Storia dei musulmani di Sicilia, vol. III, parte I - 07
addosso. Il numero, allora, o la tattica de’ Musulmani riportò la
vittoria. Valorosamente combattendo Ugo fu morto, con la più parte de
suoi; Giordano si rifuggì a mala pena, con gli avanzi, in Catania; la
vanguardia, tagliata fuori, cercò asilo nella fortezza normanna di
Paternò. E Benavert recò a trionfo in Siracusa le prime spoglie de’
Normanni.
Ruggiero risaputo il caso, mosse alla volta di Sicilia per fare
strepitosa vendetta e assicurare i suoi che balenavano. Recate seco
sì grosse forze che Benavert non osò affrontarlo all’aperto, nella
state del millesettantasei, occupava dapprima una rôcca in sul monte
Judica, il quale chiude a ponente la ubertosa e vasta Piana di Catania;
demoliva la rôcca; mettea al taglio della spada tutti gli uomini; le
donne e i bambini mandava a vendere in Calabria. Correndo poi le parti
meridionali del Val di Noto, fece grandissima preda; bruciò le mèssi
già segate; cagionò sì orribile guasto, che l’anno appresso la Sicilia
fu desolata dalla fame,[343] aiutandola al certo i guasti che feano i
Musulmani nella provincia di Ruggiero, i quali, come di ragione, son
taciuti dal Malaterra.
Non si ostinando pure a combattere Benavert nelle fortezze del Val
di Noto, Ruggiero l’anno appresso, che fu il millesettantasette, del
mese di maggio, assalì Trapani, a ponente della propria sua zona;
Trablas, come scrive il Malaterra, notando fedelmente la pronunzia
arabica che confondea l’antico nome di Drepanum con quello, più
ovvio, di Tripoli. Andò con forze tanto insolite, che li chiamarono
esercito e armata; armata della quale non allestì mai più bella il
grande Alessandro, sclama qui Malaterra, sfogando la gioia del nuovo
spettacolo in uno squarcio di versi. E così descrive il placido mare,
i zeffiri amici, le spiegate vele, il sorriso dell’auretta e della
fortuna, lo squillo delle trombe, il suono de’ liuti, il batter de’
tamburi; e da un’altra mano la cavalleria che corre per monti e valli
capitanata da Ruggiero in persona, i mille pennoncelli delle lance,
il luccicare degli elmi e degli scudi intarsiati d’oro, il nitrito
de’ cavalli e l’eco che il ripercuote: orribil suono, orribile vista
da far tremare i Musulmani entro le mura di Trabla. Strinsero la
città per mare e per terra; piantaron gli alloggiamenti; ricacciarono
malconci dentro le mura i cittadini usciti a combattere: e contuttociò
l’assedio andava in lungo, quando un colpo di mano fece cader l’animo
a’ Trapanesi. Fuor la città, scrive il Malaterra, stendeasi in mare un
promontorio ricco di pascoli,[344] dove soleano menare il bestiame,
ridotto dalla campagna in città al principio dell’assedio. Di che
addandosi Giordano, senza dir nulla al padre, una sera con cento
soli combattenti si fece traghettare al promontorio; occultò la gente
tra li scogli, finchè la dimane aperte le porte della città e uscito
l’armento, ei salta dall’agguato, rapisce i buoi fin sotto le mura,
li fa cacciare alle sue barche; e sopraccorsi i cittadini in arme,
ferocemente li ributtò, ne fece strage, imbarcò la preda, e tornossene
al campo. Malaterra, o il conte, moltiplicando, all’usanza loro, per
quindici o per venti il numero de’ combattenti musulmani, ne fanno qui
uscire diecimila contro Giordano, quanti forse non ne capiva il luogo,
nè potean essere in Trapani. Il pericolo di nuovo assalto da quella
banda e le vittuaglie che venian meno dopo tal preda, fecero calare
i cittadini agli accordi: i quali par siano stati stipulati negli
stessi termini che già ottennero i Musulmani di Palermo; leggendosi
nella cronica che consegnarono il castello, riconobbero la signorìa
del conte, e si confederarono, secondo il solito; il che ben sappiamo
che significasse pagare tributo. Ruggiero acconciò le fortificazioni a
modo suo, lasciovvi presidio ben provveduto, e si messe a battere la
provincia, sparsa di forti rôcche ed ostinata a difendersi. In breve
tempo, i Normanni vi sottomessero ben dodici importanti castella. Le
quali il conte distribuì in feudo ai suoi condottieri, con le terre
dipendenti da ciascuno e licenziò l’esercito. Acquistò, non guari dopo,
Castronovo, forte e grossa terra; chiamatovi da una mano di servi che
s’erano ribellati al Signore musulmano, Beco, o forse Abu-Bekr, ed
afforzati in una rupe che sovrastava al castello. Dove sopraccorso
il conte da Vicari, con quanta gente potè raccogliere in fretta, i
sollevati fecero i patti con lui, tirarono su con funi i suoi soldati:
ed Abu-Bekr, vista inutile la resistenza, sgombrò; i terrazzani resero
il castello a Ruggiero. Questi immantinente emancipava que’ servi, e
largamente rimunerava un mugnaio, il quale, battuto dal crudel signore,
avea macchinata la rivolta per vendicarsi.[345]
Crescea con gli acquisti la milizia feudale e la riputazione di
Ruggiero sì prestamente, che l’anno appresso l’esercito si vide partito
in quattro corpi, sotto Giordano, Otone, Arisgoto di Pozzuoli ed Elia
Cartomi; dei quali è verosimile che il primo conducesse oltre i proprii
vassalli gli stanziali del padre, Otone ed Arisgoto, italiani entrambi
come suonavano ormai que’ nomi, capitanassero gli uomini di Calabria
e di Sicilia, ed Elia i Musulmani sudditi de’ Normanni: sendo costui
musulmano e forse rinnegato, sicchè quei di Castrogiovanni, cui cadde
tra le mani a capo di pochi anni, lo misero a morte secondo lor legge,
e gli agiografi cristiani di Sicilia l’han fatto martire e beato.[346]
L’armata accompagnava l’esercito. Il conte, non più costretto dalla
pochezza delle forze a rubacchiare ed usare le occasioni, conducea la
guerra a disegno. In primavera dunque si pose all’assedio di Taormina;
la quale sorgendo su ripido monte, a cavaliere del mare, da prendersi
per fame anzi che per battaglia, chiuse egli il mare con l’armata;
circondò le radici del monte con ventidue torri collegate tra loro
per una cintura di palizzate e siepi.[347] E poco mancò ch’egli non
vi lasciasse la vita. Perocchè un giorno, andando in giro per la
circonvallazione con piccola scorta d’armati e inerpicandosi discosto
alquanto dai suoi per viottoli alpestri, una mano di Slavi, che
sembrano schiavi o mercenarii de’ Musulmani, gli saltarono addosso da
un mirteto dove s’erano ascosi. Più ratto di loro, un uom di Bretagna
per nome Evisando, si gittava di mezzo tra i nemici e il conte; li
rattenea nello stretto passo, dando e toccando colpi, tanto che,
sopraccorsa la scorta, rotolò gli assalitori giù per que’ dirupi;
mentre Evisando dalla fatica e dalle ferite spirava. Il conte onorò
di splendidi funerali e pie fondazioni la memoria di questo fedele,
immolatosi per lui. Ma stretto e assicurato in tal modo l’assedio,
Ruggiero con una eletta di fanti battea la costa settentrionale
dell’Etna e la valle che la divide dagli Appennini e soggiogava tutti
i Musulmani sparsi in que’ luoghi, infino a Traina. Ritornato allo
assedio, vide comparire quattordici corvette affricane[348] alle
quali mal avrebbe potuto resistere l’armata sua, scema di gente per
la guardia della circonvallazione. Donde inviato un messaggio agli
Affricani, gli risposero non venir con intendimenti ostili e veramente
poco appresso partironsi; il che darebbe a credere che Roberto per
avventura avesse stipulato accordo co’ principi Ziriti, per pratiche
de’ Pisani o degli Amalfitani e che Ruggiero fosse compreso nella
tregua, ovvero cogliesse or il destro di entrarvi anch’egli, come
di certo il fece a capo di pochi anni.[349] E intanto per l’assidua
vigilanza di Ruggiero e de’ capitani suoi fu chiusa Taormina sì
strettamente che, mancate le vittuaglie, la si arrese nell’agosto dopo
cinque mesi di assedio.[350]
Posarono nel millesettantanove i Musulmani liberi della Sicilia
meridionale, mercè i lor fratelli soggiogati della provincia
palermitana, i quali attiravano sopra di sè le armi del Conte. A
ventidue miglia da Palermo e un miglio e poco più a levante del comune
di San Giuseppe li Mortilli, sorge scosceso monte, inaccessibile
fuorchè da una via aspra e tortuosa: luogo pressochè disabitato al
tempo nostro. Pure il nome topografico non dileguato, gli avanzi di
spaziose cisterne e di qualche edifizio, i vasi d’argilla e le monete
che sovente vi si ritrovano coltivando il suolo, mostrano quivi senza
alcun dubbio il sito dell’antica Jeta o Jato, desolata non da Goti
nè da Saraceni, ma dai monaci ai quali ne fe’ dono Guglielmo II,
con quaranta o più villaggi de’ contorni. Territorio fertilissimo di
circa cento miglia quadrate, abitato in oggi da diciassette o diciotto
mila anime[351] il quale per lo meno ne racchiudea da sessantamila,
leggendosi nel Malaterra che Giato avesse tredicimila famiglie.[352]
Forti nel numero e nella postura, que’ di Giato ricusarono il censo
e il servigio; nè Ruggiero li potè spuntar con preghiere, nè con
minacce. Raccolsero gli armenti nella spaziosa montagna, afforzaronla
di muro e di ridotti là dove parea accessibile, e con vigilanti
guardie si assicurarono; beffandosi della rabbia del conte Ruggiero.
All’esempio si mosse Cinisi, terra di origine arabica, come pare dal
nome, posta a venticinque miglia a ponente di Palermo; contro la quale
andò Ruggiero co’ vassalli di Calabria, lasciando que’ di Sicilia a
stringere Giato, o piuttosto ad infestarne il territorio da’ due lati
confinanti con Corleone e Partinico. Egli poi sopravvedeva or l’una or
l’altra oste e invano si affaticava, rifuggendo, per umanità, dignità
o avarizia, dall’ardere le mèssi. Ma infine gittossi a quel partito,
più degno di masnadiere che di capitano; e Giato e Cinisi calavano agli
accordi.[353]
Ritardò le mosse militari, non gli acquisti, di Ruggiero in Sicilia,
l’impresa orientale di Roberto, cui par che il fratello desse
aiuti d’ogni maniera e rendesse importanti servigi, ond’ei n’ebbe
in merito la provincia del Valdemone. Perocchè del milleottantuno,
il Conte, fatti venire d’ogni banda, scrive il Malaterra, valenti
artefici,[354] con grandissima spesa murava dalle fondamenta le
fortificazioni di Messina: baluardi e torri di mirabile altezza; le
quali in breve tempo furono compiute, per la solerzia di Ruggiero
che aveavi preposti appositi officiali e instava spesso in persona a’
lavori. Sappiamo inoltre che risguardando Messina come chiave della
Sicilia e importantissima tra le città ch’egli possedea, la munì di
forte e fedele presidio; la decorò di novella chiesa del titolo di
San Niccolò, edificata a bella posta, largamente dotata e messa sotto
la giurisdizione del vescovato che il Conte avea testè fondato in
Traina.[355] I quali fatti, e le parole con che li espone il cronista
di corte, dimostran Ruggiero in quel tempo signor di Messina, anzi
che luogotenente di Roberto. E tal sembra l’anno appresso in tutta
la provincia; ritraendosi che Giordano, nella tentata usurpazione
del mille ottantadue, togliesse al padre due terre di Valdemone,
Mistretta, cioè, e quel Castello di San Marco ch’era stata la prima
fortezza munita da Roberto in Sicilia. Certa dunque ci torna, ancorchè
non attestata da diplomi nè litteralmente affermata da scrittori, la
cessione o vendita che dir si voglia del Valdemone; alla quale non
è meraviglia che si venisse, quando Ruggiero tenea molti danari in
serbo,[356] Roberto all’incontro con grandi spese allestiva possente
armata e metteva in piè un esercito. E forse fu principale patto loro
l’armamento di Messina; premendo a Roberto di evitare il pericolo
che un navilio bizantino venisse ad occupare lo Stretto, mentr’egli
assaliva l’impero d’Oriente.
Passato Roberto di là dall’Adriatico, e soggiornando sovente Ruggiero
in Puglia e in Calabria per aver cura delle faccende di lui, intervenne
lo stesso anno mille ottantuno, che Benavert s’insignorisse di Catania.
Il quale era divenuto molestissimo a’ Normanni tra cotesti loro
preparamenti alla guerra d’oltremare; ed a lui facean capo tutti i
Musulmani di Sicilia ribelli, come il Malaterra chiama coloro che la
patria e la religione tuttavia difendeano contro i guerrier di ventura
del Nort. Segue a dire il cronista che Benavert comperò con doni e
promesse un Bencimino[357] che reggea Catania per Ruggiero; il qual
nome per avventura sarebbe lo stesso di Ibn-Thimna e se ne potrebbe
inferire che alcun figliuolo o parente di lui servisse tuttavia i
Normanni. Una notte il traditore apriva la città a Benavert ed alle sue
genti: con rabbia ed onta de’ Cristiani, con esultanza de’ Musulmani,
si sparse per tutta l’isola essere tornata Catania in man del nemico.
Moveano alla riscossa, Giordano, Roberto di Sordavalle ed Elia Cartomi,
con centosessanta lance, che tornerebbero a settecento cavalli; ai
quali Benavert uscì incontro, continua il Malaterra, con ventimila
fanti e un forte nodo di cavalli: pose a destra i primi, stette ei
co’ secondi a sinistra un po’ addietro la linea; e con lieti auspicii
appiccò la battaglia, poichè avendo la cavalleria cristiana caricati
i fanti, non le venne fatto d’intaccarli al primo, nè al secondo, nè
al terzo assalto. Audacemente allora i Normanni si serrano addosso a’
cavalli di Benavert, lasciandosi interi al fianco e al dosso i fanti
nemici: ed ostinata e sanguinosa la zuffa si travagliò co’ cavalli,
forse uguali e forse inferiori di numero, finchè i Musulmani, rotti,
fuggironsi alla città e Benavert stesso a mala pena v’entrò, inseguito
da Giordano fino alle porte. I fanti si sparpagliarono dopo la rotta
dei cavalli, fuggendo o correndo all’impazzata addosso ai vincitori, sì
che furono tagliati a pezzi. I Normanni posero l’assedio alla città;
nella quale sendo scarso il presidio e ingrossando già la popolazione
cristiana,[358] Benavert nottetempo se ne andò a Siracusa, dov’ei
condusse il traditore, Bencimino, e in vece de’ promessi premii, gli
diede la morte.[359]
Contenti di questa vittoria i Normanni stettero sempre in su la difesa
infino al milleottantacinque, ordinati, credo, a contenere Benavert
que’ medesimi stanziali che aveano sì virtuosamente ripigliata Catania.
Ruggiero soggiornò in Terraferma, come richiedeano gli interessi
di Roberto e suoi; nè ebbe a venire in Sicilia che per reprimere,
del mille ottantadue, una rivolta del proprio figliuolo Giordano,
luogotenente nell’isola. Il quale par abbia voluto prendere le terre di
Valdemone per sè stesso, e cominciò occupando i castelli di Mistretta
e di San Marco, e tentando di por mano nel tesoro di Ruggiero, serbato
in Traina a guardia d’uomini fidatissimi, da non spuntarsi con promesse
nè con minacce. Indi fallì questo colpo; nè senza vergogna Giordano
si ritrasse dal mal sentiero ov’avea messo il piede. Perchè Ruggiero,
temendo che il figliuolo per disperazione non si gittasse a’ Musulmani,
dapprima s’infinse prenderle per baie giovanili, ed aprì le braccia a
quel valoroso; ma com’ei l’ebbe nelle sue forze con tutti i compagni e’
famigliari, cominciò una stretta inquisizione, fe’ accecare dodici che
gli parvero gli istigatori del figlio, e rimandò poi libero Giordano,
disonorato nel supplizio de’ complici, atterrito dalla minaccia di
perdere il lume degli occhi per comando del proprio suo padre.[360]
Allenava così la guerra, dalla parte de’ Normanni, perchè il nerbo
delle loro forze pugnò in quel tempo con Roberto in Grecia; e dalla
parte de’ Musulmani, perchè forze d’animo non restavano ai soggiogati,
e i liberi par che al solito le spendessero in lor piccole gare. Che se
pronti egli avesse visti a pigliare le armi i correligionarii suoi di
Palermo, di Mazara o di Trapani; se disposti que’ di Castrogiovanni o
di Girgenti a seguirlo ne’ territorii occupati dal nemico, non avrebbe
il prode Benavert messe tutte le sue sorti al gioco d’una disperata
fazione in Calabria.
Tentolla il milleottantacinque, quando la morte di Roberto Guiscardo
avea gittato tanto scompiglio nell’Italia meridionale, quando si
disputava la successione al ducato tra suoi figli Boemondo e Ruggiero,
quando il conte Ruggiero si adoperava in Terraferma all’esaltazione
del secondo tra’ nipoti, il quale glie ne die’ in merito la metà
delle terre di Calabria, riserbata già da Roberto. Benavert assaltò la
Calabria, come uom che a null’altro agogni fuorchè vendicarsi o morire.
Nell’agosto o nel settembre[361] approdò di notte[362] a Nicotra, vinto
pria, com’e’ parrebbe, un combattimento navale e poi uno di cavalleria
co’ Normanni:[363] distrusse quant’ei potè della città, rapinne quanto
ei seppe, menò cattivi uomini e donne. Ritornando, sbarcò presso
Reggio, dove saccheggiò le chiese di San Niccolò e di San Giorgio,
spezzando le immagini, contaminando i vasi sacri e gli arredi. Irruppe
alfine nel munistero di donne della Madre di Dio a Rocca d’Asino;
depredollo e le suore menò negli harem di Siracusa.[364]
Inorridivano, bolliano di sdegno all’annunzio di tal sacrilegio le
milizie cristiane; soprattutti Ruggiero che sperava utilità dalla
vendetta e il destro di volgere a impresa nazionale e religiosa le armi
pronte in Puglia alla guerra civile. “Spirandogli il Cielo maggior
ira che l’usata, scrive il monaco Malaterra, ei surse a vendicare
l’ingiuria di Dio: cominciò il primo ottobre, fornì il venti maggio gli
appresti dell’armata. A piè scalzi allora, andò in giro per le chiese,
recitando litanie, mettendo sospiri e lamenti, dispensando larghe
limosine ai poverelli: si commise indi a’ perigli del mare e drizzò le
prore a Siracusa. “La mostra dell’armata, i riti di propiziazione da
infiammare le moltitudini seguirono, com’egli è evidente, a Messina.
Ruggiero, mandato Giordano co’ cavalli che l’aspettasse al Capo
di Santa Croce,[365] là dove fu poscia edificata Agosta, salpò con
l’armata; la qual senza remi nè vele (nota il Malaterra per dimostrare
il miracolo, ma dimentica le correnti del mare) prosperamente navigò,
sostando la prima notte a Taormina[366] la seconda a Lognina[367]
presso Catania e la terza al Capo di Santa Croce. Dove trovato Giordano
co’ cavalli e messa in punto ogni cosa, il conte mandò a riconoscere le
condizioni del nemico un Filippo di Gregorio[368] patrizio. Il quale,
in una barca montata da Siciliani, com’ei sembra, che al par di lui
intendeano l’arabico e parlavano speditamente, aggirossi nel porto
di Siracusa la notte, contò le navi di Benavert, le seppe disposte ad
affrontare senza dimora i Cristiani e ritornò a Ruggiero. Era giorno
di domenica. Il conte fa celebrare la messa in quel deserto lido,
confessare e comunicare la gente: la notte salpa per Siracusa e mandavi
la cavalleria. Il venticinque maggio mille ottantasei, combatterono
le due armate nel maggior porto, come quelle di Siracusa e d’Atene,
quindici secoli innanzi. Benavert vedendo troppo travagliati i suoi
dagli arcieri e sopratutto da’ balestrieri,[369] che li ferivano stando
fuor del tiro delle saette loro, comandò l’arrembaggio: dritto ei vogò
a dar d’urto alla nave di Ruggiero; spingendolo il demonio, scrive
Malaterra, per accorciargli la vita. Perchè trovato duro riscontro,
ferito gravemente di lanciotto per man d’un Lupino,[370] incalzato
con la spada alla mano dal Conte, cercò scampo in altra nave, spiccò
corto il salto, e annegò, tratto in fondo dalla grave armadura.
La più parte delle navi musulmane allor fu presa; e la città cinta
d’assedio, poichè Giordano, osservando questa volta rigorosamente il
divieto del padre, non tentò d’occuparla d’un colpo di mano, al primo
scompiglio gittatovi dal caso di Benavert. Dice l’Anonimo che Ruggiero,
fatto pescare il cadavere dell’emir, mandasselo a Temîm in Affrica.
Valorosamente poi si difesero i Musulmani di Siracusa dallo scorcio di
maggio fino all’ottobre; e invano speraron placare il conte, rimandando
liberi tutti i prigioni cristiani. Affaticati, scemati da’ tiri delle
macchine, li ridusse la fame. Una notte, la moglie e il figliuolo di
Benavert, coi notabili musulmani, si rifuggirono in Noto su due navi,
trapassando velocissimamente in mezzo all’armata nemica. La città
s’arrese a patti.[371]
Il giusto orgoglio d’una impresa navale de’ nostri e la connessione
del subietto, mi conducono or a toccare l’espugnazione di Mehdia,
interrompendo il racconto della guerra siciliana. Scrive l’istoriografo
di Ruggiero che, stando questi all’assedio di Siracusa, i Pisani per
vendetta d’alcuna ingiuria, avessero osteggiata e occupata la capitale
di Temîm, fuorchè il castello; e che, non fidandosi di prender questo,
nè di tenere la città, avessero profferto lo splendido acquisto loro
al conte Ruggiero, il quale ricusò, per mantener fede a Temîm, cui
lo stringeva un accordo.[372] Lealtà necessaria, come ognun vede, a
chi tuttavia s’affaticava sotto le mura di Siracusa e gli rimaneano
a soggiogare nell’isola tante altre cittadi e province. Ma le genuine
memorie nostrali e musulmane scoprono vieppiù la fallacia del cronista
e provano che, se pur i Pisani richiesero il conte, fu sol di entrare
nella lega quando si apparecchiavano gli armamenti.
Delle condizioni di casa zirita, delle fortificazioni di Mehdia, ci è
occorso dire più volte.[373] Il munitissimo porto era nido di pirati
che tutto infestavano il Mediterraneo, dalla Spagna alla Grecia, e
assalivano talvolta le costiere e rapivano gli uomini al par che
la roba, nè rispettavano al certo gli accordi che per avventura
fermò con gli Ziriti or questo or quello Stato italiano.[374] Colma
la misura, mossi i Pisani dalle querele di lor cittadini cattivi
degli Infedeli, proposero lega a Genova, domandarono aiuti a tutti
navigatori italiani e benedizioni al papa, che era allor lo scaltro
abate Desiderio, o vogliam dire Vittore III; il quale, travagliandosi
in dure strette, aiutò di quel che potea: conforti ed esortazioni. Con
gli stessi elementi, gli stessi modi e gli stessi intenti, ma assai
più larga e possente si rifacea così, dopo settant’anni, la lega che
oppresse Mogehid nel millequindici. Apparecchiate lungamente[375]
da Pisani, Genovesi, Amalfitani,[376] sommarono le navi italiane
a tre o quattrocento, gli uomini, comprese al certo le ciurme, a
trentamila;[377] e lor fu dato il ritrovo a Pantellaria. Dove i
Musulmani, provatisi indarno a resistere, mandarono avvisi a Temîm per
dispacci attaccati al collo delle colombe: ma l’annunzio del pericolo
nocque, più che non giovasse, nella città spreparata, nella corte
pusillanime e discorde. Mentre quivi i Musulmani si bisticciano tra
loro, il mare si ricopre delle italiane vele; i palischermi s’avanzano
a branchi; sbarcan lesti i nostri nel borgo di Zawila a mezzodì, e
nella penisola stessa di Mehdia a tramontana: per aspri combattimenti
occupano il borgo, occupano la città fuorchè il cassaro[378] ossia
palagio afforzato; bruciano l’armata musulmana entro il porto; appiccan
fuoco alle case; fan prigioni, saccheggiano e furiosamente stringono
il cassaro, dove s’era rifuggito Temîm. Era il sei agosto del mille
ottantasette. Ma assalito invano il castello per parecchi giorni, Temîm
chiedea la pace, a patto di sborsare trentamila, altri dice ottanta
e altri centomila, dînar d’oro,[379] liberare i prigioni cristiani,
smettere la pirateria contro Cristiani, e accordare franchigie doganali
ai Pisani ed ai Genovesi.[380] E i collegati, conseguito l’intento,
accettarono i patti, caricarono le navi d’oro, argento, pallii, arnesi
di bronzo, prigioni cristiani da liberare o da rivendere, schiavi
musulmani da recare al mercato, e ciascuno se ne andò in quella che
chiamava sua patria, a far mostra della preda, arricchire la chiesa più
favorita; e poi riarmare la nave, ed arrotar l’azza e la spada contro
un’altra città italiana. L’imbarbarita musa arabica dell’Affrica si
fece a descrivere le calamità di Mehdia, cominciando a dire del gran
numero de’ nostri, agguerriti e feroci, che assalirono improvvisamente
un pugno di cittadini, avvezzi a molle vita più che alle armi; ma
sventuratamente ci manca la più parte di questa lunga elegia. Intero
abbiamo lo scritto d’un italiano, il quale provandosi nei principj
del duodecimo secolo a cantare in una lingua ch’ei non parlava, le
geste di una nazione la quale non vedea per anco la sua stella polare,
dettò in versi latini un racconto preciso e fedele nella importanza
de’ fatti, ma lo vestì di goffe metafore da romanzo, facendo allestir
da’ cittadini di Pisa e di Genova mille navi in tre mesi, uccidere
in Mehdia centomila Arabi, liberare centomila Cristiani e simili
baie.[381]
Il cauto normanno avea occupata Girgenti, mentre i marinai italiani
si apparecchiavano tuttavolta all’impresa di Mehdia. Sbrigatosi di
Benavert nell’ottantasei, radunava a dì primo aprile dell’ottantasette
le milizie feudali, volenterose e liete per la speranza d’acquisto; e
sì conduceale all’assedio di Girgenti. Ubbidiva allora Girgenti con
Castrogiovanni e con tutto il paese di mezzo, a un rampollo della
sacra schiatta di Alì, del ramo degli Edrisiti che aveano regnato un
tempo nell’Affrica occidentale, e della casa de’ Beni-Hamûd, la quale
tenne per poco il califato di Cordova (1015-1027) indi i principati
di Malaga e di Algeziras (1035-1057), ma cacciata dalla Spagna,
andò cercando fortuna qua e là. Par che un uomo di cotesta famiglia,
passato in Sicilia, non sappiamo appunto in qual anno, abbia preso lo
stato in quelle province, tra le guerre civili che si travagliarono
coi figli di Temîm; portato in alto non da propria virtù, ma dal nome
illustre e dalle pazze vicende dell’anarchia. Chamut il suo nome, qual
si legge nel Malaterra e ben risponde alla voce che a nostro modo si
trascrive Hamûd.[382] Il quale si rannicchiò tra sue rupi inaccesse
di Castrogiovanni, mentre la moglie e i figliuoli si trovavano in
Girgenti, e i Normanni circondavano la città, batteano le mura con lor
macchine; tanto che occuparonla a dì venticinque luglio del medesimo
anno. Ruggiero v’acconciò fortissimo un castello, munito di torri,
bastioni e fosso; lasciovvi buon presidio, e battendo la provincia, in
breve ne ridusse undici castella: Platani, Muxaro, Guastanella, Sutera,
Rahl, Bifara, Micolufa, Naro, Caltanissetta, Licata, Ravanusa; talchè
occupava tutto il paese dalla foce del fiume Platani a quella del Salso
ed a Caltanissetta, di che ei compose non guari dopo, con qualche
aggiunta, la Diocesi di Girgenti, ed or vi risponde tutta intera la
provincia di questo nome e parte della finitima di Caltanissetta.
La moglie ed i figliuoli dell’Hamudita caduti in suo potere, tenne
Ruggiero in sicura ed onorata custodia; pensando, così nota il
Malaterra, che più agevolmente avrebbe tirato quel principe agli
accordi, con serbare la sua famiglia illesa da tutt’oltraggio.[383]
E veramente, Ibn-Hamûd si vedea chiuso d’ogni banda in Castrogiovanni;
occupata da’ Cristiani tutta l’isola, fuorchè Noto e Butera; potersi
differire, non evitar la caduta; nè egli ambiva il martirio, nè i
pericoli della guerra, nè pure i disagi di gloriosa povertà. Ruggiero
fattosi un giorno con cento lance presso la rôcca, lo invitava ad
abboccamento; egli scendea volentieri ed ascoltava senza raccapriccio i
giri di parole che conduceano a due proposte: rendere Castrogiovanni e
farsi cristiano. Dubbiò solo intorno il modo di compiere il tradimento
e l’apostasia, senza rischio di lasciarci la pelle: alfine, trovato
rimedio a questo, accomiatossi dal Conte, il quale se ne tornava tutto
lieto a Girgenti. Nè andò guari che il normanno con fortissimo stuolo
chetamente s’avviava alla volta di Castrogiovanni; nascondeasi in un
luogo appostato già col musulmano; e questi, fatti montar in sella suoi
cavalieri, traendosi dietro su i muli quanta altra gente potè, quasi
a tentare impresa di gran momento, uscì di Castrogiovanni, li menò
diritto all’agguato. E que’ fur tutti presi; egli accolto a braccia
aperte. Allor muovono i Cristiani alla volta della città; la quale
priva de’ difensori più forti, si arrende a patti, e Ruggiero vi pone
a suo modo castello e presidio. Ibn-Hamûd poi si battezzò, impetrato
da’ teologi del Conte di ritenere la moglie ch’era sua parente ne’
gradi permessi dal Corano, vietati dalla disciplina cattolica. Ma non
tenendosi sicuro de’ Musulmani in Sicilia, nè volendo che Ruggiero pur
sospettasse di lui in caso di cospirazioni o tumulti, il cauto e vile
Ibn-Hamûd chiese di soggiornare in Terraferma; ebbe da Ruggiero certi
poderi presso Mileto e quivi lungamente visse vita irreprensibile, dice
lo storiografo normanno.[384]
Ultima resistè con le armi la città di Butera; ultima s’arrese Noto.
Fortissima l’una di sito, fertilissima di territorio, prosperò sotto
vittoria. Valorosamente combattendo Ugo fu morto, con la più parte de
suoi; Giordano si rifuggì a mala pena, con gli avanzi, in Catania; la
vanguardia, tagliata fuori, cercò asilo nella fortezza normanna di
Paternò. E Benavert recò a trionfo in Siracusa le prime spoglie de’
Normanni.
Ruggiero risaputo il caso, mosse alla volta di Sicilia per fare
strepitosa vendetta e assicurare i suoi che balenavano. Recate seco
sì grosse forze che Benavert non osò affrontarlo all’aperto, nella
state del millesettantasei, occupava dapprima una rôcca in sul monte
Judica, il quale chiude a ponente la ubertosa e vasta Piana di Catania;
demoliva la rôcca; mettea al taglio della spada tutti gli uomini; le
donne e i bambini mandava a vendere in Calabria. Correndo poi le parti
meridionali del Val di Noto, fece grandissima preda; bruciò le mèssi
già segate; cagionò sì orribile guasto, che l’anno appresso la Sicilia
fu desolata dalla fame,[343] aiutandola al certo i guasti che feano i
Musulmani nella provincia di Ruggiero, i quali, come di ragione, son
taciuti dal Malaterra.
Non si ostinando pure a combattere Benavert nelle fortezze del Val
di Noto, Ruggiero l’anno appresso, che fu il millesettantasette, del
mese di maggio, assalì Trapani, a ponente della propria sua zona;
Trablas, come scrive il Malaterra, notando fedelmente la pronunzia
arabica che confondea l’antico nome di Drepanum con quello, più
ovvio, di Tripoli. Andò con forze tanto insolite, che li chiamarono
esercito e armata; armata della quale non allestì mai più bella il
grande Alessandro, sclama qui Malaterra, sfogando la gioia del nuovo
spettacolo in uno squarcio di versi. E così descrive il placido mare,
i zeffiri amici, le spiegate vele, il sorriso dell’auretta e della
fortuna, lo squillo delle trombe, il suono de’ liuti, il batter de’
tamburi; e da un’altra mano la cavalleria che corre per monti e valli
capitanata da Ruggiero in persona, i mille pennoncelli delle lance,
il luccicare degli elmi e degli scudi intarsiati d’oro, il nitrito
de’ cavalli e l’eco che il ripercuote: orribil suono, orribile vista
da far tremare i Musulmani entro le mura di Trabla. Strinsero la
città per mare e per terra; piantaron gli alloggiamenti; ricacciarono
malconci dentro le mura i cittadini usciti a combattere: e contuttociò
l’assedio andava in lungo, quando un colpo di mano fece cader l’animo
a’ Trapanesi. Fuor la città, scrive il Malaterra, stendeasi in mare un
promontorio ricco di pascoli,[344] dove soleano menare il bestiame,
ridotto dalla campagna in città al principio dell’assedio. Di che
addandosi Giordano, senza dir nulla al padre, una sera con cento
soli combattenti si fece traghettare al promontorio; occultò la gente
tra li scogli, finchè la dimane aperte le porte della città e uscito
l’armento, ei salta dall’agguato, rapisce i buoi fin sotto le mura,
li fa cacciare alle sue barche; e sopraccorsi i cittadini in arme,
ferocemente li ributtò, ne fece strage, imbarcò la preda, e tornossene
al campo. Malaterra, o il conte, moltiplicando, all’usanza loro, per
quindici o per venti il numero de’ combattenti musulmani, ne fanno qui
uscire diecimila contro Giordano, quanti forse non ne capiva il luogo,
nè potean essere in Trapani. Il pericolo di nuovo assalto da quella
banda e le vittuaglie che venian meno dopo tal preda, fecero calare
i cittadini agli accordi: i quali par siano stati stipulati negli
stessi termini che già ottennero i Musulmani di Palermo; leggendosi
nella cronica che consegnarono il castello, riconobbero la signorìa
del conte, e si confederarono, secondo il solito; il che ben sappiamo
che significasse pagare tributo. Ruggiero acconciò le fortificazioni a
modo suo, lasciovvi presidio ben provveduto, e si messe a battere la
provincia, sparsa di forti rôcche ed ostinata a difendersi. In breve
tempo, i Normanni vi sottomessero ben dodici importanti castella. Le
quali il conte distribuì in feudo ai suoi condottieri, con le terre
dipendenti da ciascuno e licenziò l’esercito. Acquistò, non guari dopo,
Castronovo, forte e grossa terra; chiamatovi da una mano di servi che
s’erano ribellati al Signore musulmano, Beco, o forse Abu-Bekr, ed
afforzati in una rupe che sovrastava al castello. Dove sopraccorso
il conte da Vicari, con quanta gente potè raccogliere in fretta, i
sollevati fecero i patti con lui, tirarono su con funi i suoi soldati:
ed Abu-Bekr, vista inutile la resistenza, sgombrò; i terrazzani resero
il castello a Ruggiero. Questi immantinente emancipava que’ servi, e
largamente rimunerava un mugnaio, il quale, battuto dal crudel signore,
avea macchinata la rivolta per vendicarsi.[345]
Crescea con gli acquisti la milizia feudale e la riputazione di
Ruggiero sì prestamente, che l’anno appresso l’esercito si vide partito
in quattro corpi, sotto Giordano, Otone, Arisgoto di Pozzuoli ed Elia
Cartomi; dei quali è verosimile che il primo conducesse oltre i proprii
vassalli gli stanziali del padre, Otone ed Arisgoto, italiani entrambi
come suonavano ormai que’ nomi, capitanassero gli uomini di Calabria
e di Sicilia, ed Elia i Musulmani sudditi de’ Normanni: sendo costui
musulmano e forse rinnegato, sicchè quei di Castrogiovanni, cui cadde
tra le mani a capo di pochi anni, lo misero a morte secondo lor legge,
e gli agiografi cristiani di Sicilia l’han fatto martire e beato.[346]
L’armata accompagnava l’esercito. Il conte, non più costretto dalla
pochezza delle forze a rubacchiare ed usare le occasioni, conducea la
guerra a disegno. In primavera dunque si pose all’assedio di Taormina;
la quale sorgendo su ripido monte, a cavaliere del mare, da prendersi
per fame anzi che per battaglia, chiuse egli il mare con l’armata;
circondò le radici del monte con ventidue torri collegate tra loro
per una cintura di palizzate e siepi.[347] E poco mancò ch’egli non
vi lasciasse la vita. Perocchè un giorno, andando in giro per la
circonvallazione con piccola scorta d’armati e inerpicandosi discosto
alquanto dai suoi per viottoli alpestri, una mano di Slavi, che
sembrano schiavi o mercenarii de’ Musulmani, gli saltarono addosso da
un mirteto dove s’erano ascosi. Più ratto di loro, un uom di Bretagna
per nome Evisando, si gittava di mezzo tra i nemici e il conte; li
rattenea nello stretto passo, dando e toccando colpi, tanto che,
sopraccorsa la scorta, rotolò gli assalitori giù per que’ dirupi;
mentre Evisando dalla fatica e dalle ferite spirava. Il conte onorò
di splendidi funerali e pie fondazioni la memoria di questo fedele,
immolatosi per lui. Ma stretto e assicurato in tal modo l’assedio,
Ruggiero con una eletta di fanti battea la costa settentrionale
dell’Etna e la valle che la divide dagli Appennini e soggiogava tutti
i Musulmani sparsi in que’ luoghi, infino a Traina. Ritornato allo
assedio, vide comparire quattordici corvette affricane[348] alle
quali mal avrebbe potuto resistere l’armata sua, scema di gente per
la guardia della circonvallazione. Donde inviato un messaggio agli
Affricani, gli risposero non venir con intendimenti ostili e veramente
poco appresso partironsi; il che darebbe a credere che Roberto per
avventura avesse stipulato accordo co’ principi Ziriti, per pratiche
de’ Pisani o degli Amalfitani e che Ruggiero fosse compreso nella
tregua, ovvero cogliesse or il destro di entrarvi anch’egli, come
di certo il fece a capo di pochi anni.[349] E intanto per l’assidua
vigilanza di Ruggiero e de’ capitani suoi fu chiusa Taormina sì
strettamente che, mancate le vittuaglie, la si arrese nell’agosto dopo
cinque mesi di assedio.[350]
Posarono nel millesettantanove i Musulmani liberi della Sicilia
meridionale, mercè i lor fratelli soggiogati della provincia
palermitana, i quali attiravano sopra di sè le armi del Conte. A
ventidue miglia da Palermo e un miglio e poco più a levante del comune
di San Giuseppe li Mortilli, sorge scosceso monte, inaccessibile
fuorchè da una via aspra e tortuosa: luogo pressochè disabitato al
tempo nostro. Pure il nome topografico non dileguato, gli avanzi di
spaziose cisterne e di qualche edifizio, i vasi d’argilla e le monete
che sovente vi si ritrovano coltivando il suolo, mostrano quivi senza
alcun dubbio il sito dell’antica Jeta o Jato, desolata non da Goti
nè da Saraceni, ma dai monaci ai quali ne fe’ dono Guglielmo II,
con quaranta o più villaggi de’ contorni. Territorio fertilissimo di
circa cento miglia quadrate, abitato in oggi da diciassette o diciotto
mila anime[351] il quale per lo meno ne racchiudea da sessantamila,
leggendosi nel Malaterra che Giato avesse tredicimila famiglie.[352]
Forti nel numero e nella postura, que’ di Giato ricusarono il censo
e il servigio; nè Ruggiero li potè spuntar con preghiere, nè con
minacce. Raccolsero gli armenti nella spaziosa montagna, afforzaronla
di muro e di ridotti là dove parea accessibile, e con vigilanti
guardie si assicurarono; beffandosi della rabbia del conte Ruggiero.
All’esempio si mosse Cinisi, terra di origine arabica, come pare dal
nome, posta a venticinque miglia a ponente di Palermo; contro la quale
andò Ruggiero co’ vassalli di Calabria, lasciando que’ di Sicilia a
stringere Giato, o piuttosto ad infestarne il territorio da’ due lati
confinanti con Corleone e Partinico. Egli poi sopravvedeva or l’una or
l’altra oste e invano si affaticava, rifuggendo, per umanità, dignità
o avarizia, dall’ardere le mèssi. Ma infine gittossi a quel partito,
più degno di masnadiere che di capitano; e Giato e Cinisi calavano agli
accordi.[353]
Ritardò le mosse militari, non gli acquisti, di Ruggiero in Sicilia,
l’impresa orientale di Roberto, cui par che il fratello desse
aiuti d’ogni maniera e rendesse importanti servigi, ond’ei n’ebbe
in merito la provincia del Valdemone. Perocchè del milleottantuno,
il Conte, fatti venire d’ogni banda, scrive il Malaterra, valenti
artefici,[354] con grandissima spesa murava dalle fondamenta le
fortificazioni di Messina: baluardi e torri di mirabile altezza; le
quali in breve tempo furono compiute, per la solerzia di Ruggiero
che aveavi preposti appositi officiali e instava spesso in persona a’
lavori. Sappiamo inoltre che risguardando Messina come chiave della
Sicilia e importantissima tra le città ch’egli possedea, la munì di
forte e fedele presidio; la decorò di novella chiesa del titolo di
San Niccolò, edificata a bella posta, largamente dotata e messa sotto
la giurisdizione del vescovato che il Conte avea testè fondato in
Traina.[355] I quali fatti, e le parole con che li espone il cronista
di corte, dimostran Ruggiero in quel tempo signor di Messina, anzi
che luogotenente di Roberto. E tal sembra l’anno appresso in tutta
la provincia; ritraendosi che Giordano, nella tentata usurpazione
del mille ottantadue, togliesse al padre due terre di Valdemone,
Mistretta, cioè, e quel Castello di San Marco ch’era stata la prima
fortezza munita da Roberto in Sicilia. Certa dunque ci torna, ancorchè
non attestata da diplomi nè litteralmente affermata da scrittori, la
cessione o vendita che dir si voglia del Valdemone; alla quale non
è meraviglia che si venisse, quando Ruggiero tenea molti danari in
serbo,[356] Roberto all’incontro con grandi spese allestiva possente
armata e metteva in piè un esercito. E forse fu principale patto loro
l’armamento di Messina; premendo a Roberto di evitare il pericolo
che un navilio bizantino venisse ad occupare lo Stretto, mentr’egli
assaliva l’impero d’Oriente.
Passato Roberto di là dall’Adriatico, e soggiornando sovente Ruggiero
in Puglia e in Calabria per aver cura delle faccende di lui, intervenne
lo stesso anno mille ottantuno, che Benavert s’insignorisse di Catania.
Il quale era divenuto molestissimo a’ Normanni tra cotesti loro
preparamenti alla guerra d’oltremare; ed a lui facean capo tutti i
Musulmani di Sicilia ribelli, come il Malaterra chiama coloro che la
patria e la religione tuttavia difendeano contro i guerrier di ventura
del Nort. Segue a dire il cronista che Benavert comperò con doni e
promesse un Bencimino[357] che reggea Catania per Ruggiero; il qual
nome per avventura sarebbe lo stesso di Ibn-Thimna e se ne potrebbe
inferire che alcun figliuolo o parente di lui servisse tuttavia i
Normanni. Una notte il traditore apriva la città a Benavert ed alle sue
genti: con rabbia ed onta de’ Cristiani, con esultanza de’ Musulmani,
si sparse per tutta l’isola essere tornata Catania in man del nemico.
Moveano alla riscossa, Giordano, Roberto di Sordavalle ed Elia Cartomi,
con centosessanta lance, che tornerebbero a settecento cavalli; ai
quali Benavert uscì incontro, continua il Malaterra, con ventimila
fanti e un forte nodo di cavalli: pose a destra i primi, stette ei
co’ secondi a sinistra un po’ addietro la linea; e con lieti auspicii
appiccò la battaglia, poichè avendo la cavalleria cristiana caricati
i fanti, non le venne fatto d’intaccarli al primo, nè al secondo, nè
al terzo assalto. Audacemente allora i Normanni si serrano addosso a’
cavalli di Benavert, lasciandosi interi al fianco e al dosso i fanti
nemici: ed ostinata e sanguinosa la zuffa si travagliò co’ cavalli,
forse uguali e forse inferiori di numero, finchè i Musulmani, rotti,
fuggironsi alla città e Benavert stesso a mala pena v’entrò, inseguito
da Giordano fino alle porte. I fanti si sparpagliarono dopo la rotta
dei cavalli, fuggendo o correndo all’impazzata addosso ai vincitori, sì
che furono tagliati a pezzi. I Normanni posero l’assedio alla città;
nella quale sendo scarso il presidio e ingrossando già la popolazione
cristiana,[358] Benavert nottetempo se ne andò a Siracusa, dov’ei
condusse il traditore, Bencimino, e in vece de’ promessi premii, gli
diede la morte.[359]
Contenti di questa vittoria i Normanni stettero sempre in su la difesa
infino al milleottantacinque, ordinati, credo, a contenere Benavert
que’ medesimi stanziali che aveano sì virtuosamente ripigliata Catania.
Ruggiero soggiornò in Terraferma, come richiedeano gli interessi
di Roberto e suoi; nè ebbe a venire in Sicilia che per reprimere,
del mille ottantadue, una rivolta del proprio figliuolo Giordano,
luogotenente nell’isola. Il quale par abbia voluto prendere le terre di
Valdemone per sè stesso, e cominciò occupando i castelli di Mistretta
e di San Marco, e tentando di por mano nel tesoro di Ruggiero, serbato
in Traina a guardia d’uomini fidatissimi, da non spuntarsi con promesse
nè con minacce. Indi fallì questo colpo; nè senza vergogna Giordano
si ritrasse dal mal sentiero ov’avea messo il piede. Perchè Ruggiero,
temendo che il figliuolo per disperazione non si gittasse a’ Musulmani,
dapprima s’infinse prenderle per baie giovanili, ed aprì le braccia a
quel valoroso; ma com’ei l’ebbe nelle sue forze con tutti i compagni e’
famigliari, cominciò una stretta inquisizione, fe’ accecare dodici che
gli parvero gli istigatori del figlio, e rimandò poi libero Giordano,
disonorato nel supplizio de’ complici, atterrito dalla minaccia di
perdere il lume degli occhi per comando del proprio suo padre.[360]
Allenava così la guerra, dalla parte de’ Normanni, perchè il nerbo
delle loro forze pugnò in quel tempo con Roberto in Grecia; e dalla
parte de’ Musulmani, perchè forze d’animo non restavano ai soggiogati,
e i liberi par che al solito le spendessero in lor piccole gare. Che se
pronti egli avesse visti a pigliare le armi i correligionarii suoi di
Palermo, di Mazara o di Trapani; se disposti que’ di Castrogiovanni o
di Girgenti a seguirlo ne’ territorii occupati dal nemico, non avrebbe
il prode Benavert messe tutte le sue sorti al gioco d’una disperata
fazione in Calabria.
Tentolla il milleottantacinque, quando la morte di Roberto Guiscardo
avea gittato tanto scompiglio nell’Italia meridionale, quando si
disputava la successione al ducato tra suoi figli Boemondo e Ruggiero,
quando il conte Ruggiero si adoperava in Terraferma all’esaltazione
del secondo tra’ nipoti, il quale glie ne die’ in merito la metà
delle terre di Calabria, riserbata già da Roberto. Benavert assaltò la
Calabria, come uom che a null’altro agogni fuorchè vendicarsi o morire.
Nell’agosto o nel settembre[361] approdò di notte[362] a Nicotra, vinto
pria, com’e’ parrebbe, un combattimento navale e poi uno di cavalleria
co’ Normanni:[363] distrusse quant’ei potè della città, rapinne quanto
ei seppe, menò cattivi uomini e donne. Ritornando, sbarcò presso
Reggio, dove saccheggiò le chiese di San Niccolò e di San Giorgio,
spezzando le immagini, contaminando i vasi sacri e gli arredi. Irruppe
alfine nel munistero di donne della Madre di Dio a Rocca d’Asino;
depredollo e le suore menò negli harem di Siracusa.[364]
Inorridivano, bolliano di sdegno all’annunzio di tal sacrilegio le
milizie cristiane; soprattutti Ruggiero che sperava utilità dalla
vendetta e il destro di volgere a impresa nazionale e religiosa le armi
pronte in Puglia alla guerra civile. “Spirandogli il Cielo maggior
ira che l’usata, scrive il monaco Malaterra, ei surse a vendicare
l’ingiuria di Dio: cominciò il primo ottobre, fornì il venti maggio gli
appresti dell’armata. A piè scalzi allora, andò in giro per le chiese,
recitando litanie, mettendo sospiri e lamenti, dispensando larghe
limosine ai poverelli: si commise indi a’ perigli del mare e drizzò le
prore a Siracusa. “La mostra dell’armata, i riti di propiziazione da
infiammare le moltitudini seguirono, com’egli è evidente, a Messina.
Ruggiero, mandato Giordano co’ cavalli che l’aspettasse al Capo
di Santa Croce,[365] là dove fu poscia edificata Agosta, salpò con
l’armata; la qual senza remi nè vele (nota il Malaterra per dimostrare
il miracolo, ma dimentica le correnti del mare) prosperamente navigò,
sostando la prima notte a Taormina[366] la seconda a Lognina[367]
presso Catania e la terza al Capo di Santa Croce. Dove trovato Giordano
co’ cavalli e messa in punto ogni cosa, il conte mandò a riconoscere le
condizioni del nemico un Filippo di Gregorio[368] patrizio. Il quale,
in una barca montata da Siciliani, com’ei sembra, che al par di lui
intendeano l’arabico e parlavano speditamente, aggirossi nel porto
di Siracusa la notte, contò le navi di Benavert, le seppe disposte ad
affrontare senza dimora i Cristiani e ritornò a Ruggiero. Era giorno
di domenica. Il conte fa celebrare la messa in quel deserto lido,
confessare e comunicare la gente: la notte salpa per Siracusa e mandavi
la cavalleria. Il venticinque maggio mille ottantasei, combatterono
le due armate nel maggior porto, come quelle di Siracusa e d’Atene,
quindici secoli innanzi. Benavert vedendo troppo travagliati i suoi
dagli arcieri e sopratutto da’ balestrieri,[369] che li ferivano stando
fuor del tiro delle saette loro, comandò l’arrembaggio: dritto ei vogò
a dar d’urto alla nave di Ruggiero; spingendolo il demonio, scrive
Malaterra, per accorciargli la vita. Perchè trovato duro riscontro,
ferito gravemente di lanciotto per man d’un Lupino,[370] incalzato
con la spada alla mano dal Conte, cercò scampo in altra nave, spiccò
corto il salto, e annegò, tratto in fondo dalla grave armadura.
La più parte delle navi musulmane allor fu presa; e la città cinta
d’assedio, poichè Giordano, osservando questa volta rigorosamente il
divieto del padre, non tentò d’occuparla d’un colpo di mano, al primo
scompiglio gittatovi dal caso di Benavert. Dice l’Anonimo che Ruggiero,
fatto pescare il cadavere dell’emir, mandasselo a Temîm in Affrica.
Valorosamente poi si difesero i Musulmani di Siracusa dallo scorcio di
maggio fino all’ottobre; e invano speraron placare il conte, rimandando
liberi tutti i prigioni cristiani. Affaticati, scemati da’ tiri delle
macchine, li ridusse la fame. Una notte, la moglie e il figliuolo di
Benavert, coi notabili musulmani, si rifuggirono in Noto su due navi,
trapassando velocissimamente in mezzo all’armata nemica. La città
s’arrese a patti.[371]
Il giusto orgoglio d’una impresa navale de’ nostri e la connessione
del subietto, mi conducono or a toccare l’espugnazione di Mehdia,
interrompendo il racconto della guerra siciliana. Scrive l’istoriografo
di Ruggiero che, stando questi all’assedio di Siracusa, i Pisani per
vendetta d’alcuna ingiuria, avessero osteggiata e occupata la capitale
di Temîm, fuorchè il castello; e che, non fidandosi di prender questo,
nè di tenere la città, avessero profferto lo splendido acquisto loro
al conte Ruggiero, il quale ricusò, per mantener fede a Temîm, cui
lo stringeva un accordo.[372] Lealtà necessaria, come ognun vede, a
chi tuttavia s’affaticava sotto le mura di Siracusa e gli rimaneano
a soggiogare nell’isola tante altre cittadi e province. Ma le genuine
memorie nostrali e musulmane scoprono vieppiù la fallacia del cronista
e provano che, se pur i Pisani richiesero il conte, fu sol di entrare
nella lega quando si apparecchiavano gli armamenti.
Delle condizioni di casa zirita, delle fortificazioni di Mehdia, ci è
occorso dire più volte.[373] Il munitissimo porto era nido di pirati
che tutto infestavano il Mediterraneo, dalla Spagna alla Grecia, e
assalivano talvolta le costiere e rapivano gli uomini al par che
la roba, nè rispettavano al certo gli accordi che per avventura
fermò con gli Ziriti or questo or quello Stato italiano.[374] Colma
la misura, mossi i Pisani dalle querele di lor cittadini cattivi
degli Infedeli, proposero lega a Genova, domandarono aiuti a tutti
navigatori italiani e benedizioni al papa, che era allor lo scaltro
abate Desiderio, o vogliam dire Vittore III; il quale, travagliandosi
in dure strette, aiutò di quel che potea: conforti ed esortazioni. Con
gli stessi elementi, gli stessi modi e gli stessi intenti, ma assai
più larga e possente si rifacea così, dopo settant’anni, la lega che
oppresse Mogehid nel millequindici. Apparecchiate lungamente[375]
da Pisani, Genovesi, Amalfitani,[376] sommarono le navi italiane
a tre o quattrocento, gli uomini, comprese al certo le ciurme, a
trentamila;[377] e lor fu dato il ritrovo a Pantellaria. Dove i
Musulmani, provatisi indarno a resistere, mandarono avvisi a Temîm per
dispacci attaccati al collo delle colombe: ma l’annunzio del pericolo
nocque, più che non giovasse, nella città spreparata, nella corte
pusillanime e discorde. Mentre quivi i Musulmani si bisticciano tra
loro, il mare si ricopre delle italiane vele; i palischermi s’avanzano
a branchi; sbarcan lesti i nostri nel borgo di Zawila a mezzodì, e
nella penisola stessa di Mehdia a tramontana: per aspri combattimenti
occupano il borgo, occupano la città fuorchè il cassaro[378] ossia
palagio afforzato; bruciano l’armata musulmana entro il porto; appiccan
fuoco alle case; fan prigioni, saccheggiano e furiosamente stringono
il cassaro, dove s’era rifuggito Temîm. Era il sei agosto del mille
ottantasette. Ma assalito invano il castello per parecchi giorni, Temîm
chiedea la pace, a patto di sborsare trentamila, altri dice ottanta
e altri centomila, dînar d’oro,[379] liberare i prigioni cristiani,
smettere la pirateria contro Cristiani, e accordare franchigie doganali
ai Pisani ed ai Genovesi.[380] E i collegati, conseguito l’intento,
accettarono i patti, caricarono le navi d’oro, argento, pallii, arnesi
di bronzo, prigioni cristiani da liberare o da rivendere, schiavi
musulmani da recare al mercato, e ciascuno se ne andò in quella che
chiamava sua patria, a far mostra della preda, arricchire la chiesa più
favorita; e poi riarmare la nave, ed arrotar l’azza e la spada contro
un’altra città italiana. L’imbarbarita musa arabica dell’Affrica si
fece a descrivere le calamità di Mehdia, cominciando a dire del gran
numero de’ nostri, agguerriti e feroci, che assalirono improvvisamente
un pugno di cittadini, avvezzi a molle vita più che alle armi; ma
sventuratamente ci manca la più parte di questa lunga elegia. Intero
abbiamo lo scritto d’un italiano, il quale provandosi nei principj
del duodecimo secolo a cantare in una lingua ch’ei non parlava, le
geste di una nazione la quale non vedea per anco la sua stella polare,
dettò in versi latini un racconto preciso e fedele nella importanza
de’ fatti, ma lo vestì di goffe metafore da romanzo, facendo allestir
da’ cittadini di Pisa e di Genova mille navi in tre mesi, uccidere
in Mehdia centomila Arabi, liberare centomila Cristiani e simili
baie.[381]
Il cauto normanno avea occupata Girgenti, mentre i marinai italiani
si apparecchiavano tuttavolta all’impresa di Mehdia. Sbrigatosi di
Benavert nell’ottantasei, radunava a dì primo aprile dell’ottantasette
le milizie feudali, volenterose e liete per la speranza d’acquisto; e
sì conduceale all’assedio di Girgenti. Ubbidiva allora Girgenti con
Castrogiovanni e con tutto il paese di mezzo, a un rampollo della
sacra schiatta di Alì, del ramo degli Edrisiti che aveano regnato un
tempo nell’Affrica occidentale, e della casa de’ Beni-Hamûd, la quale
tenne per poco il califato di Cordova (1015-1027) indi i principati
di Malaga e di Algeziras (1035-1057), ma cacciata dalla Spagna,
andò cercando fortuna qua e là. Par che un uomo di cotesta famiglia,
passato in Sicilia, non sappiamo appunto in qual anno, abbia preso lo
stato in quelle province, tra le guerre civili che si travagliarono
coi figli di Temîm; portato in alto non da propria virtù, ma dal nome
illustre e dalle pazze vicende dell’anarchia. Chamut il suo nome, qual
si legge nel Malaterra e ben risponde alla voce che a nostro modo si
trascrive Hamûd.[382] Il quale si rannicchiò tra sue rupi inaccesse
di Castrogiovanni, mentre la moglie e i figliuoli si trovavano in
Girgenti, e i Normanni circondavano la città, batteano le mura con lor
macchine; tanto che occuparonla a dì venticinque luglio del medesimo
anno. Ruggiero v’acconciò fortissimo un castello, munito di torri,
bastioni e fosso; lasciovvi buon presidio, e battendo la provincia, in
breve ne ridusse undici castella: Platani, Muxaro, Guastanella, Sutera,
Rahl, Bifara, Micolufa, Naro, Caltanissetta, Licata, Ravanusa; talchè
occupava tutto il paese dalla foce del fiume Platani a quella del Salso
ed a Caltanissetta, di che ei compose non guari dopo, con qualche
aggiunta, la Diocesi di Girgenti, ed or vi risponde tutta intera la
provincia di questo nome e parte della finitima di Caltanissetta.
La moglie ed i figliuoli dell’Hamudita caduti in suo potere, tenne
Ruggiero in sicura ed onorata custodia; pensando, così nota il
Malaterra, che più agevolmente avrebbe tirato quel principe agli
accordi, con serbare la sua famiglia illesa da tutt’oltraggio.[383]
E veramente, Ibn-Hamûd si vedea chiuso d’ogni banda in Castrogiovanni;
occupata da’ Cristiani tutta l’isola, fuorchè Noto e Butera; potersi
differire, non evitar la caduta; nè egli ambiva il martirio, nè i
pericoli della guerra, nè pure i disagi di gloriosa povertà. Ruggiero
fattosi un giorno con cento lance presso la rôcca, lo invitava ad
abboccamento; egli scendea volentieri ed ascoltava senza raccapriccio i
giri di parole che conduceano a due proposte: rendere Castrogiovanni e
farsi cristiano. Dubbiò solo intorno il modo di compiere il tradimento
e l’apostasia, senza rischio di lasciarci la pelle: alfine, trovato
rimedio a questo, accomiatossi dal Conte, il quale se ne tornava tutto
lieto a Girgenti. Nè andò guari che il normanno con fortissimo stuolo
chetamente s’avviava alla volta di Castrogiovanni; nascondeasi in un
luogo appostato già col musulmano; e questi, fatti montar in sella suoi
cavalieri, traendosi dietro su i muli quanta altra gente potè, quasi
a tentare impresa di gran momento, uscì di Castrogiovanni, li menò
diritto all’agguato. E que’ fur tutti presi; egli accolto a braccia
aperte. Allor muovono i Cristiani alla volta della città; la quale
priva de’ difensori più forti, si arrende a patti, e Ruggiero vi pone
a suo modo castello e presidio. Ibn-Hamûd poi si battezzò, impetrato
da’ teologi del Conte di ritenere la moglie ch’era sua parente ne’
gradi permessi dal Corano, vietati dalla disciplina cattolica. Ma non
tenendosi sicuro de’ Musulmani in Sicilia, nè volendo che Ruggiero pur
sospettasse di lui in caso di cospirazioni o tumulti, il cauto e vile
Ibn-Hamûd chiese di soggiornare in Terraferma; ebbe da Ruggiero certi
poderi presso Mileto e quivi lungamente visse vita irreprensibile, dice
lo storiografo normanno.[384]
Ultima resistè con le armi la città di Butera; ultima s’arrese Noto.
Fortissima l’una di sito, fertilissima di territorio, prosperò sotto
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