Storia dei musulmani di Sicilia, vol. III, parte I - 05
aspro e stretto. Al romore accorreva Ruggiero a spron battuto con
l’altra schiera; gridava a que’ della scorta venissero a ristorare la
battaglia, ma gli fu forza di salire egli stesso, chiamar ciascuno per
nome, rinfacciare ch’ei non riconosceva i vincitori di quello stesso
nemico tanto maggior di numero a Cerami. Rattestatili a stento, caricò,
ruppe i Musulmani, ritolse la preda e si ritrasse a Traina; piangendo
sì la morte di Gualtiero di Semoul, il più valoroso giovane della
schiera, il quale fu trafitto spingendosi primo alla riscossa.[237]
Un Malaterra musulmano racconterebbe, credo, altrimenti questa dubbia
fazione, e più altre ne aggiungerebbe favorevoli ai suoi, le quali
è forza supporre nello autunno, e sino allo scorcio dell’inverno,
allorchè il Malaterra normanno ci rappresenta Roberto Guiscardo
costernato dalle nuove che giugneano di Sicilia, risoluto a partecipare
ne’ pericoli come avea fatto negli acquisti; ond’ei venne in aiuto
a Ruggiero che i Saraceni travagliavano e strigneano con frequenti
assalti.[238]
CAPITOLO IV.
Nella primavera dunque del millesessantaquattro Roberto adunò
l’esercito in Puglia e in Calabria; al quale andato incontro Ruggiero a
Cosenza, passarono insieme il Faro con cinquecento militi, non contando
gli altri cavalli nè i fanti;[239] e tirarono dritto a Palermo, senza
che i Musulmani osassero tagliar loro la strada. Posero il campo presso
la città, in un colle infestato da tarantole,[240] il cui morso diceano
cagionasse gravi e sconci sintomi nervosi e fin anco minacciasse la
vita.[241] E sembran fole; poichè quell’insetto in oggi non nuoce; ed a
supporre che particolari condizioni l’abbiano armato di veleno in altri
tempi e luoghi non ci basta l’autorità delle cronache oltramontane,
le quali sempre lo fanno ausiliare degli Infedeli contro i guerrieri
cristiani del Settentrione, sempre l’accagionano d’una pia impresa
fallita.[242] Gittando su l’infausto luogo il nome di Monte delle
Tarantole, che del resto non vi allignò,[243] tramutavansi i Normanni
in migliori alloggiamenti; dai quali per ben tre mesi osteggiavano la
città, ma n’erano sì gagliardamente ributtati, che sciolsero l’assedio
senz’altro pro che di saccheggiare le campagne. In vece di rifar la
strada verso levante, spingeansi per ben ottanta miglia a mezzogiorno;
dove espugnavano Bugamo, castello o forse grossa terra a sei miglia da
Girgenti,[244] e spianavano le case, e fatti schiavi gli abitatori, il
duca Roberto, mandolli a popolare Scribla in Calabria, da lui poc’anzi
desolata; cioè a coltivare come servi suoi i terreni dai quali avea
cacciati gli antichi possessori. Solo fatto d’arme in questa impresa
del sessantaquattro, ci racconta il Malaterra che passando i Normanni
coi prigioni di Bugamo presso Girgenti, que’ cittadini uscirono
alla riscossa, e furono respinti e inseguiti fino a lor mura.[245]
Intanto Amato attesta che Roberto vedendo non poter espugnare Palermo
senza forze navali, si volse ad acquistare altre città marittime in
Terraferma, ond’accozzarvi legni e marinai.[246] Il vero è che il duca
non ristorò la fortuna delle armi cristiane in Sicilia. Il senno nè il
valore non era venuto meno ai Normanni. Chi dunque diè l’avvantaggio
all’islam tra il mille sessantatrè e il sessantotto, tra la battaglia
di Cerami e il combattimento di Misilmeri?
Pochi cenni delle istorie musulmane, limitati su per giù allo stesso
spazio di tempo senza date più precise, ci fan pure intendere la
cagione, se li riscontriamo con le condizioni conosciute d’altronde.
Tengasi a mente che delle tre grandi province o valli della Sicilia,
come furon dette, distinte per la natura de’ luoghi non meno che pei
mutamenti sociali ed etnologici che portò il conquisto musulmano,
apparteneva a’ Normanni, con piccolo divario di confini, il val Demone;
il Val di Noto a’ Musulmani confederati loro; il Val di Mazara a’
Musulmani nemici, divisi in due Stati: di settentrione e mezzogiorno.
Secondo l’odierna circoscrizione, diremo che sgombra da’ signori
musulmani la provincia di Messina, ubbidiano quelle di Catania e di
Siracusa ai successori d’Ibn-Thimna o regoli d’altra schiatta venuti
su dopo la sua morte, e che si riducea la guerra nelle province di
Palermo, Trapani, Caltanissetta e Girgenti; delle quali le due prime
par ubbidissero alla repubblica di Palermo, le seconde a Ibn-Hawwasci.
E già narrammo come l’una e l’altro, sentendosi l’acqua alla gola,
accettavano il soccorso di Temîm; e come i costui figliuoli Aiûb ed
Alì si poneano nelle città più importanti di ciascuno Stato: Palermo
e Girgenti. Accordandosi l’ambizione di casa Zirita con la salute dei
Musulmani di Sicilia e coll’onore dell’islam, ebbero gran seguito i
due principi; alla cui riputazione non potea detrarre la battaglia
di Cerami, più avventurata al certo pe’ Normanni che esiziale a’
Musulmani, nella quale d’altronde se avesse combattuto un figliuolo
di Temîm che di qua dal Mediterraneo potean chiamare re d’Affrica e
d’Arabia, i Normanni non l’avrebbero ignorato al certo, nè passato
sotto silenzio. Che Aiûb governasse prosperamente la guerra, i casi
della quale sono taciuti o dissimulati da’ cronisti normanni, e che gli
venisse fatto per brev’ora di recarsi in mano l’autorità in tutta la
Sicilia occidentale, si ritrae, s’io mal non m’appongo, dal seguente
racconto che Ibn-el-Athîr copiò, ovvero compendiò, dagli scritti
di autore più antico e poselo tra il quattrocencinquantatrè e il
quattrocensessantuno dell’egira (1061-1069).
Ibn-Hawwasci, secondo que’ ricordi, inviava da Castrogiovanni ricchi
presenti ad Aiûb; volea fosse albergato nel suo proprio palazzo
di Girgenti e l’onorava con ogni maniera d’ossequio. Ma poco durò
l’amistade. Accorgendosi che i Girgentini ponessero troppo amore
nell’ospite, il signor di Castrogiovanni per lettere comandava di
cacciarlo: disubbidito, movea contro i Girgentini con l’oste. Ed essi
uscirono sotto le bandiere di Aiûb e s’appiccava la zuffa, quando
una freccia tirata, dicono, a caso, dirimea la lite uccidendo Ibn
Hawwasci: onde Aiûb era gridato signore da ambo i lati, com’e’ sembra,
del campo di battaglia. La discordia spenta per tal modo nel mezzodì,
si raccendea poscia in Palermo; dove i cittadini, mal soffrendo gli
schiavi stanziali di Temîm, vennero alle mani con quelli; e imperversò
tanto la guerra civile, che Aiûb, veduto non poterne venire a capo,
chiamava a sè il fratello Alì: montati su l’armata, ritornavano in
Affrica. Seguitaronli molti notabili musulmani dell’isola; seguitolli
la gente dell’armata siciliana; nè rimase chi potesse far testa
a Normanni. Se ne sbrigano così gli annali; saltano a piè pari
l’occupazione di Catania, l’espugnazione di Palermo, e toccano appena
la resa di Girgenti e di Castrogiovanni, cioè l’ultimo compimento
del conquisto normanno.[247] Cercando di porre qualche data nello
spazio che abbiamo percorso, riferiremmo l’andata di Aiûb in Girgenti
all’anno sessantaquattro, quando la ritirata dell’esercito normanno
da Palermo esaltò di certo il nome di Aiûb e lo scempio di Bugamo fece
desiderare in que’ luoghi l’eroe musulmano della stagione. Sembra anco
che i Normanni allor fossero corsi a mezzogiorno all’odor della guerra
civile e per trame di fazioni che portarono alla chiamata di Aiûb.
Questi poi sembra partito di Sicilia dopo l’infelice combattimento di
Misilmeri, nel quale ei forse non si trovò;[248] ma la parte avversa
gliene dovea pur gittare addosso la colpa. L’esilio, volontario o no,
de’ cittadini che il seguirono, prova che la parte siciliana trionfò
in Palermo, fors’anco in Girgenti, dove la morte d’Ibn-Hawwasci l’avea
fatta andar giù. Palermo continuò o tornò a reggersi per la _gema’_,
che fu poi costretta a rendere la città il millesettantadue. Lo Stato
di Castrogiovanni e Girgenti cadde sotto nuova signoria, della quale
diremo a suo luogo.
La vecchia tattica di casa Hauteville mirabilmente s’era riscontrata
co’ tempi, lasciando consumare dassè quel rigoglio che una effimera
concordia avea dato a’ Musulmani nel millesessantaquattro. Roberto,
dopo l’assedio di Palermo, attese in Puglia a soggiogare municipii
italiani e condottieri normanni indocili al nuovo freno. Ruggiero
non si spiccò dal fratello mai più; anzi gli diè mano in Terraferma
quand’ei potè:[249] e in Sicilia si chiudea quasi nell’arme senza
assalire altrimenti, fidandosi pur nell’indole dei Musulmani che
presto avrebbero ripreso a lacerarsi tra loro. Nè ebbe ad aspettare
gran pezza. Del millesessantasei, si fa innanzi, ben coperto, per
un’altra quarantina di miglia; afforza di torri e bastioni Petralia,
che gli aprì lo sbocco alla valle dell’Imera settentrionale e però a
Termini ed a Palermo, e per più breve e facile cammino gli permise
le scorrerie sopra quel di Castrogiovanni e di Girgenti. Fitto nel
pensiero di conquistar la Sicilia, dice lo storiografo, Ruggiero non
avea posa, non sentiva più la fatica; d’ogni stagione il vedevi alla
testa de’ suoi, dì e notte a cavallo, senza risparmiare questi più che
quell’altro, scorrea per ogni luogo, sì rapido che i nemici lo credeano
presente da per tutto, e sempre, pur entro le città e le case loro, se
lo sentivano addosso. Col senno temperava la ferocità leonina che sortì
da natura; la fortuna giammai non l’abbandonò. Or allettando altrui
co’ guiderdoni, or minacciando con parole e stringendo con assalti e
guasti, si allargò a poco a poco intorno Petralia, tanto che assoggettò
gran parte dell’isola; all’uso, aggiugne il Malaterra, de’ figliuoli
di Tancredi, i quali cupidi d’acquisto non poteano sopportare ch’altri
possedesse terreno nè roba accanto a loro, nè avean pace finchè non li
rendessero tributarii o del tutto non li spogliassero.[250]
A capo di tre anni, correndo il millesessantotto, sì aspra era divenuta
la molestia ai Musulmani di Palermo, che ragunati a consiglio, scrive
il Malaterra, deliberarono di tentare ad ogni costo la fortuna d’una
battaglia. Saputo che Ruggiero cavalcasse alla volta della città con
fortissimo stuolo, gli escono incontro a gran frotte; l’avvistano a
Misilmeri, terra a nove miglia per levante. Ancorchè non si aspettasse
tanta moltitudine, egli si preparò allo scontro fremendo di gioia.
Ordinò le genti in una schiera. Le arringò sorridendo: “La fortuna
amica sempre a’ Normanni condur loro tra’ piedi la preda tanto
desiderata, risparmiar loro la fatica di più lungo cammino; anzi
Iddio stesso porgea questo dono. Prendete, continuò, la roba degli
Infedeli, indegni di possederla: ce la partiremo apostolicamente tra
noi; ciascuno avrà quel che gli abbisogni. Nè temiate il numero de’
nemici tante volte sconfitti. Che s’or ubbidiscono a novello capitano,
gli è pur della nazione, indole e religione loro. E sia mutato anco, il
nostro Dio non muta. Quando a voi non venga meno la fede nè la ferma
speranza, Ei vi concederà sempre vittoria.” Ruppero il nemico con
sì grande strage, che il cronista la viene significando coll’antica
metafora dell’esser mancato chi ritornasse a dar la notizia.
Spartironsi allegramente il bottino. E trovando le gabbie de’ colombi
messaggeri, loro attaccarono al collo schede intrise di sangue, sì che
in Palermo seppesi immediatamente la sconfitta.[251]
Avea principiato Roberto in questo tempo l’assedio di Bari, grossa
città e ricca più che niun’altra dell’Italia meridionale, travagliata
da due parti, le quali per vie contrarie aspiravano a libertà:
chè l’una volea sottrarsi ad ogni patto alla dominazione bizantina
affidandosi perfino a Normanni; l’altra capitanata da Argiro, aborrendo
dal giogo feudale, ormai chiaro e manifesto, dei Normanni, amava
meglio ubbidir di nome a Costantinopoli. Questa parte prevalendo in
Bari, la tenea, sola in Italia, in fede dell’impero bizantino; e si
schermì tanto dalle arti di Roberto, ch’egli deliberossi a far aperta
violenza. Onde oppugnava la città con l’usato perseverante valore e con
mezzi più potenti che fin allora non avessero adoperati i Normanni:
macchine di varie maniere da batter le mura, e ridotti e ponti di
barche; soprattutto forze navali, fornite in parte dal conte Ruggiero.
Al quale par torni la gloria del fatto decisivo; poichè sendo la città
stretta da ogni banda e affamata e sopravvenendo un’armatetta bizantina
con genti e vittuaglie, le navi normanne che la scopriron di notte e
la intrapresero e distrusserla, ubbidivano a Ruggiero, come scrive
il Malaterra; nè monta che tacciano il suo nome Amato e Guglielmo
di Puglia, partigiani di case rivali. La città allora s’arrese a dì
sedici aprile del settantuno, dopo tre anni e parecchi mesi d’assedio.
Roberto usò umanamente co’ Baresi, rendendo loro i possessi occupati
nel territorio e fermando con la città patto di confederazione, il
che in vero significava porre un tributo. Poi dispensò armi a chi ne
volle, anco al presidio bizantino fatto prigione, e se li tirò dietro a
combattere in Sicilia con quante navi potè accozzare nel porto.[252]
Perocchè la vittoria di Bari promettea quella di Palermo; provatisi
già felicemente i Normanni e lor sudditi italiani alle battaglie di
mare, alle ossidioni, e cresciute le forze militari di due fratelli
che ormai teneano il primato di lor gente in Italia. In vece delle
squadre di scorridori con che aveano combattuto in Sicilia, i Normanni
vi recavan ora un esercito ed un’armata. Oltre le genti assoldate,[253]
chiamò Roberto alla impresa i condottieri o conti ch’ei già tirava alla
condizione di grandi vassalli e i due confederati ch’ei si proponeva
d’ingoiare a suo comodo: Riccardo principe normanno di Capua[254] e
Guaimario principe longobardo di Salerno, fratello della moglie.[255]
Sembra che i principi abbiano fornita poca gente. De’ conti ricusò
audacemente Pietro di Trani.[256] Ciò non di meno Roberto a capo di tre
mesi era in punto; soggiornato il giugno e parte di luglio a Otranto,
fece tagliare una roccia per imbarcare più agevolmente i cavalli e
adunò le macchine, e le vittuaglie. Cinquantotto navi partivan indi
per Reggio, dove il duca s’avviò con altri cavalli e fanti. Gli ultimi
giorni di luglio o i primi d’agosto, passò il Faro con tutte le genti:
Normanni, Pugliesi Calabresi e il presidio bizantino di Bari.[257]
Ruggiero che avea per tutta la state messe in punto anch’egli le sue
forze, non prima saputo il passaggio di Roberto, si trovò a Catania
in modo tanto sospetto, che il Malaterra, non osando narrarlo, nè
dir bugia tonda, ci lascia nelle mani il bandolo della magagna,
«Il duca, scrive egli, mandato innanzi il fratello in Sicilia, va
a lui in Catania, _fingendo_ di muovere contro Malta, quasi non si
fidasse d’assalire Palermo; e pur si reca a Palermo _confortato_ dal
fratello.» Ma come e perchè Ruggiero fosse corso a Catania, sede
dei Musulmani ausiliari suoi da tanti anni, e chi signoreggiasse
il paese dopo la uccisione d’Ibn-Thimna, lo tace qui e sempre lo
storiografo del Conte.[258] Amato, che non vivea a corte di lui,
dice che Ruggiero mosse contro Catania quando Roberto passava lo
stretto; che la città gli si arrese a capo di quattro dì; ch’egli fece
acconciare incontanente una chiesa intitolata a San Gregorio ed una
fortezza, nella quale lasciò quaranta uomini di presidio a reprimere
il mal volere de’ cittadini.[259] Donde noi possiamo scrivere ne’
posti lasciati in bianco dai due frati cronisti e dir che Ruggiero,
usando gli antichi accordi con Ibn-Thimna, entrò da amico, forse con
picciolo stuolo in Catania, dando voce d’una impresa sopra Malta, e che
sopravvenuto Roberto con parte dell’armata, sempre per andar a Malta,
insignorironsi della città, dopo breve resistenza o nessuna. Fatto il
colpo, Roberto avvia l’esercito a Palermo per terra; egli, per fuggire
il caldo, segue in una galea, accompagnato da dieci gatti e quaranta
altre navi. Ruggiero, cammin facendo anch’egli alla volta di Palermo,
va a sopravvedere sue genti e sue cose a Traina. Ripigliato indi il
viaggio, non lungi da Palermo gli intervenne che precedendolo i suoi
famigliari per apprestar le vivande, una gualdana di dugento musulmani
rapirono ogni cosa ed uccisero la gente; ma furono non guari dopo
svaligiati e tagliati a pezzi dalla schiera del Conte.[260]
Ci è occorso descrivere il sito di Palermo nel decimo secolo: nel
centro il Cassaro, o città vecchia, bagnata, da maestrale a levante,
dal porto che fendeasi in due lingue; la Khalesa, cittadella tra la
lingua orientale e il mare; i borghi intorno il Cassaro da ogni altra
banda.[261] I particolari dell’assedio che raccogliamo qua e là negli
scritti di Amato, di Malaterra, di Guglielmo e dell’Anonimo e che
tornan pure ad unico e chiaro disegno delle operazioni militari, non
mostrano mutata la topografia nella seconda metà del secolo undecimo;
se non che gli spaziosi borghi di libeccio, mezzodì e scirocco sembrano
decaduti da lungo tempo e abbandonati del tutto all’appressarsi del
nemico. Discosto circa un miglio a levante, al posto dove giugnea
in quel tempo[262] la sponda destra dell’Oreto e la spiaggia del
mare, sorgeva il castello, detto di Giovanni, dal nome forse d’alcun
musulmano (_Jahja_) di che i Normanni fecero San Giovanni[263] e
mutarono l’edifizio in ospedale; onde le odierne fabbriche sovrapposte
a ruderi di varie età si chiamano tuttavia San Giovanni dei Lebbrosi.
Il qual castello, evidentemente posto a difendere da gualdane nemiche
le ricche ville d’ambo i lati del fiume e gli approcci stessi della
città, era stato probabilmente edificato o afforzato durante la guerra
normanna; nè parmi inverosimile che alcun altro ne sorgesse in altri
siti dell’agro palermitano dove poi si notarono chiese, monasteri o
palagi de’ Normanni. Della popolazione palermitana in questo tempo
ignoriamo il numero al tutto; ma dobbiamo supporla menomata di molto,
fin dal decimo secolo, per le vicende politiche, massime le emigrazioni
del millesessantuno e del sessantotto.[264] Il numero degli assedianti
possiamo conghietturar solo dalla estensione del territorio sul quale
dominavano gli Hauteville in Terraferma, da’ soliti loro armamenti in
altre imprese contemporanee, dalla guardia che scortava Roberto entrato
di accordo nella città e dal numero delle sue navi notato dianzi. Un
otto o diecimila uomini, tra cavalli e fanti, parmi il maggiore sforzo
che i Normanni abbian potuto condurre sotto le mura di Palermo.
Si avanzò primo Ruggiero dalla parte di levante per le falde de’ monti,
il dì appresso il raccontato scontro; occupò un sontuoso palagio e le
ville dei contorni; le saccheggiò; fece abbondante caccia di prigioni,
i quali nulla sapeano del nuovo gioco, quando si videro cinti da un
cerchio di cavalli e stretti e presi e venduti.[265] La vanguardia
apparecchiava per tal modo le stanze ai capi dell’oste: «Que’ dilettosi
giardini, scrive Amato, irrigati d’acque, ricchi di frutta; dove
albergarono con agi da principi, fino i cavalieri minori, proprio in
un paradiso terrestre.» Appresentatosi quindi al Castel Giovanni,
e uscitogli incontro il picciolo presidio,[266] uccidea quindici
cavalieri musulmani, ne prendea prigioni trenta, e, insignoritosi
del luogo, vi chiamava Roberto,[267] il quale indi sembra sbarcato lo
stesso dì. Il quartier generale, come or si direbbe, fu posto in quel
castello e ultimato il disegno di assedio. Rimasevi Roberto capitanando
i Pugliesi e i Calabresi dell’oste; Ruggiero con le sue genti stanziò,
com’e’ pare, dove or sorge la chiesa della Vittoria, a settecento metri
dalla odierna porta Nuova, su lo stradone che mena a Morreale.[268]
Talchè stando l’uno a ponente-libeccio l’altro a scirocco-levante e
comunicando insieme, investivano la città, per più d’un terzo del suo
perimetro, dal lato meridionale. A greco l’armata chiudeva il porto.
Le picciole forze navali che rimaneano a’ Palermitani[269] furonvi
ricacciate, perdendo un gatto ed una galea.[270]
Del rimanente s’era la città apparecchiata bene alla difesa; onde i
Musulmani, stretti ch’e’ furono nelle mura, per frequenti sortite, con
varia fortuna sturbavano le opere degli assedianti,[271] con indefessa
vigilanza si guardavano, con valore e ostinazione combatteano.[272] I
particolari non ripeterò, perchè trovansi nella sola cronica ritmica
di Guglielmo: luoghi comuni che forse pareano corredo necessario delle
Muse. Pur non passerò sotto silenzio un episodio narrato dall’Anonimo
del duodecimo secolo: che lasciando spesso i Palermitani le porte della
città aperte, quasi sfida ad entrare, egli avvenne che un terribile
cavaliere musulmano tornando in città dopo avere uccisi parecchi
Normanni, sostasse sotto la porta rivolgendo pur la faccia a’ nemici,
quando un giovane guerriero, parente di casa Hauteville, adontato del
piglio minaccevole, spronò contro costui. E trapassollo fuor fuora con
la lancia. Ma richiusagli la porta dietro le spalle, senza stare un
attimo in forse, spinge innanzi il cavallo in carriera disperata tra
i Musulmani che il saettavano e gli davano addosso ed uscito illeso
da un’altra porta, giugne tra’ suoi mentre il piagnean morto.[273]
La quale avventura da Tavola Rotonda ci parrà meno inverosimile se
la supponghiamo seguita nella Khalesa, piccolo ricinto con quattro
porte che s’aprian tutte nel breve tratto dell’istmo.[274] Grandi
combattimenti non seguirono infino all’inverno, studiandosi invano i
nemici ad offendere la città.[275] Giugnean intanto aiuti d’Affrica,
di forze navali, com’e’ pare, e non molte.[276] Già i principi della
casa di Salerno, tediandosi d’una impresa che lor propria non era,
ritornavano in Terraferma, dove più lieto spettacolo che l’assedio di
Palermo offriva papa Alessandro, consacrando la nuova basilica di Monte
Cassino, il primo ottobre.[277] E Roberto impaziente chiedea rinforzi
in Terraferma; tra gli altri, al rivale principe Riccardo, il quale gli
promesse dugento lance capitanate dal figliuolo Giordano e sì avviolle,
ma le richiamò pria che passassero il Faro. Si disperava tanto della
vittoria, che Riccardo collegatosi con la famiglia de’ conti di Trani
e con altri antichi nemici di Roberto, osò assalire le costui terre in
Calabria ed in Puglia. Il Guiscardo non si spuntò per questo dal suo
proponimento,[278] sapendo bene che egli avrebbe trionfato di tutti in
Palermo.
«In quel medesimo tempo (così Amato), era gran carestia nella città,
mancando le vittuaglie, che non si trovava da comperarne. Era altresì
grande pestilenza e mortalità, per cagione de’ cadaveri insepolti;
ingombra la città di feriti, d’infermi, d’uomini fiaccati dalla
fame, la debile mano dei quali più volentieri stendeasi a chiedere la
limosina che a combattere. E i maliziosi Normanni spezzavan del pane
e lasciavanlo a piè delle mura.[279] I Saraceni a venti ed a trenta
correano a prenderlo. E il secondo giorno que’ posero il pane un po’
più lungi dalla terra e gli altri a correre, a darvi di piglio, ad
assicurarsi e più numero ne veniva. Il terzo dì poi i Normanni messero
l’esca più lungi, e quando i Pagani vennero fuori tutti, furon presi
e tenuti schiavi o venduti in lontani paesi.»[280] Così il cronista,
compiaciuto o indifferente, non so. Pur si commove al narrare come
mancato il vino nel campo di Roberto, ancorchè vi abbondassero carni
squisite, il duca e la moglie di acqua sola si dissetavano; il che,
aggiugne, non potea fare specie a Roberto il cui paese non produce del
vino; «ma considera, o lettore, la nobile sua donna, la quale, a casa
il padre Guaimario, principe di Salerno, solea bere com’acqua fresca
del vin chiaro e schietto!»[281]
Rincorò i Normanni il successo d’un combattimento navale provocato
da’ Palermitani quand’ebbero gli aiuti d’Affrica, disperando tuttavia
di snidare il nemico da’ posti occupati nella pianura. Avvistosi de’
preparamenti, Roberto apprestò anch’egli sue navi; nelle quali fece
tendere intorno intorno le tolde de’ teli di feltro rosso da parare i
sassi e le saette:[282] e quel colore potea tornar a mente a’ Normanni
le imprese dei padri loro, i quali l’aveano reso terribile in sul mare,
che la tradizione nazionale lo serba fin oggi nelle divise militari
d’Inghilterra e di Danimarca. Ancorchè si possa tenere più numeroso
il navilio normanno che il musulmano, par avesse disavvantaggio nella
struttura non adatta alla guerra. Era questo d’altronde, dopo il fatto
di Bari, il primo cimento navale dei dominatori normanni d’Italia;
nè la memoria era spenta di quelle armate che infin dal nono secolo
uscirono dal porto di Palermo a desolare le spiagge meridionali della
Penisola; nè non vedea Roberto che una sconfitta sul mare l’avrebbe
costretto a levare l’assedio per la seconda volta. Donde ai suoi
disse ch’era uopo vincere o morire: li fece confessar delle peccata e
solennemente prendere l’eucaristia. Confortate di tal cibo, continua
Guglielmo di Puglia, le fedeli turbe, Normanni, Calabresi, Baresi
ed Argivi entrano in nave; nè basta a spaventarli il suono degli
strumenti, il tonante grido di guerra de’ Musulmani. Si scontrano
le armate: resistono i Siciliani e gli Affricani, finchè sforzati da
un cenno divino, voltan le prore. Qual nave fu presa, qual sommersa;
la più parte si rifugge nel porto, chiudelo con la catena, e questa
spezzano i vincitori, e fan preda d’altri legni, a parecchi appiccan
fuoco.[283] Altro non dice il cronista; ond’e’ si vede che l’armata
normanna, superate le prime difese del porto, fu costretta a ritirarsi.
Minacciati tuttavia i Musulmani da quest’altra banda,[284] scemati per
le spesse morti, affranti dalla fame, dalla pestilenza, dalle fatiche,
Roberto non differì l’assalto generale. Aveva egli fatte costruire
quattordici scale[285] congegnate con artifizio che parve mirabile
in quel tempo,[286] da innalzarsi a ragguaglio delle mura. Mandate
nottetempo sette delle scale a Ruggiero, va egli stesso a trovarlo;
concertano gli ordini dell’assalto, i segnali e ogni cosa.[287] Lo
sforzo più grave fu affidato a Ruggiero contro la fortezza principale,
cioè la città vecchia, da libeccio; onde passava a quella parte il
grosso dello esercito di Roberto. A greco dovea minacciare, e non
altro, il navilio. Roberto riserbossi uno stratagemma nel caso che
fallisse Ruggiero: un colpo di mano su la Khalesa ch’avea mura più
basse.
Presso a compiersi i cinque mesi d’assedio, il primo o un de’ primi
giorni dell’anno millesettantadue, al far dell’alba,[288] il clamore
che si levò nel campo di Ruggiero facea correre precipitosamente
i Palermitani a quelle mura.[289] I fanti nemici s’avanzano ratti;
con frombole ed archi tiravano ai difensori in su i merli, quando
i cittadini, sortiti con grande impeto, spazzavano la turba nemica,
inseguivano a piè ed a cavallo i fuggenti. Caricò allora la cavalleria
normanna, ruppe a sua volta gli assediati, ricacciolli in città,
stringendoli sì gagliardamente sino alla porta, che già erano per
entrare insieme alla rinfusa. Allo estremo pericolo, i Musulmani
calan giù la saracinesca; serran fuori i loro fratelli, de’ quali i
Normanni, sotto gli occhi loro, tra il grido e il compianto, fecero un
macello.[290] E i Normanni a ripigliar l’assalto delle mura. Adducono
la prima scala; già tocca a’ merli: chi salirà? Si guardavano l’un
l’altro negli occhi. Un Archifredo subitamente fa il segno della croce
e si slancia su pei gradini; due guerrieri il seguono, saltano sul
muro, quand’ecco sfasciata e infranta la scala. Soli incontro a cento,
andati in pezzi gli scudi loro, gittaronsi giù dalle mura, e sani e
salvi rimasero, al dir di Amato. Gli altri ch’eran saliti per altre
scale furon anco respinti. Allenarono i Normanni, si ritrassero.[291]
Avvicinandosi già la sera, parea fallito l’assalto.
Ma alle eloquenti parole di Roberto, dice Guglielmo di Puglia e le
mette in versi, ai conforti, crediam noi, di Ruggiero e secondo il
disegno già ordinato col duca, ritornarono pur i Normanni a piè delle
mura: e i cittadini traeano tutti al posto minacciato; sicuri di
buttar giù ne’ fossi un altra volta gli assalitori, non poneano mente
alla Khalesa dove quel dì non avea romoreggiato la battaglia. Quando
Roberto, a un segno dato da Ruggiero, chetamente con trecento[292]
uomini eletti arriva, tra gli alberi dei giardini, alla Khalesa.
Corrono in fretta con le scale ad un muro difeso da poca gente;
pria che venga aiuto dalla città vecchia, sbarattano i difensori,
saltan dentro, spezzano la porta; ond’entra Roberto col resto de’
l’altra schiera; gridava a que’ della scorta venissero a ristorare la
battaglia, ma gli fu forza di salire egli stesso, chiamar ciascuno per
nome, rinfacciare ch’ei non riconosceva i vincitori di quello stesso
nemico tanto maggior di numero a Cerami. Rattestatili a stento, caricò,
ruppe i Musulmani, ritolse la preda e si ritrasse a Traina; piangendo
sì la morte di Gualtiero di Semoul, il più valoroso giovane della
schiera, il quale fu trafitto spingendosi primo alla riscossa.[237]
Un Malaterra musulmano racconterebbe, credo, altrimenti questa dubbia
fazione, e più altre ne aggiungerebbe favorevoli ai suoi, le quali
è forza supporre nello autunno, e sino allo scorcio dell’inverno,
allorchè il Malaterra normanno ci rappresenta Roberto Guiscardo
costernato dalle nuove che giugneano di Sicilia, risoluto a partecipare
ne’ pericoli come avea fatto negli acquisti; ond’ei venne in aiuto
a Ruggiero che i Saraceni travagliavano e strigneano con frequenti
assalti.[238]
CAPITOLO IV.
Nella primavera dunque del millesessantaquattro Roberto adunò
l’esercito in Puglia e in Calabria; al quale andato incontro Ruggiero a
Cosenza, passarono insieme il Faro con cinquecento militi, non contando
gli altri cavalli nè i fanti;[239] e tirarono dritto a Palermo, senza
che i Musulmani osassero tagliar loro la strada. Posero il campo presso
la città, in un colle infestato da tarantole,[240] il cui morso diceano
cagionasse gravi e sconci sintomi nervosi e fin anco minacciasse la
vita.[241] E sembran fole; poichè quell’insetto in oggi non nuoce; ed a
supporre che particolari condizioni l’abbiano armato di veleno in altri
tempi e luoghi non ci basta l’autorità delle cronache oltramontane,
le quali sempre lo fanno ausiliare degli Infedeli contro i guerrieri
cristiani del Settentrione, sempre l’accagionano d’una pia impresa
fallita.[242] Gittando su l’infausto luogo il nome di Monte delle
Tarantole, che del resto non vi allignò,[243] tramutavansi i Normanni
in migliori alloggiamenti; dai quali per ben tre mesi osteggiavano la
città, ma n’erano sì gagliardamente ributtati, che sciolsero l’assedio
senz’altro pro che di saccheggiare le campagne. In vece di rifar la
strada verso levante, spingeansi per ben ottanta miglia a mezzogiorno;
dove espugnavano Bugamo, castello o forse grossa terra a sei miglia da
Girgenti,[244] e spianavano le case, e fatti schiavi gli abitatori, il
duca Roberto, mandolli a popolare Scribla in Calabria, da lui poc’anzi
desolata; cioè a coltivare come servi suoi i terreni dai quali avea
cacciati gli antichi possessori. Solo fatto d’arme in questa impresa
del sessantaquattro, ci racconta il Malaterra che passando i Normanni
coi prigioni di Bugamo presso Girgenti, que’ cittadini uscirono
alla riscossa, e furono respinti e inseguiti fino a lor mura.[245]
Intanto Amato attesta che Roberto vedendo non poter espugnare Palermo
senza forze navali, si volse ad acquistare altre città marittime in
Terraferma, ond’accozzarvi legni e marinai.[246] Il vero è che il duca
non ristorò la fortuna delle armi cristiane in Sicilia. Il senno nè il
valore non era venuto meno ai Normanni. Chi dunque diè l’avvantaggio
all’islam tra il mille sessantatrè e il sessantotto, tra la battaglia
di Cerami e il combattimento di Misilmeri?
Pochi cenni delle istorie musulmane, limitati su per giù allo stesso
spazio di tempo senza date più precise, ci fan pure intendere la
cagione, se li riscontriamo con le condizioni conosciute d’altronde.
Tengasi a mente che delle tre grandi province o valli della Sicilia,
come furon dette, distinte per la natura de’ luoghi non meno che pei
mutamenti sociali ed etnologici che portò il conquisto musulmano,
apparteneva a’ Normanni, con piccolo divario di confini, il val Demone;
il Val di Noto a’ Musulmani confederati loro; il Val di Mazara a’
Musulmani nemici, divisi in due Stati: di settentrione e mezzogiorno.
Secondo l’odierna circoscrizione, diremo che sgombra da’ signori
musulmani la provincia di Messina, ubbidiano quelle di Catania e di
Siracusa ai successori d’Ibn-Thimna o regoli d’altra schiatta venuti
su dopo la sua morte, e che si riducea la guerra nelle province di
Palermo, Trapani, Caltanissetta e Girgenti; delle quali le due prime
par ubbidissero alla repubblica di Palermo, le seconde a Ibn-Hawwasci.
E già narrammo come l’una e l’altro, sentendosi l’acqua alla gola,
accettavano il soccorso di Temîm; e come i costui figliuoli Aiûb ed
Alì si poneano nelle città più importanti di ciascuno Stato: Palermo
e Girgenti. Accordandosi l’ambizione di casa Zirita con la salute dei
Musulmani di Sicilia e coll’onore dell’islam, ebbero gran seguito i
due principi; alla cui riputazione non potea detrarre la battaglia
di Cerami, più avventurata al certo pe’ Normanni che esiziale a’
Musulmani, nella quale d’altronde se avesse combattuto un figliuolo
di Temîm che di qua dal Mediterraneo potean chiamare re d’Affrica e
d’Arabia, i Normanni non l’avrebbero ignorato al certo, nè passato
sotto silenzio. Che Aiûb governasse prosperamente la guerra, i casi
della quale sono taciuti o dissimulati da’ cronisti normanni, e che gli
venisse fatto per brev’ora di recarsi in mano l’autorità in tutta la
Sicilia occidentale, si ritrae, s’io mal non m’appongo, dal seguente
racconto che Ibn-el-Athîr copiò, ovvero compendiò, dagli scritti
di autore più antico e poselo tra il quattrocencinquantatrè e il
quattrocensessantuno dell’egira (1061-1069).
Ibn-Hawwasci, secondo que’ ricordi, inviava da Castrogiovanni ricchi
presenti ad Aiûb; volea fosse albergato nel suo proprio palazzo
di Girgenti e l’onorava con ogni maniera d’ossequio. Ma poco durò
l’amistade. Accorgendosi che i Girgentini ponessero troppo amore
nell’ospite, il signor di Castrogiovanni per lettere comandava di
cacciarlo: disubbidito, movea contro i Girgentini con l’oste. Ed essi
uscirono sotto le bandiere di Aiûb e s’appiccava la zuffa, quando
una freccia tirata, dicono, a caso, dirimea la lite uccidendo Ibn
Hawwasci: onde Aiûb era gridato signore da ambo i lati, com’e’ sembra,
del campo di battaglia. La discordia spenta per tal modo nel mezzodì,
si raccendea poscia in Palermo; dove i cittadini, mal soffrendo gli
schiavi stanziali di Temîm, vennero alle mani con quelli; e imperversò
tanto la guerra civile, che Aiûb, veduto non poterne venire a capo,
chiamava a sè il fratello Alì: montati su l’armata, ritornavano in
Affrica. Seguitaronli molti notabili musulmani dell’isola; seguitolli
la gente dell’armata siciliana; nè rimase chi potesse far testa
a Normanni. Se ne sbrigano così gli annali; saltano a piè pari
l’occupazione di Catania, l’espugnazione di Palermo, e toccano appena
la resa di Girgenti e di Castrogiovanni, cioè l’ultimo compimento
del conquisto normanno.[247] Cercando di porre qualche data nello
spazio che abbiamo percorso, riferiremmo l’andata di Aiûb in Girgenti
all’anno sessantaquattro, quando la ritirata dell’esercito normanno
da Palermo esaltò di certo il nome di Aiûb e lo scempio di Bugamo fece
desiderare in que’ luoghi l’eroe musulmano della stagione. Sembra anco
che i Normanni allor fossero corsi a mezzogiorno all’odor della guerra
civile e per trame di fazioni che portarono alla chiamata di Aiûb.
Questi poi sembra partito di Sicilia dopo l’infelice combattimento di
Misilmeri, nel quale ei forse non si trovò;[248] ma la parte avversa
gliene dovea pur gittare addosso la colpa. L’esilio, volontario o no,
de’ cittadini che il seguirono, prova che la parte siciliana trionfò
in Palermo, fors’anco in Girgenti, dove la morte d’Ibn-Hawwasci l’avea
fatta andar giù. Palermo continuò o tornò a reggersi per la _gema’_,
che fu poi costretta a rendere la città il millesettantadue. Lo Stato
di Castrogiovanni e Girgenti cadde sotto nuova signoria, della quale
diremo a suo luogo.
La vecchia tattica di casa Hauteville mirabilmente s’era riscontrata
co’ tempi, lasciando consumare dassè quel rigoglio che una effimera
concordia avea dato a’ Musulmani nel millesessantaquattro. Roberto,
dopo l’assedio di Palermo, attese in Puglia a soggiogare municipii
italiani e condottieri normanni indocili al nuovo freno. Ruggiero
non si spiccò dal fratello mai più; anzi gli diè mano in Terraferma
quand’ei potè:[249] e in Sicilia si chiudea quasi nell’arme senza
assalire altrimenti, fidandosi pur nell’indole dei Musulmani che
presto avrebbero ripreso a lacerarsi tra loro. Nè ebbe ad aspettare
gran pezza. Del millesessantasei, si fa innanzi, ben coperto, per
un’altra quarantina di miglia; afforza di torri e bastioni Petralia,
che gli aprì lo sbocco alla valle dell’Imera settentrionale e però a
Termini ed a Palermo, e per più breve e facile cammino gli permise
le scorrerie sopra quel di Castrogiovanni e di Girgenti. Fitto nel
pensiero di conquistar la Sicilia, dice lo storiografo, Ruggiero non
avea posa, non sentiva più la fatica; d’ogni stagione il vedevi alla
testa de’ suoi, dì e notte a cavallo, senza risparmiare questi più che
quell’altro, scorrea per ogni luogo, sì rapido che i nemici lo credeano
presente da per tutto, e sempre, pur entro le città e le case loro, se
lo sentivano addosso. Col senno temperava la ferocità leonina che sortì
da natura; la fortuna giammai non l’abbandonò. Or allettando altrui
co’ guiderdoni, or minacciando con parole e stringendo con assalti e
guasti, si allargò a poco a poco intorno Petralia, tanto che assoggettò
gran parte dell’isola; all’uso, aggiugne il Malaterra, de’ figliuoli
di Tancredi, i quali cupidi d’acquisto non poteano sopportare ch’altri
possedesse terreno nè roba accanto a loro, nè avean pace finchè non li
rendessero tributarii o del tutto non li spogliassero.[250]
A capo di tre anni, correndo il millesessantotto, sì aspra era divenuta
la molestia ai Musulmani di Palermo, che ragunati a consiglio, scrive
il Malaterra, deliberarono di tentare ad ogni costo la fortuna d’una
battaglia. Saputo che Ruggiero cavalcasse alla volta della città con
fortissimo stuolo, gli escono incontro a gran frotte; l’avvistano a
Misilmeri, terra a nove miglia per levante. Ancorchè non si aspettasse
tanta moltitudine, egli si preparò allo scontro fremendo di gioia.
Ordinò le genti in una schiera. Le arringò sorridendo: “La fortuna
amica sempre a’ Normanni condur loro tra’ piedi la preda tanto
desiderata, risparmiar loro la fatica di più lungo cammino; anzi
Iddio stesso porgea questo dono. Prendete, continuò, la roba degli
Infedeli, indegni di possederla: ce la partiremo apostolicamente tra
noi; ciascuno avrà quel che gli abbisogni. Nè temiate il numero de’
nemici tante volte sconfitti. Che s’or ubbidiscono a novello capitano,
gli è pur della nazione, indole e religione loro. E sia mutato anco, il
nostro Dio non muta. Quando a voi non venga meno la fede nè la ferma
speranza, Ei vi concederà sempre vittoria.” Ruppero il nemico con
sì grande strage, che il cronista la viene significando coll’antica
metafora dell’esser mancato chi ritornasse a dar la notizia.
Spartironsi allegramente il bottino. E trovando le gabbie de’ colombi
messaggeri, loro attaccarono al collo schede intrise di sangue, sì che
in Palermo seppesi immediatamente la sconfitta.[251]
Avea principiato Roberto in questo tempo l’assedio di Bari, grossa
città e ricca più che niun’altra dell’Italia meridionale, travagliata
da due parti, le quali per vie contrarie aspiravano a libertà:
chè l’una volea sottrarsi ad ogni patto alla dominazione bizantina
affidandosi perfino a Normanni; l’altra capitanata da Argiro, aborrendo
dal giogo feudale, ormai chiaro e manifesto, dei Normanni, amava
meglio ubbidir di nome a Costantinopoli. Questa parte prevalendo in
Bari, la tenea, sola in Italia, in fede dell’impero bizantino; e si
schermì tanto dalle arti di Roberto, ch’egli deliberossi a far aperta
violenza. Onde oppugnava la città con l’usato perseverante valore e con
mezzi più potenti che fin allora non avessero adoperati i Normanni:
macchine di varie maniere da batter le mura, e ridotti e ponti di
barche; soprattutto forze navali, fornite in parte dal conte Ruggiero.
Al quale par torni la gloria del fatto decisivo; poichè sendo la città
stretta da ogni banda e affamata e sopravvenendo un’armatetta bizantina
con genti e vittuaglie, le navi normanne che la scopriron di notte e
la intrapresero e distrusserla, ubbidivano a Ruggiero, come scrive
il Malaterra; nè monta che tacciano il suo nome Amato e Guglielmo
di Puglia, partigiani di case rivali. La città allora s’arrese a dì
sedici aprile del settantuno, dopo tre anni e parecchi mesi d’assedio.
Roberto usò umanamente co’ Baresi, rendendo loro i possessi occupati
nel territorio e fermando con la città patto di confederazione, il
che in vero significava porre un tributo. Poi dispensò armi a chi ne
volle, anco al presidio bizantino fatto prigione, e se li tirò dietro a
combattere in Sicilia con quante navi potè accozzare nel porto.[252]
Perocchè la vittoria di Bari promettea quella di Palermo; provatisi
già felicemente i Normanni e lor sudditi italiani alle battaglie di
mare, alle ossidioni, e cresciute le forze militari di due fratelli
che ormai teneano il primato di lor gente in Italia. In vece delle
squadre di scorridori con che aveano combattuto in Sicilia, i Normanni
vi recavan ora un esercito ed un’armata. Oltre le genti assoldate,[253]
chiamò Roberto alla impresa i condottieri o conti ch’ei già tirava alla
condizione di grandi vassalli e i due confederati ch’ei si proponeva
d’ingoiare a suo comodo: Riccardo principe normanno di Capua[254] e
Guaimario principe longobardo di Salerno, fratello della moglie.[255]
Sembra che i principi abbiano fornita poca gente. De’ conti ricusò
audacemente Pietro di Trani.[256] Ciò non di meno Roberto a capo di tre
mesi era in punto; soggiornato il giugno e parte di luglio a Otranto,
fece tagliare una roccia per imbarcare più agevolmente i cavalli e
adunò le macchine, e le vittuaglie. Cinquantotto navi partivan indi
per Reggio, dove il duca s’avviò con altri cavalli e fanti. Gli ultimi
giorni di luglio o i primi d’agosto, passò il Faro con tutte le genti:
Normanni, Pugliesi Calabresi e il presidio bizantino di Bari.[257]
Ruggiero che avea per tutta la state messe in punto anch’egli le sue
forze, non prima saputo il passaggio di Roberto, si trovò a Catania
in modo tanto sospetto, che il Malaterra, non osando narrarlo, nè
dir bugia tonda, ci lascia nelle mani il bandolo della magagna,
«Il duca, scrive egli, mandato innanzi il fratello in Sicilia, va
a lui in Catania, _fingendo_ di muovere contro Malta, quasi non si
fidasse d’assalire Palermo; e pur si reca a Palermo _confortato_ dal
fratello.» Ma come e perchè Ruggiero fosse corso a Catania, sede
dei Musulmani ausiliari suoi da tanti anni, e chi signoreggiasse
il paese dopo la uccisione d’Ibn-Thimna, lo tace qui e sempre lo
storiografo del Conte.[258] Amato, che non vivea a corte di lui,
dice che Ruggiero mosse contro Catania quando Roberto passava lo
stretto; che la città gli si arrese a capo di quattro dì; ch’egli fece
acconciare incontanente una chiesa intitolata a San Gregorio ed una
fortezza, nella quale lasciò quaranta uomini di presidio a reprimere
il mal volere de’ cittadini.[259] Donde noi possiamo scrivere ne’
posti lasciati in bianco dai due frati cronisti e dir che Ruggiero,
usando gli antichi accordi con Ibn-Thimna, entrò da amico, forse con
picciolo stuolo in Catania, dando voce d’una impresa sopra Malta, e che
sopravvenuto Roberto con parte dell’armata, sempre per andar a Malta,
insignorironsi della città, dopo breve resistenza o nessuna. Fatto il
colpo, Roberto avvia l’esercito a Palermo per terra; egli, per fuggire
il caldo, segue in una galea, accompagnato da dieci gatti e quaranta
altre navi. Ruggiero, cammin facendo anch’egli alla volta di Palermo,
va a sopravvedere sue genti e sue cose a Traina. Ripigliato indi il
viaggio, non lungi da Palermo gli intervenne che precedendolo i suoi
famigliari per apprestar le vivande, una gualdana di dugento musulmani
rapirono ogni cosa ed uccisero la gente; ma furono non guari dopo
svaligiati e tagliati a pezzi dalla schiera del Conte.[260]
Ci è occorso descrivere il sito di Palermo nel decimo secolo: nel
centro il Cassaro, o città vecchia, bagnata, da maestrale a levante,
dal porto che fendeasi in due lingue; la Khalesa, cittadella tra la
lingua orientale e il mare; i borghi intorno il Cassaro da ogni altra
banda.[261] I particolari dell’assedio che raccogliamo qua e là negli
scritti di Amato, di Malaterra, di Guglielmo e dell’Anonimo e che
tornan pure ad unico e chiaro disegno delle operazioni militari, non
mostrano mutata la topografia nella seconda metà del secolo undecimo;
se non che gli spaziosi borghi di libeccio, mezzodì e scirocco sembrano
decaduti da lungo tempo e abbandonati del tutto all’appressarsi del
nemico. Discosto circa un miglio a levante, al posto dove giugnea
in quel tempo[262] la sponda destra dell’Oreto e la spiaggia del
mare, sorgeva il castello, detto di Giovanni, dal nome forse d’alcun
musulmano (_Jahja_) di che i Normanni fecero San Giovanni[263] e
mutarono l’edifizio in ospedale; onde le odierne fabbriche sovrapposte
a ruderi di varie età si chiamano tuttavia San Giovanni dei Lebbrosi.
Il qual castello, evidentemente posto a difendere da gualdane nemiche
le ricche ville d’ambo i lati del fiume e gli approcci stessi della
città, era stato probabilmente edificato o afforzato durante la guerra
normanna; nè parmi inverosimile che alcun altro ne sorgesse in altri
siti dell’agro palermitano dove poi si notarono chiese, monasteri o
palagi de’ Normanni. Della popolazione palermitana in questo tempo
ignoriamo il numero al tutto; ma dobbiamo supporla menomata di molto,
fin dal decimo secolo, per le vicende politiche, massime le emigrazioni
del millesessantuno e del sessantotto.[264] Il numero degli assedianti
possiamo conghietturar solo dalla estensione del territorio sul quale
dominavano gli Hauteville in Terraferma, da’ soliti loro armamenti in
altre imprese contemporanee, dalla guardia che scortava Roberto entrato
di accordo nella città e dal numero delle sue navi notato dianzi. Un
otto o diecimila uomini, tra cavalli e fanti, parmi il maggiore sforzo
che i Normanni abbian potuto condurre sotto le mura di Palermo.
Si avanzò primo Ruggiero dalla parte di levante per le falde de’ monti,
il dì appresso il raccontato scontro; occupò un sontuoso palagio e le
ville dei contorni; le saccheggiò; fece abbondante caccia di prigioni,
i quali nulla sapeano del nuovo gioco, quando si videro cinti da un
cerchio di cavalli e stretti e presi e venduti.[265] La vanguardia
apparecchiava per tal modo le stanze ai capi dell’oste: «Que’ dilettosi
giardini, scrive Amato, irrigati d’acque, ricchi di frutta; dove
albergarono con agi da principi, fino i cavalieri minori, proprio in
un paradiso terrestre.» Appresentatosi quindi al Castel Giovanni,
e uscitogli incontro il picciolo presidio,[266] uccidea quindici
cavalieri musulmani, ne prendea prigioni trenta, e, insignoritosi
del luogo, vi chiamava Roberto,[267] il quale indi sembra sbarcato lo
stesso dì. Il quartier generale, come or si direbbe, fu posto in quel
castello e ultimato il disegno di assedio. Rimasevi Roberto capitanando
i Pugliesi e i Calabresi dell’oste; Ruggiero con le sue genti stanziò,
com’e’ pare, dove or sorge la chiesa della Vittoria, a settecento metri
dalla odierna porta Nuova, su lo stradone che mena a Morreale.[268]
Talchè stando l’uno a ponente-libeccio l’altro a scirocco-levante e
comunicando insieme, investivano la città, per più d’un terzo del suo
perimetro, dal lato meridionale. A greco l’armata chiudeva il porto.
Le picciole forze navali che rimaneano a’ Palermitani[269] furonvi
ricacciate, perdendo un gatto ed una galea.[270]
Del rimanente s’era la città apparecchiata bene alla difesa; onde i
Musulmani, stretti ch’e’ furono nelle mura, per frequenti sortite, con
varia fortuna sturbavano le opere degli assedianti,[271] con indefessa
vigilanza si guardavano, con valore e ostinazione combatteano.[272] I
particolari non ripeterò, perchè trovansi nella sola cronica ritmica
di Guglielmo: luoghi comuni che forse pareano corredo necessario delle
Muse. Pur non passerò sotto silenzio un episodio narrato dall’Anonimo
del duodecimo secolo: che lasciando spesso i Palermitani le porte della
città aperte, quasi sfida ad entrare, egli avvenne che un terribile
cavaliere musulmano tornando in città dopo avere uccisi parecchi
Normanni, sostasse sotto la porta rivolgendo pur la faccia a’ nemici,
quando un giovane guerriero, parente di casa Hauteville, adontato del
piglio minaccevole, spronò contro costui. E trapassollo fuor fuora con
la lancia. Ma richiusagli la porta dietro le spalle, senza stare un
attimo in forse, spinge innanzi il cavallo in carriera disperata tra
i Musulmani che il saettavano e gli davano addosso ed uscito illeso
da un’altra porta, giugne tra’ suoi mentre il piagnean morto.[273]
La quale avventura da Tavola Rotonda ci parrà meno inverosimile se
la supponghiamo seguita nella Khalesa, piccolo ricinto con quattro
porte che s’aprian tutte nel breve tratto dell’istmo.[274] Grandi
combattimenti non seguirono infino all’inverno, studiandosi invano i
nemici ad offendere la città.[275] Giugnean intanto aiuti d’Affrica,
di forze navali, com’e’ pare, e non molte.[276] Già i principi della
casa di Salerno, tediandosi d’una impresa che lor propria non era,
ritornavano in Terraferma, dove più lieto spettacolo che l’assedio di
Palermo offriva papa Alessandro, consacrando la nuova basilica di Monte
Cassino, il primo ottobre.[277] E Roberto impaziente chiedea rinforzi
in Terraferma; tra gli altri, al rivale principe Riccardo, il quale gli
promesse dugento lance capitanate dal figliuolo Giordano e sì avviolle,
ma le richiamò pria che passassero il Faro. Si disperava tanto della
vittoria, che Riccardo collegatosi con la famiglia de’ conti di Trani
e con altri antichi nemici di Roberto, osò assalire le costui terre in
Calabria ed in Puglia. Il Guiscardo non si spuntò per questo dal suo
proponimento,[278] sapendo bene che egli avrebbe trionfato di tutti in
Palermo.
«In quel medesimo tempo (così Amato), era gran carestia nella città,
mancando le vittuaglie, che non si trovava da comperarne. Era altresì
grande pestilenza e mortalità, per cagione de’ cadaveri insepolti;
ingombra la città di feriti, d’infermi, d’uomini fiaccati dalla
fame, la debile mano dei quali più volentieri stendeasi a chiedere la
limosina che a combattere. E i maliziosi Normanni spezzavan del pane
e lasciavanlo a piè delle mura.[279] I Saraceni a venti ed a trenta
correano a prenderlo. E il secondo giorno que’ posero il pane un po’
più lungi dalla terra e gli altri a correre, a darvi di piglio, ad
assicurarsi e più numero ne veniva. Il terzo dì poi i Normanni messero
l’esca più lungi, e quando i Pagani vennero fuori tutti, furon presi
e tenuti schiavi o venduti in lontani paesi.»[280] Così il cronista,
compiaciuto o indifferente, non so. Pur si commove al narrare come
mancato il vino nel campo di Roberto, ancorchè vi abbondassero carni
squisite, il duca e la moglie di acqua sola si dissetavano; il che,
aggiugne, non potea fare specie a Roberto il cui paese non produce del
vino; «ma considera, o lettore, la nobile sua donna, la quale, a casa
il padre Guaimario, principe di Salerno, solea bere com’acqua fresca
del vin chiaro e schietto!»[281]
Rincorò i Normanni il successo d’un combattimento navale provocato
da’ Palermitani quand’ebbero gli aiuti d’Affrica, disperando tuttavia
di snidare il nemico da’ posti occupati nella pianura. Avvistosi de’
preparamenti, Roberto apprestò anch’egli sue navi; nelle quali fece
tendere intorno intorno le tolde de’ teli di feltro rosso da parare i
sassi e le saette:[282] e quel colore potea tornar a mente a’ Normanni
le imprese dei padri loro, i quali l’aveano reso terribile in sul mare,
che la tradizione nazionale lo serba fin oggi nelle divise militari
d’Inghilterra e di Danimarca. Ancorchè si possa tenere più numeroso
il navilio normanno che il musulmano, par avesse disavvantaggio nella
struttura non adatta alla guerra. Era questo d’altronde, dopo il fatto
di Bari, il primo cimento navale dei dominatori normanni d’Italia;
nè la memoria era spenta di quelle armate che infin dal nono secolo
uscirono dal porto di Palermo a desolare le spiagge meridionali della
Penisola; nè non vedea Roberto che una sconfitta sul mare l’avrebbe
costretto a levare l’assedio per la seconda volta. Donde ai suoi
disse ch’era uopo vincere o morire: li fece confessar delle peccata e
solennemente prendere l’eucaristia. Confortate di tal cibo, continua
Guglielmo di Puglia, le fedeli turbe, Normanni, Calabresi, Baresi
ed Argivi entrano in nave; nè basta a spaventarli il suono degli
strumenti, il tonante grido di guerra de’ Musulmani. Si scontrano
le armate: resistono i Siciliani e gli Affricani, finchè sforzati da
un cenno divino, voltan le prore. Qual nave fu presa, qual sommersa;
la più parte si rifugge nel porto, chiudelo con la catena, e questa
spezzano i vincitori, e fan preda d’altri legni, a parecchi appiccan
fuoco.[283] Altro non dice il cronista; ond’e’ si vede che l’armata
normanna, superate le prime difese del porto, fu costretta a ritirarsi.
Minacciati tuttavia i Musulmani da quest’altra banda,[284] scemati per
le spesse morti, affranti dalla fame, dalla pestilenza, dalle fatiche,
Roberto non differì l’assalto generale. Aveva egli fatte costruire
quattordici scale[285] congegnate con artifizio che parve mirabile
in quel tempo,[286] da innalzarsi a ragguaglio delle mura. Mandate
nottetempo sette delle scale a Ruggiero, va egli stesso a trovarlo;
concertano gli ordini dell’assalto, i segnali e ogni cosa.[287] Lo
sforzo più grave fu affidato a Ruggiero contro la fortezza principale,
cioè la città vecchia, da libeccio; onde passava a quella parte il
grosso dello esercito di Roberto. A greco dovea minacciare, e non
altro, il navilio. Roberto riserbossi uno stratagemma nel caso che
fallisse Ruggiero: un colpo di mano su la Khalesa ch’avea mura più
basse.
Presso a compiersi i cinque mesi d’assedio, il primo o un de’ primi
giorni dell’anno millesettantadue, al far dell’alba,[288] il clamore
che si levò nel campo di Ruggiero facea correre precipitosamente
i Palermitani a quelle mura.[289] I fanti nemici s’avanzano ratti;
con frombole ed archi tiravano ai difensori in su i merli, quando
i cittadini, sortiti con grande impeto, spazzavano la turba nemica,
inseguivano a piè ed a cavallo i fuggenti. Caricò allora la cavalleria
normanna, ruppe a sua volta gli assediati, ricacciolli in città,
stringendoli sì gagliardamente sino alla porta, che già erano per
entrare insieme alla rinfusa. Allo estremo pericolo, i Musulmani
calan giù la saracinesca; serran fuori i loro fratelli, de’ quali i
Normanni, sotto gli occhi loro, tra il grido e il compianto, fecero un
macello.[290] E i Normanni a ripigliar l’assalto delle mura. Adducono
la prima scala; già tocca a’ merli: chi salirà? Si guardavano l’un
l’altro negli occhi. Un Archifredo subitamente fa il segno della croce
e si slancia su pei gradini; due guerrieri il seguono, saltano sul
muro, quand’ecco sfasciata e infranta la scala. Soli incontro a cento,
andati in pezzi gli scudi loro, gittaronsi giù dalle mura, e sani e
salvi rimasero, al dir di Amato. Gli altri ch’eran saliti per altre
scale furon anco respinti. Allenarono i Normanni, si ritrassero.[291]
Avvicinandosi già la sera, parea fallito l’assalto.
Ma alle eloquenti parole di Roberto, dice Guglielmo di Puglia e le
mette in versi, ai conforti, crediam noi, di Ruggiero e secondo il
disegno già ordinato col duca, ritornarono pur i Normanni a piè delle
mura: e i cittadini traeano tutti al posto minacciato; sicuri di
buttar giù ne’ fossi un altra volta gli assalitori, non poneano mente
alla Khalesa dove quel dì non avea romoreggiato la battaglia. Quando
Roberto, a un segno dato da Ruggiero, chetamente con trecento[292]
uomini eletti arriva, tra gli alberi dei giardini, alla Khalesa.
Corrono in fretta con le scale ad un muro difeso da poca gente;
pria che venga aiuto dalla città vecchia, sbarattano i difensori,
saltan dentro, spezzano la porta; ond’entra Roberto col resto de’
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