Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II - 14
d'un'altra la presero: ma forse s'appongono entrambe al vero, se finì
con pagare la taglia.[726] Sparso molto sangue, fatto gran bottino e
copia di prigioni, l'emiro e il fratello tornavano in Sicilia.[727]
Dove Abu-l-Kâsem, non dimenticato l'assalto di Messina, ristorava la
forte rôcca di Rametta, l'anno trecensessantasei (29 agosto 976, 17
agosto 977), e vi ponea presidio capitanato da un suo schiavo
negro.[728] Ripassò poscia in Terraferma, investì Sant'Agata, quella
forse che s'addimanda di Reggio; tantochè i cittadini ne uscirono per
accordo, consegnatagli la rôcca e quanta roba v'era.[729] Così
Ibn-el-Athîr: un altro cronista arabico dice sbarcato Abu-l-Kâsem alle
“Torri” (_Abrâgia_), dove messosi l'esercito a rapire pecore e buoi e
traendosene dietro una infinità che impediva il cammino, il capitano li
fece sgozzar tutti in un luogo, al quale indi rimase infino ai dì del
cronista il nome di _Monakh-el-bakar_ o diremmo noi la “Posata del
bestiame.”[730] Appressandosi i Musulmani a Taranto, i cittadini
sguisciaron via, chiuse le porte in atteggiamento di difesa, per
intrattenere il nemico: e questi saliva le mura, credendo dar battaglia;
se non che, accortosi della burla, pose fuoco alla città e distrussene a
suo potere. Giunse Abu-l-Kâsem ad Otranto; corse altre città delle quali
non ci si dicono i nomi;[731] ma sappiam che Oria in Terra d'Otranto e
Bovino in Capitanata, furon arse entrambe, e il popol minuto d'Oria
condotto prigione in Sicilia.[732] Assalita per ultimo una città che mi
par da leggere Gallipoli,[733] e presone la taglia, l'esercito si
riduceva in Sicilia, con torme di prigioni, salmerie di ricche spoglie,
e vanto, che parea gloria, d'aver dato il guasto a sì vasto tratto di
paese che fa in oggi mezzo il reame di Napoli.[734] I cronisti noverano
due altre imprese d'Abu-l-Kâsem in Terraferma tra il settantotto e
l'ottantuno, senza narrarne i particolari.[735]
Inaspettatamente qui viene un'agiografia greca ad attestare il gentil
animo dell'emir di Sicilia. Ma principieremo da più alto, poichè i
costumi del popolo assalito, e un po' anco degli assalitori, per tutto
il decimo secolo son come l'ordito di cotesto scritto, con trama sì
discreta di soprannaturale, da non far impedimento alla vista. Diciamo
della Vita di San Nilo da Rossano, dettata da un compagno e discepol suo
alla fine del decimo a principio dell'undecimo secolo. Nacque San Nilo
verso il novecentotrè; morì verso il novantotto. Studiò i santi padri,
cioè Antonio Saba, e Ilarione, scrive il discepolo; quantunque non gli
mancassero libri nè ingegno da apprendere negromanzia, se l'avesse
voluto.[736] Una febbre lo fe' pensare alla morte, giovane di
trent'anni; perilchè abbandonati i beni ed una figliuola naturale
ch'avea, si tonsurò nel monastero di San Mercurio e corse a cercare
asilo in quel di San Nazario,[737] dove non arrivassero le branche del
governatore bizantino, il quale lo volea sfratare e tornare al duro
giogo di decurione. Fuggendo dunque solo e a piè in riva al mare, ecco
saltargli addosso dalle fratte un barbaro saraceno, seguito da Etiopi
con occhi di bragia che avean lì tirata loro barca. E il barbaro a
interrogarlo; e, inteso che andasse a fare i voti monastici, si messe
umanamente a persuaderlo d'aspettar la vecchiaia a lasciare il mondo.
Vistolo risoluto, l'accomiatò che tremava da capo a piè; ma pensato
meglio, li corse dietro gridando: “Fratello, aspetta aspetta;” e volle
provvederlo per lo viaggio di pani finissimi, scusandosi che non avesse
in pronto altro da mangiare. Fu costrutta poi in miracolo tal ordinaria
carità musulmana a povero viandante: fu creduto il demonio in carne e in
ossa un gentiluomo, il quale cavalcando presso San Nazario, intendendo
il proponimento del giovane, lo chiamò pazzo, poichè se volea salvar
l'anima potea far penitenza in casa senza ficcarsi tra i frati, “avari,”
dicea, “pieni di vanagloria, dati tutti alla crapula; che un caldaio di
lor cucine capirebbe me ritto in piedi e mezzo questo mio cavallo.”
Preso l'abito, tornato a San Mercurio dopo un pezzo, Nilo si segnalò per
obbedienza monastica, flagellarsi, pregare, vestir ciliccio che mutava
una volta ogni anno, pazienza dello schifo e disagio; ed anche assiduità
allo studio, belle massime di carità cristiana, e mondana sagacità e
prudenza.[738]
Donde salì in fama di santità: riverito dai magistrati; andaron vescovi,
arcivescovi, ciambellani di Costantinopoli e i governatori stessi di
Calabria a richiederlo di vaticinii e consigli;[739] fondò il monastero
di Grottaferrata presso Roma; vinse l'antipatia della schiatta italica e
oltramontana a sua favella e greca profusione di capelli e barba;[740]
fu onorato in sua vecchiezza a Monte Cassino, a corte dei principi di
Capua, dall'imperatore Otone terzo e da Gregorio quinto, dai quali
impetrò grazia all'antipapa Filargato.[741] Pria di pervenire a tanta
altezza, avea patrocinato rei minori, come i sollevati di Rossano di cui
dicemmo, ed un giovane di Bisignano che svaligiò ed uccise un giudeo, ed
i magistrati lo volean dare in mano alla comunità israelita.[742] San
Nilo gareggiò a suo modo nell'arte salutare col medico giudeo Sciabtai
Donolo, uom di molta sapienza a quel tempo in Calabria.[743] E come ci
vengon visti nella vita del Donolo,[744] così anco in quella di San Nilo
i Musulmani di Sicilia, ch'erano per fermo il flagello principale delle
Calabrie, dopo i governatori bizantini. In una spaventevole incursione,
quella, come parmi, d'Hasan del novecencinquantuno o del cinquantadue, i
monaci di San Mercurio si rifuggivan qua e là per le castella; San Nilo
rimanea nel romitaggio d'una spelonca vicina, donde vide la polvere dei
cavalli nemici; e, campato su nella montagna, tornando, trovò che gli
avean rubato fino un sacco di cilicio, e il monastero desolato, e
mancava un fedel suo compagno. Cui volendo riavere o rimaner prigione
con essolui, si poneva all'aperto in mezzo alla strada; vedea venir
dieci cavalieri vestiti, armati e cinti le teste di fazzoletti[745] alla
foggia dei Saraceni; quand'eccoli smontare, inginocchiarsi: ed erano gli
abitatori d'un castello, che così travestiti scorreano, se per far bene
o male non so, i quali lo accertarono essere salvo il compagno.[746]
Posate poscia le armi musulmane, seguíto il tumulto di Rossano che
narrammo, San Nilo presagì la novella tempesta. Tornò allora a Rossano
l'arcivescovo Vlatto, con molti prigioni riscattati in Affrica, per
credito della sorella ch'era moglie, come diceano, del re dei Saraceni:
qualche schiava favorita del Mehdi o di Kâim. Dondechè proponendosi
Vlatto di andar nuovamente in Affrica a liberar altri Calabresi, San
Nilo lo ammonì non si arrischiasse in quella tana di vipere che alla fin
fine l'avrebbero morso: e in fatti, andato, mai più non tornò.[747] In
quel medesimo tempo si raccendea la guerra musulmana in Calabria;
vaticinava San Nilo che la non finirebbe di corto, e distogliea lo
stratego Basilio dal fabbricare una chiesa, chè gli Infedeli, dicea, la
demolirebbero immantinente occupando il paese.[748] Nella guerra, forse
del novecentosettantasette, riparatosi San Nilo nel castello di Rossano,
rimasero nel cenobio tre frati, che furon menati prigioni in
Sicilia.[749]
A riscattarli ei vendea delle canove del monastero il valsente di cento
bizantini d'oro,[750] e con un frate fidato e un giumento donatogli da
Basilio stratego, li mandò in Palermo, con lettere per quel principe,
dice la cronica, cui chiamano Amira, e altre ad un segretario,[751]
brav'uomo e cristianissimo. Il quale tradotta l'epistola all'emiro, quei
la lodava di dottrina e prudenza, e vi raffigurava lo stile d'un
amico[752] di Dio: onde onorato molto il messaggiero e regalatolo,
mandava a San Nilo un presente di pelli di cervi e aggiugneavi questa
lettera: “Colpa tua, ch'ebbero dispiacere i tuoi frati; poichè se me
n'avessi richiesto, ti avrei spacciato una cifera[753] che bastava
affissarla in su la piazza, e niuno avrebbe molestato, il monastero, nè
sarebbe occorso fuggirtene via. Adesso, se non temi di venirne appo di
me, potrai soggiornare liberamente nel paese che m'obbedisce, dove sarai
rispettato ed onorato da tutti.”[754] Del quale scritto mi par genuino
il senso, e fin direi il tenore.
Morto intanto Otone primo (973), Otone secondo, che meritò esser detto
dai Romani il Sanguinario, ritentava l'impresa dell'Italia meridionale;
parendogli quivi men salda che mai l'autorità dei fratelli della moglie,
regnanti a Costantinopoli con poca riputazione e impedimento di nuove
guerre. Allo scorcio dell'ottantuno, calato a Benevento dando voce del
passaggio contro gli Infedeli, espugnata Salerno che gli ricusava
l'omaggio e gli aiuti, Otone si apparecchiò al conquisto delle
Calabrie.[755] Le quali, scrive Ditmar, uom sassone d'alto legnaggio,
vescovo e contemporaneo, eran gravemente afflitte dai Greci e dai
Saraceni.[756] Un altro cronista tedesco di quell'età, afferma che gli
imperatori bizantini, non potendo stogliere Otone da cotesta impresa,
condussero a soldo i Saraceni di Sicilia e altre isole, e fin d'Affrica
e d'Egitto, per lanciarglieli addosso.[757] Gli annali musulmani, che
maravigliosamente accordansi con Ditmar in molti particolari, notan solo
che Abu-l-Kâsem bandì la guerra sacra, poichè il re dei Franchi movea
contro la Sicilia.[758] Manifesto egli è dunque che i Bizantini e i
Musulmani di Sicilia, rinnovandosi il comun pericolo, rifacessero la
lega come al tempo di Niceforo e di Moezz.[759] Lo stratego di Calabria
assoldò forse qualche compagnia musulmana, che stanziò in quelle parti e
militò con essolui. Ma l'esercito siciliano non operò mai insieme coi
Greci: che gli uni e gli altri combattessero contro Otone sul medesimo
campo di battaglia, è falso supposto di moderni scrittori, i quali si
fidarono alle compilazioni, mettendo da parte le croniche originali.
In primavera dell'ottantadue, Otone venne sopra Taranto, e in breve la
espugnò, mal difesa dai Greci.[760] Nella poderosa oste militavano
Sassoni, Bavari e altri Tedeschi, Italiani delle province di sopra e dei
principati longobardi; condotti dai grandi vassalli dell'Impero laici ed
ecclesiastici, dal fior della nobiltà di Germania e d'Italia.[761]
Scarseggiando di forze navali, Otone s'acconciò coi protocarebi di due
salandre, mandate fin dai tempi di Niceforo Foca a raccogliere le tasse
di Calabria; i quali gli prometteano d'ardere il navilio musulmano:
ch'era doppio tradimento, o quei tentennavano nella fede del signor
loro, e si disponeano a seguir Otone vincitore, e vinto abbandonarlo.
Erano navi, scrive Ditmar, di mirabile lunghezza e celerità, con doppia
fila di remi e cencinquanta uomini ciascuna; armate di quel fuoco cui
nulla spegne se non l'aceto. Due gualdane di Musulmani furon sopraffatte
dall'esercito d'Otone;[762] una delle quali, o una terza che fosse, si
difese in una città, credo io Rossano, poi si dette alla fuga.[763]
Abu-l-Kâsem, partito con l'esercito del mese di ramadhan
trecentosettantuno (27 aprile a 26 maggio 982), saliva lungo la costiera
orientale di Calabria, dove ebbe più certi avvisi delle forze del nemico
accampato a Rossano.[764] Perchè non si fidando d'assalirlo, adunati i
capitani che voleano andare innanzi, risolutamente ordinò la ritirata: e
mandavala ad effetto con l'esercito e il navilio, quando i legni nemici
che stavano alla vedetta, addandosene, mandarono spacci ad Otone che
corresse sopra i Musulmani sbigottiti.[765] Ei lascia addietro gli
impedimenti e col fior dei suoi fa tate diligenza che sopraggiugne i
Siciliani il quindici luglio[766] su la marina di Stilo.[767] Vistili da
lungi sparuti di numero, sclama che sono masnadieri, non soldati, e,
incontanente comanda di dar dentro.[768] Abu-l-Kâsem, facendo alto,
s'era già messo in ordine di battaglia.[769]
Dopo aspro menar di mani avvenne che uno squadrone imperiale caricando
il centro de' Siciliani lo ruppe e volse in fuga. Trapassando
nell'impeto fino alle bandiere difese da Abu-l-Kâsem con un forte nodo
di nobili e prodi cavalieri, tennero il fermo; furon tutti mietuti e
l'emiro ucciso d'un colpo al sommo della testa:[770] ma immolandosi
strapparon la vittoria di mano all'imperatore tedesco. Chè a quel
respitto li sbaragliati si rannodano, precipitano alla riscossa, scrive
Ibn-el-Athîr, deliberati a morire; i vincitori, scrive Ditmar, dopo
breve scontro sono soverchiati e tagliati a pezzi:[771] nè fa maraviglia
tal subito scambio di sorti quando il centro de' Siciliani sconfitto
rifacea testa più addietro, e le ali rimase intere si chiudevano su le
spalle del nemico. Il rimanente dell'esercito otoniano si dileguò
fuggendo. Lasciò sul campo quattromila morti e grande numero di ottimati
prigioni.[772] Tra questi noverossi il vescovo di Vercelli mandato ad
Alessandria d'Egitto e riscattatosi dopo lunghi anni, al par che tanti
altri chierici e laici, i quali a poco a poco si vedean tornar in
Germania.[773] Degli uccisi, le croniche italiane ricordano Landolfo
principe di Capua, Atenolfo suo fratello e i nipoti Ingulfo, Vadiperto e
Guido di Sessa;[774] le tedesche, Arrigo vescovo d'Augsburg, Wernher
abate di Fulda, e molti altri prelati;[775] e dei gran baroni un Richar,
un duca Odone, i conti Ditmar, Becelino, Gevehardo, Guntero, Bertoldo,
Eccelino e un altro Becelino fratel suo, con Burchardo, Dedone, Corrado,
Irmfrido, Arnoldo, e altri che Iddio solo conosce, scrive Ditmar, il
quale vi perdè uno zio della madre.[776]
Otone il Sanguinario, fuggendo a briglia sciolta col cugino duca di
Baviera, avvistò le due salandre greche presso la spiaggia, e si tenne
salvo.[777] Ma arrestatoglisi il destriero, un giudeo suo fidato che lo
seguiva gli grida: “Prendi il mio e dà pane ai miei figli s'io ci
muoio,” onde Otone montato in sella[778] spinse il cavallo in mare;
gridò e fe' cenno al nocchiero; e quei tirò dritto. Tornato a proda,
trova il giudeo, Calonimo il suo nome, che l'attendeva ansioso di lui
non di sè stesso: il cugino era ito, chè già si vedean venire a spron
battuto i Musulmani. “E che farò?” sclamava Otone. “Ma sì ho ancora un
amico!” e lanciossi di nuovo nell'onda col cavallo del giudeo.[779]
Questi fu ucciso.[780] Ricettò l'imperatore l'altra salandra che
passava, conoscendolo un ofiziale schiavone.[781] Fatto posare dal
protocarebo sul proprio letto e interrogato, accertò sè essere Otone: lo
pregò d'accostarsi a Rossano, tanto che prendesse seco la moglie e i
tesori; ch'ei non voleva rimetter piè su l'infausta terra, ma andare a
Costantinopoli, ove i pii imperatori renderebbero merito a chi avesse
tolto a sicura morte il cognato. Il Greco assentì: navigando dì e notte
giunsero a Rossano.[782] Otone mandava lo Schiavone a terra, e non guari
dopo fu vista scendere alla marina la imperatrice con Thierry vescovo di
Metz ed una fila di giumenti che recavano, come diceasi, il tesoro; a
che il capitan greco gittò l'áncora. S'accosta con barchette il vescovo;
monta su la nave egli e pochi; parla ad Otone; e questi, per accogliere
onorevolmente la imperatrice, indossa abiti di gala, arriva passeggiando
al bordo: e giù in mare d'un salto. Un della ciurma che lo volle
ritenere, fu trafitto; gli altri ricacciati indietro dagli altri
famigliari saliti con l'arme alle mani; e Otone intanto afferrava la
spiaggia: talchè i Danai truffatori d'ogni gente furono burlati,
conchiude soddisfatto Ditmar.[783] Nel cui racconto io non veggo nulla
che rassomigli a favola. Altri recò il caso un po' diverso, come
l'andava ritraendo la fama;[784] chi venne appresso v'aggiunse e tolse
quanto gli parve;[785] falsarii moderni lo ricomposero a lor modo:[786]
e in fine i critici nauseati sono stati lì lì per rigettar tutti gli
episodii in un fascio.[787] I ricordi arabici convengono con Ditmar, sì
nei primi accidenti della fuga e sì nel successo, dicendo che Otone si
ridusse allo accampamento ov'era la moglie; e con lei tornossi a
Roma.[788]
E veramente, soggiornato alquanto a Capua, passò nell'Italia di sopra,
adunò del novecentottantatrè la dieta dell'Impero a Verona,[789]
s'apprestò a far vendetta sopra la Sicilia, vantossi di gittare un ponte
di barche su lo stretto di Messina,[790] e venne a morire a Roma (7 dic.
983); meno avventuroso d'Abu-I-Kâsem, ch'era caduto sul campo di
battaglia. Dove la stirpe arabica pagò alla stirpe italiana l'affitto
della Sicilia, coi buon colpi che sbarattarono un esercito germanico e
fecer morire di rabbia e disagi l'imperatore, l'Otone, passeggiante
ormai su l'estrema punta della penisola. E forse Salernitani, Romani, e
Italiani d'altre province tratti a forza sotto l'insegna imperiale,
benedissero le scimitarre orientali che loro balenavano dinanzi gli
occhi. Prepotente forza delle necessità geografiche su le vicende delle
nazioni, a vedere i Musulmani di Sicilia, guelfi innanzi tratto,
guadagnare in Calabria una prima Legnano![791]
Rimasti i Siciliani signori del campo, assumea le veci d'emiro Giâber,
figliuolo d'Abu-l-Kâsem; il quale immantinente fe' suonare a raccolta,
non concedendo di continuare il bottino; nè pur di raccogliere le armi e
attrezzi di guerra lasciati dal nemico da rifornirne gli arsenali di
Sicilia. Non si ritrae se fu necessità, paura o gelosia d'affrettarsi a
pigliar lo stato in Palermo; nè s'ei pensò a recar seco il cadavere del
padre. Ma alle costui virtù rese merito il popolo, che chiamollo “Il
Martire,” ed affidò alla storia questa epigrafe: Giusto, di specchiati
costumi, tutto amore ai sudditi, affabile, elemosiniere, che non lasciò
ai suoi figliuoli nè una moneta d'oro, nè una d'argento, nè un pezzetto
di terreno, avendo legato ogni cosa ai poveri ed opere di carità.[792]
CAPITOLO VII.
Sì com'era incerta la elezione degli emiri tra il fatto e il dritto,
così i cronisti variamente scrissero di Giâber, qual notando che i
Musulmani di Sicilia lo esaltarono senza diploma del califo;[793] e qual
che 'Azîz-billah, succeduto (975) a Moezz, in buona forma lo
nominò.[794] Fu l'uno e l'altro di certo. Giâber, dato a voluttà, lasciò
correre al peggio le cose pubbliche: donde i Siciliani il deposero,[795]
o se ne richiamarono al Cairo, dove una gelosia di corte spianò loro la
via. Perchè Ibn-Kellas, vizir del califo, si adombrava forte di
Gia'far-ibn-Mohammed della famiglia dei Kelbiti di Sicilia, intimo di
'Azîz tanto e più che il padre Mohammed non l'era stato di Moezz.[796]
Avendo pensato fin dalla morte d'Abu-l-Kâsem tôrsi d'addosso il rivale
con splendido esilio, Ibn-Kellas persuase adesso 'Azîz a farlo emir di
Sicilia[797] in luogo del cugino: e chi sa quanto rincalzò le querele
dei Siciliani, e se nol fece domandar proprio da loro? Dicon gli annali
arabi che Giâber dolentissimo lasciò, e Gia'far a malincuore prese
l'oficio. Nondimeno, arrivato in Sicilia del trecentosettantatrè (14
giugno 983, 2 giugno 984), rassettò e fece prosperare il paese; lodato
anco per amore degli studii e liberalità. Morto il quale del
settantacinque (23 mag. 985, 11 mag. 986), succedettegli il fratello
Abd-Allah, che seguì il bello esempio, e in breve anch'egli trapassò,
del mese di ramadhan trecensettantanove (dic. 989); lasciato l'oficio
d'emir al proprio figliuolo Abu-l-Fotûh-Iûsuf. Così espressamente il
Nowairi e Ibn-abi-Dinâr; nè vi ripugna il dir degli altri compilatori.
Aggiugne il Nowairi, che 'Azîz gli mandò poscia il rescritto
d'investitura.[798]
Arrivò all'apice in questo tempo e repente rovinò la potenza dei
Beni-abi-Hosein a corte del Cairo. Hasan-ibn-'Ammâr, il vincitor di
Rametta, per riputazione propria nelle armi e di sua parentela appo la
tribù di Kotama, si trovò sceikh, spontaneamente eletto, credo io, dei
Kotamii stanziati in Egitto, ch'eran tuttavolta i pretoriani di casa
fatemita: ed egli a un tempo lor patrono e fidato capitan del califo;
tantochè 'Aziz, venendo a morte (ottobre 996), gli raccomandò il
figliuolo Mansûr, soprannominato Hâkem-biamr-allah, fanciullo d'undici
anni. Alla cui esaltazione, i condottieri kotamii lo sforzarono a dare
il governo dello Stato a Ibn-'Ammâr, con oficio nuovo, che si chiamò il
_Wâsita_, ossia Intermediario; e vi si aggiunse il titolo di
_Amîn-ed-dawla_, che suona “Il Fidatissimo dell'impero.” Onoranza anche
nuova a corte fatemita e di mal augurio; quando gli _emîr-el-Omrâ_ che
posero in tanto vitupero il califato abbassida s'addimandavano per simil
forma La Colonna, La Pietra angolare, La Spada, e che so altro,
dell'impero. E per poco i Beni-abi-Hosein non copiarono il rimanente:
chè già il vecchio capitano mostrava fasto e superbia da re; nella
corte, nella milizia stremava le spese per arricchire i Kutamii, e lor
dava impunità d'ogni licenza e d'ogni misfatto. Un eunuco di corte
presto lo sgarò, fondandosi in su gli stanziali turchi i quali spezzaron
la boria ai Kotamii; onde Ibn-'Ammâr fu deposto dal comando (997),
onorato e tenuto in disparte per pochi anni; finchè il pupillo, che
andava assaporando il sangue, (1000) lo fece assassinare.[799]
Parve cosa degna di nota che nel breve predominio d'Ibn-'Ammâr ad un
tempo reggessero, egli l'Egitto e il cugino Iûsuf la Sicilia:[800] sì
com'oggi vedremmo con maraviglia, due stretti parenti, l'uno gran vizir
a Costantinopoli, l'altro pascià d'Egitto. Pertanto a tutti era già
manifesta la independenza della Sicilia; nè faceva specie che la corte
fatemita, per procaccio, com'e' sembra, d'Ibn-'Ammâr, desse a Iûsuf il
privilegio di _Thiket-ed-dawla_ che suona “Fidanza dell'impero.”[801] Nè
solamente si noverava la Sicilia tra gli stati musulmani di momento in
sul Mediterraneo, ma gli altri cominciavano ad invidiar sua sorte. Alla
fama in arme che le avean dato i primi tre emiri kelbiti, s'aggiunse la
prosperità sotto i discendenti del kelbita cortigiano Mohammed, tra i
quali segnalavasi questo Iûsuf. Leggiamo in una cronica che al suo tempo
il popolo godè ogni ben che si potesse desiderare; il governo si
condusse efficace e tranquillo; furono soggiogati parecchi paesi
bizantini, e l'emiro mostrò quella magnanimità, liberalità e giustizia,
che mancava in tanti altri principati musulmani.[802] Chi lodalo di
fermezza insieme e di bontà in verso i sudditi;[803] chi d'aver superato
tutti i predecessori in gloria e virtù.[804] La cultura sua e della
corte ci torna dalle biografie dei poeti contemporanei.
E prima d'Ibn-Moweddib da Mehdia, cervello strano dato all'alchimia e
alla pietra filosofale, uom di brutti costumi, cupido e taccagno, vago
d'andare qua e là per lo mondo a buscar danaro con meschini versi; il
quale, viaggiando alla volta d'un'isola adiacente alla Sicilia, era
stato preso dai Bizantini e ritenuto in lunga cattività. Rimandato in
Palermo con altri prigioni, quando Iûsuf fermò una tregua con l'Impero,
Ibn-Moweddib ringraziavalo con un poemetto, e l'emiro lo regalava; ma
non tenendosene soddisfatto, si messe a sparlare di Iûsuf sì
apertamente, che fu ricerco dal bargello. Si nascose appo un conoscente,
artigiano dell'arsenale. Ma uscito una sera ubbriaco per comperar
nuov'esca da bere,[805] lo colsero; e il prefetto della città[806]
condusselo immantinente a Iûsuf. Il quale lo rinfacciava: “Sciagurato,
che è questo che sento dir di te!” E il poeta a lui: “Ciarle di spioni,
che Iddio aiuti il signor emiro.” — “Ma ti sovviene,” riprese Iûsuf, “il
nome di chi cantò: Ecco il valentuomo messo con le spalle al muro dai
figli di male femmine?” — “Sì,” rispose Ibn-Moweddib, “il medesimo che
fe' l'altro verso: L'inimicizia dei poeti, tristo chi se l'accatta!”
Alla qual pronta citazione di Motenebbi,[807] l'emiro non gli disse
altro; ma gli fece contare cento quartigli[808] d'oro, a condizione di
andarsene tosto della città; “perchè temo,” aggiugnea, “che s'una volta
gli ho perdonato, un'altra me la pagherebbe cara.”[809]
Già la fama attirava alla corte di Iûsuf non men belli ingegni e animi
più alti, come Mohammed-ibn-'Abdûn nato a Susa d'illustre casa del
Kairewân, pregiato tra i suoi per buona lingua e stile semplice e
vigoroso. Il quale avendo cantato le lodi dell'emiro, sì gli piacque,
ch'ei lo volle compagno del proprio figliuolo Gia'far dilettante di
versi,[810] e questi gli si strinse di cara amistà. Tanto che volendo
rimpatriare, Gia'far, succeduto nel governo al padre infermo,[811] gliel
negò, ancorchè Mohammed lo chiedesse a lui ed al padre con rime piene
d'affetto. Che anzi, invaghito tanto più di quel bello ingegno, Gia'far
s'adontò che persistesse; gli vietò d'entrare in palagio; ed a
rappattumarsi furon uopo novelli versi, e che il poeta li porgesse di
furto mentre Gia'far stava a sollazzo in un casino.[812] Il quale
sentendosi rassomigliare alla luna e che pari a quella si nascondesse a
chi volea far ossequio, gli vennero le lagrime agli occhi e donò al
poeta un tesoro.[813]
Quanto fosse pagata non so, ma valea molto a lor gusto, una _Kasîda_
indirizzata a Iûsuf, innanzi il novecentonovantotto,[814] per la festa
del Sagrifizio,[815] da un Abd-Allah della tribù di Tonûkh, detto Il
figliuolo del cadi di Mîla, ond'ei pare oriundo d'Affrica. Il qual
poemetto ci serbò Ibn-Khallikân, che lettolo per caso su la coperta d'un
libro, lo trascrisse nelle Biografie degli uomini illustri, temendo non
andasse perduto. Come richiedea la classica immutabilità della _Kasîda_,
esordisce con lamenti amorosi, e visione di belle che sembrano
allegoriche, nè schiudon le labbra se non a ricordare i riti del
pellegrinaggio; talchè pervenghiamo per lungo giro alla festa del
Sagrifizio, a Iûsuf e al figliuolo. La festa, sfarzosamente abbigliata,
luccicante gli omeri del sottile drappo dell'Irâk, venía dopo un anno a
visitare _Thiket-ed-dawla_, che l'ornava di collana e pendenti, e
Gia'far accoglievala con lieti augurii. Ma quale gemma più lucente che
l'uno e l'altro re, nobili rampolli della gente di Kodhâ'a?[816] E chi,
dato fondo al proprio avere, sperando aiuto da Iûsuf, restò mai deluso?
Quell'Iûsuf che corse l'arringo della gloria coi principi ed ei solo
toccò la meta; il solo eroe che abbia potere di emendar il tristo
secolo; il brando sguainato contro i nemici della Fede; il forte scudo
dei Musulmani; la mente che vede ogni cosa e sa alternare mansuetudine e
forza; il guerriero armato di due spade, che son la costanza e il fino
acciaro. Ecco l'esercito inondar la terra nemica; le lance
rodeinite[817] avventarsi come fieri serpi addosso ai fuggenti; i
condottieri nemici tagliati a pezzi e spiccato da' busti capo insieme ed
elmetto; nè cessa il martellar delle spade, perchè le armature che testè
luccicavano all'alba sian gialle di polvere, anzi al polverio tutto
s'oscuri il sole. Indarno sperano i miscredenti risarcire lor guasti;
indarno s'apprestano a raccogliere le primizie dei campi, ch'ogni anno
gli stuoli che tu mandi in guerra, battono lor monti e lor pianure,
lasciando vestigio d'ignudi cadaveri capelluti e barbuti;[818] e chi
scampa si riman soletto, senza la famiglia ch'è menata in cattività; e
trova sì svaligiati suoi tempii, che gli è forza smettere l'idolatria.
Salve, o Iûsuf, vigile scolta dell'islam nella notte di questa misera
età. Lieta siati la festa; lunghissimi i tuoi giorni al ben fare, al
regno, alla gloria; e perenne suoni il tuo nome dal pulpito.[819] Così
il poeta metteva a un paro con le veraci virtù la sanguinosa
intolleranza religiosa e lo strazio de' vicini: e fosse dileguato al
tutto tal empio errore in religioni più mansuete e popoli più civili!
Pur la corte kelbita di Palermo avea fama in Italia di quella ch'era
gentilezza secondo i tempi, come l'attesta un centone d'istoria e
romanzo, scritto, un anno più o un anno meno, al mille di nostr'èra.
L'attesta, dico, trasponendo nel passato, come sovente si fa, le idee
presenti. L'autore, monaco a Roma o nei dintorni, narra i primi assalti
dei Musulmani sopra la Terraferma d'Italia (842) in questo modo: che
Florenti re palermitano, innamorato per fama della bella Gisa sirocchia
del principe Romualdo, per rapirla adunava sciami infiniti di Saraceni
d'Africa, Palermo e Babilonia; sbarcava ad Amalfi; aiutato dal perfido
Radalgiso, assediava Benevento; finchè Romualdo gli uccise quarantamila
uomini in una rotta, dalla quale Florenti a mala pena campò la
vita.[820] La qual favola è documento non solo della possanza, ma sì
della cultura dei Kelbiti allo scorcio del decimo secolo; poichè loro si
attribuisce proprio un fatto di cavalleria.[821] Il cronista poi,
con pagare la taglia.[726] Sparso molto sangue, fatto gran bottino e
copia di prigioni, l'emiro e il fratello tornavano in Sicilia.[727]
Dove Abu-l-Kâsem, non dimenticato l'assalto di Messina, ristorava la
forte rôcca di Rametta, l'anno trecensessantasei (29 agosto 976, 17
agosto 977), e vi ponea presidio capitanato da un suo schiavo
negro.[728] Ripassò poscia in Terraferma, investì Sant'Agata, quella
forse che s'addimanda di Reggio; tantochè i cittadini ne uscirono per
accordo, consegnatagli la rôcca e quanta roba v'era.[729] Così
Ibn-el-Athîr: un altro cronista arabico dice sbarcato Abu-l-Kâsem alle
“Torri” (_Abrâgia_), dove messosi l'esercito a rapire pecore e buoi e
traendosene dietro una infinità che impediva il cammino, il capitano li
fece sgozzar tutti in un luogo, al quale indi rimase infino ai dì del
cronista il nome di _Monakh-el-bakar_ o diremmo noi la “Posata del
bestiame.”[730] Appressandosi i Musulmani a Taranto, i cittadini
sguisciaron via, chiuse le porte in atteggiamento di difesa, per
intrattenere il nemico: e questi saliva le mura, credendo dar battaglia;
se non che, accortosi della burla, pose fuoco alla città e distrussene a
suo potere. Giunse Abu-l-Kâsem ad Otranto; corse altre città delle quali
non ci si dicono i nomi;[731] ma sappiam che Oria in Terra d'Otranto e
Bovino in Capitanata, furon arse entrambe, e il popol minuto d'Oria
condotto prigione in Sicilia.[732] Assalita per ultimo una città che mi
par da leggere Gallipoli,[733] e presone la taglia, l'esercito si
riduceva in Sicilia, con torme di prigioni, salmerie di ricche spoglie,
e vanto, che parea gloria, d'aver dato il guasto a sì vasto tratto di
paese che fa in oggi mezzo il reame di Napoli.[734] I cronisti noverano
due altre imprese d'Abu-l-Kâsem in Terraferma tra il settantotto e
l'ottantuno, senza narrarne i particolari.[735]
Inaspettatamente qui viene un'agiografia greca ad attestare il gentil
animo dell'emir di Sicilia. Ma principieremo da più alto, poichè i
costumi del popolo assalito, e un po' anco degli assalitori, per tutto
il decimo secolo son come l'ordito di cotesto scritto, con trama sì
discreta di soprannaturale, da non far impedimento alla vista. Diciamo
della Vita di San Nilo da Rossano, dettata da un compagno e discepol suo
alla fine del decimo a principio dell'undecimo secolo. Nacque San Nilo
verso il novecentotrè; morì verso il novantotto. Studiò i santi padri,
cioè Antonio Saba, e Ilarione, scrive il discepolo; quantunque non gli
mancassero libri nè ingegno da apprendere negromanzia, se l'avesse
voluto.[736] Una febbre lo fe' pensare alla morte, giovane di
trent'anni; perilchè abbandonati i beni ed una figliuola naturale
ch'avea, si tonsurò nel monastero di San Mercurio e corse a cercare
asilo in quel di San Nazario,[737] dove non arrivassero le branche del
governatore bizantino, il quale lo volea sfratare e tornare al duro
giogo di decurione. Fuggendo dunque solo e a piè in riva al mare, ecco
saltargli addosso dalle fratte un barbaro saraceno, seguito da Etiopi
con occhi di bragia che avean lì tirata loro barca. E il barbaro a
interrogarlo; e, inteso che andasse a fare i voti monastici, si messe
umanamente a persuaderlo d'aspettar la vecchiaia a lasciare il mondo.
Vistolo risoluto, l'accomiatò che tremava da capo a piè; ma pensato
meglio, li corse dietro gridando: “Fratello, aspetta aspetta;” e volle
provvederlo per lo viaggio di pani finissimi, scusandosi che non avesse
in pronto altro da mangiare. Fu costrutta poi in miracolo tal ordinaria
carità musulmana a povero viandante: fu creduto il demonio in carne e in
ossa un gentiluomo, il quale cavalcando presso San Nazario, intendendo
il proponimento del giovane, lo chiamò pazzo, poichè se volea salvar
l'anima potea far penitenza in casa senza ficcarsi tra i frati, “avari,”
dicea, “pieni di vanagloria, dati tutti alla crapula; che un caldaio di
lor cucine capirebbe me ritto in piedi e mezzo questo mio cavallo.”
Preso l'abito, tornato a San Mercurio dopo un pezzo, Nilo si segnalò per
obbedienza monastica, flagellarsi, pregare, vestir ciliccio che mutava
una volta ogni anno, pazienza dello schifo e disagio; ed anche assiduità
allo studio, belle massime di carità cristiana, e mondana sagacità e
prudenza.[738]
Donde salì in fama di santità: riverito dai magistrati; andaron vescovi,
arcivescovi, ciambellani di Costantinopoli e i governatori stessi di
Calabria a richiederlo di vaticinii e consigli;[739] fondò il monastero
di Grottaferrata presso Roma; vinse l'antipatia della schiatta italica e
oltramontana a sua favella e greca profusione di capelli e barba;[740]
fu onorato in sua vecchiezza a Monte Cassino, a corte dei principi di
Capua, dall'imperatore Otone terzo e da Gregorio quinto, dai quali
impetrò grazia all'antipapa Filargato.[741] Pria di pervenire a tanta
altezza, avea patrocinato rei minori, come i sollevati di Rossano di cui
dicemmo, ed un giovane di Bisignano che svaligiò ed uccise un giudeo, ed
i magistrati lo volean dare in mano alla comunità israelita.[742] San
Nilo gareggiò a suo modo nell'arte salutare col medico giudeo Sciabtai
Donolo, uom di molta sapienza a quel tempo in Calabria.[743] E come ci
vengon visti nella vita del Donolo,[744] così anco in quella di San Nilo
i Musulmani di Sicilia, ch'erano per fermo il flagello principale delle
Calabrie, dopo i governatori bizantini. In una spaventevole incursione,
quella, come parmi, d'Hasan del novecencinquantuno o del cinquantadue, i
monaci di San Mercurio si rifuggivan qua e là per le castella; San Nilo
rimanea nel romitaggio d'una spelonca vicina, donde vide la polvere dei
cavalli nemici; e, campato su nella montagna, tornando, trovò che gli
avean rubato fino un sacco di cilicio, e il monastero desolato, e
mancava un fedel suo compagno. Cui volendo riavere o rimaner prigione
con essolui, si poneva all'aperto in mezzo alla strada; vedea venir
dieci cavalieri vestiti, armati e cinti le teste di fazzoletti[745] alla
foggia dei Saraceni; quand'eccoli smontare, inginocchiarsi: ed erano gli
abitatori d'un castello, che così travestiti scorreano, se per far bene
o male non so, i quali lo accertarono essere salvo il compagno.[746]
Posate poscia le armi musulmane, seguíto il tumulto di Rossano che
narrammo, San Nilo presagì la novella tempesta. Tornò allora a Rossano
l'arcivescovo Vlatto, con molti prigioni riscattati in Affrica, per
credito della sorella ch'era moglie, come diceano, del re dei Saraceni:
qualche schiava favorita del Mehdi o di Kâim. Dondechè proponendosi
Vlatto di andar nuovamente in Affrica a liberar altri Calabresi, San
Nilo lo ammonì non si arrischiasse in quella tana di vipere che alla fin
fine l'avrebbero morso: e in fatti, andato, mai più non tornò.[747] In
quel medesimo tempo si raccendea la guerra musulmana in Calabria;
vaticinava San Nilo che la non finirebbe di corto, e distogliea lo
stratego Basilio dal fabbricare una chiesa, chè gli Infedeli, dicea, la
demolirebbero immantinente occupando il paese.[748] Nella guerra, forse
del novecentosettantasette, riparatosi San Nilo nel castello di Rossano,
rimasero nel cenobio tre frati, che furon menati prigioni in
Sicilia.[749]
A riscattarli ei vendea delle canove del monastero il valsente di cento
bizantini d'oro,[750] e con un frate fidato e un giumento donatogli da
Basilio stratego, li mandò in Palermo, con lettere per quel principe,
dice la cronica, cui chiamano Amira, e altre ad un segretario,[751]
brav'uomo e cristianissimo. Il quale tradotta l'epistola all'emiro, quei
la lodava di dottrina e prudenza, e vi raffigurava lo stile d'un
amico[752] di Dio: onde onorato molto il messaggiero e regalatolo,
mandava a San Nilo un presente di pelli di cervi e aggiugneavi questa
lettera: “Colpa tua, ch'ebbero dispiacere i tuoi frati; poichè se me
n'avessi richiesto, ti avrei spacciato una cifera[753] che bastava
affissarla in su la piazza, e niuno avrebbe molestato, il monastero, nè
sarebbe occorso fuggirtene via. Adesso, se non temi di venirne appo di
me, potrai soggiornare liberamente nel paese che m'obbedisce, dove sarai
rispettato ed onorato da tutti.”[754] Del quale scritto mi par genuino
il senso, e fin direi il tenore.
Morto intanto Otone primo (973), Otone secondo, che meritò esser detto
dai Romani il Sanguinario, ritentava l'impresa dell'Italia meridionale;
parendogli quivi men salda che mai l'autorità dei fratelli della moglie,
regnanti a Costantinopoli con poca riputazione e impedimento di nuove
guerre. Allo scorcio dell'ottantuno, calato a Benevento dando voce del
passaggio contro gli Infedeli, espugnata Salerno che gli ricusava
l'omaggio e gli aiuti, Otone si apparecchiò al conquisto delle
Calabrie.[755] Le quali, scrive Ditmar, uom sassone d'alto legnaggio,
vescovo e contemporaneo, eran gravemente afflitte dai Greci e dai
Saraceni.[756] Un altro cronista tedesco di quell'età, afferma che gli
imperatori bizantini, non potendo stogliere Otone da cotesta impresa,
condussero a soldo i Saraceni di Sicilia e altre isole, e fin d'Affrica
e d'Egitto, per lanciarglieli addosso.[757] Gli annali musulmani, che
maravigliosamente accordansi con Ditmar in molti particolari, notan solo
che Abu-l-Kâsem bandì la guerra sacra, poichè il re dei Franchi movea
contro la Sicilia.[758] Manifesto egli è dunque che i Bizantini e i
Musulmani di Sicilia, rinnovandosi il comun pericolo, rifacessero la
lega come al tempo di Niceforo e di Moezz.[759] Lo stratego di Calabria
assoldò forse qualche compagnia musulmana, che stanziò in quelle parti e
militò con essolui. Ma l'esercito siciliano non operò mai insieme coi
Greci: che gli uni e gli altri combattessero contro Otone sul medesimo
campo di battaglia, è falso supposto di moderni scrittori, i quali si
fidarono alle compilazioni, mettendo da parte le croniche originali.
In primavera dell'ottantadue, Otone venne sopra Taranto, e in breve la
espugnò, mal difesa dai Greci.[760] Nella poderosa oste militavano
Sassoni, Bavari e altri Tedeschi, Italiani delle province di sopra e dei
principati longobardi; condotti dai grandi vassalli dell'Impero laici ed
ecclesiastici, dal fior della nobiltà di Germania e d'Italia.[761]
Scarseggiando di forze navali, Otone s'acconciò coi protocarebi di due
salandre, mandate fin dai tempi di Niceforo Foca a raccogliere le tasse
di Calabria; i quali gli prometteano d'ardere il navilio musulmano:
ch'era doppio tradimento, o quei tentennavano nella fede del signor
loro, e si disponeano a seguir Otone vincitore, e vinto abbandonarlo.
Erano navi, scrive Ditmar, di mirabile lunghezza e celerità, con doppia
fila di remi e cencinquanta uomini ciascuna; armate di quel fuoco cui
nulla spegne se non l'aceto. Due gualdane di Musulmani furon sopraffatte
dall'esercito d'Otone;[762] una delle quali, o una terza che fosse, si
difese in una città, credo io Rossano, poi si dette alla fuga.[763]
Abu-l-Kâsem, partito con l'esercito del mese di ramadhan
trecentosettantuno (27 aprile a 26 maggio 982), saliva lungo la costiera
orientale di Calabria, dove ebbe più certi avvisi delle forze del nemico
accampato a Rossano.[764] Perchè non si fidando d'assalirlo, adunati i
capitani che voleano andare innanzi, risolutamente ordinò la ritirata: e
mandavala ad effetto con l'esercito e il navilio, quando i legni nemici
che stavano alla vedetta, addandosene, mandarono spacci ad Otone che
corresse sopra i Musulmani sbigottiti.[765] Ei lascia addietro gli
impedimenti e col fior dei suoi fa tate diligenza che sopraggiugne i
Siciliani il quindici luglio[766] su la marina di Stilo.[767] Vistili da
lungi sparuti di numero, sclama che sono masnadieri, non soldati, e,
incontanente comanda di dar dentro.[768] Abu-l-Kâsem, facendo alto,
s'era già messo in ordine di battaglia.[769]
Dopo aspro menar di mani avvenne che uno squadrone imperiale caricando
il centro de' Siciliani lo ruppe e volse in fuga. Trapassando
nell'impeto fino alle bandiere difese da Abu-l-Kâsem con un forte nodo
di nobili e prodi cavalieri, tennero il fermo; furon tutti mietuti e
l'emiro ucciso d'un colpo al sommo della testa:[770] ma immolandosi
strapparon la vittoria di mano all'imperatore tedesco. Chè a quel
respitto li sbaragliati si rannodano, precipitano alla riscossa, scrive
Ibn-el-Athîr, deliberati a morire; i vincitori, scrive Ditmar, dopo
breve scontro sono soverchiati e tagliati a pezzi:[771] nè fa maraviglia
tal subito scambio di sorti quando il centro de' Siciliani sconfitto
rifacea testa più addietro, e le ali rimase intere si chiudevano su le
spalle del nemico. Il rimanente dell'esercito otoniano si dileguò
fuggendo. Lasciò sul campo quattromila morti e grande numero di ottimati
prigioni.[772] Tra questi noverossi il vescovo di Vercelli mandato ad
Alessandria d'Egitto e riscattatosi dopo lunghi anni, al par che tanti
altri chierici e laici, i quali a poco a poco si vedean tornar in
Germania.[773] Degli uccisi, le croniche italiane ricordano Landolfo
principe di Capua, Atenolfo suo fratello e i nipoti Ingulfo, Vadiperto e
Guido di Sessa;[774] le tedesche, Arrigo vescovo d'Augsburg, Wernher
abate di Fulda, e molti altri prelati;[775] e dei gran baroni un Richar,
un duca Odone, i conti Ditmar, Becelino, Gevehardo, Guntero, Bertoldo,
Eccelino e un altro Becelino fratel suo, con Burchardo, Dedone, Corrado,
Irmfrido, Arnoldo, e altri che Iddio solo conosce, scrive Ditmar, il
quale vi perdè uno zio della madre.[776]
Otone il Sanguinario, fuggendo a briglia sciolta col cugino duca di
Baviera, avvistò le due salandre greche presso la spiaggia, e si tenne
salvo.[777] Ma arrestatoglisi il destriero, un giudeo suo fidato che lo
seguiva gli grida: “Prendi il mio e dà pane ai miei figli s'io ci
muoio,” onde Otone montato in sella[778] spinse il cavallo in mare;
gridò e fe' cenno al nocchiero; e quei tirò dritto. Tornato a proda,
trova il giudeo, Calonimo il suo nome, che l'attendeva ansioso di lui
non di sè stesso: il cugino era ito, chè già si vedean venire a spron
battuto i Musulmani. “E che farò?” sclamava Otone. “Ma sì ho ancora un
amico!” e lanciossi di nuovo nell'onda col cavallo del giudeo.[779]
Questi fu ucciso.[780] Ricettò l'imperatore l'altra salandra che
passava, conoscendolo un ofiziale schiavone.[781] Fatto posare dal
protocarebo sul proprio letto e interrogato, accertò sè essere Otone: lo
pregò d'accostarsi a Rossano, tanto che prendesse seco la moglie e i
tesori; ch'ei non voleva rimetter piè su l'infausta terra, ma andare a
Costantinopoli, ove i pii imperatori renderebbero merito a chi avesse
tolto a sicura morte il cognato. Il Greco assentì: navigando dì e notte
giunsero a Rossano.[782] Otone mandava lo Schiavone a terra, e non guari
dopo fu vista scendere alla marina la imperatrice con Thierry vescovo di
Metz ed una fila di giumenti che recavano, come diceasi, il tesoro; a
che il capitan greco gittò l'áncora. S'accosta con barchette il vescovo;
monta su la nave egli e pochi; parla ad Otone; e questi, per accogliere
onorevolmente la imperatrice, indossa abiti di gala, arriva passeggiando
al bordo: e giù in mare d'un salto. Un della ciurma che lo volle
ritenere, fu trafitto; gli altri ricacciati indietro dagli altri
famigliari saliti con l'arme alle mani; e Otone intanto afferrava la
spiaggia: talchè i Danai truffatori d'ogni gente furono burlati,
conchiude soddisfatto Ditmar.[783] Nel cui racconto io non veggo nulla
che rassomigli a favola. Altri recò il caso un po' diverso, come
l'andava ritraendo la fama;[784] chi venne appresso v'aggiunse e tolse
quanto gli parve;[785] falsarii moderni lo ricomposero a lor modo:[786]
e in fine i critici nauseati sono stati lì lì per rigettar tutti gli
episodii in un fascio.[787] I ricordi arabici convengono con Ditmar, sì
nei primi accidenti della fuga e sì nel successo, dicendo che Otone si
ridusse allo accampamento ov'era la moglie; e con lei tornossi a
Roma.[788]
E veramente, soggiornato alquanto a Capua, passò nell'Italia di sopra,
adunò del novecentottantatrè la dieta dell'Impero a Verona,[789]
s'apprestò a far vendetta sopra la Sicilia, vantossi di gittare un ponte
di barche su lo stretto di Messina,[790] e venne a morire a Roma (7 dic.
983); meno avventuroso d'Abu-I-Kâsem, ch'era caduto sul campo di
battaglia. Dove la stirpe arabica pagò alla stirpe italiana l'affitto
della Sicilia, coi buon colpi che sbarattarono un esercito germanico e
fecer morire di rabbia e disagi l'imperatore, l'Otone, passeggiante
ormai su l'estrema punta della penisola. E forse Salernitani, Romani, e
Italiani d'altre province tratti a forza sotto l'insegna imperiale,
benedissero le scimitarre orientali che loro balenavano dinanzi gli
occhi. Prepotente forza delle necessità geografiche su le vicende delle
nazioni, a vedere i Musulmani di Sicilia, guelfi innanzi tratto,
guadagnare in Calabria una prima Legnano![791]
Rimasti i Siciliani signori del campo, assumea le veci d'emiro Giâber,
figliuolo d'Abu-l-Kâsem; il quale immantinente fe' suonare a raccolta,
non concedendo di continuare il bottino; nè pur di raccogliere le armi e
attrezzi di guerra lasciati dal nemico da rifornirne gli arsenali di
Sicilia. Non si ritrae se fu necessità, paura o gelosia d'affrettarsi a
pigliar lo stato in Palermo; nè s'ei pensò a recar seco il cadavere del
padre. Ma alle costui virtù rese merito il popolo, che chiamollo “Il
Martire,” ed affidò alla storia questa epigrafe: Giusto, di specchiati
costumi, tutto amore ai sudditi, affabile, elemosiniere, che non lasciò
ai suoi figliuoli nè una moneta d'oro, nè una d'argento, nè un pezzetto
di terreno, avendo legato ogni cosa ai poveri ed opere di carità.[792]
CAPITOLO VII.
Sì com'era incerta la elezione degli emiri tra il fatto e il dritto,
così i cronisti variamente scrissero di Giâber, qual notando che i
Musulmani di Sicilia lo esaltarono senza diploma del califo;[793] e qual
che 'Azîz-billah, succeduto (975) a Moezz, in buona forma lo
nominò.[794] Fu l'uno e l'altro di certo. Giâber, dato a voluttà, lasciò
correre al peggio le cose pubbliche: donde i Siciliani il deposero,[795]
o se ne richiamarono al Cairo, dove una gelosia di corte spianò loro la
via. Perchè Ibn-Kellas, vizir del califo, si adombrava forte di
Gia'far-ibn-Mohammed della famiglia dei Kelbiti di Sicilia, intimo di
'Azîz tanto e più che il padre Mohammed non l'era stato di Moezz.[796]
Avendo pensato fin dalla morte d'Abu-l-Kâsem tôrsi d'addosso il rivale
con splendido esilio, Ibn-Kellas persuase adesso 'Azîz a farlo emir di
Sicilia[797] in luogo del cugino: e chi sa quanto rincalzò le querele
dei Siciliani, e se nol fece domandar proprio da loro? Dicon gli annali
arabi che Giâber dolentissimo lasciò, e Gia'far a malincuore prese
l'oficio. Nondimeno, arrivato in Sicilia del trecentosettantatrè (14
giugno 983, 2 giugno 984), rassettò e fece prosperare il paese; lodato
anco per amore degli studii e liberalità. Morto il quale del
settantacinque (23 mag. 985, 11 mag. 986), succedettegli il fratello
Abd-Allah, che seguì il bello esempio, e in breve anch'egli trapassò,
del mese di ramadhan trecensettantanove (dic. 989); lasciato l'oficio
d'emir al proprio figliuolo Abu-l-Fotûh-Iûsuf. Così espressamente il
Nowairi e Ibn-abi-Dinâr; nè vi ripugna il dir degli altri compilatori.
Aggiugne il Nowairi, che 'Azîz gli mandò poscia il rescritto
d'investitura.[798]
Arrivò all'apice in questo tempo e repente rovinò la potenza dei
Beni-abi-Hosein a corte del Cairo. Hasan-ibn-'Ammâr, il vincitor di
Rametta, per riputazione propria nelle armi e di sua parentela appo la
tribù di Kotama, si trovò sceikh, spontaneamente eletto, credo io, dei
Kotamii stanziati in Egitto, ch'eran tuttavolta i pretoriani di casa
fatemita: ed egli a un tempo lor patrono e fidato capitan del califo;
tantochè 'Aziz, venendo a morte (ottobre 996), gli raccomandò il
figliuolo Mansûr, soprannominato Hâkem-biamr-allah, fanciullo d'undici
anni. Alla cui esaltazione, i condottieri kotamii lo sforzarono a dare
il governo dello Stato a Ibn-'Ammâr, con oficio nuovo, che si chiamò il
_Wâsita_, ossia Intermediario; e vi si aggiunse il titolo di
_Amîn-ed-dawla_, che suona “Il Fidatissimo dell'impero.” Onoranza anche
nuova a corte fatemita e di mal augurio; quando gli _emîr-el-Omrâ_ che
posero in tanto vitupero il califato abbassida s'addimandavano per simil
forma La Colonna, La Pietra angolare, La Spada, e che so altro,
dell'impero. E per poco i Beni-abi-Hosein non copiarono il rimanente:
chè già il vecchio capitano mostrava fasto e superbia da re; nella
corte, nella milizia stremava le spese per arricchire i Kutamii, e lor
dava impunità d'ogni licenza e d'ogni misfatto. Un eunuco di corte
presto lo sgarò, fondandosi in su gli stanziali turchi i quali spezzaron
la boria ai Kotamii; onde Ibn-'Ammâr fu deposto dal comando (997),
onorato e tenuto in disparte per pochi anni; finchè il pupillo, che
andava assaporando il sangue, (1000) lo fece assassinare.[799]
Parve cosa degna di nota che nel breve predominio d'Ibn-'Ammâr ad un
tempo reggessero, egli l'Egitto e il cugino Iûsuf la Sicilia:[800] sì
com'oggi vedremmo con maraviglia, due stretti parenti, l'uno gran vizir
a Costantinopoli, l'altro pascià d'Egitto. Pertanto a tutti era già
manifesta la independenza della Sicilia; nè faceva specie che la corte
fatemita, per procaccio, com'e' sembra, d'Ibn-'Ammâr, desse a Iûsuf il
privilegio di _Thiket-ed-dawla_ che suona “Fidanza dell'impero.”[801] Nè
solamente si noverava la Sicilia tra gli stati musulmani di momento in
sul Mediterraneo, ma gli altri cominciavano ad invidiar sua sorte. Alla
fama in arme che le avean dato i primi tre emiri kelbiti, s'aggiunse la
prosperità sotto i discendenti del kelbita cortigiano Mohammed, tra i
quali segnalavasi questo Iûsuf. Leggiamo in una cronica che al suo tempo
il popolo godè ogni ben che si potesse desiderare; il governo si
condusse efficace e tranquillo; furono soggiogati parecchi paesi
bizantini, e l'emiro mostrò quella magnanimità, liberalità e giustizia,
che mancava in tanti altri principati musulmani.[802] Chi lodalo di
fermezza insieme e di bontà in verso i sudditi;[803] chi d'aver superato
tutti i predecessori in gloria e virtù.[804] La cultura sua e della
corte ci torna dalle biografie dei poeti contemporanei.
E prima d'Ibn-Moweddib da Mehdia, cervello strano dato all'alchimia e
alla pietra filosofale, uom di brutti costumi, cupido e taccagno, vago
d'andare qua e là per lo mondo a buscar danaro con meschini versi; il
quale, viaggiando alla volta d'un'isola adiacente alla Sicilia, era
stato preso dai Bizantini e ritenuto in lunga cattività. Rimandato in
Palermo con altri prigioni, quando Iûsuf fermò una tregua con l'Impero,
Ibn-Moweddib ringraziavalo con un poemetto, e l'emiro lo regalava; ma
non tenendosene soddisfatto, si messe a sparlare di Iûsuf sì
apertamente, che fu ricerco dal bargello. Si nascose appo un conoscente,
artigiano dell'arsenale. Ma uscito una sera ubbriaco per comperar
nuov'esca da bere,[805] lo colsero; e il prefetto della città[806]
condusselo immantinente a Iûsuf. Il quale lo rinfacciava: “Sciagurato,
che è questo che sento dir di te!” E il poeta a lui: “Ciarle di spioni,
che Iddio aiuti il signor emiro.” — “Ma ti sovviene,” riprese Iûsuf, “il
nome di chi cantò: Ecco il valentuomo messo con le spalle al muro dai
figli di male femmine?” — “Sì,” rispose Ibn-Moweddib, “il medesimo che
fe' l'altro verso: L'inimicizia dei poeti, tristo chi se l'accatta!”
Alla qual pronta citazione di Motenebbi,[807] l'emiro non gli disse
altro; ma gli fece contare cento quartigli[808] d'oro, a condizione di
andarsene tosto della città; “perchè temo,” aggiugnea, “che s'una volta
gli ho perdonato, un'altra me la pagherebbe cara.”[809]
Già la fama attirava alla corte di Iûsuf non men belli ingegni e animi
più alti, come Mohammed-ibn-'Abdûn nato a Susa d'illustre casa del
Kairewân, pregiato tra i suoi per buona lingua e stile semplice e
vigoroso. Il quale avendo cantato le lodi dell'emiro, sì gli piacque,
ch'ei lo volle compagno del proprio figliuolo Gia'far dilettante di
versi,[810] e questi gli si strinse di cara amistà. Tanto che volendo
rimpatriare, Gia'far, succeduto nel governo al padre infermo,[811] gliel
negò, ancorchè Mohammed lo chiedesse a lui ed al padre con rime piene
d'affetto. Che anzi, invaghito tanto più di quel bello ingegno, Gia'far
s'adontò che persistesse; gli vietò d'entrare in palagio; ed a
rappattumarsi furon uopo novelli versi, e che il poeta li porgesse di
furto mentre Gia'far stava a sollazzo in un casino.[812] Il quale
sentendosi rassomigliare alla luna e che pari a quella si nascondesse a
chi volea far ossequio, gli vennero le lagrime agli occhi e donò al
poeta un tesoro.[813]
Quanto fosse pagata non so, ma valea molto a lor gusto, una _Kasîda_
indirizzata a Iûsuf, innanzi il novecentonovantotto,[814] per la festa
del Sagrifizio,[815] da un Abd-Allah della tribù di Tonûkh, detto Il
figliuolo del cadi di Mîla, ond'ei pare oriundo d'Affrica. Il qual
poemetto ci serbò Ibn-Khallikân, che lettolo per caso su la coperta d'un
libro, lo trascrisse nelle Biografie degli uomini illustri, temendo non
andasse perduto. Come richiedea la classica immutabilità della _Kasîda_,
esordisce con lamenti amorosi, e visione di belle che sembrano
allegoriche, nè schiudon le labbra se non a ricordare i riti del
pellegrinaggio; talchè pervenghiamo per lungo giro alla festa del
Sagrifizio, a Iûsuf e al figliuolo. La festa, sfarzosamente abbigliata,
luccicante gli omeri del sottile drappo dell'Irâk, venía dopo un anno a
visitare _Thiket-ed-dawla_, che l'ornava di collana e pendenti, e
Gia'far accoglievala con lieti augurii. Ma quale gemma più lucente che
l'uno e l'altro re, nobili rampolli della gente di Kodhâ'a?[816] E chi,
dato fondo al proprio avere, sperando aiuto da Iûsuf, restò mai deluso?
Quell'Iûsuf che corse l'arringo della gloria coi principi ed ei solo
toccò la meta; il solo eroe che abbia potere di emendar il tristo
secolo; il brando sguainato contro i nemici della Fede; il forte scudo
dei Musulmani; la mente che vede ogni cosa e sa alternare mansuetudine e
forza; il guerriero armato di due spade, che son la costanza e il fino
acciaro. Ecco l'esercito inondar la terra nemica; le lance
rodeinite[817] avventarsi come fieri serpi addosso ai fuggenti; i
condottieri nemici tagliati a pezzi e spiccato da' busti capo insieme ed
elmetto; nè cessa il martellar delle spade, perchè le armature che testè
luccicavano all'alba sian gialle di polvere, anzi al polverio tutto
s'oscuri il sole. Indarno sperano i miscredenti risarcire lor guasti;
indarno s'apprestano a raccogliere le primizie dei campi, ch'ogni anno
gli stuoli che tu mandi in guerra, battono lor monti e lor pianure,
lasciando vestigio d'ignudi cadaveri capelluti e barbuti;[818] e chi
scampa si riman soletto, senza la famiglia ch'è menata in cattività; e
trova sì svaligiati suoi tempii, che gli è forza smettere l'idolatria.
Salve, o Iûsuf, vigile scolta dell'islam nella notte di questa misera
età. Lieta siati la festa; lunghissimi i tuoi giorni al ben fare, al
regno, alla gloria; e perenne suoni il tuo nome dal pulpito.[819] Così
il poeta metteva a un paro con le veraci virtù la sanguinosa
intolleranza religiosa e lo strazio de' vicini: e fosse dileguato al
tutto tal empio errore in religioni più mansuete e popoli più civili!
Pur la corte kelbita di Palermo avea fama in Italia di quella ch'era
gentilezza secondo i tempi, come l'attesta un centone d'istoria e
romanzo, scritto, un anno più o un anno meno, al mille di nostr'èra.
L'attesta, dico, trasponendo nel passato, come sovente si fa, le idee
presenti. L'autore, monaco a Roma o nei dintorni, narra i primi assalti
dei Musulmani sopra la Terraferma d'Italia (842) in questo modo: che
Florenti re palermitano, innamorato per fama della bella Gisa sirocchia
del principe Romualdo, per rapirla adunava sciami infiniti di Saraceni
d'Africa, Palermo e Babilonia; sbarcava ad Amalfi; aiutato dal perfido
Radalgiso, assediava Benevento; finchè Romualdo gli uccise quarantamila
uomini in una rotta, dalla quale Florenti a mala pena campò la
vita.[820] La qual favola è documento non solo della possanza, ma sì
della cultura dei Kelbiti allo scorcio del decimo secolo; poichè loro si
attribuisce proprio un fatto di cavalleria.[821] Il cronista poi,
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