Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II - 17
Palermo, donde potea ricominciare la guerra.[945] Maniace ne salì in
tanta collera che venutogli tra i piè l'ammiraglio, il chiamò poltrone,
vigliacco, traditor dell'impero; gli diè in sul capo due e tre volte
d'un suo bastone. E Stefano se n'andò a comporre lettere all'eunuco
Giovanni: questo piglio di principe assoluto, questa violenza contro i
proprii parenti dell'imperatore, mostrar chiaro l'animo ribelle di
Maniace: badasseci o sel vedrebbe piombare a Costantinopoli con
l'esercito pronto a seguirlo in ogni attentato.[946]
Era già caduta Siracusa, dove par che Maniace desse opera a ristorare le
fortificazioni, il culto e gli ordini pubblici; rimanendo fin oggi il
suo nome al castello della punta estrema di Ortigia.[947] Si narra
inoltre ch'ei mandasse in un'arca d'argento a Costantinopoli il corpo di
santa Lucia, additatogli da un vecchio cristiano; disseppellito in
presenza della compagnia normanna; e trovato intero e fresco dopo
settecent'anni: come raccontava a capo d'un altro mezzo secolo qualche
veterano normanno a' monaci di Monte Cassino, o almen quei lo
scrissero.[948] Similmente nelle altre città occupate, Maniace ordinò
castella con forti presidii, per cavar la voglia ai terrazzani di
scuotere il giogo. Gli acquisti si rassodavano; poco avanzava ormai
perchè tutta l'isola tornasse all'impero e al cristianesimo. Ma repente
per segreto comando della corte, il capitano vincitore fu preso,
imbarcato per Costantinopoli, gittato in fondo d'un carcere; e commesso
di ultimare la guerra a quel medesimo Stefano ed all'eunuco Basilio
Pediadite.[949]
Mancò Maniace all'esercito nel fortunoso momento, che Ardoino e i
Normanni levarono l'insegna della ribellione in Puglia; donde il
catapano Michele Doceano fu necessitato ripassarvi con parte
dell'esercito nell'autunno del millequaranta.[950] I Musulmani di
Palermo, che non era stata mai occupata,[951] ripigliarono allora gli
assalti. Stefano e l'eunuco, inetti entrambi e ladri, nè seppero
combattere alla campagna, nè mantenere i presidii ordinati da Maniace; e
il catapano, toccate dai Normanni due sanguinose sconfitte (17 marzo e 4
maggio 1041), richiamò di Sicilia, com'ultima speranza, i Calabresi, i
Macedoni e i Pauliciani.[952] Pertanto dei presidii bizantini qual non
fu cacciato se ne andò dassè.[953] Crebbe il disordine per la mutazione
di stato e incertezza di consigli a Costantinopoli, dove, morto Michele
Paflagone (dicembre 1041), era salito al trono un altro giovinastro che
sol pensava a disfarsi di Zoe e dei ministri del predecessore: e così
Stefano e il Pediadite furono richiamati e mandato senza forze a
ristorar la guerra in Sicilia Doceano che l'avea sì infelicemente
governata in Terraferma;[954] il quale fece quel si doveva aspettare da
lui. All'entrar del millequarantadue, l'impero avea riperduto l'isola,
da Messina in fuori.
Tenea Messina un protospatario Catacalone, soprannominato
l'Arsiccio,[955] con trecento cavalli e cinquecento pedoni del tema
d'Armenia; quando venne ad osteggiarlo (1042 marzo?) una massa di
Musulmani levata popolarmente in tutta la Sicilia, condotta, a quel
ch'e' pare, da un principe kelbita, forse Simsâm.[956] L'Arsiccio si
serrò per tre dì nelle mura, senza dar segno di vita, lasciando il
nemico a predare e gavazzare all'intorno e persuadersi ch'egli avesse
paura. Al quarto dì, occorrendo una festa,[957] raguna il presidio in
chiesa; fa esortarlo dal pulpito a combattere fortemente per la fede e
l'impero; fa celebrar la messa; si comunica con tutti i suoi, ed in su
l'ora di pranzo, apponendosi che gli Infedeli stessero a mala guardia,
schiuse le porte, li assaltò. Soprappresi non poterono dar di piglio
alle armi, non che ordinarsi: Catacalone li sbaragliò, ne fe' macello,
saccheggiò l'accampamento; e tornò glorioso in città, mentre gli avanzi
degli assedianti fuggivano a precipizio verso Palermo.[958]
La quale vittoria giovò soltanto a differir di qualche anno, o di
qualche mese, chè l'appunto non si sa, la perdita di Messina e con
quella d'ogni speranza su la Sicilia. Perchè la rivoluzione dei popoli e
la compagnia di ventura ingrossata ogni dì più che l'altro di Normanni e
d'Italiani dell'Italia di sopra,[959] irresistibilmente scacciavano i
Bizantini dalla Terraferma. Maniace stesso, liberato di prigione in un
lucido intervallo della corte e rimandato in Italia (aprile 1042)
segnalossi per prudente valore in guerra, s'infamò per crudeltà efferate
contro i terrazzani, ripigliò qualche città, ma non arrivò a vincere i
Normanni. In questo, un terzo marito di Zoe lo provocò o piuttosto
sforzò a ribellarsi; tantochè fattosi gridar imperatore, passò con
l'esercito in Grecia (febbraio 1043), azzuffossi con le genti di
Costantino Monomaco, e le avea messe in rotta, quando un colpo tirato a
caso lo freddò in sul cavallo. Pochi dì appresso Costantinopoli
applaudiva ai codardi che portavano in giro, confitta a una lancia, la
testa di Maniace.[960]
CAPITOLO XI.
Ai miseri Cristiani di Sicilia parve risorgere a vita nuova quando fu
innalberata in lor cittadi e castella la insegna della croce col motto
di: “Cristo vince.” San Filareto, il quale si trovò forse a Traina la
dimane della battaglia,[961] solea narrar che rendettero grazie solenni
nelle chiese; che spezzarono i ceppi messi ai piè a lor fratelli
prigioni; che caduto il terrore di quel fier tiranno affricano,
respirarono in libertà.[962] La qual voce sappiam che significhi quando
due religioni contendon tra loro. Alla santa esultanza del riscatto si
mescolò la vendetta, l'ingiuria; nè andò guari che costrette le armi
bizantine a sgombrare di Sicilia, molti abitatori cristiani emigrarono
in Terraferma,[963] aspettandosi la pariglia dai Musulmani. Il grosso
della popolazione battezzata, com'avvien sempre per amore della patria,
necessità o tiepidezza d'animo, restò lì dov'era. E così al conquisto
normanno il Valdemone si trovò pien di Cristiani,[964] e sminuzzoli
anche se ne contavano per le valli di Noto e di Mazara, in
Siracusa,[965] Palermo,[966] Vicari,[967] Petralia,[968] ed altri
luoghi.[969] Le vicende della guerra normanna nelle quali bastarono due
anni ad occupare il Valdemone e ce ne vollero trenta a soggiogar le
altre due valli, provano similmente che nella prima regione fossero
pochi presidii musulmani nelle principali città e fortezze in mezzo a
popolazioni cristiane timide ma nemiche; e nel rimanente dell'isola, al
contrario, pochissimi Cristiani soffocati tra le turbe dei circoncisi.
Nè mutossi la condizione legale dei Cristiani; sol è da supporre
aggravati i soprusi tra il millequarantatrè e il millesessantuno;
dapprima per la vendetta dei Musulmani che tornavan su; poscia per la
divisione loro in piccoli principati, tanto più molesti e rapaci. Caduti
gli ultimi comuni tributarii tra il novecensessantadue e il
sessantacinque,[970] da indi in poi non ne abbiamo ricordi; nè possiamo
immaginare qual necessità o caso li avrebbe fatto risorgere. I Cristiani
che sottomettonsi al conte Ruggiero ed a Roberto Guiscardo nei principii
della guerra, son veri _dsimmi_[971] paganti tributo, agricoltori o
borghesi, ed i primi parte possessori e parte servi della gleba;[972] le
quali popolazioni avean di certo lor magistrati municipali, ma non
formavan corpo politico. Di schiavi cristiani posseduti da Musulmani non
abbiamo memoria, ond'e' par non siane rimaso tanto numero da farsi
sentir tra le vicende del conquisto. Forse la più parte, per migliorar
loro condizione,[973] fatti Musulmani, e chi manomesso, chi no, andavano
confusi nella società dei vincitori.
Se le schiatte antiche non si sbarbicano di leggieri, i Cristiani
dell'isola eran tuttavia mescolati Greci ed Italici. A ciò par abbian
posto mente i Normanni, nelle cui croniche le genti battezzate che
abitavano la Sicilia al principio della guerra, son chiamate dove Greci
o Greci Cristiani, e dove a dirittura Cristiani; e si distinguono i
primi con l'attributo di perfidi, come portavano le idee
occidentali.[974] Un altro barlume ci dà lo scrittor della vita di San
Filareto, notando tra i pregi della Sicilia la carnagione bianca e
vermiglia e le belle e aperte fattezze di molti abitatori, le quali non
somigliano al sembiante del greco San Filareto, e vi si potrebbe per
avventura raffigurar il tipo italiano.[975] Della medesima schiatta
sembrano i frati di San Filippo d'Argira in Sicilia i quali nella
seconda metà del decimo secolo andavano a Roma: insolito viaggio a gente
greca in quell'età.[976] Come i due linguaggi, che è a dir le due
schiatte, durarono insieme nel medio evo nelle parti della penisola
ch'aveano avuto colonie greche nell'antichità, così anche rimasero in
Sicilia; se non che la lingua greca prevalea nell'undecimo secolo.[977]
E la cagione parmi, che i Cristiani di sangue italico e punico della
Sicilia occidentale, avean rinnegato la più parte sotto la dominazione
musulmana, per essere stati più tosto domi; se pur non si lasciaron
domare più tosto per antagonismo contro il sangue greco e il dominio
bizantino. La religione loro, fors'anco la lingua, si dileguò nella
società musulmana. La religione si mantenne insieme con la lingua nella
Sicilia orientale, sede primaria delle antiche colonie greche.
Ci mancò nella prima metà del decimo secolo ogni memoria d'incivilimento
appo i cristiani di Sicilia;[978] ma nei cent'anni che seguono ne
ricomparisce qualche vestigio. Della fine del decimo secolo abbiamo
un'agiografia, scritta, com'ei sembra, da un Greco siciliano.[979] Verso
il milletrenta ci si parla di preti cristiani che insegnavan lettere ai
giovanetti a Castronovo in Val di Mazara;[980] fors'anco a Demona.[981]
Nella seconda metà dell'undecimo secolo un ricco cristiano del paese,
faccendiere dei Normanni e poi monaco, avea dato opera a raccogliere
libri e dipinture in Messina.[982] I quali indizii fan piena prova,
quando la storia politica mostra che dovea necessariamente avvenire
così. Del novecentodue passò sul Valdemone la sanguinosa falce
d'Ibrahim-ibn-Ahmed; poi su tutta l'isola la falce della fame; e sul Val
di Mazara quella di Khalîl-ibn-Ishak: ma la guerra civile dei vincitori,
fece respirare i Cristiani del Valdemone. Cioè la popolazione rurale, i
cui tugurii non avea potuto frugare Ibrahim, e qualche cittadino
spatriato che dopo la tempesta tornava ai diletti luoghi, povero e
feroce. Quei che ristorarono Taormina, quei che meritarono tanta fama a
Rametta, ebber sì le mani pronte a combattere e rabberciare lor mura; la
mente fitta a difender sè ed ammazzare i Musulmani, ma non si curavano,
credo, di dipinture, nè di libri, nè dell'alfabeto: e facean bene.
Sopraffatta alfine quella virtù dalle armi kelbite, i Cristiani s'ebbero
a contentare degli umili compensi che concede il servaggio. Assestandosi
appo i Musulmani l'azienda pubblica, repressa la rapacità delle milizie,
favoriti i commerci con la Terraferma, prosperanti le regioni
occidentali dell'isola e venuti i padroni a stanziare nella region di
levante, si rinfrancò la industria degli abitatori cristiani. Rifatti
alquanto di sostanze e di numero, risalirono a quel grado
d'incivilimento dei lor fratelli di Calabria. Chi voglia conoscere in
volto i Cristiani del Valdemone di questa età, legga in Malaterra il
racconto di quei che s'appresentavano l'anno mille sessantuno a Ruggiero
nella prima scorreria grossa a che si rischiò dentro terra. Tutti lieti
gli recavano vittuaglie e altri doni; e tosto correvano a scusarsi coi
Musulmani: averlo fatto per forza, per salvar le persone e la roba da
codesti predoni.[983] Alla quarta generazione gli eroi di Rametta eran
fatti, come or si direbbe, onesti e pacifici cittadini.
I quali in punto di religione sembrano tiepidi anzi che no. Dopo
l'impresa d'Ibrahim-ibn-Ahmed (902), si sbaragliò il clero siciliano.
Gli imperatori bizantini, egli è vero, promulgando la lista delle sedi
soggette a lor patriarca, proseguono infino al secol decimoterzo a
noverar quelle di Sicilia quali sapeansi nell'ottavo secolo, salvo
qualche errore di copia; ma dimenticano che l'isola è stata tolta allo
impero dai Musulmani ed a costoro dai Normanni; che le sedi sono state
distrutte dai primi, rifatte dai secondi a lor modo, e rese al pontefice
romano.[984] Però quei ruoli di cancellaria non attestano condizioni
contemporanee, più che nol faccian oggi i titoli di vescovi d'Eraclea,
d'Adana e altri largiti dal papa. Appunto come cotesti, sembrano vescovi
_in partibus_ quel di Catania e l'Arcivescovo di Sicilia, dei quali
abbiamo le soscrizioni in carte del decimo e dell'undecimo secolo.[985]
Al contrario par abbia esercitata, quando che fosse, la dignità
vescovile quel Leone che poi soggiornò in Calabria e venne in Sicilia
(925) da statico.[986] Esercitolla per fermo Nicodemo che i Normanni
(1072) trovarono arcivescovo in Palermo.[987] Egli è verosimile che nel
decimo secolo, rimaso in tutta la Sicilia un sol vescovo, abbia mutato e
titolo[988] e sede, ponendosi nella capitale allato alla corte degli
emiri per mantenere più efficacemente i dritti spirituali e temporali
del povero suo gregge; come il patriarca giacobita d'Alessandria e il
primate nestoriano di Seleucia s'eran tramutati, l'uno al Cairo, l'altro
a Bagdad. Palermo fatta capitale dai Musulmani, lor debbe dunque, strana
vicenda della sorte, la dignità di chiesa metropolitana; la quale non fu
conceduta da Roma, nol sembra da Costantinopoli; e niuno la sognava
innanzi il decimo secolo, ma alla metà dell'undecimo niuno la mise in
forse. È chiaro che la assunse l'eletto dei Fedeli confermato dagli
emiri: pastor d'una provincia che avea avuto sedici diocesi tra
vescovili e arcivescovili, e d'una città ch'era seconda solo a
Costantinopoli e Bagdad.
Passando al clero inferiore, basterà dir che i monasteri nei quali tutto
si racchiudea, sì fiorenti dopo san Gregorio, ormai sembrano poco men
che distrutti. Quel di San Filippo d'Argira, di regola basiliana,
scomparisce verso il novecensessanta, quando le colonie musulmane
trapassavano in Valdemone.[989] I Normanni trovano in Val di Mazara il
monastero di Santa Maria a Vicari, pregante per la vittoria dei
Cristiani, possedente un po' di servi, bestiame e terreni, ma negletto
ed oscuro.[990] Trovano molte ruine di monasteri in Valdemone,[991] e di
due soli abbiam certezza che rimanessero in piè: quel di Sant'Angelo di
Lisico, presso Brolo, i cui frati s'affrettavano a far confermar dal
conte Ruggiero la proprietà dei monti, colline, acque; terreni e mobili
che diceano aver tenuto sotto gli empii Saraceni;[992] e quel di San
Filippo in Demona, un frate del quale, vivuto fino al millecento e
cinque, affermava aver patito nel santo luogo gli oltraggi degli
Infedeli.[993] Poco o nulla s'è perduto dei documenti di tal fatta,
gelosamente custoditi e rinnovati dall'ecclesiastica prudenza: donde si
può argomentare che alla metà dell'undecimo secolo, appena rimanesse una
mezza dozzina di monasteri con frati e di che vivere.
Nè era comando di legge, nè effetto di costumanza generale dei
Musulmani, sotto il cui dominio durarono e durano tante sedi vescovili e
grossi monasteri in Egitto, in Siria, nelle regioni tra l'Eufrate e il
Tigri. Ma le ondate di Arabi che irruppero in Occidente sembran più
cupide e quelle popolazioni cristiane men tenaci nella fede e disciplina
ecclesiastica; e il monachismo, pianta esotica appo noi, non resse alle
intemperie sì come in Oriente. A coteste tre cagioni unite mi par da
apporre il subito decadimento del Cristianesimo in Sicilia, al par che
in Affrica e Spagna, direi quasi al primo tocco dell'islam. Presi i beni
ecclesiastici e sconfortato il clero, menomarono le sedi vescovili,
crebbe l'erba nei conventi; e la credenza delle popolazioni, non
riscaldata dalla voce del sacerdozio nè dalla assiduità del culto, calò
a poco a poco. Ma è mestieri pur che quella massa per propria natura mal
ritenesse il calore; poichè lo zelo dei Fedeli, chierici e laici,
avrebbe alla sua volta vivificata la gerarchia a dispetto dei governanti
e della povertà, come, per esempio, avvenne in Siria, appo i Maroniti.
Il fervore religioso non si ridestò nell'ultima lotta delle popolazioni
cristiane di Sicilia (913-964), quando la povertà e i pericoli
allettavan poco i dignitarii ecclesiastici a tornar dalla Calabria;[994]
e il popolo, venuto alle prese con la morte, chiedea miracoli troppo
biblici. Pertanto la riputazione di santità tornò tutta ai romiti
profetizzanti, clero rivoluzionario da non sbigottir tra quelle
tempeste. Tale il Prassinachio, del quale dicemmo, e gli altri di cui
non è maraviglia se ignoriamo i nomi,[995] poichè le agiografie si
scriveano nei monasteri, non per le celle dei romiti, quando pur sapeano
scrivere. Posate in Sicilia le armi e mancati i monasteri, il clero mal
si rifornì: quei che ne sentiano vocazione, passavano in Calabria dove
si parlava la stessa lingua, si trovavano spesso i concittadini; e la
dominazione greca apria largo campo alla modesta pietà, alle fantasie
riscaldate ed alle ambizioni monacali. A legger le vite dei santi di
Calabria in questo tempo, ognun vede che si pasceano, come tutta la
chiesa greca, delle leggende degli antichi padri della Tebaide e di
Siria; se non che la natura occidentale rifuggiva da quelle orrende
penitenze, dalla perpetua solitudine, dalla oziosa contemplazione che
non si diffondesse in altrui. E però i romiti si associavano tra loro;
procacciavano seguito nelle cose mondane. L'apice della virtù religiosa
era la fondazione d'uno, anzi di parecchi monasteri, di cui uom
divenisse abate in vita e santo tutelare dopo la morte. Ed a questo
aspirò e pervenne alcun rifuggito siciliano.
Correndo la prima metà del decimo secolo, nacque a Castronovo, nel bel
mezzo delle colonie musulmane e dicesi di ricchi genitori, Sergio e
Crisonica, un Vitale; il quale educato nelle lettere sacre, ma amando
poco lo studio, andò a chiudersi nel Monastero di San Filippo d'Argira.
Con altri frati passò a Roma, dice l'agiografia, senza aggiungere il
tempo nè il perchè, ai quali noi ci possiamo apporre; e sarebbe per
avventura la raccontata vicenda del novecentosessanta, quando una man di
Musulmani avesse preso a stanziare nella patria di Diodoro Siculo ed
occupato i beni di San Filippo. Fatto per via un miracoluccio a
Terracina, e da Roma tornato addietro ad un romitaggio presso
Sanseverina di Calabria, San Vitale ripassò in Sicilia, visse d'erbe
salvatiche ben dodici anni nelle solitudini dell'Etna, in faccia
dell'antico suo chiostro. Ripigliato alfine il cammin della Terraferma,
mutò stanza otto o nove fiate tra Calabria e Basilicata; s'abboccò ad
Armento con San Luca di Demona che levava grido in quelle parti; e fatto
venir di Sicilia un suo nipote per nome Elia, fondò un monastero presso
Rapolla, ove morì, come credesi, il nove marzo novecentonovantaquattro.
Dei molti prodigii che gli si appongono in vita e in morte, è da notar
quello del monastero di Sant'Adriano, dove piombati i Musulmani di
Sicilia, i frati fuggirono, fuorchè San Vitale; cui fattosi incontro un
Saraceno dispettoso del non aver trovato danari nè bestiame, e tirato a
tagliargli la testa, Vitale fe' il segno della croce; una folgore
strappò la scimitarra di mano al barbaro e lo atterrò semivivo; se non
che il Santo lo facea rinvenire. Trent'anni dopo morte, il corpo di San
Vitale fu rubato ai monaci di Rapolla da quei di Turi,[996] il cui
vescovo recosselo in città come palladio contro gli immondi Agareni di
Sicilia che tornavano a dare il guasto alla Basilicata. Di
cotest'agiografia, scritta da un Greco contemporaneo, abbiam la sola
versione latina che ne fece fare alla fin del duodecimo secolo Roberto
vescovo di Tricarico; nella quale la critica può sol rigettare i fatti
che trapassano gli ordini della natura.[997]
Lo stesso parrà della vita di San Luca da Demona, dettata da un discepol
di lui così semplicemente che i prodigii cadon dassè e spicca l'opera
d'un uom di questo mondo, sagace, affaticante, animoso, ambiziosuccio,
ma a buon fine. Si dice al solito nato di parenti nobilissimi, Giovanni
e Thedibia; entrato nel monastero di San Filippo d'Argira; passato di lì
a Reggio, per apprendere da un Elia, venerabile romito, le discipline
dei Santi Padri: ch'ei compitava appena l'ofizio, ma la pratica d'Elia e
particolare grazia del Cielo, prosegue l'agiografo, gli apriron la mente
ad ogni dottrina, fino i misteri delle sottilità filosofiche. Lesse
senza nebbia nell'avvenire che s'aspettavan di nuovo i Saraceni,
strumento della vendetta celeste su la Calabria; onde uscito di sua
spelonca si messe a predicar contro i peccatori; trascorse fino a Noja,
dove soggiornò sette anni in una basilica. Rincrescendogli poi l'aura
popolare, se ne andò su le sponde dell'Agri, a fabbricare il monastero
di San Giuliano; gli raccapezzò qualche poderetto per carità dei fedeli;
fece scomparir, non si sa come, un Landolfo possessore vicino, invidioso
della prosperità dei frati; e correndo sempre incontro alla fama, ch'ei
facea le viste di fuggire, diessi ad esorcizzare demonii, a sovvenire i
poverelli, a curare i malati con impiastri e medicine, scrive
l'agiografo, per nascondere la virtù del miracolo. Finchè, al tempo di
Niceforo imperatore, calato dalle Alpi un feroce che si messe a
depredare le città greche d'Italia,[998] San Luca e suoi frati, e tra
quelli lo scrittore, ripararono ad un castello vicino. Poi vergognando
di vivere a casa de' laici, San Luca adocchiò tra le rupi d'Armento un
sito da potersi afforzare senza fatica, e v'innalzò un altro monastero,
che fu come l'acropoli d'una colonia basiliana, di tanti chiostri minori
e romitaggi e cappelle, sparsi nella provincia, fondati la più parte da
San Luca, lavorandoci fin di sua mano; dei quali lo riconobbero abate, e
veramente fu capitano. Perchè una volta venuti i Musulmani di Sicilia a
dare il guasto, s'erano attendati alla pianura presso una cappella e
profanavanla e scorreano i dintorni, riportandone gran tratta di
prigioni incatenati. San Luca scortili dall'alto della rôcca, intona i
salmi; ritto in su la porta del chiostro fa la rassegna; arma i frati
più gagliardi, lascia i deboli in presidio: e con la croce in mano,
conduce il bruno stuolo sopra i nemici; i quali si sbaragliarono,
gittaron le armi al súbito assalto ed alla vista del Santo, che loro
apparve sul mitico destrier bianco, raggiante di luce. Ma ciò non tolga
fede alla valente fazione. Con pari animo andò girando ad assistere da
medico e padre spirituale i frati della colonia, mentre ardeavi
spaventosa moría. Venuta poi di Sicilia a visitarlo una sorella sua per
nome Caterina, madre di due altri santi Antonio e Teodoro, fondò presso
Armento un monistero di donne. Talchè salito San Luca al sommo della
fama claustrale, morì il tredici ottobre novecentonovantatrè, non pur
vecchio, s'egli è vero che lo compose nella fossa quel medesimo San Saba
stato suo superiore a San Filippo d'Argira. Del quale, nè dei due nipoti
di Luca, non si fa memoria altrove, nè si sa come abbiano meritato
l'appellazione di santi.[999]
Similmente s'illustrò in Terraferma, e ci è noto per gli scritti d'un
greco di Calabria, San Filareto, del quale accennammo nella guerra di
Maniace. Nato di schiatta greca, forse a Traina,[1000] mandato a scuola
appo un sacerdote, delibò degli studii quanto gli parve abbastanza, dice
l'agiografo: giovane frugale, mansueto, assiduo in chiesa, aiutava a
lavorare i poderetti paterni e vide la liberazione e il subito
precipizio dei Cristiani di Sicilia. Perchè passata la famigliuola a
Reggio, indi a Sinopoli, e messosi col padre agli altrui servigii in
campagna, gli stenti della vita, la lontananza dalla patria
profondamente sbigottirono quell'animo tenero e malinconico. Sperando
pace nel chiostro e non sapendo lasciare il padre e la madre, egli unico
figliuolo; dopo lunga perplessità lor si fece innanzi, si gittò
ginocchioni, svelò il proponimento; ed assentitogli, ruppe in lagrime
baciando mani e piedi ai genitori. A venticinque anni proferì i voti nel
monastero di Aulina tra Seminara e Palmi, fondato da Sant'Elia di
Castrogiovanni,[1001] del quale poi solea leggere assiduamente e
contemplare la vita; ma nè l'indole sua, nè le condizioni delle cose lo
portavano ad imitare il missionario demagogo del nono secolo.
Nell'adunanza dei frati solennemente gli furon vestite, dice
l'agiografo, le armadure simboliche, la tunica usbergo di carità, il
mantello scudo di fede, il cappuccio elmo di speranza, il cingolo freno
contro libidine; impugnò a guisa d'asta la croce: e mutato il nome di
Filippo in Filareto, dato a tutti il bacio fraterno, lo messero a
guardare gli armenti del monastero. Durissima vita a chi era avvezzo a
qualche agio ed un po' allo studio.[1002] Si sobbarcò pur lietamente; fu
specchio d'obbedienza monastica, di pietà, di buoni costumi; e non fece
miracoli mai: se non che due anni dopo morte, una luce che usciva dalla
sepoltura v'attirò i devoti, indi i malati; e cominciarono le guarigioni
miracolose. Era morto Filareto di cinquant'anni, verso il millesettanta.
Un piccino, gracile, dal volto ovale, scuro e pallido, dagli occhi
azzurri e poca barba, tardo al parlare. Così lo dipinge il monaco Nilo,
il quale in tutta l'agiografia ora ripete, or dice passar sotto silenzio
i particolari che gli avea sentito raccontare, su le cose domestiche e
pubbliche al tempo di sua gioventù. Candide tradizioni, su le quali il
compilatore incollò una rettorica nè bella nè brutta, una pietà verbosa
ma non ciarlatana, che l'una e l'altra agevolmente si staccano; e ne
rimane quel buon documento storico che ci è occorso e ci occorrerà
tuttavia di citare.[1003]
Così gli scuri sembianti d'Ippolito e Prassinachio, lo zelo claustrale
di Luca di Demona e Vitale da Castronovo, e la rassegnazione di Filareto
rispondono alle tre vicende principali della opinione pubblica appo i
Cristiani di Sicilia dal principio del decimo secolo alla metà
dell'undecimo. Delle altre agiografie di questo tempo, è spuria, a detta
degli stessi Bollandisti, quella di Santa Marina.[1004] La leggenda di
San Giovanni Therista, non regge alla critica: tanti casi da romanzo
intessuti sopra un anacronismo.[1005] Non meno maravigliose e pur son
verosimili e cavate in parte da buone autorità, le avventure di San
Simeone, che nacque a Siracusa nella seconda metà del decimo secolo, di
padre bizantino e madre calabrese, e morì a Treveri il mille
trentaquattro. Soggiornò in Sicilia infino a sette anni, quando il padre
per dovere di milizia passava a Costantinopoli, dice la leggenda; e però
sembra soldato fatto prigione nella guerra di Manuele Foca, liberato per
riscatto. Forse il parlare arabico che il fanciullo avea appreso in
Sicilia, lo spinse, fatti ch'ebbe gli studii in Costantinopoli, ad
andare a Gerusalemme: ove s'infiammò delle geste dei padri del deserto,
volle vivere or frate ora romito a Betlem, al Giordano, al Sinai, in una
grotta del Mare Rosso; la comunità del Sinai poi mandollo a riscuotere
le grosse limosine che le solea porgere Riccardo conte di Normandia.
Così venne a Rouen, dove trovando morto Riccardo (1026) e gretto il
successore, passò a Treveri; ed acconciatosi con l'arcivescovo, mostrò a
que' buoni Tedeschi esempio di penitenza orientale, chiudendosi tutto
solo nella vecchia torre di Porta Negra, ritrovo dei dimonii. Gli
assalti dei quali per tanti anni, dì e notte, respinse con sue preci; e
si comprende. Ma dopo una inondazione che disertò il paese, accorsa la
plebe co' sassi in mano chiamando a morte il frate incantatore della
torre, Simeone non se ne mosse più che dei dimonii: proseguì a recitar
l'ofizio tanto che i preti racchetarono quel furore. Dopo morte preti e
plebe a gara gli attribuirono miracoli. Di certo col dir ch'ei facea
delle calamità di Terrasanta, e con quel suo strano tenor di vita in
Normandia e in Germania, Simeone da Siracusa fu un dei mille mantici
della Crociata.[1006]
Dal detto fin qui si vede che il Cristianesimo si ristrinse e rattiepidì
in Sicilia sotto la dominazione musulmana; ma non ne venne a mancare
giammai[1007] la credenza nè il culto palese. L'attesta un autore arabo
dell'undecimo secolo, con dir preciso che “s'eran fatti musulmani la più
parte degli abitatori.”[1008] Che se Urbano secondo, nella bolla del
millenovantatrè, lamentava la religione spenta nell'isola per tre
tanta collera che venutogli tra i piè l'ammiraglio, il chiamò poltrone,
vigliacco, traditor dell'impero; gli diè in sul capo due e tre volte
d'un suo bastone. E Stefano se n'andò a comporre lettere all'eunuco
Giovanni: questo piglio di principe assoluto, questa violenza contro i
proprii parenti dell'imperatore, mostrar chiaro l'animo ribelle di
Maniace: badasseci o sel vedrebbe piombare a Costantinopoli con
l'esercito pronto a seguirlo in ogni attentato.[946]
Era già caduta Siracusa, dove par che Maniace desse opera a ristorare le
fortificazioni, il culto e gli ordini pubblici; rimanendo fin oggi il
suo nome al castello della punta estrema di Ortigia.[947] Si narra
inoltre ch'ei mandasse in un'arca d'argento a Costantinopoli il corpo di
santa Lucia, additatogli da un vecchio cristiano; disseppellito in
presenza della compagnia normanna; e trovato intero e fresco dopo
settecent'anni: come raccontava a capo d'un altro mezzo secolo qualche
veterano normanno a' monaci di Monte Cassino, o almen quei lo
scrissero.[948] Similmente nelle altre città occupate, Maniace ordinò
castella con forti presidii, per cavar la voglia ai terrazzani di
scuotere il giogo. Gli acquisti si rassodavano; poco avanzava ormai
perchè tutta l'isola tornasse all'impero e al cristianesimo. Ma repente
per segreto comando della corte, il capitano vincitore fu preso,
imbarcato per Costantinopoli, gittato in fondo d'un carcere; e commesso
di ultimare la guerra a quel medesimo Stefano ed all'eunuco Basilio
Pediadite.[949]
Mancò Maniace all'esercito nel fortunoso momento, che Ardoino e i
Normanni levarono l'insegna della ribellione in Puglia; donde il
catapano Michele Doceano fu necessitato ripassarvi con parte
dell'esercito nell'autunno del millequaranta.[950] I Musulmani di
Palermo, che non era stata mai occupata,[951] ripigliarono allora gli
assalti. Stefano e l'eunuco, inetti entrambi e ladri, nè seppero
combattere alla campagna, nè mantenere i presidii ordinati da Maniace; e
il catapano, toccate dai Normanni due sanguinose sconfitte (17 marzo e 4
maggio 1041), richiamò di Sicilia, com'ultima speranza, i Calabresi, i
Macedoni e i Pauliciani.[952] Pertanto dei presidii bizantini qual non
fu cacciato se ne andò dassè.[953] Crebbe il disordine per la mutazione
di stato e incertezza di consigli a Costantinopoli, dove, morto Michele
Paflagone (dicembre 1041), era salito al trono un altro giovinastro che
sol pensava a disfarsi di Zoe e dei ministri del predecessore: e così
Stefano e il Pediadite furono richiamati e mandato senza forze a
ristorar la guerra in Sicilia Doceano che l'avea sì infelicemente
governata in Terraferma;[954] il quale fece quel si doveva aspettare da
lui. All'entrar del millequarantadue, l'impero avea riperduto l'isola,
da Messina in fuori.
Tenea Messina un protospatario Catacalone, soprannominato
l'Arsiccio,[955] con trecento cavalli e cinquecento pedoni del tema
d'Armenia; quando venne ad osteggiarlo (1042 marzo?) una massa di
Musulmani levata popolarmente in tutta la Sicilia, condotta, a quel
ch'e' pare, da un principe kelbita, forse Simsâm.[956] L'Arsiccio si
serrò per tre dì nelle mura, senza dar segno di vita, lasciando il
nemico a predare e gavazzare all'intorno e persuadersi ch'egli avesse
paura. Al quarto dì, occorrendo una festa,[957] raguna il presidio in
chiesa; fa esortarlo dal pulpito a combattere fortemente per la fede e
l'impero; fa celebrar la messa; si comunica con tutti i suoi, ed in su
l'ora di pranzo, apponendosi che gli Infedeli stessero a mala guardia,
schiuse le porte, li assaltò. Soprappresi non poterono dar di piglio
alle armi, non che ordinarsi: Catacalone li sbaragliò, ne fe' macello,
saccheggiò l'accampamento; e tornò glorioso in città, mentre gli avanzi
degli assedianti fuggivano a precipizio verso Palermo.[958]
La quale vittoria giovò soltanto a differir di qualche anno, o di
qualche mese, chè l'appunto non si sa, la perdita di Messina e con
quella d'ogni speranza su la Sicilia. Perchè la rivoluzione dei popoli e
la compagnia di ventura ingrossata ogni dì più che l'altro di Normanni e
d'Italiani dell'Italia di sopra,[959] irresistibilmente scacciavano i
Bizantini dalla Terraferma. Maniace stesso, liberato di prigione in un
lucido intervallo della corte e rimandato in Italia (aprile 1042)
segnalossi per prudente valore in guerra, s'infamò per crudeltà efferate
contro i terrazzani, ripigliò qualche città, ma non arrivò a vincere i
Normanni. In questo, un terzo marito di Zoe lo provocò o piuttosto
sforzò a ribellarsi; tantochè fattosi gridar imperatore, passò con
l'esercito in Grecia (febbraio 1043), azzuffossi con le genti di
Costantino Monomaco, e le avea messe in rotta, quando un colpo tirato a
caso lo freddò in sul cavallo. Pochi dì appresso Costantinopoli
applaudiva ai codardi che portavano in giro, confitta a una lancia, la
testa di Maniace.[960]
CAPITOLO XI.
Ai miseri Cristiani di Sicilia parve risorgere a vita nuova quando fu
innalberata in lor cittadi e castella la insegna della croce col motto
di: “Cristo vince.” San Filareto, il quale si trovò forse a Traina la
dimane della battaglia,[961] solea narrar che rendettero grazie solenni
nelle chiese; che spezzarono i ceppi messi ai piè a lor fratelli
prigioni; che caduto il terrore di quel fier tiranno affricano,
respirarono in libertà.[962] La qual voce sappiam che significhi quando
due religioni contendon tra loro. Alla santa esultanza del riscatto si
mescolò la vendetta, l'ingiuria; nè andò guari che costrette le armi
bizantine a sgombrare di Sicilia, molti abitatori cristiani emigrarono
in Terraferma,[963] aspettandosi la pariglia dai Musulmani. Il grosso
della popolazione battezzata, com'avvien sempre per amore della patria,
necessità o tiepidezza d'animo, restò lì dov'era. E così al conquisto
normanno il Valdemone si trovò pien di Cristiani,[964] e sminuzzoli
anche se ne contavano per le valli di Noto e di Mazara, in
Siracusa,[965] Palermo,[966] Vicari,[967] Petralia,[968] ed altri
luoghi.[969] Le vicende della guerra normanna nelle quali bastarono due
anni ad occupare il Valdemone e ce ne vollero trenta a soggiogar le
altre due valli, provano similmente che nella prima regione fossero
pochi presidii musulmani nelle principali città e fortezze in mezzo a
popolazioni cristiane timide ma nemiche; e nel rimanente dell'isola, al
contrario, pochissimi Cristiani soffocati tra le turbe dei circoncisi.
Nè mutossi la condizione legale dei Cristiani; sol è da supporre
aggravati i soprusi tra il millequarantatrè e il millesessantuno;
dapprima per la vendetta dei Musulmani che tornavan su; poscia per la
divisione loro in piccoli principati, tanto più molesti e rapaci. Caduti
gli ultimi comuni tributarii tra il novecensessantadue e il
sessantacinque,[970] da indi in poi non ne abbiamo ricordi; nè possiamo
immaginare qual necessità o caso li avrebbe fatto risorgere. I Cristiani
che sottomettonsi al conte Ruggiero ed a Roberto Guiscardo nei principii
della guerra, son veri _dsimmi_[971] paganti tributo, agricoltori o
borghesi, ed i primi parte possessori e parte servi della gleba;[972] le
quali popolazioni avean di certo lor magistrati municipali, ma non
formavan corpo politico. Di schiavi cristiani posseduti da Musulmani non
abbiamo memoria, ond'e' par non siane rimaso tanto numero da farsi
sentir tra le vicende del conquisto. Forse la più parte, per migliorar
loro condizione,[973] fatti Musulmani, e chi manomesso, chi no, andavano
confusi nella società dei vincitori.
Se le schiatte antiche non si sbarbicano di leggieri, i Cristiani
dell'isola eran tuttavia mescolati Greci ed Italici. A ciò par abbian
posto mente i Normanni, nelle cui croniche le genti battezzate che
abitavano la Sicilia al principio della guerra, son chiamate dove Greci
o Greci Cristiani, e dove a dirittura Cristiani; e si distinguono i
primi con l'attributo di perfidi, come portavano le idee
occidentali.[974] Un altro barlume ci dà lo scrittor della vita di San
Filareto, notando tra i pregi della Sicilia la carnagione bianca e
vermiglia e le belle e aperte fattezze di molti abitatori, le quali non
somigliano al sembiante del greco San Filareto, e vi si potrebbe per
avventura raffigurar il tipo italiano.[975] Della medesima schiatta
sembrano i frati di San Filippo d'Argira in Sicilia i quali nella
seconda metà del decimo secolo andavano a Roma: insolito viaggio a gente
greca in quell'età.[976] Come i due linguaggi, che è a dir le due
schiatte, durarono insieme nel medio evo nelle parti della penisola
ch'aveano avuto colonie greche nell'antichità, così anche rimasero in
Sicilia; se non che la lingua greca prevalea nell'undecimo secolo.[977]
E la cagione parmi, che i Cristiani di sangue italico e punico della
Sicilia occidentale, avean rinnegato la più parte sotto la dominazione
musulmana, per essere stati più tosto domi; se pur non si lasciaron
domare più tosto per antagonismo contro il sangue greco e il dominio
bizantino. La religione loro, fors'anco la lingua, si dileguò nella
società musulmana. La religione si mantenne insieme con la lingua nella
Sicilia orientale, sede primaria delle antiche colonie greche.
Ci mancò nella prima metà del decimo secolo ogni memoria d'incivilimento
appo i cristiani di Sicilia;[978] ma nei cent'anni che seguono ne
ricomparisce qualche vestigio. Della fine del decimo secolo abbiamo
un'agiografia, scritta, com'ei sembra, da un Greco siciliano.[979] Verso
il milletrenta ci si parla di preti cristiani che insegnavan lettere ai
giovanetti a Castronovo in Val di Mazara;[980] fors'anco a Demona.[981]
Nella seconda metà dell'undecimo secolo un ricco cristiano del paese,
faccendiere dei Normanni e poi monaco, avea dato opera a raccogliere
libri e dipinture in Messina.[982] I quali indizii fan piena prova,
quando la storia politica mostra che dovea necessariamente avvenire
così. Del novecentodue passò sul Valdemone la sanguinosa falce
d'Ibrahim-ibn-Ahmed; poi su tutta l'isola la falce della fame; e sul Val
di Mazara quella di Khalîl-ibn-Ishak: ma la guerra civile dei vincitori,
fece respirare i Cristiani del Valdemone. Cioè la popolazione rurale, i
cui tugurii non avea potuto frugare Ibrahim, e qualche cittadino
spatriato che dopo la tempesta tornava ai diletti luoghi, povero e
feroce. Quei che ristorarono Taormina, quei che meritarono tanta fama a
Rametta, ebber sì le mani pronte a combattere e rabberciare lor mura; la
mente fitta a difender sè ed ammazzare i Musulmani, ma non si curavano,
credo, di dipinture, nè di libri, nè dell'alfabeto: e facean bene.
Sopraffatta alfine quella virtù dalle armi kelbite, i Cristiani s'ebbero
a contentare degli umili compensi che concede il servaggio. Assestandosi
appo i Musulmani l'azienda pubblica, repressa la rapacità delle milizie,
favoriti i commerci con la Terraferma, prosperanti le regioni
occidentali dell'isola e venuti i padroni a stanziare nella region di
levante, si rinfrancò la industria degli abitatori cristiani. Rifatti
alquanto di sostanze e di numero, risalirono a quel grado
d'incivilimento dei lor fratelli di Calabria. Chi voglia conoscere in
volto i Cristiani del Valdemone di questa età, legga in Malaterra il
racconto di quei che s'appresentavano l'anno mille sessantuno a Ruggiero
nella prima scorreria grossa a che si rischiò dentro terra. Tutti lieti
gli recavano vittuaglie e altri doni; e tosto correvano a scusarsi coi
Musulmani: averlo fatto per forza, per salvar le persone e la roba da
codesti predoni.[983] Alla quarta generazione gli eroi di Rametta eran
fatti, come or si direbbe, onesti e pacifici cittadini.
I quali in punto di religione sembrano tiepidi anzi che no. Dopo
l'impresa d'Ibrahim-ibn-Ahmed (902), si sbaragliò il clero siciliano.
Gli imperatori bizantini, egli è vero, promulgando la lista delle sedi
soggette a lor patriarca, proseguono infino al secol decimoterzo a
noverar quelle di Sicilia quali sapeansi nell'ottavo secolo, salvo
qualche errore di copia; ma dimenticano che l'isola è stata tolta allo
impero dai Musulmani ed a costoro dai Normanni; che le sedi sono state
distrutte dai primi, rifatte dai secondi a lor modo, e rese al pontefice
romano.[984] Però quei ruoli di cancellaria non attestano condizioni
contemporanee, più che nol faccian oggi i titoli di vescovi d'Eraclea,
d'Adana e altri largiti dal papa. Appunto come cotesti, sembrano vescovi
_in partibus_ quel di Catania e l'Arcivescovo di Sicilia, dei quali
abbiamo le soscrizioni in carte del decimo e dell'undecimo secolo.[985]
Al contrario par abbia esercitata, quando che fosse, la dignità
vescovile quel Leone che poi soggiornò in Calabria e venne in Sicilia
(925) da statico.[986] Esercitolla per fermo Nicodemo che i Normanni
(1072) trovarono arcivescovo in Palermo.[987] Egli è verosimile che nel
decimo secolo, rimaso in tutta la Sicilia un sol vescovo, abbia mutato e
titolo[988] e sede, ponendosi nella capitale allato alla corte degli
emiri per mantenere più efficacemente i dritti spirituali e temporali
del povero suo gregge; come il patriarca giacobita d'Alessandria e il
primate nestoriano di Seleucia s'eran tramutati, l'uno al Cairo, l'altro
a Bagdad. Palermo fatta capitale dai Musulmani, lor debbe dunque, strana
vicenda della sorte, la dignità di chiesa metropolitana; la quale non fu
conceduta da Roma, nol sembra da Costantinopoli; e niuno la sognava
innanzi il decimo secolo, ma alla metà dell'undecimo niuno la mise in
forse. È chiaro che la assunse l'eletto dei Fedeli confermato dagli
emiri: pastor d'una provincia che avea avuto sedici diocesi tra
vescovili e arcivescovili, e d'una città ch'era seconda solo a
Costantinopoli e Bagdad.
Passando al clero inferiore, basterà dir che i monasteri nei quali tutto
si racchiudea, sì fiorenti dopo san Gregorio, ormai sembrano poco men
che distrutti. Quel di San Filippo d'Argira, di regola basiliana,
scomparisce verso il novecensessanta, quando le colonie musulmane
trapassavano in Valdemone.[989] I Normanni trovano in Val di Mazara il
monastero di Santa Maria a Vicari, pregante per la vittoria dei
Cristiani, possedente un po' di servi, bestiame e terreni, ma negletto
ed oscuro.[990] Trovano molte ruine di monasteri in Valdemone,[991] e di
due soli abbiam certezza che rimanessero in piè: quel di Sant'Angelo di
Lisico, presso Brolo, i cui frati s'affrettavano a far confermar dal
conte Ruggiero la proprietà dei monti, colline, acque; terreni e mobili
che diceano aver tenuto sotto gli empii Saraceni;[992] e quel di San
Filippo in Demona, un frate del quale, vivuto fino al millecento e
cinque, affermava aver patito nel santo luogo gli oltraggi degli
Infedeli.[993] Poco o nulla s'è perduto dei documenti di tal fatta,
gelosamente custoditi e rinnovati dall'ecclesiastica prudenza: donde si
può argomentare che alla metà dell'undecimo secolo, appena rimanesse una
mezza dozzina di monasteri con frati e di che vivere.
Nè era comando di legge, nè effetto di costumanza generale dei
Musulmani, sotto il cui dominio durarono e durano tante sedi vescovili e
grossi monasteri in Egitto, in Siria, nelle regioni tra l'Eufrate e il
Tigri. Ma le ondate di Arabi che irruppero in Occidente sembran più
cupide e quelle popolazioni cristiane men tenaci nella fede e disciplina
ecclesiastica; e il monachismo, pianta esotica appo noi, non resse alle
intemperie sì come in Oriente. A coteste tre cagioni unite mi par da
apporre il subito decadimento del Cristianesimo in Sicilia, al par che
in Affrica e Spagna, direi quasi al primo tocco dell'islam. Presi i beni
ecclesiastici e sconfortato il clero, menomarono le sedi vescovili,
crebbe l'erba nei conventi; e la credenza delle popolazioni, non
riscaldata dalla voce del sacerdozio nè dalla assiduità del culto, calò
a poco a poco. Ma è mestieri pur che quella massa per propria natura mal
ritenesse il calore; poichè lo zelo dei Fedeli, chierici e laici,
avrebbe alla sua volta vivificata la gerarchia a dispetto dei governanti
e della povertà, come, per esempio, avvenne in Siria, appo i Maroniti.
Il fervore religioso non si ridestò nell'ultima lotta delle popolazioni
cristiane di Sicilia (913-964), quando la povertà e i pericoli
allettavan poco i dignitarii ecclesiastici a tornar dalla Calabria;[994]
e il popolo, venuto alle prese con la morte, chiedea miracoli troppo
biblici. Pertanto la riputazione di santità tornò tutta ai romiti
profetizzanti, clero rivoluzionario da non sbigottir tra quelle
tempeste. Tale il Prassinachio, del quale dicemmo, e gli altri di cui
non è maraviglia se ignoriamo i nomi,[995] poichè le agiografie si
scriveano nei monasteri, non per le celle dei romiti, quando pur sapeano
scrivere. Posate in Sicilia le armi e mancati i monasteri, il clero mal
si rifornì: quei che ne sentiano vocazione, passavano in Calabria dove
si parlava la stessa lingua, si trovavano spesso i concittadini; e la
dominazione greca apria largo campo alla modesta pietà, alle fantasie
riscaldate ed alle ambizioni monacali. A legger le vite dei santi di
Calabria in questo tempo, ognun vede che si pasceano, come tutta la
chiesa greca, delle leggende degli antichi padri della Tebaide e di
Siria; se non che la natura occidentale rifuggiva da quelle orrende
penitenze, dalla perpetua solitudine, dalla oziosa contemplazione che
non si diffondesse in altrui. E però i romiti si associavano tra loro;
procacciavano seguito nelle cose mondane. L'apice della virtù religiosa
era la fondazione d'uno, anzi di parecchi monasteri, di cui uom
divenisse abate in vita e santo tutelare dopo la morte. Ed a questo
aspirò e pervenne alcun rifuggito siciliano.
Correndo la prima metà del decimo secolo, nacque a Castronovo, nel bel
mezzo delle colonie musulmane e dicesi di ricchi genitori, Sergio e
Crisonica, un Vitale; il quale educato nelle lettere sacre, ma amando
poco lo studio, andò a chiudersi nel Monastero di San Filippo d'Argira.
Con altri frati passò a Roma, dice l'agiografia, senza aggiungere il
tempo nè il perchè, ai quali noi ci possiamo apporre; e sarebbe per
avventura la raccontata vicenda del novecentosessanta, quando una man di
Musulmani avesse preso a stanziare nella patria di Diodoro Siculo ed
occupato i beni di San Filippo. Fatto per via un miracoluccio a
Terracina, e da Roma tornato addietro ad un romitaggio presso
Sanseverina di Calabria, San Vitale ripassò in Sicilia, visse d'erbe
salvatiche ben dodici anni nelle solitudini dell'Etna, in faccia
dell'antico suo chiostro. Ripigliato alfine il cammin della Terraferma,
mutò stanza otto o nove fiate tra Calabria e Basilicata; s'abboccò ad
Armento con San Luca di Demona che levava grido in quelle parti; e fatto
venir di Sicilia un suo nipote per nome Elia, fondò un monastero presso
Rapolla, ove morì, come credesi, il nove marzo novecentonovantaquattro.
Dei molti prodigii che gli si appongono in vita e in morte, è da notar
quello del monastero di Sant'Adriano, dove piombati i Musulmani di
Sicilia, i frati fuggirono, fuorchè San Vitale; cui fattosi incontro un
Saraceno dispettoso del non aver trovato danari nè bestiame, e tirato a
tagliargli la testa, Vitale fe' il segno della croce; una folgore
strappò la scimitarra di mano al barbaro e lo atterrò semivivo; se non
che il Santo lo facea rinvenire. Trent'anni dopo morte, il corpo di San
Vitale fu rubato ai monaci di Rapolla da quei di Turi,[996] il cui
vescovo recosselo in città come palladio contro gli immondi Agareni di
Sicilia che tornavano a dare il guasto alla Basilicata. Di
cotest'agiografia, scritta da un Greco contemporaneo, abbiam la sola
versione latina che ne fece fare alla fin del duodecimo secolo Roberto
vescovo di Tricarico; nella quale la critica può sol rigettare i fatti
che trapassano gli ordini della natura.[997]
Lo stesso parrà della vita di San Luca da Demona, dettata da un discepol
di lui così semplicemente che i prodigii cadon dassè e spicca l'opera
d'un uom di questo mondo, sagace, affaticante, animoso, ambiziosuccio,
ma a buon fine. Si dice al solito nato di parenti nobilissimi, Giovanni
e Thedibia; entrato nel monastero di San Filippo d'Argira; passato di lì
a Reggio, per apprendere da un Elia, venerabile romito, le discipline
dei Santi Padri: ch'ei compitava appena l'ofizio, ma la pratica d'Elia e
particolare grazia del Cielo, prosegue l'agiografo, gli apriron la mente
ad ogni dottrina, fino i misteri delle sottilità filosofiche. Lesse
senza nebbia nell'avvenire che s'aspettavan di nuovo i Saraceni,
strumento della vendetta celeste su la Calabria; onde uscito di sua
spelonca si messe a predicar contro i peccatori; trascorse fino a Noja,
dove soggiornò sette anni in una basilica. Rincrescendogli poi l'aura
popolare, se ne andò su le sponde dell'Agri, a fabbricare il monastero
di San Giuliano; gli raccapezzò qualche poderetto per carità dei fedeli;
fece scomparir, non si sa come, un Landolfo possessore vicino, invidioso
della prosperità dei frati; e correndo sempre incontro alla fama, ch'ei
facea le viste di fuggire, diessi ad esorcizzare demonii, a sovvenire i
poverelli, a curare i malati con impiastri e medicine, scrive
l'agiografo, per nascondere la virtù del miracolo. Finchè, al tempo di
Niceforo imperatore, calato dalle Alpi un feroce che si messe a
depredare le città greche d'Italia,[998] San Luca e suoi frati, e tra
quelli lo scrittore, ripararono ad un castello vicino. Poi vergognando
di vivere a casa de' laici, San Luca adocchiò tra le rupi d'Armento un
sito da potersi afforzare senza fatica, e v'innalzò un altro monastero,
che fu come l'acropoli d'una colonia basiliana, di tanti chiostri minori
e romitaggi e cappelle, sparsi nella provincia, fondati la più parte da
San Luca, lavorandoci fin di sua mano; dei quali lo riconobbero abate, e
veramente fu capitano. Perchè una volta venuti i Musulmani di Sicilia a
dare il guasto, s'erano attendati alla pianura presso una cappella e
profanavanla e scorreano i dintorni, riportandone gran tratta di
prigioni incatenati. San Luca scortili dall'alto della rôcca, intona i
salmi; ritto in su la porta del chiostro fa la rassegna; arma i frati
più gagliardi, lascia i deboli in presidio: e con la croce in mano,
conduce il bruno stuolo sopra i nemici; i quali si sbaragliarono,
gittaron le armi al súbito assalto ed alla vista del Santo, che loro
apparve sul mitico destrier bianco, raggiante di luce. Ma ciò non tolga
fede alla valente fazione. Con pari animo andò girando ad assistere da
medico e padre spirituale i frati della colonia, mentre ardeavi
spaventosa moría. Venuta poi di Sicilia a visitarlo una sorella sua per
nome Caterina, madre di due altri santi Antonio e Teodoro, fondò presso
Armento un monistero di donne. Talchè salito San Luca al sommo della
fama claustrale, morì il tredici ottobre novecentonovantatrè, non pur
vecchio, s'egli è vero che lo compose nella fossa quel medesimo San Saba
stato suo superiore a San Filippo d'Argira. Del quale, nè dei due nipoti
di Luca, non si fa memoria altrove, nè si sa come abbiano meritato
l'appellazione di santi.[999]
Similmente s'illustrò in Terraferma, e ci è noto per gli scritti d'un
greco di Calabria, San Filareto, del quale accennammo nella guerra di
Maniace. Nato di schiatta greca, forse a Traina,[1000] mandato a scuola
appo un sacerdote, delibò degli studii quanto gli parve abbastanza, dice
l'agiografo: giovane frugale, mansueto, assiduo in chiesa, aiutava a
lavorare i poderetti paterni e vide la liberazione e il subito
precipizio dei Cristiani di Sicilia. Perchè passata la famigliuola a
Reggio, indi a Sinopoli, e messosi col padre agli altrui servigii in
campagna, gli stenti della vita, la lontananza dalla patria
profondamente sbigottirono quell'animo tenero e malinconico. Sperando
pace nel chiostro e non sapendo lasciare il padre e la madre, egli unico
figliuolo; dopo lunga perplessità lor si fece innanzi, si gittò
ginocchioni, svelò il proponimento; ed assentitogli, ruppe in lagrime
baciando mani e piedi ai genitori. A venticinque anni proferì i voti nel
monastero di Aulina tra Seminara e Palmi, fondato da Sant'Elia di
Castrogiovanni,[1001] del quale poi solea leggere assiduamente e
contemplare la vita; ma nè l'indole sua, nè le condizioni delle cose lo
portavano ad imitare il missionario demagogo del nono secolo.
Nell'adunanza dei frati solennemente gli furon vestite, dice
l'agiografo, le armadure simboliche, la tunica usbergo di carità, il
mantello scudo di fede, il cappuccio elmo di speranza, il cingolo freno
contro libidine; impugnò a guisa d'asta la croce: e mutato il nome di
Filippo in Filareto, dato a tutti il bacio fraterno, lo messero a
guardare gli armenti del monastero. Durissima vita a chi era avvezzo a
qualche agio ed un po' allo studio.[1002] Si sobbarcò pur lietamente; fu
specchio d'obbedienza monastica, di pietà, di buoni costumi; e non fece
miracoli mai: se non che due anni dopo morte, una luce che usciva dalla
sepoltura v'attirò i devoti, indi i malati; e cominciarono le guarigioni
miracolose. Era morto Filareto di cinquant'anni, verso il millesettanta.
Un piccino, gracile, dal volto ovale, scuro e pallido, dagli occhi
azzurri e poca barba, tardo al parlare. Così lo dipinge il monaco Nilo,
il quale in tutta l'agiografia ora ripete, or dice passar sotto silenzio
i particolari che gli avea sentito raccontare, su le cose domestiche e
pubbliche al tempo di sua gioventù. Candide tradizioni, su le quali il
compilatore incollò una rettorica nè bella nè brutta, una pietà verbosa
ma non ciarlatana, che l'una e l'altra agevolmente si staccano; e ne
rimane quel buon documento storico che ci è occorso e ci occorrerà
tuttavia di citare.[1003]
Così gli scuri sembianti d'Ippolito e Prassinachio, lo zelo claustrale
di Luca di Demona e Vitale da Castronovo, e la rassegnazione di Filareto
rispondono alle tre vicende principali della opinione pubblica appo i
Cristiani di Sicilia dal principio del decimo secolo alla metà
dell'undecimo. Delle altre agiografie di questo tempo, è spuria, a detta
degli stessi Bollandisti, quella di Santa Marina.[1004] La leggenda di
San Giovanni Therista, non regge alla critica: tanti casi da romanzo
intessuti sopra un anacronismo.[1005] Non meno maravigliose e pur son
verosimili e cavate in parte da buone autorità, le avventure di San
Simeone, che nacque a Siracusa nella seconda metà del decimo secolo, di
padre bizantino e madre calabrese, e morì a Treveri il mille
trentaquattro. Soggiornò in Sicilia infino a sette anni, quando il padre
per dovere di milizia passava a Costantinopoli, dice la leggenda; e però
sembra soldato fatto prigione nella guerra di Manuele Foca, liberato per
riscatto. Forse il parlare arabico che il fanciullo avea appreso in
Sicilia, lo spinse, fatti ch'ebbe gli studii in Costantinopoli, ad
andare a Gerusalemme: ove s'infiammò delle geste dei padri del deserto,
volle vivere or frate ora romito a Betlem, al Giordano, al Sinai, in una
grotta del Mare Rosso; la comunità del Sinai poi mandollo a riscuotere
le grosse limosine che le solea porgere Riccardo conte di Normandia.
Così venne a Rouen, dove trovando morto Riccardo (1026) e gretto il
successore, passò a Treveri; ed acconciatosi con l'arcivescovo, mostrò a
que' buoni Tedeschi esempio di penitenza orientale, chiudendosi tutto
solo nella vecchia torre di Porta Negra, ritrovo dei dimonii. Gli
assalti dei quali per tanti anni, dì e notte, respinse con sue preci; e
si comprende. Ma dopo una inondazione che disertò il paese, accorsa la
plebe co' sassi in mano chiamando a morte il frate incantatore della
torre, Simeone non se ne mosse più che dei dimonii: proseguì a recitar
l'ofizio tanto che i preti racchetarono quel furore. Dopo morte preti e
plebe a gara gli attribuirono miracoli. Di certo col dir ch'ei facea
delle calamità di Terrasanta, e con quel suo strano tenor di vita in
Normandia e in Germania, Simeone da Siracusa fu un dei mille mantici
della Crociata.[1006]
Dal detto fin qui si vede che il Cristianesimo si ristrinse e rattiepidì
in Sicilia sotto la dominazione musulmana; ma non ne venne a mancare
giammai[1007] la credenza nè il culto palese. L'attesta un autore arabo
dell'undecimo secolo, con dir preciso che “s'eran fatti musulmani la più
parte degli abitatori.”[1008] Che se Urbano secondo, nella bolla del
millenovantatrè, lamentava la religione spenta nell'isola per tre
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