Storia dei musulmani di Sicilia, vol. III, parte I - 03

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quasi assurdo supporre che i Musulmani avessero cacciato ogni cristiano
dalla città, il che mai non fecero nè in Sicilia nè altrove, nè
loro condizioni sociali ed economiche il comportavano. È da ritenere
pertanto che la popolazione di Messina fosse notabilmente diminuita fin
dal nono secolo,[112] sì che nel millesessantuno, sgombrata la piccola
colonia musulmana, la città si trovasse, per modo di dire, spopolata.
E con tale intendimento va esaminato il solo ricordo che abbiamo di
pratiche tenute dai Cristiani di Messina coi Normanni.
In sul principio del decimottavo secolo, uscì alla luce nelle
Miscellanee del Baluzio,[113] e fu ristampata dal Muratori[114] e da
altri, una _Breve istoria della Liberazione di Messina_, lasciata tra
mille altri documenti manoscritti da Andrea Duchesne, con annotazione
che fosse copia d’antichissimo codice del Senato di Messina.[115]
Spartivasi la Sicilia, al dir di quella cronica, in cinque principati
che si stendessero lungo la costiera da Tindaro a Taormina, a Siracusa,
a Trapani, a Palermo ed a Patti; e li reggean cinque Mori, nimici
l’un dell’altro; dei quali il primo, Raxdis per nome, avea sede in
Messina, dove i Cristiani, in virtù di capitoli fermati al conquisto,
godeano più alto stato che in niuna altra città dell’isola; serbando
lor possessioni e culto e lo stemma della croce d’oro in campo rosso,
conceduto già da Arcadio imperatore in merito di gloriosa gesta de’
Messinesi a Tessalonica. Ma sentendo aggravare ormai la mano degli
Infedeli e vedendo affranti gli altri Siciliani da servaggio assai più
duro, tre nobili uomini della città, Ansaldo di Patti, Niccolò Camulio
e Iacopo Saccano, bramosi di liberare la patria, a dì sei d’agosto
millesessanta, s’adunavano nell’isola di San Giacinto, come un tempo
si chiamò il Braccio del Salvatore. La conchiusione fu d’offrire la
Sicilia al conte Ruggiero e al duca Roberto che soggiornavano col
papa a Mileto. I congiurati fan parte molto cautamente nella città;
colgono il destro della festa in cui i Mori soleano chiudersi in
lor case per dodici giorni; s’imbarcano travestiti in un legnetto,
fingendo veleggiare per Trapani, ed approdano in Calabria. Sopraccorsi
a Mileto, scansano di negoziare col papa; apron gli animi sì a Ruggiero
esortandolo a venire in Sicilia; gli danno per arra il gonfalone
d’Arcadio. Ruggiero consultò dell’impresa col papa e con sei cardinali;
il papa, non perdendo mai di vista le cose di questo mondo, assentì,
a condizione che si dividessero i beni della Sicilia in tre parti,
la prima al clero, la seconda ai cavalieri, l’altra al principe.
Allora il conte giura i patti, e che sarà in arme a Messina a capo
d’una settimana. E al dì detto, cavalca con millesettecento uomini a
Palmi, indi a Reggio: alfine, affidate le navi al fratello Goffredo,
sbarcato ei con le genti a tre miglia da Messina, gli vengono visti
nell’isola di San Giacinto i cadaveri di dodici cristiani impiccati
dai Mori per indizio della congiura. Muove Ruggiero all’assalto; i
Cristiani di dentro piglian le armi, apron le porte, aiutano al macello
degli Infedeli; egli entrato in città chiama i congiurati, rende loro
il gonfalone vittorioso, ch’è riposto nella chiesa di San Niccolò; e
il conquisto cominciato per virtù de’ cittadini di Messina si compie
con la pattuita tripartizione delle terre. Così la cronica. Seguono
due diplomi, l’un di re Ruggiero del millecentoventinove, l’altro di
Guglielmo I del millecensessanta, nei quali leggonsi le larghe e vere
franchigie municipali di Messina, interpolate bensì di favole che
la fan capitale dell’isola sotto i Romani, i Greci e’ Saraceni.[116]
Talchè il lettore, dopo lungo giro nella storia dello undecimo secolo,
riesce in ultimo al gran campo di battaglia dove si travagliarono gli
eruditi siciliani dal decimoquinto al decimottavo, a furia di paradossi
e di falsi documenti. L’autore si vanta da sè medesimo contemporaneo;
ma lo tradiscono gli intenti, le idee e la latinità del secol
decimosesto.[117]
E in vero torna ai primi quarant’anni del secolo seguente la copia più
antica che abbiamo, quella cioè del Duchesne. Risalendo addietro, si
rinviene in altre parole lo stesso racconto nella storia del Maurolico
messinese, il quale non ne cita l’origine, nè par vi presti piena
fede;[118] ed una ventina d’anni avanti Maurolico, si legge breve cenno
della congiura nella storia del Fazzello, il quale par si riferisca
a tradizione orale.[119] Dalla forma volgendoci alla sostanza e
mettendo da canto la tripartizione legale dei beni, il soggiorno del
papa a Mileto, il gonfalone d’Arcadio e il rimanente della macchina
municipale, troviamo due fatti genuini, tolti da altre fonti che il
Malaterra e l’Anonimo, e però inediti infino al tempo di Maurolico:
cioè che un Goffredo fratel di Ruggiero, capitanasse le navi nella
impresa di Messina,[120] e che la Sicilia Musulmana fosse allor tenuta
da parecchi regoli discordi e nemici.[121] Parmi si scopra a cotesti
segni una primitiva e verace tradizione messinese, accresciuta e
guasta dal duodecimo secolo in giù, a misura che crescea l’importanza
ed ambizione della città; distesa in latino forse dal Maurolico
stesso senza intento di frode; e in ultimo rabberciata da non so qual
falsario, che interpolò anche il diploma del millecentoventinove, e
si provò a ingannare il Duchesne. Della tradizione primitiva parmi
si debba accettare i nomi dei tre congiurati o capi d’una congiura di
pochi Messinesi, il viaggio loro a Mileto e le pratiche con Ruggiero;
le quali sono taciute dai cronisti normanni, perchè i padroni le
dimenticavano volentieri. E poteano dimenticarle, perchè non se ne vide
effetto pubblico e flagrante come quello d’Ibn-Thimna. I Cristiani
Messinesi vegliavano di certo sul nemico, svelavano le condizioni e
andamenti di quello, ci rischiavan la vita non men che si fa con le
armi alla mano; ma non arrivarono giammai a prendere le armi. E forse
avvenne una o due volte che lo promettessero e non lo compissero,
poichè le prime fazioni di guerra contro Messina sembrano fondate in su
l’aspettativa di movimento qual che ei fosse dentro la città.
Sia per pratica di tal fatta, sia per esplorare soltanto il terreno
e tastare gli animi, s’arrischiavano i Normanni ad una correria nel
settembre del millesessanta,[122] poco appresso l’occupazione di
Reggio. Non uso a metter tempo in mezzo,[123] Ruggiero togliea seco da
dugento cavalli;[124] traghettato il Faro, entrava nel porto di Messina
discosto alquanto dalle mura in quella età. I Musulmani, all’insulto di
sì picciol drappello, uscirono in furia. Il conte volendo combattere
lungi dalle mura e far disordinare il nemico, s’infinse di fuggire a
briglia sciolta: tornò d’un tratto alla carica, sbaragliò la schiera
sparsa, la inseguì fino alle porte, uccidendo i più tardi; e presi i
cavalli, armi, robe che lasciavano per via, rimbarcatosi prestamente,
tornò a Reggio.[125] Indi mosse con Roberto alla volta di Puglia
ove il duca avea da compier l’usurpazione sopra i capi Normanni e le
città non sottomesse.[126] E pur tra cosifatte brighe i due fratelli
pensavano di portare la guerra in Sicilia alla nuova stagione; quando
Ibn-Thimna affrettolli all’impresa; il quale perduta parte dello stato
ch’aveva usurpato, spinto da timore, sete di vendetta ed inestinguibile
ambizione, saputi i gloriosi fatti de’ Normanni, fors’anco le pratiche
loro coi Cristiani di Sicilia, corse da Catania a chiamarli in aiuto
contro i suoi nemici musulmani. Abboccatosi a Mileto con Ruggiero,
e quindi a Reggio con lui e con Roberto che vennevi a posta,[127]
Ibn-Thimna lor profferiva il partaggio dell’isola.[128] A che
obiettando i Normanni non avere tante forze da combattere le possenti
milizie musulmane della Sicilia, replicava esser quelle divise e
discordi, avervi lui moltissimi partigiani,[129] rimanergli soldati e
castella ubbidienti: tantochè i Normanni acconsentivano, egli giurava
la lega,[130] e dava un figliuolo in ostaggio a Roberto. Ruggiero
s’apprestava allora ad andare in persona con sue genti d’arme; Roberto
forniva i pochi cavalieri e i marinai ch’ei potè avere a Reggio, su i
quali ponea Goffredo Ridelle, sperimentato uomo di guerra; e tornato
prestamente in Puglia, chiamativi a consiglio suoi condottieri,
n’ebbe altre forze,[131] in guisa che s’accozzò uno stuolo di cinque
centinaia d’uomini[132] capitanati da Goffredo Ridelle e da Ruggiero,
accompagnati da Ibn-Thimna come quegli che conosceva i luoghi e vi
tenea pratiche e più se ne vantava.[133]
Negli ultimi di febbraio del millesessantuno, a vespro, sbarcarono i
Normanni in su la lingua del Faro, presso i laghi.[134] Preser la via
di Rametta; di che addatisi i Musulmani di Messina, uscì un drappello
a far la scoperta. Cavalcando dunque Ruggiero la notte su per que’
monti, vide, all’incerto chiaror della luna, appressarsi un Musulmano:
sguainata la spada, senza tor lancia e scudo che gli recava dietro il
valletto, spronò contro il nemico, gli diè d’un rovescio alla cintola,
che lo tagliò netto in due pezzi, scrive il Malaterra con vezzo da
romanzo. L’ucciso era fratello d’Ibn-Meklati già signor di Catania.
Sbrigatisi da costoro, ma scoperti e perduta indi l’occasione d’un
colpo di mano, scorsero predando bestiame nei territorii di Rametta e
Milazzo, e al nuovo dì riduceansi a lor navi; cominciavano a imbarcare
la preda, quando levossi un vento che li ritenne. A Messina intanto,
ch’è presso a nove miglia, si notò la ritirata; si armarono cavalli
e fanti, corsero al Faro per assalire i Normanni mentre fossero chi
in terra chi in nave disordinati. Li trovarono al contrario stretti a
schiera, preparati sì bene al combattimento che Ruggiero avea mandato
Serlone, figliuol del fratello del medesimo nome, a girar di fianco
con una torma di cavalli. Colti tra due schiere, i Musulmani furono
rotti con molta uccisione: e i Normanni a incalzarli fino alla città,
e s’apprestavan anco a darle assalto, quando trovaron le mura difese
perfin dalle donne,[135] e uscì nuova gente con le fiaccole in mano a
combatterli. A lor volta i vincitori erano circondati, ricacciati nelle
alpestri coste dei monti ai quali s’appoggia la città. Raggiornando se
ne strigarono con un impeto che lor aprì la via della pianura;[136]
scesero al Braccio del Salvatore, senz’altra speranza ormai che
d’imbarcarsi per Reggio. La tempesta infuriava. Per tre dì rimasero
su quella lingua di terra,[137] intirizziti dal freddo; aspettandosi
che i Musulmani ingrossati di tutte le milizie dell’isola venissero
a gittarli in mare; confortandosi con far voti al Cielo che se li
cavasse di briga darebbero il bottino per riedificare una chiesa di
Santo Andronico a Reggio.[138] Abbonacciato, come avviene sempre, il
mare, scannavano i buoi predati, non volendo provarsi al tragetto con
tali impedimenti; poi caricarono il carname ai conforti di Goffredo
Ridelle che vergognava di tornare a casa e agli amici con le mani
vote. Messisi, com’e’ pare, i Musulmani a inseguir loro barche, gli
abitatori di Reggio ch’erano Cristiani e Saraceni, dice Amato, e
di Saraceni si deve intendere i mercatanti e rifuggiti, per mostrar
fede a Roberto novello signore della città, armarono navi, uscirono
contro quei di Messina; dopo molto trar di saette, se ne tornarono
con la peggio, uccisi nove uomini cristiani e presa una lor nave dal
nemico.[139] Ibn-Thimna in questo mezzo s’era rifuggito ed afforzato
in Catania.[140] Fallì dunque l’impresa fondata, come il mostrano i
narrati fatti e que’ che narreremo, in su le pratiche d’Ibn-Thimna
in Rametta e di Ruggiero in Messina; e compresero i Normanni che a
rincorare lor partigiani infedeli o battezzati, fosse uopo di maggiori
forze, e sopratutto navali.[141]
Roberto nei mesi di marzo e aprile convocava di nuovo i condottieri
con belle parole di vendicare la offesa di Dio, sterminare i Pagani
della Sicilia, liberare i diletti fratelli in Cristo, e v’aggiunse più
efficaci argomenti, doni e concessioni.[142] Accozzati per tal modo
da mille cavalieri e mille fanti,[143] venne di Puglia in Calabria
nei primi di maggio; postosi a un luogo presso la Catona, il quale
s’addimandava Santa Maria del Faro,[144] ov’adunò barche da traghettare
le genti; ma avea pochi legni da battaglia, tra dromoni e galee,
troppo deboli a fronte dell’armata musulmana.[145] Nella quale si
noveravano ventitrè tra corvette e dromoni ed uno o parecchi navigli
grossi che chiamavan gatti, forniti di macchine da guerra;[146] chè
Ibn-Hawwasci[147] risapendo i preparamenti di Roberto e sollecitandolo
ansiosamente quei di Messina, aveavi mandato da Palermo l’armata,
oltre ottocento cavalieri e vettovaglia.[148] La vera difesa era
l’armata. Poche milizie oltre quelle venute di Palermo potea fornire
la colonia di Messina picciolissima e minore al certo della popolazione
cristiana.[149] Rimasti dubbiosi alquanto di tentare il passaggio,[150]
contro tal navilio, Roberto e Ruggiero montati su due velocissime
galee, s’avvicinavano a Messina per esplorare: avvistati dai Musulmani
e inseguiti, si dileguarono fuggendo dopo avere sopravveduta appieno
la costiera;[151] e tornati al campo fermavano coi più esperti uomini
di guerra, di portare un finto assalto di fianco. Adunarono l’oste;
ogni uomo solennemente si confessò e comunicò; i due fratelli fecer
voto di menar vita più che mai religiosa ed esemplare se arrivassero
al conquisto della Sicilia; con gran fervore s’implorò l’aiuto
divino.[152] Ruggiero andava alla fazione a malgrado di Roberto,
il quale volle ritenerlo, dicono i cronisti, per fraterno amore, e
alfine gli die’ dugentosettant’uomini in luogo di cencinquanta ch’ei
n’avea tolti dapprima. Su tredici legni passarono a Reggio: indi la
notte quetamente traghettato lo Stretto e sbarcati, s’appiattarono in
un luogo detto le Calcare, a sei miglia per mezzogiorno da Messina,
ove poi surse la Badia di Santa Maria di Roccamadore e la terra di
Tremestieri;[153] e Ruggiero rimandò le barche per troncare ogni
speranza di ritirata, scrive con trito concetto il Malaterra; il vero è
che lì svelavan l’agguato, e tornando in Calabria gli poteano riportare
nuove forze. All’alba Ruggiero montato co’ suoi a cavallo s’avviava
a Messina, quand’ecco un kâid che andava, come poi si riseppe, a
pigliare il comando della città, con iscorta di trenta uomini d’arme e
un convoglio di muli carichi di danaro. Svaligiati ed uccisi costoro,
i Normanni avvistano lor proprie barche reduci da Reggio, le quali
misero a terra altri censettanta cavalieri. Fu un abbracciarsi a
vicenda un augurarsi certa la vittoria: e spronarono baldanzosi inver
Messina.[154]
Ed ebberla senza combattere. Dalle navi, dalle mura, i difensori aveano
scorto l’estranie armadure e i muli tolti al kaid; onde tennero già
passato tutto l’esercito normanno, vana ormai la guardia del navilio
in cui più s’affidavano e perduto ogni cosa;[155] tanto più che i
Cristiani della città per pochi e disarmati ch’e’ fossero poteano
levarsi al punto dell’assalto.[156] Percossi di subito terrore, i
Musulmani d’ogni ordine, sesso ed età si danno a fuggire chi quà chi
là, in barca, per la spiaggia, pei monti, per la selva, dice Amato;
i Normanni sopravvenuti non hanno che ad uccidere i sezzai, spartirsi
le donne, i bambini, gli schiavi, la roba.[157] Tra gli altri correa
su per l’erta un gentiluomo traendo seco l’unica sorella sua, bella
giovinetta, gracile, educata tra gli agi nelle stanze della madre.
I Cristiani incalzavano. Le mancava la lena; la paura allacciava le
gambe: e il fratello a sorreggerla, a scongiurarla con lagrime che
facesse animo. Ma rifinita stramazzò a terra e’ nemici eran presso:
il guerriero anzi che lasciarla all’ignominia, alla schiavitù,
all’apostasia, di propria mano la uccise.[158] Il creder vana ogni
difesa facea cader le braccia ai più forti. Anco l’armata salpò non
guari dopo, tornandosi a Palermo, perchè non osava riassaltare i nemici
in città, nè rimanere in mezzo alle due rive tenute da quelli.[159]
Ruggiero mandato aveva intanto al fratello le chiavi di Messina,
invitandolo a prendere possessione della città.[160] E il duca ragunava
in fretta quanti marinai e quanti legni piccoli e grandi si trovassero
a Reggio;[161] chiamati alle armi cavalieri e fanti, rendea grazie a
Dio della vittoria con gran fervore e dimostrazione d’umiltà cristiana.
Comandò poi d’entrare in nave. Corservi tutti con furiosa impazienza
di gioia, sì che il vassallo non si ritenne dal passar dinanzi al suo
signore, il signore non aspettò che lo seguissero i vassalli. Il mare
sorridea lieto e tranquillo; nè tardarono a sbarcare in Messina.[162]
Roberto diede opera incontanente ad assicurare la chiave della Sicilia,
sì agevolmente cadutagli in mano; onde sopravveduto il porto, le mura,
le fortezze, le case, munì Messina di nuove difese, ordinovvi presidio
di suoi cavalieri.[163] A capo d’otto dì, fatta la rassegna dei mille
cavalli e mille fanti ch’avea seco, mosse con Ruggiero e Ibn-Thimna
per la medesima via battuta da quelli pochi mesi innanzi. Precorreano
sparsi i cavalleggieri predando; a volta a volta si raccoglieano,
aspettavano i fanti e ripigliavano la marcia. Giunti alla formidabile
fortezza di Rametta, lor uscì incontro il kâid a chiedere accordo:
narrano i cronisti che in umil atto offrisse presenti, promettesse di
obbedir a Roberto come a suo signore e giurasselo sul sacro libro di
sua setta.[164] Forse ei non fece che disdire l’autorità d’Ibn-Hawwasci
e sottomettersi a Ibn-Thimna col quale pur avesse tenuto pratiche.
Viltà o incostanza, l’esempio di Rametta incoraggiò Roberto a tirare
innanzi per la costa dei monti che corrono lungo il Tirreno. Posò la
prima giornata a Tripi,[165] la seconda a Frazzanò;[166] poi volgendo
a mezzogiorno, valicati i gioghi, scese alla pianura di Maniace e
piantovvi le tende. Quivi accorreano i Cristiani abitatori dei contorni
con vettovaglie e presenti, scusandosi coi signori Musulmani che il
facessero per salvar la vita e la roba da quei predoni. Roberto e
Ruggiero raccolti benignamente i Cristiani, lor dettero sicurtà;[167] e
dopo alquanti dì ripresero il cammino giù per la valle del Simeto, che
par segnasse il confine tra gli stati d’Ibn-Thimna e d’Ibn-Hawwasci.
Primo intoppo lor fece la rocca di Centorbi, celebre nelle antiche
istorie; le cui alte mura e profondi fossi fortemente eran difese
da arcieri e frombolieri; nè vollero ostinarvisi gli assedianti,
portando la fama che Ibn-Hawwasci lor venisse alle spalle con gran
gente. Passato il Simeto, trovate sgombre Paternò ed Emmelesio, grosse
terre al dir d’Amato,[168] dalle quali e da ogni altro luogo dei
dintorni i Musulmani si dileguavano e struggeansi come cera al fuoco,
stette l’esercito a campo ben otto dì nella pianura di Paternò,[169]
capitanato, continua il cronista, da Roberto e da Ibn-Thimna:[170]
ond’è chiaro che non picciola parte fossero Musulmani; e ciò ne aiuta
a comprendere i fatti. Ritraendo poi dagli esploratori d’Ibn-Thimna non
essere nè vicino nè apparecchiato Ibn-Hawwasci, l’esercito, traghettato
di nuovo il Simeto, espugnava con molta uccisione le grotte di San
Felice, s’innoltrava infino ai mulini posti sotto Castrogiovanni in
riva al Dittaino, dove piantava il campo.[171]
S’erano tra coteste fazioni raccolti intorno Castrogiovanni i
Musulmani che sgombravano dalle assaltate province, i quali aveano
ingrossato l’esercito d’Ibn-Hawwasci, sì che la tradizione normanna
lo fece sommare, tra Siciliani ed Affricani, a quindicimila cavalli
e centomila fanti; e lor attelò a fronte, per maggior ornamento della
leggenda, settecento cavalieri soli, tralasciando gli uomini d’arme, i
pedoni, e quel ch’è più, le genti d’Ibn-Thimna.[172] A capo di pochi
dì Ibn-Hawwasci veniva ad assalire i Normanni con l’esercito diviso
in tre schiere. Roberto l’aspettò ordinatosi in due, vanguardia e
battaglia; diè la prima a Ruggiero, capitanò l’altra egli stesso;
arringò tutta l’oste: Non temessero di venire alle mani con tanta
moltitudine, quando il Redentore avea detto: Se hai fede quanta n’entra
in un grano di senapa e comandi alla montagna, la si muoverà:[173]
la montagna che avean dinanzi non esser di pietra no, ma di brutture,
d’eresia, d’iniquità; soffiasservi sopra invocando lo Spirito santo e
si dissiperebbe, sendo Iddio con loro; si confessassero delle peccata,
ricevessero il corpo e il sangue di Cristo, impugnasser bene le lance
e le spade, e non dubitassero della vittoria. Compiuti i sacri riti,
rimontano a cavallo, s’alza il gonfalone, ogni guerriero fa il segno
della croce e sprona innanzi; e ributtano i nemici; li scompigliano, li
inseguono ammazzando infino ai ripari; e accalcandosi i fuggenti alle
porte, molti son fatti prigioni in su l’orlo del fosso: i vincitori
tornano addietro lasciando per tutta la campagna orrendi segni di
strage. Le cronache v’intessono loro prodigi, l’una dice non ucciso
nè ferito nella battaglia nessun cristiano, un’altra pochissimi, e dei
Musulmani caduti diecimila: le quali frasi se non fossero da romanzo,
farebbero tornare a Ibn-Thimna ed a’ suoi l’onor principale della
giornata. Il vero è che la disciplina delle bande normanne e italiane,
il coraggio, la sapienza dei capi, le forti armadure, gli animi
infiammati di religione, d’onor militare e di cupidigia, ragguagliavano
e sorpassavano l’avvantaggio del numero ch’aveano i Musulmani,
ragunaticci senza fiducia nè consiglio. La preda fu tanta che qual
cristiano avesse perduto un cavallo in battaglia ne guadagnò dieci
nel partaggio. I prigionieri fatti schiavi si contarono con l’altro
bestiame.[174]
Non essendo ormai impresa che non paresse da tentare contro così
fatti nemici, Roberto si diè a strignere la città. Il dì appresso la
vittoria si poneano i Normanni in sul lago di Pergusa a mezzogiorno
di Castrogiovanni, donde è men aspra la salita; al secondo
giorno tramutarono il campo a Calascibetta, discosta due miglia a
settentrione, dove fu diviso il bottino; indi scesero al piano detto
delle Fontane,[175] rizzaron castella da quattro parti della città per
chiudere tutti i passi; dettero il guasto alle messi ed agli alberi
fruttiferi.[176] In una delle quali scorrerie Ruggiero con trecento
giovani si spinse presso Girgenti, ardendo e depredando la campagna,
e riportonne ricchissima preda che diè a dividere a Roberto.[177]
Mentre il presidio di Castrogiovanni teneva il fermo contro ogni
offesa, veniano al campo i kâid di parecchie rocche minori con danaro
e presenti chiedendo la tregua, e Roberto l’accordava.[178] In ultimo
giunsero i messaggi di Palermo con sontuosi doni, vesti lavorate a
modo di Spagna, tele di lino, vasellame d’oro e d’argento, muli con
selle ornate d’oro e ricchi morsi; e secondo costumanza saracena,
scrive Amato, recaron anco in un sacco ottantamila tarì.[179] Ci si
narra che Roberto “con sottil trovato”[180] inviasse in Palermo, sotto
specie di render grazie del dono, un esploratore; un diacono Pietro,
che intendeva e parlava l’arabico, ma per comando del duca s’infinse
d’ignorarlo affinchè non si guardassero di lui. Il quale andato alla
capitale musulmana, l’emir tutto lieto d’essersi fatto amico Roberto,
l’accolse onorevolmente, rimandollo con presenti, e quegli avea sì ben
guardato e udito che riportò parergli la città decaduta e sbigottita,
proprio un corpo senz’anima.[181]
Il blocco di Castrogiovanni si travagliava da un mese[182] e due
n’erano scorsi dallo sbarco a Messina,[183] quando Roberto si deliberò
alla ritirata, di mezzo luglio.[184] Onde non può credersi al Malaterra
che ne fosse cagione l’inverno imminente. Poche le genti e scornate
al certo in battaglia e per malattie, raccolte le taglie e il bottino,
Castrogiovanni inespugnabile, che altro restava ai Normanni se non che
tornarsi in Terraferma, tener la via aperta a nuovo passaggio, nutrire
la discordia per mezzo d’Ibn-Thimna e ordinar le popolazioni cristiane
sì che li aiutassero almen di danari? Le popolazioni cristiane del
Valdemone mostratesi un po’ ai Normanni nel campo di Maniace, trassero
tanto più sotto Castrogiovanni ovvero nella ritirata, chiedendo al
duca liberassele dal giogo, offrendogli danari e vettovaglie, dice il
cronista, in tributo:[185] e qui par vero perchè non si può far che
Roberto negli accordi con Ibn-Thimna non abbia stipulato almeno la
cessione di una provincia. Sostò dunque a mezza via su la costiera
settentrionale; bandì mercato com’era uopo a chi volesse vendere o
barattare tanta preda di bestiame; di che molto si rallegrarono i
guerrieri e s’invogliarono a soggiornare nel luogo circondato di
popolazioni Cristiane. Quivi a tre miglia dal mare in territorio
fertile e ameno, presso le antiche rovine di Alunzio o Calacta, chè
ancor ne disputano gli eruditi,[186] Roberto fabbricò o ristorò in
sito fortissimo un castello al quale pose nome di San Marco, come la
fortezza ond’avea principiato il conquisto delle Calabrie, sperando che
il buon augurio e la protezione del santo evangelista gli portassero
pari fortuna in Sicilia. Lasciovvi presidio sotto un Guglielmo de Male;
e continuato il viaggio, fece venir la moglie in Messina,[187] rafforzò
meglio la città d’uomini e vettovaglie; indi tornossi in Puglia e
Ruggiero a Mileto in Calabria. Ibn-Thimna era ito intanto in Catania
per continuare la infestagione sopra i nemici che gli rimanevano in
Sicilia,[188] ch’è a dire gli abitatori delle odierne province di
Caltanissetta e Girgenti. Le province di Catania e Siracusa ubbidivano
a lui;[189] quella di Messina, che a gran pezza risponde al Val Demone,
stava sotto la protezione dei Normanni, i quali a bella posta avean
munito il castel di San Marco.[190] Le province di Palermo e Trapani
avean fatto l’accordo, forse un patto di federazione con l’emir di
Catania. In tali condizioni lasciava la Sicilia Roberto, capitano degli
ausiliari cristiani d’Ibn-Thimna. Vedremo per brev’ora sottentrargli
il fratello Ruggiero, e poi farsi vero capitano dei conquistatori
cristiani della Sicilia; e Roberto venir com’ausiliare in due sole
fazioni di sì lunga guerra.


CAPITOLO III.

La sconfitta d’Ibn-Hawwasci sotto Castrogiovanni portò in Palermo
un mutamento di stato analogo a quello che avea seguita, nel mille
quaranta, la rotta d’Abd-Allah-ibn-Moezz.[191] Narravaci Amato
l’ambasceria dei Palermitani, la tregua ch’egli chiama sommissione,
stipulata con Roberto dalla capitale e da altre città e castella, e
l’occupazione del Valdemone. E Ibn-el-Athîr scrive come il signore
di Castrogiovanni, vinto dai Franchi, riparasse nella fortezza; come
quelli cavalcando per l’isola s’impadronissero di varii luoghi; come
non pochi sapienti e patriotti musulmani si rifuggissero in Affrica
appo Moezz-ibn-Badîs, per chiedergli aiuti, esponendo la misera
condizione di lor popolo, straziato dalla discordia e dalle armi
straniere. Messe insieme le due tradizioni appare dunque l’usata
vicenda delle guerre civili: l’opinione pubblica dannò i vinti; i
partigiani loro nella capitale fuggirono o furono scacciati; nè è
maraviglia che l’oratore di Roberto vi trovasse tanto scompiglio e
squallore, nè che la parte dei nobili, amica d’Ibn-Thimna, mandasse
a rallegrarsi coi Normanni, forse a trattare accordo per dar tutti
insieme la pinta a Ibn-Hawwasci. Nè scarseggiano tra i Musulmani
dell’undecimo e duodecimo secolo cotesti esempi di lega coi Cristiani;
chè oltre i raccontati fatti d’Akhal e d’Ibn-Thimna stesso in Sicilia,
ne son piene le istorie della Spagna. Con men biasimo gli usciti
di Palermo si rivolgeano adesso a Moezz-ibn-Badîs, sollecitandolo a
portare le armi in Sicilia.
La dinastia zîrita, sopraffatta come dicemmo dagli Arabi d’oltre
Nilo, avea perduta la terra, non il mare; le rimaneano nella munita
penisola di Mehdia il navilio, un forte nodo di schiavi stanziali, e
denaro da reggere alla guerra: quegli Arabi medesimi, rapaci e fieri
quanto le belve, tornavano al par di esse inetti a durevole sforzo
comune, inferiori alla virtù dell’ingegno che sapesse adoperarli
agli intenti suoi. Fin dai primi impeti della irruzione, avea Moezz
guadagnati alcuni capi di tribù con doni e parentadi, sposando ad essi
le proprie figliuole; onde quei l’aiutarono alla ritirata da Kairewân
a Mehdia, nel millecinquantasette. A capo di pochi anni, distrutto
ogni industria agraria e cittadinesca nell’Affrica propria, fuorchè le
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