqualino ed
altri, i quali non sapeano per bene la lingua, nè la paleografia
greca de’ bassi tempi: e il peggio è che perdutesi molte delle
pergamene, altro non ci avanza che le infelici traduzioni stampate
dal Pirro, dal Mongitore e da alcun altro. Nè sfugge del tutto a
tal biasimo, il diligentissimo Tardia;[442] nè quanti han dato alla
luce alla spicciolata de’ diplomi greci nella prima metà del secolo
che corre.[443] Con migliori auspicii Giuseppe Spata da Palermo n’ha
pubblicati in questi ultimi tempi una sessantina.[444] Ed è ormai
da sperare la collezione compiuta delle carte greche e arabiche
dell’Archivio regio di Palermo, forse di tutte quelle dell’isola;
poichè il professor Salvatore Cusa va preparando il lavoro, e il
Ministero della pubblica istruzione ha promesso di sovvenire alle spese
della stampa. Userò io intanto le copie dei diplomi arabici serbati
in Palermo, le quali debbo alla cortesia del Cusa; e le bastano già a
mostrare il recente progresso degli studii orientali in Italia.[445]
Oltre i materiali testè citati, v’ha qualche altro diploma greco del
principato normanno di Sicilia e di Calabria nell’ampia ed accurata
raccolta napoletana, data non è guari dal Trinchera.[446] Quanto ai
diplomi latini dell’epoca stessa, pochi ne sono venuti alla luce dopo
i tempi del Gregorio[447] e gran numero dorme tuttavia negli archivi
pubblici o ecclesiastici dell’isola: del che mi duole, ma non temo sia
per tonarne gran danno, poichè le memorie latine de’ principi normanni
furono sempre studio prediletto in Sicilia e il Gregorio adoperò molto
le inedite.
Allo scorcio dell’undecimo secolo rimaneano al certo nell’isola,
non piccola parte della popolazione, gli antichi abitatori italici
ed ellenici[448] ai quali par che accenni il Malaterra con le
denominazioni di _cristiani_ e _cristiani greci_;[449] e meglio li
distingue l’Amato con quelle di _cristiani_ e _cattolici_, che hanno
appo lui significato contrario all’odierno, designando la prima
i popoli italici e oltramontani seguaci della Chiesa romana, e il
vocabolo _cattolici_ i Greci di lingua o di setta.[450] La scarsezza,
in vero, dei ricordi, la somiglianza de’ nomi proprii tra i Bizantini
e i Siciliani e tra questi e gli abitatori di Terraferma infino al
Garigliano, la promiscuità di soggiorno delle genti diverse nelle
medesime città e talvolta negli stessi villaggi, rendono difficile
a confermare con altre prove la durata di quelle due schiatte; la
quale sarebbe sempre da supporre, quand’anche non l’attestassero i
cronisti. Pur si ritrovano indizii dell’origine, ne’ nomi di quelle
poche centinaia di villani di Aci, Catania, Cefalù e di qualche terra
in provincia di Palermo, de’ quali ci avanzano, per caso rarissimo,
le platee, ossiano ruoli, distesi allo scorcio dell’undecimo secolo
e nella prima metà del duodecimo. Quivi tra i molti Mohammed, Alì,
Abd-Allah e altri nomi musulmani; tra i Basilii, Teodori, Nicola-ibn
Leo, Nicola Nomothetis e simili di forma greca, occorrono de’ nomi
più comuni in Italia: Pietri, Filippi, Gennari e de’ casali di conio
latino, Campalla, Donas o Donus, Bambace, Diosallo, Subula, Lancias,
Pitittu,[451] Zotico e Zotica,[452] Currucani,[453] Mesciti, Notari,
Luce, La Luce e un Pietro Saputi. Cotesti servi della gleba non erano
venuti di certo dalla Terraferma co’ vincitori. Notisi inoltre che il
nome patronimico, latino o greco, è accompagnato spesso da nome proprio
arabico: Jéisc-ibn-Gelasia, Ahmed-ibn-Roma, o Romea, Jûsuf-ibn-Caru,
Jusuf-ibn-Gennaro, Omar-ibn-Crisobolli, Mohammed-Gebasili,
’Isa-ibn-Giorgir, Abd-er-Rahman-ibn-Francu, Hosein-ibn-Sentir; e
veggiam perfino de’ soprannomi, Alì-ibn Fartutto, Ali Strambo, Mohammed
Pacione. Dond’e’ si argomenta che parecchi villani musulmani fossero
d’origine greca e italica. La mescolanza delle schiatte comparisce anco
da’ nomi di cittadini e villani in altri luoghi.[454]
Sappiam ora come si debba intendere l’affermazione d’Ugone Falcando
che i villani di Sicilia fosser tutti Greci o Saraceni.[455] Corso un
secolo dalla età dell’Amato e del Malaterra, s’era dileguata, parmi, la
distinzione degli indigeni in cristiani e cattolici, ossiano italici e
greci. Dileguata per lo scarso numero de’ primi e perchè l’ignoranza,
i pregiudizi e l’orgoglio della dominazione portavano gli abitatori
novelli, oltramontani e italiani di Terraferma, a chiamar tutti insieme
Greci gli antichi abitatori che non fossero musulmani. E scarseggiavano
gli indigeni d’origine italica, perchè la più parte, fatti musulmani,
come già notammo,[456] contavano tra’ Saraceni. L’è verosimile poi
che, tra i due segni apparenti della nazionalità greca, il rito cioè
e la lingua, la comune degli uomini s’appigliasse piuttosto al rito;
donde si perdonava la lingua d’Omero a’ Greci uniti alla Chiesa di
Roma, quei per esempio delle regioni dove il conte Ruggiero fondò i
suoi monasteri basiliani: e lasciavasi l’ingrato nome di Greci a’ soli
scismatici, e però ai contadini, i Pagani del linguaggio cristiano,
che furono sempre sì tardi a seguire i mutamenti religiosi delle città.
L’error popolare del duodecimo secolo ingenerò un altro errore appo gli
eruditi, quando rinacquero in Europa gli studii storici, senza che si
potesse approfondire per anco l’etnologia: nel qual tempo coincise appo
i dotti italiani che l’amor patrio vaneggiasse in speculazioni puerili.
Non è maraviglia se allora gli scrittori dell’isola si compiacquer
tanto nel supposto d’una nazione siciliana, ben diversa da que’ Greci
i quali era vezzo comune di vilipendere: nazione ortodossa, numerosa,
civile, e cara a’ suoi liberatori, o, secondo altri, meri ausiliari,
i Normanni.[457] Cadde con gli altri nell’errore il Gregorio; il
quale, dando significato legale alle frasi ascetiche o rettoriche
dell’undecimo secolo, e confondendo Roberto Guiscardo e il conte
Ruggiero col pio Buglione dell’epopea, scrisse: avere i conquistatori
accordata libertà civile e franchige a’ Cristiani siciliani.[458] Ma di
ciò tratteremo più largamente a suo luogo.
I diplomi che ci avanzano, millesima parte di que’ distrutti,
rischiarano pur la distribuzione geografica delle schiatte, non
solamente co’ nomi proprii, ma sì col mero fatto della lingua e
delle note cronologiche; rispondendo l’una e le altre alla nazione
preponderante nel luogo: il latino e l’èra volgare appo le genti
italiane ovvero oltramontane; il greco e l’èra costantinopolitana per
le greche; l’arabico e l’egira pei Musulmani. Confermano le scritture
per tal modo la frequenza dei Greci nel Val Demone o meglio diremmo su
la costiera orientale e di tramontana infino a Cefalù[459] e mostrano
che se ne trovasse un po’ per ogni luogo[460] e che nel corso del
duodecimo secolo ingrossassero anco in Palermo, rifatta capitale.[461]
Brevemente dirò delle genti semitiche. Gli Ebrei, pochi e spregiati
da’ seguaci delle due religioni che si fondavano in su i loro libri
sacri, non comparvero nelle vicende del conquisto, nè della dominazione
normanna; lasciarono bensì in Sicilia, dall’undecimo al decimo quinto
secolo, molti ricordi dell’operosità loro industriale e commerciale,
dello zelo scientifico e della furberia che spesso lo deturpò.[462] I
Musulmani, tra i quali sono da noverare alcuni orientali di schiatte
ariane,[463] i Berberi[464] e perfino degli indigeni di Sicilia,
come ricordammo or ora, erano sparsi per la più parte dell’isola. I
ricordi storici e diplomatici, che troppo lungo sarebbe a citar qui, li
mostrano frequentissimi in Val di Mazara, numerosi abbastanza in Val
di Noto, radi in Val Demone,[465] e si sa che nella seconda metà del
secolo XII furono cacciati con la forza dalle regioni interne della
Sicilia. Non mi proverò adesso a suddividere le varie generazioni
dei Musulmani nelle regioni dell’isola, perchè manca ogni attestato
di scrittori, e i nomi proprii corrono per lo più senza soprannome
etnico; oltrechè non ce ne avanzano che poche centinaia, spigolate in
una trentina di carte arabiche, tra atti privati e platee di villani,
e coteste carte si riferiscono a quattro soli territorii. Ci basterà
di ritrovare tuttavia in que’ luoghi la mescolanza di schiatte, che
notammo sotto la dominazione musulmana.[466]
Tra i cittadini di Palermo, possidenti e testimonii in atti pubblici,
ci occorrono Arabi delle tribù del Jemen: Azd, Kinda, Lakhm, Ma’âfir,
e di Medina, e dell’Hadhramaut; Arabi delle tribù modharite: Kais,
Koreisc, Temîm; e Berberi delle tribù di Howara, Lewata, Zegawa,[467]
Zenata; non contando alcuni nomi etnici dubbii.[468] Una iscrizione
sepolcrale del millesettantaquattro, ricorda inoltre un oriundo del
Kairewân.[469] De’ nomi proprii, come Badîs e Tarakût, e gli etnici
di Kotama e Howara, attestano che gente berbera vivesse in Cefalù;
se non che i due primi sono villani nel contado, insieme con de’
Giodsami del Jemen, Barrani di Bokhara o d’Ispahan, Sciami di Siria,
Burgi o Bergi forse di Spagna, Begiawi, ossia di Bugia e Righi, anco
d’Affrica.[470] Oltre a quelli veggiamo in Cefalù musulmani del paese
stesso: Corleone, Sciacca, Termini e Trapani. De’ pochissimi nomi che
si possano determinare tra’ pochi che abbiamo de’ villani in Corleone,
tornerebbero Ibn-Abi-Ifren e un Lewati alla schiatta berbera, Dsimari
al Jemen, Barrani a Bokhara come innanzi dicemmo; e un Melfi potrebbe
essere italiano della città di quel nome o anco di Amalfi: inoltre vi
ha de’ Siciliani di Girgenti e di Giato.
Ma tra i numerosi villani del vescovo di Catania in quella città e
in Aci, i nomi da potersi riconoscere, che in vero non son molti,
darebbero il vantaggio alle schiatte affricane. Iften e Iknizi
mi sembrano nomi proprii di Berberi; e tali di certo tre famiglie
soprannominate _Barbari_ e gli oriundi delle note tribù berbere di
Bargawata, Meklata, Nefzawa, Mesrata, Agisa, Urdin e Werru;[471] ed
affricani, ancorchè non sappiamo di quale schiatta, gli oriundi delle
città di Barca, Bona, Tunis, Susa, Msila, Melila, Solûk, del Sâhel,
ossia costiera, e dell’isoletta di Aragigun.[472] Tra gli schiavi
è un Malati, oriundo com’e’ pare di Melitene. Sei nomi di schiatte
arabiche scorgonsi nei villani, Mesudi, Hegiazi, Gafiki, ch’è ramo
della tribù di Azd, e quei della tribù di Kais nominata di sopra e
di Zogba testè passata d’Egitto in Affrica e una donna coreiscita
ed una egiziana. Legiati si riferisce a una terra in Siria; Ainuni
a villaggio presso Gerusalemme; Turungi al Taberistan, e Kirmani ad
altra notissima provincia d’Asia. Un casato Castellani e un Fakri
sembra vengano di Spagna, come di certo un Andalusi. Nabili, che
ve n’ha parecchie famiglie, rimane di origine dubbia tra la Napoli
italiana e quella d’Affrica. Nè mancano i siciliani: Medini e Sikilli
che significano entrambi di Palermo, e di Aci e Catania stesse, di
Cammarata, Sementara, Burkad, Ragusa, Sant’Anastasia, Tawi, Trapani,
Mismar,[473] Malta; un Bekkari che par si riferisca a Vicari[474] e un
Sid-es-Sarkusi, schiavo. Il bel marmo sepolcrale del museo di Malta
fa fede che nel duodecimo secolo stanziasse in quell’isola un’agiata
famiglia, venuta com’e’ pare da Susa in Affrica e discendente della
tribù modharita di Hodseil.[475] Son questi gli scarsi dati etnologici
che m’è venuto fatto di mettere insieme, dopo molte ricerche.
Delle nuove schiatte, occorrono primi i Normanni. Questi in Sicilia
allo scorcio dell’undecimo secolo, non erano gente venuta in frotte a
stanziare nel paese occupato, come due secoli addietro il _wicking_
di Roll in Normandia; non esercito ordinato che simmetricamente
s’adagiasse in casa de’ vinti, come pochi anni innanzi i seguaci di
Guglielmo in Inghilterra; fattovi re il duca, duchi i feudatarii e
così via innalzandosi ciascun altro. Anzi il conquisto dell’isola
britannica, contemporaneo alla guerra che si travagliava giù a
duemila miglia verso mezzogiorno, escluderebbe il supposto d’una
grossa emigrazione dalla Normandia e da altre province della Francia
settentrionale in Sicilia, se a noi fosse uopo ricorrere alle
verosimiglianze, e non sapessimo appunto che le compagnie normanne
di Puglia componeansi in parte di venturieri raccolti per tutta la
penisola italiana[476] e che il conte Ruggiero, il quale n’avea del
suo qualche drappello, racimolò a stento, dopo l’espugnazione di
Palermo qualch’altro poco di gente nell’esercito di Roberto.[477] Le
costui guerre civili, quella di Grecia e la discordia ch’ei lasciò per
testamento ai figliuoli, riteneano poscia nelle province meridionali
della Terraferma gli oltramontani quivi stanziati e vi attiravano i
venturieri che tuttavia venissero alla sfilata di là dalle Alpi; finchè
il vortice delle Crociate non li trasportò tutti in Levante.
Alle quali presunzioni rispondono i fatti. I ricordi storici d’ogni
maniera non accennano ad emigrazioni francesi nell’Italia meridionale
dopo il millesessanta, se non che di spicciolati, chierici e monaci
piuttosto che guerrieri. I nomi francesi poi che veggiamo nei diplomi
e nelle croniche di Sicilia sono di coloro che occupavano i più alti
gradi della società: feudatarii, prelati e officiali pubblici;[478] ed
erano, se non i soli, gran parte degli uomini di cotesto linguaggio
dimoranti in Sicilia. Di popolazioni propriamente dette d’una città,
d’un villaggio o pur d’un quartiere, non rimane alcuna notizia in
carte, monumenti nè tradizioni municipali; non ne rimane vestigia ne’
nomi topografici.[479] Che se più profonde si è creduto scoprirne nel
dialetto siciliano, i vocaboli e le forme che si supponeano francesi
vanno attribuiti la più parte alle popolazioni dell’Italia di sopra; e
in ogni modo non arrivano al segno che toccherebbero, se la influenza
delle case dominanti fosse stata rincalzata da un grosso di popolazione
del medesimo linguaggio. A ciò si aggiunga che le famiglie francesi
spariscono da’ ricordi della Sicilia con l’ultimo principe normanno
che vi regnò. Nè l’è maraviglia, quand’esse veggonsi appena sotto il
forte governo del secondo Ruggiero e poco sotto i successori. Che se
allora alcun barone di quelle schiatte entra nelle brighe politiche,
pure il favor della corte e il poter dello Stato, è disputato sempre
tra italiani, musulmani, e qualche prelato oltramontano; ed egli avvien
sempre che costoro si rimangano senza amici nel paese. Quello Stefano
de’ conti di Perche, che fu chiamato dalla regina per governare lo
Stato nella fanciullezza di Guglielmo secondo, non trovò in Sicilia
altri fautori che i Lombardi, de’ quali innanzi diremo. Due egregi
ospiti della Sicilia nel duodecimo secolo, scrittori entrambi, chierici
e francesi, il Falcando, cioè, che tanto amava il paese, e Pietro
di Blois, che lo ingiuriò com’avventuriere deluso, non fanno motto
di abitatori francesi dell’isola, nè d’antico baronaggio normanno;
e il primo, in particolare, toccando i tumulti surti in Messina per
cagione di Stefano, non ricorda altri francesi che i costui seguaci
venuti di fresco e nota come i Latini della città stigassero contro
quegli stranieri i Greci, che è a dire il grosso della popolazione
messinese.[480] Accenna in vero, il Falcando, al parlar francese nella
corte di Palermo; ma l’attestato suo non esclude l’uso di altre lingue,
sia il greco, l’arabico o l’italiano; nè porta punto che il francese
fosse parlato nella città e nelle province.[481] Cade così la prova
principale che allegava il Gregorio nella favorita sua tesi delle
origini normanne.[482] Nè regge meglio quella della liturgia gallicana
seguita nelle chiese di Sicilia, perchè la proverebbe sol quello che da
nessuno si nega, cioè che il conte Ruggiero e molti suoi baroni fossero
normanni e conducessero sacerdoti francesi per dir la messa all’usanza
di casa loro.[483]
Gli è bene replicarlo: alla fine dell’undecimo secolo stanziavano in
Sicilia parecchi feudatari e suffeudatari e parecchi prelati e frati,
nati nella Francia settentrionale. Nella seconda metà del secolo
duodecimo la corte assoldava compagnie di mercenarii oltramontani,
verisimilmente francesi.[484] Non pochi chierici e frati venivan anco,
mandati dalle sètte fratesche di Francia a far parte per la Chiesa
romana e fortuna per sè medesimi nella corte di Palermo; a disputare il
favor de’ principi, il reggimento dello Stato, i vescovadi, le abbadie
e gli uffici pubblici a Italiani, Bizantini e Musulmani. Abbiam noi
notata[485] la tendenza di coteste sètte e la forza, ch’era mezzo il
raggiro, mezzo la dottrina di che s’avvantaggiavano que’ frati, sì
come il guercio nella terra de’ ciechi. Del rimanente, surse tra loro
qualche uomo erudito che promosse, secondo i tempi, l’incivilimento
della nuova nazione: e francese fu il cronista del conte Ruggiero,
francese lo storico de’ due Guglielmi; talchè la Sicilia e l’Italia
tutta debbono render merito alla schiatta scandinava ed alle altre
della Francia settentrionale, per l’opera prestata nell’epoca normanna
con l’ingegno non meno che con la spada. Ma popolazioni francesi
propriamente dette non ebbe la Sicilia; le famiglie spicciolate
s’estinsero entro un secolo, gli ecclesiastici in una generazione.
Basterebbe il fatto della lingua che fiorì in Sicilia in su lo scorcio
del duodecimo secolo a provare la venuta di grosse colonie dalla
Terraferma; poichè le antichissime popolazioni italiche dell’isola,
dopo cinque secoli di dominazione bizantina e musulmana, nè avrebbero
potuto parlare idioma sì vicino a que’ dell’Italia di mezzo, nè
imporlo agli altri abitatori di favella greca e arabica. Molti indizii
confermano tal supposto; ancorchè il biografo del conte Ruggiero
dissimuli la partecipazione della schiatta italiana nel conquisto
dell’isola, sì com’ei tace l’opera d’Ardoino nella sollevazione contro
i Bizantini, e gli aiuti d’Ibn-Thimna al principio della guerra di
Sicilia. Gli scrittori arabi espressamente affermano che Ruggiero
fece stanziare nell’isola, insieme co’ Musulmani, i Franchi e i Rûm;
che qui vuol dir chiaramente Francesi e Italiani.[486] Aggiungansi
parecchie denominazioni etniche di luoghi: la torre Pisana e il
vico degli Amalfitani in Palermo;[487] la rua de’ Fiorentini in
Messina,[488] dove anco occorre un Console di Amalfitani,[489] il
poder del Genovese (_Rab’ el Genuwi_, Cultura Januensis) in provincia
di Palermo,[490] il quartiere de’ Cosentini a Lentini,[491] e i nomi
di una trentina di comuni in Sicilia che si riscontrano con identici
o simili in Terraferma;[492] dal qual confronto abbiamo esclusi, come
troppo ovvii a tutte genti latine, i nomi di santi cristiani e le
denominazioni composte con le voci casale, castello, castro, massa,
monte, rocca, serra, torre, valle e simili; ed esclusi anco, per la
difficoltà che avvi finora a ricercarli, i nomi di campagne, poderi,
spiagge, acque. Ora si aggiungano i nomi etnici delle persone. Tra
cinque canonici di Girgenti notati in un diploma del 1127, troviam un
romano, un policastrino, un lucchese, un bresciano e un francese, oltre
un genovese ed un di Bisignano, soscritti tra’ testimoni.[493] In un
diploma dato il 1094 di Messina o di Patti, veggiamo tra’ testimonii,
con pochi nomi francesi e alcuno greco o arabico, Ildebrandus
lombardus, Rogerius de Torceto Acquinus, Ugo de Putheolis, Gualterius
de Canna; oltre i casati di Maledocto, Ruffo, Strato, Minoartino,
Astari, Bonelli, Marchisi.[494] Un altro diploma del 1095 presenta
tra’ testimonii, con qualche nome francese o dubbio, que’ di Arrigo
fratello di Adelaide, Odone Bono marchese, Roberto Borello Aquino,
Riccardo Bonnella, e Ruggiero Bonello.[495] L’onorato nome d’Alfieri
si legge tra’ notabili della terra di San Marco, in un diploma del
1136.[496] Uno della Chiesa di Patti, dato il 1133, risguardante la
composizione d’una lite surta tra i cittadini e il vescovo, ha tra’
testimonii un genovese, un parmigiano, un di Potenza e parecchi uomini
di Patti, con nomi tutti di conio italico; e quel ch’è più, un atto
inseritovi, che torna allo scorcio dell’undecimo secolo, attesta
che il vescovo Ambrogio avesse allor bandita concessione di beni a
qualunque uomo di linguaggio latino che venisse ad abitare il paese:
il quale linguaggio latino che cosa significhi lo spiega il medesimo
diploma del 1133, aggiugnendo che quello statuto d’Ambrogio era stato
poc’anzi «esposto in volgare» ai cittadini che sostenean la lite.[497]
Del resto non abbiamo, nè sperar possiamo, ragguagli particolareggiati
su le immigrazioni spicciolate dalla Terraferma in questa o quella
città dell’isola; ancorchè le si debbano supporre numerose, e più
dall’Italia di sopra che dalla inferiore. Il reggimento feudale che i
Normanni istituiron quivi in alcune province e in altre rinnovarono,
impediva le emigrazioni da terra a terra, non che oltre il mare.[498]
Nell’Italia di sopra, al contrario, la feudalità si disfaceva appunto
in quel tempo, senza che fossero per anco assettati i Comuni: donde
i membri infermi dell’uno e dell’altro ordine sociale, agitati
da mille rivolgimenti di indole identica e di apparenze diverse,
volentieri tentavano la fortuna in paesi nuovi, e senza ostacolo vi si
trasferivano.
Da ciò le grosse colonie che si addimandarono lombarde, su le
quali non ci mancano buone testimonianze storiche. Ognun sa il vago
significato ch’ebbe un tempo la denominazione di Lombardia, che gli
stranieri estesero talvolta a tutta la penisola.[499] Ma perchè molti
eruditi, e tra quelli il Gregorio, han supposto i Lombardi di Sicilia
venuti dall’Italia meridionale non men che dalle sponde del Pò, debbo
ricordare che tal confusione non fecero gli scrittori nostrali,
nè gli stranieri, de’ tempi normanni. Pietro Diacono scrive delle
moltitudini di Lombardi e Longobardi che seguirono Pier l’Eremita[500]
e il dottissimo arcivescovo di Tessalonica narra le avanìe che avean
patite Pisani, Genovesi, Toscani, Longobardi e Lombardi, da Andronico
Comneno.[501] Longobardi si chiamavano que’ dell’Italia meridionale,
dove i Bizantini, ripigliata parte de’ Ducati, n’avean fatto un
_tema_, detto Longobardia.[502] E così il Falcando pone i Longobardi e
i Lombardi come genti affatto diverse; gli uni abitatori di province
continentali, gli altri della Sicilia.[503] Il primo ricordo che ci
rimanga di coteste colonie, oltre i nomi testè riferiti di Ildebrando
e Ruggiero di Torceto da Acqui, (1094), torna alla metà del duodecimo
secolo: preciso e importantissimo documento, per lo quale re Ruggiero
dichiarava appartenere ai Lombardi di Santa Lucia le stesse franchige
de’ Lombardi di Randazzo.[504] Da’ cronisti ritraggiamo poi che
gli uomini di Butera, Piazza ed altre città di Lombardi, mossi da
un Ruggiero Schiavo, nobil uomo del quale or si dirà, pigliavano
le armi contro re Guglielmo primo e contro i Saraceni; che il re
distrusse Piazza, e ruppe i Lombardi; e che, rifuggitosi lo Schiavo in
Butera, Guglielmo ebbe alfine (1161) la città, pattuito che i ribelli
Lombardi e il loro condottiere andassero via di Sicilia.[505] A capo
di alcuni anni, ripiglia il Falcando, agitati sempre da congiure e