Storia dei musulmani di Sicilia, vol. III, parte I - 08

la dominazione musulmana; incivilita al par che ricca, patria di un
elegante poeta, il quale nella prima metà del secolo seguente ornò la
corte di re Ruggiero in Palermo. Il conte Ruggiero movea con l’esercito
all’assedio di Butera in su l’entrar d’aprile del mille ottantanove;
la strignea da tutti i lati; apprestava le macchine a battere il
castello, quando ebbe avviso che papa Urbano secondo, venuto in Sicilia
a trattare secolui gravissimo negozio, sostava alla corte in Traina.
Donde Ruggiero, lasciata ai suoi capitani la cura della guerra, andava
ad abboccarsi col papa; e quando questi partì, gli offria ricchi doni.
Ritornato al campo sotto Butera, ebbela a patti; messe presidio nel
castello e mandò in Calabria i più potenti cittadini. Nel febbraio
del mille novantuno, stando egli a Mileto, veniano oratori di Noto a
profferire la sottomissione; la quale egli accettò, francando la città
di tributo per due anni e rimandò co’ legati il figliuolo Giordano,
che occupasse il castello. La moglie e il figliuolo di Benavert si
rifuggivano allora in Affrica.[385]
Insignoritisi per tal modo i Normanni dell’isola tutta, Ruggiero
navigò lo stesso anno millenovantuno al conquisto di Malta, dalla
quale cominciar volle, scrive il biografo, a soggiogare novelle
province oltre il mare, per isfogar quella sua brama di acquisti e
quel bisogno ch’egli sentia di muoversi, affaticarsi, guerreggiare.
Mentre apparecchia la spedizione e chiamavi i suoi baroni, gli vien
detto che Mainieri di Acerenza, richiesto da lui d’un abboccamento,
avea risposto al messaggero: io nol rivedrò in viso che quando avrò
da fargli del male. Acceso d’ira a cotesta ingiuria, il conte ripassa
incontanente in Terraferma; Pietro di Mortain lo segue entro otto
dì con un esercito levato in Sicilia, pieno forse di Musulmani; col
quale Ruggiero muove in fretta contro Acerenza, la stringe di assedio,
sì che Mainieri scendea a chiedergli perdono, ed ei lo multava di
mille soldi d’oro. Pria di ritornare in Sicilia, diè il guasto al
territorio di Cosenza che avea disdetta la signorìa del favorito Duca
di Puglia. Poi comanda ch’entro quindici dì si adunino le genti e le
navi al Capo Scalambri[386] che difende da ponente il porto detto di
Longobardo, la Caucana di Tolomeo e di Procopio, donde Belisario era
passato al racquisto di Malta quattro secoli avanti di lui. Del mese
di luglio andovvi il Conte, vigoroso e verde, che non gli pesavano
i sessant’anni ed avea tolta testè la terza moglie. Pregandolo il
figliuolo Giordano che gli concedesse di capitanare l’oste, forte ei se
ne adirò; disse che essendo primo nel partaggio degli acquisti, primo
entrar voleva anco ne’ rischi e ne’ travagli; e comandò al figliuolo
che nell’assenza sua girasse la Sicilia con grosso stuolo, senza posare
mai in città murata o castello. Di che l’ambizioso giovane piangea di
rabbia. Ruggiero, fatto dar nelle trombe e negli strumenti di musica,
de’ quali par avesse composta una banda con valenti suonatori, fatto
salpare le ancore e scior le vele, approdò a Malta, al secondo giorno
di navigazione: prima tra tutte la sua nave, primo egli a sbarcare
co’ tredici cavalieri che soli avea seco: scaramucciando co’ Musulmani
aspettò l’arrivo delle altre navi, e con le genti dormì su la spiaggia.
La dimane, sparge i cavalli per la campagna; muove contro la città
col grosso dell’oste. Ma il _Kaid_ e gli abitatori non usi alle armi,
si affrettavano a venire a parlamento, si sforzavano a raggirarlo; nè
potendo vincerlo d’astuzia più che di forza, pattuivano di liberare
tutti i prigioni cristiani, consegnare armi, cavalli e tutt’arnesi di
guerra, pagare incontanente una grossa taglia e indi tributo annuale,
tenendo la città a nome del conte Ruggiero e prestandogli giuramento
di fedeltà. Ruppero in lagrime i guerrieri cristiani, quando i prigioni
sciolti da’ ceppi lor si fecero incontro, cantando il _Kirie eleison_,
recando in mano le croci, qual di legno, qual di canna, come ciascuno
avea potuto farsene; e gittavansi a’ piè di Ruggiero. Il quale li
scompartì tra tutte le navi quando salparono per tornare in Sicilia,
e temea non calassero al fondo per troppo peso; ma seguì il contrario
effetto, così il Malaterra, chè il nuovo carico le rendea tanto
leggiere da levarsi sul pelo delle acque un cubito più che all’andata.
Cammin facendo, senz’altri miracoli, sbarcarono al Gozzo; la
saccheggiarono, la assoggettarono al dominio di Ruggiero. Questi poi,
toccata la terra di Sicilia, adunava i prigioni cristiani di Malta,
loro accordava la libertà; offria terreni e strumenti di agricoltura
ed esenzione perpetua dalle tasse ed angherie e che lor edificherebbe
una città a bella posta, con nome di Villafranca, s’eglino rimanessero
in Sicilia. Ma amaron meglio di ritornare ciascuno a casa sua. Per
liberalità del conte, erano traghettati gratuitamente oltre il Faro;
sì che andarono spargendo per ogni luogo, il valore e la larghezza
del liberatore.[387] Con questo atto di carità coronava Ruggiero il
conquisto della Sicilia, compiuto a Malta in persona, com’egli in
persona lo avea cominciato a Messina, trent’anni innanzi.


CAPITOLO VII.

Il vincitore, quasi antico e natural principe, resse l’isola
tranquillamente ne’ dieci anni che seguirono, mentre pur la società
dall’imo al sommo si rimescolava; mutandosi la popolazione, le
proprietà, le condizioni civili, i costumi, le usanze, i magistrati
le leggi, la religione. Sola rivolta de’ soggiogati fu quella di
Pantalica: grossa città in quel tempo, fortissima per lo sito in una
roccia tutta stagliata, bagnata dall’Anapo, abitata in età remotissima
da un industre popolo, che incavò quasi un alveare di nicchie nella
parete liscia del masso.[388] I Musulmani di Pantalica nell’anno
millenovantatrè dell’èra volgare, tumultuavano, ebbri di gioia,
sentendo la morte del temuto signor feudale del luogo, Giordano,
figliuolo del Conte. Questi, ch’era sopraccorso a Siracusa all’annunzio
della malattia di Giordano e l’avea trovato estinto, celebrate appena
le esequie, mosse contro i ribelli con gli stanziali della sua guardia;
chiamò al servigio le milizie de’ baroni: superata la difficoltà de’
luoghi e l’ostinazione dei difensori, impiccò per la gola i caporioni;
punì altri con varii tormenti; cavò la pazzia a questa città,
conchiude, brutalmente, il Malaterra. Narrando, con ciò, come alla
morte di Giordano i Cristiani che si trovavano in Siracusa avessero
pianto amaramente per desiderio del prode giovane, e compassione del
misero padre, e come i Musulmani del luogo non avessero saputo frenare
le lacrime, ei nota, maligno, che furono lagrime di convulsione, non
già d’amore.[389]
Matto dunque chi resiste, perfido e vile chi si acconcia: così alla
corte normanna si ragionava. Il signore, operando più savio che non
parlassero i cortigiani, non si affidò al solo terrore. Vedea quella
generazione, decimata dalle guerre e dagli esilii, stanca de’ piccoli
tiranni, non chieder altro che riposo e giustizia. E l’uno e l’altro
ei le diè; e ne ottenne che i Musulmani, se non lo amarono, lo tennero
necessario a loro prosperità; l’ubbidirono, anzi lo secondarono,
procacciando insieme col proprio l’utile di lui. Dell’incivilimento
degli abitatori musulmani, latini e greci, ei raccolse una quantità di
forza, che s’era sterilmente consumata per l’addietro. Ei trasse danari
e soldati dai Musulmani più che dagli altri, perchè erano di gran
lunga più numerosi e più industri, più compatti in lor ordine sociale,
più ubbidienti al principe. Maneggiando tal forza, ei prevalse sugli
altri feudatarii normanni. Con la fama ch’egli avea ben meritata d’uom
di guerra e di Stato, savio, giusto, religioso, con la possanza della
mente e dell’animo suo, tenne il primato nell’Italia a mezzogiorno del
Tevere e contò tra i monarchi d’Europa.[390]
A lui si volsero tutti gli sguardi alla morte di Roberto; quando
chi parteggiò per l’uno chi per l’altro figliuolo, ma ciascuno pensò
veramente ai fatti suoi proprii, e dimostrossi, dice il Malaterra,
la slealtà di molti Pugliesi.[391] Slealtà, nel costui linguaggio,
significava impazienza del giogo normanno, chè giogo egli stesso il
chiama; significava ricusare il tributo e il servigio che il duca,
all’uso normanno,[392] richiedea dalle città, le quali un tempo
elessero console il capo de’ condottieri; richiedea da’ condottieri
che chiamarono un compagno a capitanare tutte le forze in guerra.[393]
Il vero è che cittadini longobardi o calabresi, e baroni normanni e
italici, rivendicavano loro diritti usurpati da Roberto e usavano
la discordia de’ costui figliuoli: donde Ruggiero, novello duca,
dovea ad un tempo difendersi da Boemondo e domare le città e baroni
ricalcitranti, adoperando armi della stessa tempra che le loro,
inefficaci e mal fide.[394] Gli stese allor la mano il conte Ruggiero,
il quale avea promesso, dicono, a Roberto di mantener quell’ordine di
successione,[395] ed era partecipe dell’intento politico che lo dettò:
mostrare, com’io penso, alla Puglia un principe di schiatta longobarda
per via della madre, talchè i soggetti gli ubbidissero più volentieri,
gli estranii di Benevento e Capua lo desiderassero. Si notò, in
vero, la condiscendenza del novello duca verso i Longobardi.[396]
Intanto i fatti rivelano il disegno, forse l’accordo, fermato tra’
due Ruggieri: che il Duca cedesse del tutto al Conte la Sicilia, le
Calabrie e fors’anco lo favorisse nell’acquisto d’altri territori
più settentrionali; e il Conte prestasse a lui le armi per costituire
un sol principato di lì al Garigliano e al Tronto. Combacia con tal
disegno il detto di Malaterra, che alla nascita di Simone (1093)
successore immediato del Conte, fu certo il futuro duca di Sicilia
e di Calabria, per l’assentimento del duca Ruggiero di Puglia.[397]
Dalle quali parole e’ sembra che siasi trattato, se pur non fermato
con carte, di costituire in Ducato i dominii del Conte; il qual disegno
verosimilmente tornò vano per difficoltà della corte papale. Per opera
del conte Ruggiero fu esaltato (1085) al trono ducale il nipote; il
quale gli diè per arra la metà delle castella di Calabria, riserbata
a Roberto nel primo partaggio.[398] Per opera sua Boemondo, a capo
di due anni, posò le armi con magro accordo; e furono oppressi i
baroni che alzavan la testa.[399] Ma cadute in Sicilia le ultime città
musulmane independenti, Ruggiero adoperò, senza tema di ferirsi da
sè medesimo, uno strumento di guerra ch’egli avea sperimentato molto
rispettivamente in Sicilia stessa,[400] e Roberto con men pericolo a
Roma; e che, in mano de’ suoi successori, battè per un secolo e mezzo
i paesi meridionali di Terraferma. Volendo il Duca ridurre la città di
Cosenza, il conte Ruggiero, del millenovantuno, conduce a campo sotto
quella città, insieme con le milizie feudali, parecchie migliaia di
Saraceni di Sicilia; dispone l’assedio a suo modo; e quando i Cosentini
voglion calare agli accordi, lui chiaman arbitro. In merito del quale
aiuto il Duca gli concedea mezza la città di Palermo. Egli, andatovi
immantinenti, afforzato un castello nella sua parte di città, seppe
sì bene ordinare l’amministrazione comune delle pubbliche entrate, o
con tal durezza fiscale aggravare i cittadini, che il Duca incominciò
a ritrarre dalla sua metà maggior frutto che pria non gli avesse reso
l’intero.[401]
Molte altre migliaia di Musulmani veniano col Conte a Castrovillari,
insieme con cavalli e fanti cristiani, a soccorrere il duca Ruggiero
nella pericolosa ribellione di Guglielmo di Grantimesnil (1094):
Musulmani, leggiamo, di Sicilia e di Puglia;[402] ond’e’ sembra che
ne fossero stati tramutati in quella provincia, e allogati in alcun
feudo del conte, sia a dirittura dalla Sicilia, sia dopo una sosta in
Calabria.[403] Ventimila Saraceni, come è scritto in una cronica,[404]
seguivano il Conte all’assedio d’Amalfi (1096) dove chiamollo il Duca,
promettendogli una metà della terra se la espugnassero. Ma accadde una
grande sventura, dice il monaco Malaterra: sparsa voce nel campo che
papa Urbano avesse bandita la guerra de’ Luoghi Santi e che vi corresse
tutta l’Europa, quell’ambizioso di Boemondo, si fe’ attaccare una croce
su le vestimenta; la gioventù per vaghezza di cose nuove gli corse
dietro a gara; e lasciaron lì il Duca e il Conte, con sì poche forze
che furono costretti a levare l’assedio.[405]
Crebbe tanto nel millenovantotto il numero dei Musulmani levati in
Sicilia, che lo storiografo afferma non aver il Conte mai capitanato
più grosso esercito. Quando furono posti gli alloggiamenti a San Marco
di Calabria, pareano innumerevoli le brune tende dei Saraceni;[406]
si vedean le colline coperte di lor buoi, pecore, capre, come se vi
pascolassero insieme le greggi di Laban e di Giacobbe. Capua avea
disdetta l’obbedienza al principe Riccardo, della casa normanna
d’Aversa; il quale, non potendo osteggiarla con le sue proprie forze,
avea chiesti aiuti al Duca, offrendogli omaggio feudale, e al Conte
promettendo di procacciargli, non so in che guisa, l’acquisto di
Napoli. Allettato dalla quale speranza, pregato caldamente dal Duca,
Ruggiero aveva assentito. Condotte le sue genti, quasi tribù nomadi,
in guisa che loro non mancasse mai pastura per le greggi, strinse Capua
con molta arte di guerra; costruì per uso degli assedianti un ponte di
legno sul Volturno; sopravvide ei medesimo assiduamente ogni fazione
di guerra; sì che la città alla fine sottometteasi.[407] Tanto cospicuo
egli apparve in quest’assedio, che la leggenda monastica gli riferì un
miracolo: fe’ calare un angelo sotto le sembianze di San Brunone, ad
avvertirlo in sogno che Sergio, condottiero di dugento soldati greci
del suo esercito, stesse per introdurre il nemico nel campo.[408]
Del rimanente le memorie ecclesiastiche narrano del conte Ruggiero,
nella stessa impresa di Capua, un episodio per nulla edificante.
Sant’Anselmo arcivescovo di Canterbury, fuggendo l’ira di Guglielmo II
d’Inghilterra, venuto era in Italia per faccende non sappiam se della
Chiesa o del mondo; e invitato, dice il suo discepolo Eadmero, dal duca
di Puglia, soggiornava nel campo sotto Capua, quando capitovvi Urbano
secondo. Il dotto arcivescovo, gareggiando di riputazione col papa e
attirando a sè ogni maniera di gente devota o curiosa, non isdegnava
i visitatori Musulmani, li adescava anzi con suoi camangiari;[409]
e tanto con loro si addimesticò, che soleva andare a visitarli negli
alloggiamenti loro, appartati da quelli de’ Cristiani; e v’era accolto
con giubilo e benedizioni e i mansueti Infedeli non potendo tutti
appressarsi, gli si prosternavano da lungi; a loro usanza, scrive
Eadmero, baciavano le proprie mani accennando d’inviare i baci al santo
uomo. Insinuatosi per tal modo a discorsi più gravi, credette Anselmo
che parecchi avrebbero rinnegato l’islam, se non avessero temuta la
crudeltà del Conte, solito a punire severamente chi di loro si facesse
Cristiano. «Perchè il Conte così operasse, nol voglio indagare e se la
vegga egli con Dio» conchiude il frate inglese.[410] Nè potremmo noi
indagarlo, senza sapere appunto se l’arcivescovo abbia ben comprese
o fedelmente riferite le risposte, e se i Musulmani gli abbiano
parlato da senno. Il racconto di Eadmero prova pure che l’aristocrazia
ecclesiastica di quel tempo, sommessamente accusava il conte di troppa
tolleranza e nessuna disposizione a seguire i pregiudizii religiosi,
più tosto che l’utilità dello Stato. E che ben si apponessero, si
scorge da quel dispetto del Malaterra contro Boemondo e’ suoi seguaci
della Crociata. Non altrimenti pensavano i Musulmani, come si vede da
un singolare racconto d’Ibn-el-Athîr.
Il quale, facendosi a dir della presa d’Antiochia, rintraccia, non
senza acume, i primordii delle Crociate nell’occupazione di Toledo
(1086) e altre città di Spagna pe’ Castigliani; nel conquisto
normanno della Sicilia; negli assalti degli Italiani su la costiera
d’Affrica.[411] La sintesi che il guidava nelle tenebre della storia
occidentale, col solo barlume del nome de’ Franchi e dell’impero,
lo porta indi a supporre che un Baldovino, re dei Franchi, vago di
conquisti, avesse invitato il conte Ruggiero a un’impresa in Affrica.
Ma consultando co’ suoi ottimati, e vedendoli plaudire ciecamente
a quel partito, Ruggiero con un atto molto laido e villano,[412]
rispose che il loro consiglio non valea più che tanto. «Tralascio la
molestia, ripigliò, tralascio la spesa del fornir a’ Franchi navi
da trasporto e un grosso di soldati; ma non riflettete voi che, se
tenessimo l’invito, saremmo sempre perdenti, anco vincendo? Vincendo,
ecco stanziati i Franchi in Affrica, ecco rapito da loro alla Sicilia
il commercio ch’essa vi fa: e per lo primo la ricca tratta de’ grani!
Non vincendo, ecco Temîm, che visto venire i Franchi dalla Sicilia e
quivi ritrarsi, ci chiama a ragione sleali, disdice il trattato: ed
ecco tronche le relazioni nostre con l’Affrica, le quali a noi giova
mantenere, finchè non possiamo mettere insieme tante forze da provarci
noi soli al conquisto!» Chiamato indi l’oratore di Baldovino, gli
rispondea Ruggiero non poter dare aiuto, sendo vincolato da trattati
con l’Affrica; che se i Franchi bramavano di mercar lode combattendo
contro i Musulmani, si volgessero più tosto alla liberazione dei
Luoghi Santi.[413] A prima vista quel cenno dei disegni su l’Affrica
e quel nome di Baldovino, darebbero sospetto di un anacronismo del
compilatore, che avesse scambiato il conte Ruggiero col re, e la prima
con la seconda crociata. Ma sendo gli scrittori musulmani molto bene
informati de’ costumi e imprese del re Ruggiero, più verosimile e’ mi
sembra il supposto che la tradizione tornasse veramente a’ tempi del
padre, e che i Musulmani contemporanei del re, senza fingere da capo a
fondo la ripugnanza del conte e l’energia plebea con che l’esprimea,
avesservi aggiunti i particolari ov’è detto dell’Affrica. Può darsi
anco che la tradizione musulmana abbia confusi due rifiuti simili
del vecchio conte: quello a’ Pisani ed a’ Genovesi che l’invitavano
all’impresa di Mehdia[414] e quello a tutta l’Europa quando gridò la
prima volta: Iddio lo vuole!
Comunque giudicasse il volgo dell’undecimo secolo la indifferenza
religiosa di Ruggiero, il sacerdozio era disposto a perdonargli ogni
cosa. Reggeano ormai la Chiesa gli adetti di alcune scuole vescovili
di Francia e di Germania e sopratutto i monaci di pochi ordini
potentissimi per riputazione di santità e dottrina, e non meno per
ricchezze, parentele e séguito appo i grandi; com’era stato poc’anzi
il monastero di Monte Cassino, com’erano tuttavia, prevalendo il genio
ecclesiastico della Francia, quei di Fleury, del Bec e di Cluny: vivai
di papi, prelati, ministri di Stato; centri di maneggi politici, dove
la potenza mondana era il fine, la religione il mezzo, e la corte
di Roma il centro di gravità. Era nata cotesta scuola politica da un
secolo in circa, mentre i laici, nobili e plebei, deliravano tra vani
terrori, pasceansi di superstizioni; e i molti ignoranti del clero
accoppiavano la credulità all’impostura. Scuola di savii che voleano
usare l’altrui semplicità ad effetto grande e santo a prima vista:
far comandare l’intelletto alla forza; guidare con unità di consiglio,
nella via della Fede, della morale, del ben pubblico, quella società
feudale eterogenea e disgregata che fermentava per tutta Europa.
La quale scuola, trascinata dagli interessi, divenne setta; e, come
disarmata, adoperò necessariamente l’ambito e le astuzie; preferì gli
effetti alle teorie, accomodò la morale ai propri intenti, si insinuò
nelle corti, trattò matrimonii, intavolò negoziati politici, promosse
l’uno, rovinò l’altro, stese un paretaio da chiappare donazioni d’ogni
maniera: lo Stato della contessa Matilde, come il bottino di Roberto
Guiscardo.
I precursori de’ Gesuiti, nell’undecimo secolo, non erano uomini da
accendersi d’intempestivo zelo contro Ruggiero, mentr’egli in Sicilia
rifabbricava chiese, fondava monasteri e vescovadi, arricchiva il
clero, lo adoperava nelle faccende civili; mentre in Terraferma ei
veramente ereditava la potenza di Roberto. Urbano II, rampollo di
Cluny, discepolo d’Ildebrando, salito alla cattedra di S. Pietro
(settembre 1087) tra le minacce d’Arrigo IV e d’un antipapa, si mostrò
osservantissimo verso il conte; ancorchè questi, com’e’ parmi, ambisse
più che il papa non voleva o non potea concedergli.[415] E prima Urbano
andava appo lui in Sicilia (1089) per trattare, scrive il Malaterra,
d’un accordo con la Chiesa Costantinopolitana;[416] ma piuttosto, credo
io, de’ riti della Chiesa greca di Sicilia e di Calabria e in generale
dell’ordinamento ecclesiastico nell’isola; o più che tutto questo,
degli interessi della corte romana in Terraferma.[417] Il silenzio
serbato dal cronista per parecchi anni su le cose della corte di Roma,
fa supporre che Ruggiero non si lasciò menare dal papa, finchè ei non
vide il destro di guadagnar potenza e splendore. Perchè il papa lo
sollecitò (1095) a dar una sua figliuola a Corrado, figlio d’Arrigo IV,
ribellatosi dal padre ed ajutato dalla Chiesa; il quale, per diffalta
di danari, mal reggeasi contro la parte imperiale in Italia. Ma il
cauto normanno, vedendo che si volea soprattutto la dote, non assentì
di leggieri: il persuasero bensì i suoi ottimati, massime Roberto
vescovo di Traina, il quale com’italiano, dice il Malaterra, ben sapea
le condizioni delle cose nell’Italia di sopra e quale assegnamento
far si potesse in Corrado.[418] E Roberto o sapea poco, o ingannò il
suo signore. Par che altri denari si sperassero dopo la dote: e forse
Ruggiero ne diè allora in sussidio alla corte pontificale, come poscia
nel 1100 quand’egli somministrava mille once d’oro a Pasquale II,[419]
poichè Urbano con ogni maniera di ossequio cercò quasi la grazia di
Ruggiero, non ostante l’avversione di lui alla Crociata. All’assedio
di Capua (1098) arrivò il papa a pregarlo non esponesse la sua vita,
tanto necessaria a Roma e all’Italia, perchè egli era il terrore de’
tristi.[420]
Ritornato il Conte dopo l’impresa di Capua a Salerno, Urbano l’andò a
trovare per trattare secolui gravi negozii, pria ch’e’ ripartisse alla
volta di Sicilia; e tanta premura ebbe di antivenire la sua visita,
ch’ei lasciò aspettare gli Arcivescovi apparecchiati col clero a
condurlo in processione alla chiesa di San Matteo. Il dì appresso egli
accordava alla corona di Sicilia il privilegio dell’Apostolica Legazia,
del quale diremo nel capitolo nono, trattando la costituzione dello
Stato. Vuolsi qui notar solamente che il papa avea nominato Legato in
Sicilia, senza saputa del Conte, quel Roberto vescovo di Traina, del
quale si è fatta parola poc’anzi: e che Ruggiero mal soffriva l’atto
della romana corte, fors’anco la persona di Roberto, e minacciava di
non accettarlo: onde il papa, per gratificare colui che con tanto zelo
avea servito alla fede cristiana, cassò la elezione e istituì Legato
perpetuo il Conte stesso e i suoi successori. Così il Malaterra.[421]
Urbano nella bolla di concessione, ricorda con somiglianti parole,
la grazia divina avere accordato trionfi ed onori alla saviezza di
Ruggiero; il suo valore aver ampliata la santa Chiesa sopra i Saraceni;
e la sua virtù essersi mostrata in molte guise devota all’apostolica
sede. Pur non è chi non vegga come quel singolare privilegio fosse
dovuto non meno ai meriti religiosi del conte, che alla sua potenza
politica, al bisogno che avea il papa di lui, e al saldo proponimento
con che seppe serbar interi i diritti del principato, o meglio
direbbesi della società laica, ch’egli avea appresi da Cristiani di
Calabria e di Sicilia seguaci della Chiesa greca; e poi li sostenne col
coraggio di una religione virile, di un sano intelletto, liberatosi di
molte ubbie settentrionali nei quarant’anni ch’egli avea praticato co’
Musulmani, co’ Bizantini e co’ gesuiti di quella età.
Su l’apice della fortuna, la morte il colse a dì ventidue giugno
del millecentuno, nel settantesim’anno dell’età sua;[422] felice
anco in questo, ch’ei vedeva assicurata la successione del dominio
a’ suoi proprii figliuoli. Molte figliuole ebbe Ruggiero, maritate
altre a feudatarii altre a principi: Busilla a Coloman re d’Ungheria
(1097);[423] Costanza a Corrado re d’Italia figliuolo d’imperatore
(1093);[424] Matilde a Raimondo conte di Tolosa e di Provenza
(1080);[425] Emma a Roberto conte, di Clermont, dopo che l’avea chiesta
Filippo I di Francia per cupidigia della dote.[426] Ma dei maschi
legittimi par che il solo Goffredo vivesse nel milleottantanove,
quando, perduta la seconda moglie Eremberga, il conte sposava Adelasia;
dava a una costei sorella Giordano, all’altra promettea Goffredo,
fanciullo e infermiccio, tal che ebbe ad entrare piuttosto in un
chiostro.[427] La morte di Giordano pertanto metteva in forse la
successione, allorchè Adelaide partorì (1093) Simone[428] e quindi
(1095) Ruggiero.[429] Trapassava così il vecchio conte con la speranza
di lasciare alla sua schiatta la Sicilia e la Calabria costituite
in ducato; nè presagiva egli al certo che, a capo di trent’anni, vi
sarebbe aggiunto il retaggio di Roberto Guiscardo, quel della casa
d’Aversa, la repubblica di Napoli, la costiera d’Affrica e una corona
reale.
Or diremo particolarmente di quest’Adelaide, il governo della quale e
la sua gente stanziata in Sicilia rassodarono l’opera del fondatore.
Secondo il Malaterra, ell’era figliuola d’un fratello di Bonifazio,
famosissimo marchese degli Italiani.[430] Con le medesime parole
è designata in certi versacci latini attribuiti al contemporaneo
frate Maraldo;[431] l’Anonimo, contemporaneo del re Ruggiero, la
chiama Adele marchesa, nata nelle parti di Lombardia del nobilissimo
sangue di Carlomagno, educata con singolar cura e informata a nobili
costumi;[432] e Odorico Vitale, della età stessa dello Anonimo, la
dice Adele, figliuola di Bonifazio ligure.[433] Donde il Pirro e il
Muratori tennero verosimile che quel Bonifazio fosse il supposto
marchese di Monferrato di tal nome:[434] e, s’e’ non toccarono
il segno, se ne scostarono di poco, perocchè liguri e lombardi si
chiamarono allora indistintamente gli abitatori di quella provincia.
Veramente le vicende del Monferrato dal mezzo del duodecimo secolo in
su, duravano oscurissime infino a questi dì nostri e favolose in parte
le genealogie.[435] Rischiarò il campo, or son pochi anni, Giulio de
Conti di San Quintino, mettendo da canto le moderne tradizioni locali
e affidandosi a’ soli diplomi;[436] se non che la critica troppo
meticolosa lo condusse al grave errore di far due famiglie diverse di
una che compariva in carte diverse con nomi e condizioni pressocchè
identiche. Ma è giudicato oramai cotesto errore. E due uomini
eruditissimi nelle storie italiane del Medio evo, il nostro Cornelio
De’ Simoni, dico, e Teodoro Wüstenfeld da Gottinga, hanno ricostruite
felicemente le serie dinastiche e il diritto pubblico di quel paese,
fondando l’edifizio su dotte e savie supposizioni, là dove mancano gli
attestati positivi e seguendo il metodo che adoperò il Muratori per
illustrare la Marca contigua, la quale racchiudea Genova, Tortona e
Milano. I lavori pubblicati dal De Simoni, e le lettere scrittemi dal
Wüstenfeld forniscono le seguenti notizie su la famiglia dell’Adelaide
madre di re Ruggiero.[437]
Misurando una ventina di miglia su la riviera di Ponente in guisa
che Savona si ritrovi nel mezzo, e prendendo sulla sponda dritta del
Po quel tratto che dal confluente del Tanaro risalisce fino a Verrua
sopra Casal Monferrato, avremmo i due lati minori del trapezio, che
al tempo di Otone primo, costituì una delle Marche d’Italia.[438]
Reggeala Aleramo, conte e poi marchese, uom di legge salica; talchè
potremmo supporlo di nazione franca e trovar qui l’origine della
tradizione che in Sicilia il vantò nipote di Carlomagno. I discendenti
di Aleramo, usurpata, com’accadeva allora in tutta Europa, la proprietà
dell’ufficio di marchese, lo esercitarono in comune per parecchie
generazioni: e da ciò, mi par nato per avventura, l’uso che nelle
province settentrionali d’Italia si dia per urbanità il titolo della
famiglia a tutti i figliuoli; mentre ne’ paesi meridionali, sì come
oltremonti lo si riserba al primogenito. E veramente nei giudizii
e negli atti di dominio di quella Marca anteriori al millecento,