Storia dei musulmani di Sicilia, vol. III, parte I - 04

cittadi marittime, consunto il bottino, quelle masnade, non sapendo
altro mestiere, furono costrette a mendicare stipendio alle porte
di Bugia, Tunis, Mehdia, Sfax, Kabes: fortezze inespugnabili, poi
ch’essi non poteano chiudere il mare e ridurle per fame. Le quali città
dettero ascolto ai barbarici condottieri, avendo a lor volta bisogno
della terra pei commerci e sendo spinte l’una contro l’altra da quella
forza dissolvente della società musulmana, che abbiam notata in tutto
il corso di queste istorie. In Bugia un ramo di zîriti, ribelle al
ceppo della famiglia, agognava ad usurpar tutto lo stato; nelle altre
città le fazioni o i governatori faceano opera a sciogliersi dalla
ubbidienza; e da Mehdia il principe si sforzava a ripigliare l’autorità
dove potesse. Le tribù masnadiere si messero dunque a combattere per
l’uno o per l’altro, talvolta tra loro stesse; mescolaronsi nella
briga i Berberi della campagna e le popolazioni delle città marittime:
Arabi del primo conquisto, Berberi e avanzi d’altri antichi abitatori.
La quale tenzone da pigmei, tanto più rabbiosa, durò ottant’anni,
accompagnata dalla desolazione e dalla fame, ed aprì la via ai
conquisti dei Normanni siciliani (1148) e degli Almohadi (1160).
Onde Moezz impotente contro i ribelli della costiera e tanto più
contro gli Arabi, anzichè consumare le forze che gli rimaneano in vane
imprese contro province perdute, volle tentare la fortuna in Sicilia
con l’aiuto degli stessi nemici ch’egli avea in casa.[192] Allestì
le navi, le fece salpare l’inverno del millesessantuno. Arrivate alla
Pantelleria, una tempesta le disperse; ne affondò la più parte,[193] e
sgomentando i nemici d’Ibn-Thimna delusi nella speranza dell’aiuto, diè
incentivo, com’e’ sembra, a nuova impresa di Ruggiero.
Il quale, nel dicembre, ripassato il Faro con dugencinquanta cavalieri,
tagliava l’isola per lo mezzo, spingendosi fino a Girgenti, quasi
fossevi aspettato; depredava il paese e tornava ratto addietro. Le
popolazioni cristiane gli veniano incontro liete e disposte a dargli
favore senza affidarsi troppo: ma quei di Traina, gente greca,
l’accoglieano in città con grande allegrezza ed ossequio, tanto che
ordinò la terra come ei volle, dice lo storiografo del conte[194] e
l’Anonimo che Traina si sottomesse al suo dominio; ma scrivea questi
ottant’anni dopo. Parrebbe piuttosto che i Troinesi, liberi di fatto
dalla signoria musulmana, aspirando a ripigliare l’ordinamento di
municipio tributario[195] avessero data ospitalità al fortunato
avventuriere cristiano, ascoltati i suoi consigli militari e, se si
voglia, appiccata una pratica di confederazione, come la chiamarono e
stipularono allora i Normanni con alcune città di Calabria, cioè che il
condottiero s’obbligava a difendere il comune, e questo a riconoscerlo
console e pagargli stipendio. E la condotta non sarebbe divenuta
signoria feudale a Traina che dopo la guerra dell’anno seguente, così
come accadde in quel torno a Geraci ed altri luoghi in Calabria, quando
il console afforzò un castello dentro la terra, mutò lo stipendio in
tributo, aggravandolo di soprusi feudali, e gli abitatori o piegarono
il collo, o resistettero e furono soggiogati a pretto vassallaggio.
Veramente non ci si narra che Ruggiero ponesse questa prima volta
presidio in Traina. Passovvi le feste di Natale; poi, per avviso
venutogli di Calabria, frettolosamente partissi.[196]
Era giunta in Calabria una donzella che schiudeva in terra il paradiso
all’ambizioso giovane di trent’anni: Giuditta, figliuola del conte di
Evreux, discendente dei duchi di Normandia. Par che Ruggiero, pochi
anni innanzi, uscendo dal tetto paterno senz’altro retaggio che il
cuore e la spada, si fosse invaghito della giovinetta reclusa nel
Monastero di Saint-Evrault, e che dopo parecchi anni, il fratello
materno di lei, Roberto di Grantemesnil, priore de’ Benedettini a
Saint-Evrault, indi a Santa Eufemia in Calabria, avesse trattato il
matrimonio della Giuditta con Ruggiero, ormai capitano di molta fama,
signore di Mileto e sperava di più. La fidanzata venne con la sorella
Emma, lasciando entrambe il chiostro, si dice anco il velo, per trovare
mariti normanni in Italia. Sposatala a San Martino in Val di Saline,
Ruggiero celebrava solennemente le nozze a Mileto, dissimulando sua
povertà con sfarzo di vesti e di cavalli e strepito di stromenti
musicali. Le dolcezze dell’amore non gli fecero scordare gli sperati
acquisti. A capo di pochi giorni, racchetata la sposa che piangeva e
volea ritenerlo, sopraccorse in Sicilia dove Ibn-Thimna lavorava per
lui credendo far per sè stesso.[197]
Data la posta al musulmano che venissegli incontro da Catania, sbarcò
a Messina con quanti uomini d’arme potè accozzare, e tentando nuova
regione cavalcarono insieme alla volta di Petralia,[198] terra abitata
da cristiani e musulmani. I quali, consultato insieme nell’imminente
pericolo, e mossi forse gli uni dalla riputazione di Ruggiero e gli
altri dalle pratiche d’Ibn-Thimna, deliberarono di rendere il castello
e prestare obbedienza al conte. Munita la fortezza di cavalieri e
di mercenarii, egli si volse a Traina, afforzolla in simil guisa, e
tornossi in Calabria ad abbracciare la sposa ed attaccare briga col
fratello.[199]
Ibn-Thimna proseguì l’opera in Sicilia con ridurre altre terre e
infestare i contadi di quelle che ricusassero.[200] L’odiavano i
Musulmani, ma più il temeano: quest’uomo che tra le prime guerre
civili per poco non rinnalzò il trono dei Kelbiti; questi che rovinato
al gioco d’una battaglia s’è venduto l’anima e pur s’è vendicato; il
signore del Val di Noto, il compagno degli invincibili cavalieri di là
dal mare, ai quali stendono le braccia i nostri vassalli, ed essi nel
cuor dell’isola ci sfidano dalle castella di Traina e di Petralia! Però
approdarono sovente le pratiche del traditore. Il quale movea contro
Entella, fortissima rocca a ponente di Corleone,[201] quand’ebbe un
messaggio di Nichel, così Malaterra scrive il nome,[202] uom potente
in que’ paesi, stretto d’antichi legami ad Ibn-Thimna, quando ubbidiva
a costui la Sicilia. Pretendea Nichel disposti i notabili d’Entella a
trattare la resa: venisse a parlamento a tal luogo, presso la rocca.
Fidandosi nell’amica fortuna, Ibn-Thimna v’andò con poca mano d’armati,
e trovò i terrazzani; quand’ecco uccisogli il cavallo d’un colpo di
lancia; ei casca a terra, gli saltano addosso e l’ammazzano; così
com’avvenne due secoli innanzi ad Eufemio, traditor della Sicilia
cristiana. Il qual gastigo percosse di spavento i partigiani dei
Normanni, e tanto rivoltò le cose, che i presidii di Petralia e di
Traina si ritirarono a Messina, dove in fretta s’apprestarono alla
difesa. È da riferire la morte d’Ibn-Thimna ai primi di marzo del mille
sessantadue.[203]
Caso tanto più grave, quanto Ruggiero stava per venire alle mani con
Roberto. Il giovane, imbaldanzito per lo parentado, cominciò a lagnarsi
altamente: aveano fatto insieme il conquisto di Calabria, pattuito
a Scalea il partaggio del paese metà e metà, e il duca lo differiva
da due anni; sopportò egli finchè fu scapolo, or si vergognava di
far vivere poveramente sposa di sangue principesco; era tempo che il
duca gli tenesse parola. Tai querele moveva a Roberto, sollecitava i
nobili normanni a rincalzarle; e il fratello s’induriva tanto più al
niego. Alfine Ruggiero s’accomiatò da lui forte crucciato, corse al suo
castello, ragunovvi armati e denunziò la guerra se tra quaranta dì non
gli fosse resa ragione.[204] Il duca mosse incontanente sopra Mileto
nella primavera del sessantadue. Si combattè senza furore; e l’assedio
andava in lungo per la imperfetta arte del tempo e soprattutto dei
Normanni alle espugnazioni, quando sforzolli ad accordo un episodio
che ricordava loro non potersi sfogare in guerre civili se voleano
soggiogare l’Italia meridionale. Aveano già i terrazzani di Gerace
in Calabria giurata fedeltà a Roberto, senza consegnargli la città;
e perch’egli studiavasi a por loro il freno in bocca fabbricando un
castello, aveano innanzi l’ossidione di Mileto trattato di darsi a
Ruggiero; il quale eludendo le poste del duca uscì una notte con cento
cavalli e gittossi in Gerace, per trarne gente, com’e’ pare, e piombar
sopra l’oste che minacciavalo in casa. Roberto, lasciata guardia nei
due ridotti con che stringea Mileto, sopraccorre co’ suoi a Gerace;
pria d’impacciarsi in un secondo assedio tenta sue arti: travestito
entra nella città, va difilato a trovare un suo partigiano, per nome
Basilio. E sedea a mensa con esso e la moglie, allorchè un famigliare
lo riconosce; il popolo si leva a romore, trae alla casa, fa in pezzi
l’ospite, impala la donna; già Roberto è minacciato da cento ferri,
i cittadini più savii non bastano a rattenerli. L’animo suo e la
pronta parola lo camparono da morte. Disse con impavida faccia agli
infelloniti che pagherebbero caro il suo sangue; che i guerrieri suoi
proprii e quelli di Ruggiero correrebbero insieme a spiantar la città;
all’incontro se lasciasserlo andar via, concederebbe loro quanto
fossero per domandare. Titubanti lo menarono in carcere. Ma Ruggiero
che non si trovava quel dì in Gerace, torna a precipizio chiamato dai
cavalieri del fratello; fa venire i notabili fuor le mura; prega e
minaccia affinchè gli consegnino il Guiscardo per vendicarsi con le
proprie sue mani: “mi giuraste fedeltà, lor dice, ubbiditemi in questo
o saprò sforzarvi; pendon ormai dai miei cenni le genti di Roberto,
stanche del reo signore; se di presente nol portate qui legato, ecco
io comincio a far tagliar le viti e gli ulivi.” Condussero Roberto,
fattogli pria giurare che mai non edificherebbe castello in Gerace. I
due fratelli s’abbracciarono, scrive Malaterra, come Giuseppe Giusto
e Beniamino, piangendo di tenerezza tutti i guerrieri normanni. Ma
Roberto, asciugate le lagrime, accomiatatosi da Ruggiero, trovò altre
magagne; ci volle il biasimo universale de’ suoi, e il principio
di nuove ostilità perch’ei venisse in Val di Crati a stipolare il
partaggio della Calabria, abboccandosi col fratello sul ponte che
indi si chiamò Guiscardo. Dopo l’accordo, Ruggiero levava tributo su
i novelli dominii per fornire i suoi d’armi, vestimenta e cavalli.
Aggravò la mano su Gerace; dove andato con l’oste, si metteva ad
innalzare un castello fuor le mura; ed ai cittadini che allegavano la
fede data da Roberto, rispondeva: “Egli giurò, non io:” e sforzavali a
grossa taglia.[205]
Armati per tal modo trecento cavalieri nell’agosto o il settembre,[206]
ripassava Ruggiero in Sicilia, menando seco la moglie, paurosa delle
fatiche e rischi ai quali andava incontro, e non se li aspettava
pur sì gravi. All’entrar dello stuolo in Traina, i cittadini fecero
buon viso, assai tepidamente. Lor increbbero tosto quegli ospiti
alloggiati per le case, pronti a far vezzi a loro mogli e figliuole.
Con ciò Ruggiero afforzava sempre più la città e andava osteggiando
le vicine castella dei Musulmani. Sentendosi dunque nuovo giogo sul
collo, i cittadini un dì ch’egli era uscito col grosso delle genti a
depredare i dintorni di Nicosia, piglian le armi a stigazione d’un
Plotino, dei primi del paese; assalgono il poco presidio; non però
sì improvvisi che i Normanni non si accorgessero del movimento e non
si preparassero; talchè infino a notte ributtarono il nemico. Questo
allora, aspettandosi addosso Ruggiero, s’afforzava alla sua volta con
serragli e fosso nella mezza città opposta alla collina che teneano i
Normanni[207] ov’era il palagio del console, scrive una cronica,[208]
dando argomento a supporre che così fatto titolo avesse preso Ruggiero
in Traina, e nota, quasi a ricordare l’indipendenza del Municipio
greco, che sorgesse dall’altra parte la torre della città. Ruggiero,
chiamato per messaggi, sopravveniva in fretta; si metteva a combattere
i sollevati: e intanto risaputo il fatto nelle vicinanze ch’abitavano i
Musulmani, trassero alla città da cinquemila armati, proffersero aiuto
a’ Greci e fu accettato. Ormai, circondati d’ogni banda, i Normanni
pativan la fame; non potendo uscir grossi a predare senza grave
pericolo dei rimagnenti, nè mandar piccole gualdane senza la certezza
di vederle fatte a pezzi. Si stenuavano in vigilie, guardie, continue
avvisaglie e brevi ma disperate sortite, in una delle quali poco mancò
non fosse spacciato lo stesso Ruggiero. Perchè vedendo balenare i suoi,
spinse innanzi il cavallo, gli fu morto; si trovò avviluppato in un
nodo di nemici che sel portavan di peso; se non che gli venne fatto di
trarre la spada, la girò a cerchio, si fe’ larga piazza, restò solo;
e sì fermo cuore serbò, che tolta la sella del destriero, lento e
minaccioso ritraevasi.
Nondimeno s’aggravavano ogni dì più che l’altro le strettezze degli
assediati; pativa il nobile al par del mercenario; la Giuditta
stessa talvolta fu costretta a ingannar la fame bevendo acqua pura
e lagrimando; a lei ed allo sposo non rimase che un sol mantello di
che si copriano a vicenda, qual fosse più intirizzito. Contuttociò
i guerrieri normanni resisteano risoluti, dissimulavano con lieto
aspetto e motteggi. Aprì loro scampo inaspettato l’abbondanza in che
viveano i nemici, provveduti a gara dalle altre città e spensierati
per troppa fidanza; i quali nel rigore del verno, su quelle vette alte
mille e cento metri sul livello del mare, stavano a mala guardia, e
sovente si riscaldavan col vino. Di che addatisi i Normanni, finsero
smetter anch’essi le scolte; ma più attenti spiarono il nemico. Una
notte vistolo spreparato, Ruggiero fa impeto con tutti i suoi alla
barrata; mena al taglio della spada gli ubriachi assonnati; occupa
l’altra mezza città e la torre, e chi fu preso, chi fuggì; i Musulmani
accampati nei dintorni non stettero ad aspettare. Impiccato allora per
la gola Plotino, altri morti con altri supplizii, i vincitori trovavano
gran copia di frumento, olio, vino e d’ogni cosa abbisognevole: con
le fortificazioni e col terrore si assicuravano nella domata città.
Ruggiero andò solo in Terraferma a rifornirsi dei cavalli perduti
nell’assedio: lasciò in Traina la sposa, che a dura scuola avea
appreso a far le veci di capitano; la quale mantenne la disciplina
nel presidio, girando i ripari ogni dì, vegliando su le guardie,
confortando tutti con benigne parole e promesse, e rammentando i
pericoli corsi insieme e che aleggiavano lì intorno; guai a chi li
credesse dileguati.[209]
Tardo, al solito, e fugace balenò pure in questo tempo tra i Musulmani
di Sicilia un raggio che mostrava la via della salvezza: accordarsi
tra loro e con gli Zîriti d’Affrica; ubbidire a questi, anzichè
piegare il collo al giogo cristiano. Morto Moezz l’ultimo d’agosto
del sessantadue, il figliuolo Temîm che gli succedette, usò con
migliore fortuna gli Arabi d’oltre Nilo, i quali per le condizioni
già dette[210] porgeano orecchio ogni dì più che l’altro a’ principi
Zîriti. Veggiam nel primo anno del suo regno, gli Arabi e le milizie di
Temîm ridurre Sfax e Susa e rompere in sanguinosa battaglia l’esercito
di Bugia, accozzato di Berberi delle tribù di Senhagia e Zenata ed
Arabi della tribù di Helâl.[211] È da supporre dunque che paresse
in quel tempo mirabile consiglio nella corte di Mehdia ripigliare
l’impresa di Sicilia, la quale prometteva a un tratto il merito della
guerra sacra, l’acquisto dell’isola e l’allontanamento degli Arabi: di
questi valorosi che aveano vinto, un contro dieci, gli eserciti Zîriti,
guastato il paese e dato mano ai ribelli. Dai susseguenti fatti si vede
che i Musulmani di Sicilia, rincorati dall’uccisione d’Ibn-Thimna,
dalle divisioni de’ cristiani e dalla apparente ristorazione della
potenza zîrida, ne implorassero in questo tempo od accettassero
l’aiuto. Il quale invero, con tutte le novelle vittorie dei Normanni,
arrestò i conquistatori per molti anni; nè tornò vano se non che per
le discordie ripullulate nell’infelice terra, quando gli Affricani
combattuti dal signor di Castrogiovanni e dalla turbolenta aristocrazia
di Palermo, furono costretti a partirsi.
Lo stesso anno mille sessantatrè sbarcarono in Sicilia i feroci
ausiliarii di Temîm, ritraendosi dagli annali musulmani ch’egli
facesse l’impresa dopo la morte del padre, e dalle croniche cristiane
che Ruggiero reduce di Calabria si trovasse a fronte novella milizia
venuta dall’Arabia e dell’Affrica per dar di piglio nella roba altrui,
col pretesto di recar aiuto ai Siciliani; nella quale tradizione
ognuno vede di quali Arabi dicessero i Normanni.[212] Mandava Temîm
un esercito ed un’armata sotto il comando di due suoi figliuoli, Aiûb
ed Alì; de’ quali il primo venne col grosso delle genti in Palermo, il
secondo a Girgenti:[213] e par che l’uno col favor della cittadinanza
della capitale e delle terre che ubbidivano a quella, da Mazara
infino a Cefalù o Tusa, reggesse il paese a nome del padre; l’altro
com’ausiliare d’Ibn-Hawwasci, tenesse presidio in Girgenti;[214] ed
una schiera andò a rinforzare Castrogiovanni. Ma Ruggiero, tornato di
Puglia e di Calabria, com’ape industre, scrive il Malaterra, onusto
d’ogni cosa bisognevole ai suoi, s’affrettò a dispensar loro cavalli
ed armi; e fatti riposare i cavalli alquanti dì, mosse alla volta di
Castrogiovanni, bramoso di provarsi coi cinquecento Arabi ed Africani
giuntivi di fresco. Sostò a due miglia dalla città; con l’usato
stratagemma e l’usato capitano di vanguardia Serlone, spiccò innanzi
trenta militi, o vogliam dire un centinaio di cavalli, che provocassero
il nemico; ed egli s’appiattò in una valle boscosa col resto delle
genti. Scoperto il drappello di Serlone dall’alto di lor bastite, i
Musulmani calavano grossi alla zuffa, incalzavano con tal furia che
due soli cavalieri normanni pervennero salvi infino all’agguato, e gli
altri, presi o scavalcati, mancavano, quando Ruggiero proruppe come
leone ferito: dopo aspra battaglia sgarò i Musulmani, inseguilli più
d’un miglio e tornossi a Traina; facendo tal giubbilo di quel po’ di
preda e della sanguinosa vittoria contro forze uguali, da mostrarci
quanto i Musulmani fossero imbaldanziti per lo nuovo aiuto e sgomentati
i Cristiani.
Usando la riputazione della vittoria, Ruggiero cavalcava audacemente
per l’isola, spintosi presso le sorgenti dell’Imera settentrionale
a Caltavuturo, poscia per la valle dell’Imera meridionale fin sotto
Castrogiovanni, donde i Musulmani non arrischiaronsi ad uscirgli
incontro; e infine corse a Butera, in vista del mare affricano.
D’ogni luogo riportò ricca preda; da Butera gran tratta d’armenti e
di prigioni. Passando per la valle del Simeto, fermossi ad Anattor, e
dopo breve giornata a San Felice,[215] e si ridusse a Traina; perduti
molti cavalli per la rapidità della arrisicata correria, il calor
della stagione e la penuria d’acqua. Il che mostra esser già l’anno
innoltrato almeno al maggio, e rimanda indietro all’aprile o al marzo
il combattimento di Castrogiovanni testè raccontato.[216]
Intanto l’oste zîrita, unita alle milizie musulmane del paese,[217]
movea di Palermo[218] sopra Traina, per calpestare gli Infedeli in
lor nido. Trentamila cavalli e ventimila fanti, al dir di Malaterra
(cioè del conte Ruggiero) veniano addosso a centotrentasei militi,
che tornano a quattro o cinquecento combattenti: ma si scemi pur
di molto il numero de’ Musulmani, e s’aggiunga alla contraria parte
qualche frotta dei cristiani di Sicilia ch’è da supporre accorsa ai
combattimenti,[219] comparirà tuttavia prodigioso il valore normanno, e
credibil solo alla generazione che ha vista l’impresa di Garibaldi in
Sicilia. Valicando gli aspri contrafforti che spiccansi a mezzogiorno
degli Appennini Siculi, l’oste musulmana era giunta alla giogaia di
Capizzi,[220] paralella alla quale corre quella di Traina e la valle
di mezzo è solcata dal fiumicello di Cerami che prende il nome da un
castello fabbricato sovr’alte rupi su la sponda sinistra, ch’è a dire
nel pendio occidentale di Traina, a sei miglia a ponente maestro di
questa città. Entrava, il giugno del mille sessantatrè.[221] Ruggiero,
avuta spia del nemico, deliberassi ad affrontarlo pria che venisse
ad affamar lui in Traina: ond’uscito col piccolo stuolo normanno,
si apprestò a contendere il passaggio della valle; e i Musulmani
schieraronsi sul ciglione opposto. Pur non osando nè questi nè quello
calar giù per lo primo, caduto il giorno, si tornarono gli uni agli
alloggiamenti dietro il monte di Capizzi e l’altro a Traina. Le
quali mosse ripeteano entrambi il secondo e il terzo dì. Al quarto, i
Musulmani vennero a porre il campo su i gioghi dove soleano presentar
la battaglia. Addandosi di tal disposizione alla zuffa, i Normanni
si confessano della peccata, chieggono l’assoluzione a’ sacerdoti, e
muovono verso il nemico.
Ma saputo dagli esploratori che quello volgesse contro Cerami, allor
soggetta o confederata di Ruggiero, e rinforzata di piccolo presidio
normanno,[222] il conte vi manda Serlone con trenta lance, per
difendere la fortezza tanto ch’ei giunga sopra gli assalitori con le
cento che gli rimaneano. E Serlone entrò in Cerami pria del nemico, e
quando questo s’appresentava,[223] senz’aspettare il conte, disserrate
le porte, caricò con trentasei lance tutta la cavalleria musulmana,
o, come e’ sembra, la sola vanguardia; sbaragliolla al primo scontro,
la inseguì con molta uccisione; e trascorrendo fino al campo, fattovi
un po’ di preda, si ridusse a Cerami ov’era sopravvenuto Ruggiero.
Ristretti allora i capi a consiglio, avvisando altri di appiccare
la battaglia lì lì, altri ch’e’ non fosse da sforzare la fortuna con
prove troppo temerarie, Orsello di Baliol diè su la voce ai prudenti,
disse aspramente a Ruggiero non seguirebbe mai più sua bandiera, se
di presente non si combattesse: dalle quali parole confortato anzi il
conte, proruppe anch’egli in rampogne contro i dubbiosi; e messo il
partito, si trovò che nessuno avea paura. Intanto s’erano rattestati
i Musulmani in lor campo; ingrossati di nuova gente, comparvero più
formidabili che prima, ordinati in due corpi e pronti alla zuffa. In
due schiere spartironsi anco i Normanni, capitanata l’una da Serlone,
Orsello e Arisgoto di Pozzuoli, l’altra dal conte. Al punto dello
scontro, la prima schiera nemica, schivando la vanguardia normanna,
giravale di fianco, spronava ad un colle e sperava occuparlo pria
che vi giugnesse Ruggiero; il che le venne fallito. Orsello nell’una
torma, Ruggiero nell’altra, inebriavano in questo i Normanni con
sublimi parole di religione e d’onore; tanto che si tuffarono in quella
moltitudine non più vista; disparvero tra le onde della cavalleria
musulmana. Chi diè loro la vittoria? Racconta il Malaterra che un
cavaliere possente e bello della persona, montato su destrier bianco,
vestito di bianca armadura, armato d’una lancia con pennoncello bianco
e croce vermiglia, entrasse il primo a rompere e stracciare lo stuolo
musulmano là dov’era più fitto. Il cronista dice che raffigurarono
proprio San Giorgio; sì che i Normanni piangendo di tenerezza lo
seguirono nella mischia; lo smarrirono; e già avean vinto. Ma tanto
spesso torna tal visione nelle guerre de’ Crociati, da parere fior di
rettorica del cronista, anzichè allucinazione de’ combattenti. Al conte
Ruggiero anco fu attribuito il favor celeste d’un pennoncello crociato
che gli ornasse la lancia, dov’egli nè altro mortale non l’aveva
attaccato. Più certamente il ferro della sua lancia squarciò una
corazza di stupenda fattura[224] sul petto del kâid di Palermo,[225]
capitano dell’oste o della schiera, uom fortissimo il quale galoppando
innanzi a’ suoi minacciava e imprecava a’ Normanni. Il valore, la
disciplina, l’unita e ferma volontà, la viva fede, trionfarono dopo
lunghissima tenzone sopra la moltitudine ragunaticcia d’Arabi prodi
ma ladroni, schiavi africani, nobili siciliani sospettosi, plebe
feroce nei tumulti e inetta nel campo. Diradossi la calca d’intorno
ai Cristiani: come nubi squarciate dal vento, come stormo d’augelli
se vi piombi il falcone, scrive Malaterra, si sbaragliò la cavalleria
musulmana, lasciando quindicimila morti; ventimila rincalza l’Anonimo.
I vincitori passavan la notte nel campo nemico riposandosi per le
tende, si spartivano la preda; ma al nuovo dì, messisi a dar la caccia
ai ventimila pedoni che s’erano riparati tra le rupi, fecero macello; e
la più parte imprigionati mandarono a vendere in Calabria ed in Puglia,
che fu il maggior lucro della vittoria. Così i cronisti, accumulando
le inverosimiglianze in guisa da far credere ch’e’ favoleggino o
dimentichino in que’ fatti le popolazioni cristiane di Sicilia; e per
colmo della metafora ci narrano che Ruggiero tornasse in Troina per
fuggire il puzzo dei cadaveri.[226] Quinci ei mandava a papa Alessandro
secondo un Meledio per ragguagliarlo della vittoria e presentargli
quattro cameli. I quali il papa ricambiò con indulgenza plenaria
al conte, ed a chiunque avesse combattuto o fosse per combattere in
avvenire i Pagani di Sicilia; ed aggiunse una bandiera sotto la quale
più sicuramente si compisse la santa gesta. Malaterra, nel raccontar
questo fatto, si studia a dargli significato di mera pietà, senz’ombra
d’omaggio feudale nel dono dei cameli, nè d’investitura in quello del
gonfalone.[227]
Poco appresso la battaglia s’offriano a Ruggiero importuni ausiliarii
ad una impresa sopra Palermo. I Pisani conducendo frequenti commerci
nella città, ebbero a risentirsi d’alcuna ingiuria;[228] e maggior
colpa dei Musulmani di Sicilia fu che andavano le cose loro in rovina
e fors’anco che Roberto Guiscardo, nella irrequieta attività della sua
mente, avea pensato di usare contro la Sicilia le forze navali di Pisa,
ed appiccata a questo effetto una pratica che poi si dileguò.[229] I
mercatanti pisani allestivano lor navi pronte al pari al commercio
e alla guerra: popol d’ogni ordine, com’attesta una iscrizione di
quell’epoca, grandi, mezzani ed infimi entrarono nell’armata.[230]
Fatto vela per la Sicilia, sursero in un porto della costiera
settentrionale[231] donde spacciaron oratori in Traina per invitare
Ruggiero che cooperasse coi suoi cavalli. Rispose aspettasserlo un
poco, dovendo dar sesto a certe sue faccende; ma que’ mercatanti,
prosegue sprezzante il cronista, non sapendo come va fatta la guerra,
non usi a sciupare il tempo senza guadagno, amarono meglio andar
soli in Palermo. Il venti settembre del mille sessantatrè, i Pisani,
assalito il porto, spezzata la catena che lo chiudea, preservi con
sanguinoso combattimento sei navi cariche di merci;[232] e ributtati,
com’ei sembra, dal porto, metteano a terra cavalli e fanti presso
la foce dell’Oreto, respingeano i cittadini usciti a combattere;
piantavan le tende in su la riva e scorreano a depredare le deliziose
ville suburbane.[233] Arse poi cinque delle navi che avean predate,
riportarono l’altra a Pisa, con tanto tesoro, che bastò a cominciare
la fabbrica del Duomo, dove una iscrizione contemporanea attesta
l’arrisicata fazione.[234]
Ruggiero intanto, volendo sostare nel sollìone e ristorare sua gente
menomata dalla vittoria di Cerami,[235] pensò di andare in Puglia,
vettovagliata prima Traina. A questo effetto spingeasi con rara audacia
nella valle dell’Imera settentrionale, correva il primo dì a Collesano,
l’altro a Brucato,[236] il terzo infino a Cefalù: tornato a casa
con abbondantissima preda, munì il castello, vi lasciò la moglie e i
compagni, ai quali raccomandò di far buona guardia come se avessero
sempre il nemico alle porte, non dilungandosi dalla città per niuna
occasione propizia. Ito quindi in Terraferma a consultare con Roberto,
n’ebbe cento militi non sappiamo a che patto, ai quali aggiunse cento
de’ suoi: al rinfrescare della stagione, ritornato in Sicilia, irruppe
nelle parti di Girgenti. Parve allora agli Arabi ed agli Affricani di
vendicare la rotta di Cerami: un’eletta di settecento lor cavalli uscì
cheta di Girgenti per appostar i Normanni al ritorno; si pose sopra
un burrone in fondo al quale correa la strada. Frettoloso e guardingo
cavalcava Ruggiero col grosso de’ suoi, mandate innanzi le some del
bottino con una scorta d’armati; la quale come giunse all’agguato,
assalita da forze superiori, sopraffatta dall’alto coi sassi, presa
di subita paura voltò le spalle, perdè qualche uomo ed anelante si
rifuggì ad una balza ch’era inaccessibile fuorchè da un viottolo