Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II - 12

altro da quella marmaglia armata[595] che gli avean dato in guardia.
Mentre Niceta guazzava per trecento miglia di costiere col grosso del
navilio, Manuele Foca s'avviluppò col grosso de' cavalli tra i
precipizii dei monti Nettunii, per dare aiuto a Rametta. La quale, a
guardarla in su la carta, è vicina a nove miglia a Messina;[596] ma vi
si frappone erto il Dinnamare, che guarda entrambe le acque del Ionio e
del Tirreno e dalla cima sovrasta a quelle per tremila trecento piedi.
Pertanto chi cavalchi da Messina a Rametta, dèe prender lungo giro
intorno la montagna per settentrione e ponente infino a Spadafora, o per
mezzogiorno infino a Mili, e risalir dall'una o dall'altra per le
convalli; delle quali strade la prima corre ventiquattro miglia, l'altra
più di trenta. Sboccano in una pianura ritonda di tre o quattro miglia
di diametro; in mezzo alla quale spiccasi in alto una collina o
piuttosto immane masso, che vi si poggia per un sol viottolo aspro e
faticoso di mezzo miglio; e la cima disuguale è tutta coronata di mura.
Quest'è Rametta. Il piano d'intorno sembra l'arena di un circo
apparecchiato ad eserciti per duellare a ultimo sangue. Gli fan chiostra
scoscese e spaventevoli coste, fendendosi quanto basti ad aprir la via
per settentrione a Spadafora, per mezzogiorno a Mili; e un'altra gola
verso ponente conduce a Monforte. Dal lato orientale taglia la pianura
un burrone tirato quasi a filo per parecchie miglia da mezzodì a
tramontana: profondo squarcio di terreno siliceo, targo, precipitoso; e
all'imo fondo è talvolta stagliato come fosso di fortezza, che non dà
via a calarvi. Così lo descrivono i cronisti arabi; e mel confermavan
uomini pratichi dei luoghi, dai quali seppi quant'io ne ho scritto.
Delle tre gole fanno anco menzione gli Arabi, ma danno il nome di quelle
sole di Mikos e Demona; nell'una delle quali oggi mette capo la via di
Mili e nell'altra la via di Monforte. E s'addimandavan così da due
fortezze molto importanti in quel tempo; onde già ci è occorso di farne
parola.[597]
Aveva Ibn-'Ammâr dato avviso dello sbarco ad Ahmed: e questi
incontanente mosse di Palermo;[598] ma non potè giungere avanti Manuele,
il quale, non prima raccolte le genti a Messina, le menò in furia a
Rametta, la notte innanzi il quindici scewâl (24 ottobre). Mandò una
schiera a tentare il passo di Mikos, un'altra quel di Demona, una terza
a intercettare gli aiuti su la strada di Palermo: egli, con l'esercito
spartito in sei schiere, seguì la marina fino a Spadafora; indi poggiò
alla volta di Rametta. E quivi Ibn-'Ammâr avea dovuto scemarsi anco di
tre schiere per chiudere i passi di Mikos e Demona, e fronteggiare gli
assediati, se tentassero la sortita. Altro non gli rimanea dunque che un
buon nodo, tutto o la più parte d'Arabi Siciliani; col quale si fece
incontro a Manuele. All'alba appiccarono la zuffa.[599]
Al fragore non si stettero i cittadin di Rametta che non facessero
impeto nello stuolo musulmano messo in guardia; il quale li ricacciò
dentro le mura. Con uguale fortuna que' che teneano i passi di
mezzogiorno e di ponente respinsero i Bizantini.[600] Ma gli Arabi che
si erano travagliati lunga pezza contro Manuele con grande strage del
nemico e loro, imberciati nella stretta serra, com'è sembra, dai tiri
delle macchine, cominciarono a ritrarsi negli alloggiamenti:[601] e i
Cristiani ad incalzarli, ad irrompere nella pianura, a circondare il
campo: se li abbiamo cacciati dal passo, che faranno or che li tenghiamo
in mezzo e lor togliamo l'aria da respirare? E per troppa certezza della
vittoria par si fossero disordinati i Bizantini. Gli altri, certissimi
ed ormai bramosi della morte,[602] voglion finirla a un tratto; intonano
i versi dell'antico poeta arabo:
“Indietreggiai per amor della vita; ma vita, ah, non sento in petto se
non ripiglio l'assalto!
“Che le ferite del codardo gli tingano le calcagna. A noi le ferite
piovon sangue su la punta del piè.”[603]
E s'avventano con Ibn-'Ammâr: la misura del verso li unì in un sol
impeto da farsi far largo. Il capitano, visto che in vece di morire si
può vincer tuttavia, grida a tutto fiato: “Oh Dio, se m'abbandonano i
figli d'Adamo non mi lasciar tu:” e diè un'altra carica, che scompigliò
i nemici; e invano lor patrizii fecero prova a rattestarli con le parole
e coll'esempio. Manuele spronava nella mischia con un'eletta di cavalli;
rinfacciava a' suoi che si fossero millantati tanto coll'imperatore ed
or fuggissero dinanzi un pugno di barbari. Ferì in questo dire tra i
Musulmani; uccise di sua mano un uomo; e si trovò avviluppato, picchiato
di lance d'ogni banda; ma non passavano la grave armadura. Tirano dunque
al cavallo, chi di punta, chi di taglio a' garretti; caduto a terra col
suo signore gli si abbaruffano addosso Arabi e Greci; alfine fu
spacciato Manuele e chi l'aiutò. Gli altri si sbaragliarono. Era tra
mezzodì e vespro.[604] Il grosso degli Arabi eran fanti, come si vede
nell'episodio di Manuele che terminò la battaglia.
Durò la caccia, la fuga, la carnificina infino a notte. A compier
l'epico terrore del caso,[605] un negro nembo che ottenebrava quella
chiostra di monti, scoppiando a folgori e tuoni quando fu decisa la
giornata, incrudelì sopra i fuggenti, accrescendo i pericoli degli
ignoti e rotti luoghi. Uno squadrone messosi a briglia sciolta giù pel
burrato, precipitò nella fossa; che la colmaron uomini e cavalli, e i
vincitori passaronvi su di galoppo, dicono i loro annali, nè par mica
impossibile. D'ogni lato, pe' greppi e per le boscaglie, inseguirono gli
spicciolati, li scannarono quanto loro bastavan le forze a ferire: pochi
patrizii o altri uomini di nota fatti prigioni, per avarizia del
riscatto. Pochissimi camparono fuggendo. Più di diecimila i morti;
bottino infinito di cavalli, robe, armi; tra le quali si trovò una spada
ch'era passata dai Musulmani ai Cristiani in Oriente, e quella riebbero
nel sanguinoso campo di Rametta. Su la quale era inciso in caratteri
arabici: “Indiano è questo brando; pesa censettanta mithkâl; e molto
ferì dinanzi l'apostol di Dio.” Cotesta reliquia delle prime guerre
dell'islam era mandata poscia a Moezz con altre preziose armi e piastre
e maglie;[606] aggiuntovi una resta di capi mozzi e dugento prigioni
barbari, dice una cronica,[607] che sembran degli Armeni o dei Russi.
Ma come i trofei erano recati in Palermo, uscito all'incontro l'emiro
Hasan, fu commosso, dice Ibn-Khaldûn, di tanta e sì improvvisa gioia che
gli scoppiò una febbre maligna; della quale morì, del mese di novembre,
a cinquantatrè anni.[608] Tacciono tal drammatica infermità gli altri
annalisti: onde potè per avventura immaginarsela quell'ardito e primo
scrittor della Scienza Nuova,[609] cercando sempre dentro la storia
medesima la cagione del fatto la quale spesse volte si trova fuori. Fu
pianto da tutti Hasan, valoroso, savio, fondator d'una dinastia e però
maculato dei vizii del mestiere, che poi spariscono nel baglior d'una
corona.
I martiri di Rametta intanto bevvero infino all'ultima stilla il calice
amaro che la fortuna porgeva insieme con lor santa corona. Tennero il
fermo dopo la sconfitta dei Greci; ma lo stremo delle vittuaglie li
sforzò a mandar via le bocche inutili: mille della povera gente, com'e'
sembra, tra vecchi, donne e fanciulli. Ibn-'Ammâr, in vece di
rispingerli nella fortezza e affrettar la dedizione di quella, li
accolse e mandò in Palermo; ma fu crudo coi rimagnenti. Fatti pelle ed
ossa, tuttavia combattevano, entrato già il novecensessantacinque;
quando un giorno Ibn-'Ammâr apparecchia le scale, dà l'assalto, lo
protrae fino a notte; e allora una mano dei suoi salì su le agognate
mura di Rametta. Passati a fil di spada gli uomini; menate in cattività
le donne, i fanciulli; saccheggiata la città, e fattovi grande bottino.
Partendosi dopo un anno e mezzo da' selvaggi luoghi illustrati con tanto
sangue, Ibn-'Ammâr lasciò nella rôcca presidio e abitatori
musulmani.[610]
In questo mezzo Ahmed guadagnava una battaglia navale. Saputa la rotta
di Manuele mentr'ei si affrettava marciando sopra Rametta,[611] tirò
dritto, com'ei pare, a Messina[612] per cavar la voglia d'un novello
sbarco ai Bizantini che s'eran messi in salvo a Reggio. Seguiron poi in
Sicilia tanti altri scontri,[613] non sappiamo i luoghi; e d'un solo il
nome del capitan bizantino, il maestro Essaconte, il quale fu sconfitto
con grande strage.[614] Donde è manifesto che i Musulmani ripigliavano
ad una ad una le terre occupate; mentre il navilio greco pigramente
stava lì a Reggio per raccorre i presidii. Ahmed si pose alla vedetta a
Messina con quante forze potè. Quando l'armata nemica sciolse le vele
per Costantinopoli, risolutamente ei l'assalì; con tanta disparità di
preparamenti navali, che i Musulmani gittaronsi talvolta a nuoto per
appiccare il fuoco ai legni nemici.[615] Aspro e lungo indi il
combattimento, che ne rosseggiò il mar di sangue, scrivono gli
Arabi[616] in metafora, e può passare. Compiuta fu lor vittoria nella
battaglia dello Stretto, come la chiamarono. Affondate, arse o prese
tutte le navi bizantine; fatto grandissimo numero di prigioni, con cento
patrizii e mille altri nobili, se la non è metafora aritmetica
d'Ibn-Khaldûn. Il bottino e i prigioni erano recati in Palermo.[617] Tra
gli altri l'eunuco ammiraglio, il quale fu mandato a Moezz, e dimorò due
anni a Mehdia[618] in comoda prigione, ingannando il tempo a copiar le
omelie di San Basilio e qualche altro pio testo greco, in più di dugento
fogli di pergamena: bel volume ch'è adesso nella Biblioteca di Parigi,
soscritto con data e nome e titoli e donazione a una chiesa di
Costantinopoli, condotto dal principio alla fine con mano uguale e
ferma, di buon calligrafo, rubriche ad oro e colori, larghi margini e
puliti, colonne e righi tirati a squadra e compasso, che Temistocle e
Archimede avrebbero potuto invidiare tant'arte a Niceta.[619] Ahmed,
toltosi costui dinanzi, spingea le gualdane contro le città greche,
com'io credo, di Calabria; le quali, visto depredati i contadi e
intercetti i commerci, altro partito non ebbero che di far la tregua,
pagando tributo ai vincitori.[620] Questo fine sortì la impresa di
Niceforo Foca.[621]


CAPITOLO IV.

Due anni dopo le raccontate vittorie, correndo il trecencinquantasei (16
dic. 966, 5 dic. 967) Moezz significò all'emir di Sicilia la pace
fermata con l'Impero, e gli ingiunse di riattare, meglio oggi che
domani, dicea lo scritto, le mura e fortificazioni di Palermo; ordinare
in ogni _iklîm_ dell'isola una munita città che avesse moschea _giami'_
e pulpito; e ridurvi la gente dell'_iklîm_, vietandole di soggiornare
sparsa pei villaggi. Ahmed fece metter mano immantinenti ai lavori in
Palermo, e mandò per tutta l'isola _sceikhi_ preposti ad inurbare le
province. Tanto e non più una cronica musulmana.[622] Ed Ibn-Haukal,
venuto in Palermo sei anni appresso, ammirava le forti muraglie del
Cassaro e della Khâlesa; e intendea come delle nove porte del Cassaro
tre fossero state innalzate da Ahmed, una delle quali tramutata da
debole a difendevol sito.[623] Delle città ristorate oltre la capitale
nulla sappiam di certo.[624] Ma più monta indagare l'ordine militare ed
amministrativo accennati sì laconicamente dal cronista. Ed a ciò ne
proveremo; e direm poi della pace.
La prima cosa è da vedere che valga qui _iklîm_; la qual voce gli Arabi
tolsero del greco, al par di noi;[625] le serbarono il significato che
aveva in geografia fisica; e v'aggiunser quello di circoscrizione
territoriale. Così la troviamo in Affrica nel decimo secolo,[626] in
Sicilia nel duodecimo[627] e in Egitto nel decimoquarto;[628] dinotando
per lo più quel tratto mezzano di paese ch'oggi chiameremmo distretto, o
cantone: nè altro vuol dire al certo in questo rescritto di Moezz. La
moschea _giami'_ e il pulpito non portano a supporre più vasto
l'_iklîm_; ma solo che il capoluogo fosse città importante, da farvisi
la prece pubblica del venerdì.
Ma la gente[629] che si dovea dai villaggi ridurre nei capoluoghi, non
poteva essere l'universale degli abitatori: cristiani o musulmani;
liberi, _dsimmi_ o schiavi; nobili e plebei. Poco men assurdo sarebbe a
intender tutti i Musulmani, non esclusi i contadini, chè al certo ve
n'erano in Val di Mazara; e quanto agli artefici e mercatanti, non
occorrea comando del principe perchè soggiornassero nelle città. Però
trattavasi della sola milizia, dei nobili cioè con lor lunghe parentele;
e chi altro era tenuto _gente_ nel medio evo, fosse in Cristianità o in
terra d'islâm? Ignoriam noi se nel Val di Mazara, conquistato ormai da
un secolo, le milizie fossero pagate dall'erario in moneta sonante,
ovvero con _iktâ'_, o vogliam dire delegazioni, sul _kharâg_ di un dato
territorio, che riscuotessero con lor proprie mani,[630] stanziando qua
e là nelle ville. Ma ciò seguiva necessariamente in Val Demone e Val di
Noto, per la fresca mutazione del tributo dei municipii, in _gezîa_
degli individui e _kharâg_ dei poderi; mancando il tempo di stendere i
ruoli e i catasti, secondo i quali l'azienda pubblica riscuotesse il
danaro o il frumento del _kharâg_. E però non si eran fatti nè anco
_iktâ'_ in buona forma; ma nulla toglie che le milizie, con partaggio
provvisionale e tumultuario assentito o non assentito dall'emir Ahmed,
avessero diviso tra loro alla grossa le entrate mal note delle nuove
province, e si fossero sparse nelle campagne, esattori a libito e
pagatori di sè medesimi. La qual rapina permanente rovinava i sudditi
cristiani, snervava lo Stato musulmano, per le sciupate rendite
presenti, la inaridita sorgente di quelle avvenire e la sciolta
disciplina militare. A cotesti danni volle ovviare Moezz, forse in Val
di Mazara, di certo nella Sicilia orientale, con l'ordinamento novello;
per lo quale par fosse affidata a magistrati civili la riscossione, e
deputati gli stessi o altri oficiali in ciascun capoluogo a vegliare i
governati, e significar loro la parola del principe; il che si facea
d'ordinario nella _khotba_, e però dal pulpito, nella moschea
_giami'_.[631] Quali fossero allora i nomi e limiti degli _iklîm_ di
Sicilia, e se mere circoscrizioni militari, o anco di azienda, nessun
ricordo di quel tempo cel dice; nè vi si può supplire con induzioni. Sol
dobbiamo supporre che gli _iklîm_ fossero stati adattati ai corpi del
giund, non questi a quelli: perocchè, eccettuati gli stanziali, le altre
milizie facean corpo secondo le parentele, nè agevolmente si potea
dividere un corpo, nè tranquillamente tenerne insieme due o più di
schiatte diverse. Da questo e dalla diversità delle entrate pubbliche
sopra territorii uguali in superficie,[632] nascea la disuguaglianza
grandissima di estensione degli _iklîm_, che si nota in varii Stati
musulmani; e che durava in Sicilia infino al duodecimo secolo.[633]
La pace parve tempo opportuno a tale riforma d'amministrazione militare;
o forse nelle pratiche della pace l'avea chiesta il governo bizantino,
per temperare coi consigli i mali dei Cristiani di Sicilia, che non avea
saputo prevenire con le armi e che non poteva ignorare, nè farne le
viste coi frati e il clero di Sicilia. I quali consigli, utili anco al
principe musulmano, più gratamente doveano essere ascoltati nella
stretta amistà che allor nacque tra le corti di Costantinopoli e di
Mehdia da comuni interessi. L'uno era il sospetto di Otone di Sassonia,
il quale volle regnare in Italia quanto Carlomagno e più: ubbidito ormai
senza contrasto dalle Alpi al Tevere; coronato imperatore a Roma (962);
padrone della città; fattosi giudice a gastigare o vendicare i papi, ed
arbitro di eleggerli e deporli; e si voltava già ai favori del principe
di Benevento e contro Niceforo; assaltava (968) la Calabria, e
minacciava però la Sicilia.[634] Ma in Oriente stringea Moezz a
Niceforo, passione più gagliarda, la brama di spogliare altrui. Il
califato abbassida, mutilo da più tempo delle estreme province,
comandava or appena, e di nome solo, a Bagdad e in breve cerchio. I
Buidi o Boweidi teneano la Persia; la casa di Hamdân la Mesopotamia; la
dinastia d'Ikhscid la Siria e l'Egitto; i Karmati l'Arabia, donde
terribili irrompeano fuori. Lo stesso nome di califo rimanea per
ipocrisia o compassione dei vicini usurpatori, dei ministri o capitani
di ventura avvicendatisi nella signoria della capitale, i quali
vendettero gli oficii pubblici in faccia ai successori di Omar e di
Harûn Rascîd, saccheggiarono la reggia, messer loro le mani addosso, lor
fecero stentare la vita con una pensioncella; mentre i mercenarii turchi
o deilemiti e la plebe ad ogni piè sospinto insanguinavano le strade di
Bagdad. Tra tanta rovina del califato, Niceforo Foca (962-7) trionfando
nell'Asia Minore, s'era innoltrato due volte in Siria; avea preso
Aleppo, Laodicea e molti altri luoghi, e assediato Antiochia, che fu
indi espugnata da' suoi.[635] Venuto così Niceforo alle mani con gli
Ikhsciditi, nemici immediati di Moezz, probabil è che si trattasse tra
l'uno e l'altro di operare d'accordo.
Tanto più che Moezz ebbe con un ambasciatore bizantino quella
famigliarità che sovente nasce tra svegliati ingegni. Costui chiamossi
Niccolò, mandatogli più volte da Costantinopoli a Mehdia ed al
Cairo;[636] forse il medesimo che stipulò la detta pace del
novecensessantasette, recati a Moezz splendidi doni di Niceforo, e
avutone per riscatto o in cortesia l'eunuco Niceta.[637] L'ambasciatore,
sostato per viaggio in Sicilia, andava misurando la possanza fatemita:
accolto onorevolmente dal governatore dell'isola, e notato il
bell'aspetto dell'esercito; viste poscia a Susa le grosse schiere che
v'erano apparecchiate. Ma a Mehdia il greco si facea strada a stento
nella calca dei soldati, famigliari e cortigiani, finchè, entrato nella
reggia, uno splendore lo abbagliò: e condotto a Moezz che sedea
maestosamente sul trono, gli parve proprio il Creatore del mondo, non
uomo mortale; che se si fosse vantato di salir su in cielo gli avrebbe
risposto: “è incredibile, ma tu lo farai.” Tanto si dice che confessasse
Niccolò, pochi anni dopo, al principe medesimo, il quale, chiamatolo in
segreto nella reggia del Cairo, gli avea domandato: “Ti sovviene del tal
dì ch'io ti prediceva in Mehdia saresti venuto a salutarmi re in
Egitto?” — “È vero,” rispose; e Moezz: “Ci ritroveremo adesso a Bagdad;
tu ambasciatore, ed io califo.” Ma il Greco stiè zitto; e, sforzato da
Moezz, gli fe' quel racconto della luce sfolgorante di Mehdia e che
adesso vedea negra di tenebre la capitale, e ammorzata nella sua faccia
quella terribile maestà; donde giudicava rovesciata e sinistra la
fortuna. Moezz abbassò gli occhi tacendo; s'ammalò; e non guari dopo
morì (975). Che che sia di cotesto dialogo, il quale non disconviene a
due adetti d'astrologia del decimo secolo, si accetteranno i particolari
della prima ambasceria che fanno all'argomento nostro: la condizione
cioè dell'esercito siciliano; e che Moezz volentieri ragionasse di sue
ambizioni orientali coi legati di Costantinopoli.[638]
Già le guerre di Niceforo e le irruzioni dei Karmati in Siria batteano
la dinastia turca, fondata in Egitto da Ikhscid, capitano degli
Abbassidi, il quale avea occupato la provincia commessagli e l'avea
lasciata a' suoi. Venuto a morte (maggio 968) il loro liberto Kafûr che
tenne con man ferma lo Stato, succedettegli di nome un Ahmed, nipote
d'Ikhscid, fanciullo di undici anni, e di fatto un reggente e due
ministri i quali si sfamarono in rapine e soprusi. Indi tumultuavano le
soldatesche; i cittadini malcontenti prestavano orecchio alle pratiche
di Moezz; e un sensale giudeo di Bagdad, che s'era fatto musulmano e
straricco e strumento necessario dell'azienda d'Egitto, visto che i
nuovi signori stendesser le mani a pelarlo, si rifuggì appo il Fatemita;
gli svelò le condizioni del paese e le vie di insignorirsene. La
pestilenza e la carestia che in quel tempo desolavan orribilmente
l'Egitto, aiutarono al precipizio.[639]
Moezz ebbe sapienza e genio di amministrazione, di che solea trar vanto.
Narrasi che una volta, per sermonare i grandi della vezzeggiata e temuta
tribù di Kotama, si fece trovare in farsetto, nel suo studio, tra libri
e dispacci: “Ed ecco,” lor disse, “com'io spendo i giorni a far di mia
mano il carteggio con l'Oriente e l'Occidente, in vece di sedere a desco
profumato di muschio, vestito di sete e pellicce, a sbevazzare al suono
di strumenti musicali e canto di belle giovani! Chi mai in questo popolo
crederebbe che il principe è serrato in camera a procacciare la
sicurezza e prosperità del paese e il trionfo vostro su i nemici?” E
finì con ricordar loro, da moralista e da medico, tutte le virtù, anche
di star contenti a una moglie; promettendo che, s'e' lo ascoltassero,
così conquisterebbero i paesi orientali, com'avean fatto del
Ponente.[640] E con ciò a consultare gli astrologi e più sovente le
spie; tenere mandatarii con le man piene d'oro nei paesi agognati; e
biechi bargelli su le popolazioni arabiche d'Affrica. Ond'ei parrebbe a
legger di Filippo secondo di Spagna, se nei costumi di Moezz si notasse
fanatismo ed ipocrisia, anzichè un animo generoso e un colto ingegno,
vago di poesia, vivace e facondo, pratico in varie lingue; il berbero,
il negro e lo slavo.[641] Del rimanente uom di stato non ordinò mai
vasto disegno con maggior arte, ch'egli il conquisto d'Egitto. Oltre le
dette pratiche, si procacciava séguito nelle due città sante
dell'Arabia; si assicurava in Affrica; accumulava tesori; ordinava gli
eserciti; e cercava, per mandarli ai conquisto, un gran capitano
senz'ambizione.
Lo trovò o lo fece egli stesso: un Siciliano di schiatta cristiana,[642]
Giawher, che suona “'gioiello;” se pur questo non è il vocabolo arabico
raddolcito dalla nostra pronunzia. Figliuolo d'un Abd-Allah, che pare
schiavo rinnegato, Giawher fu comperato da un eunuco affricano,
rivenduto a un secondo e da questi a un altro; il quale ne fece dono al
califo fatemita Mansûr.[643] Messolo a lavorar coi segretarii, Mansur
poi l'affrancò; donde entrava, secondo legge musulmana, nella famiglia.
Era giovane di bello aspetto, lodevoli costumi, pronto ingegno,
affaticante, vigilante, sennato scrittore e pulito, chè ne resta di lui
l'editto della sicurtà data al popolo egiziano; e molto amò la poesia e
le lettere, protesse cui le coltivasse, e salito a potenza fu largo coi
poeti. Moezz, sperimentatolo in varii oficii pubblici, lo fece vizir;
poi si consigliò di mandarlo (958) con un esercito di Berberi a ridurre
le province occidentali d'Affrica, di cui alcuna s'accostava agli
Omeîadi di Spagna: e Giawher in men di due anni occupava per molti
combattimenti l'odierno Stato di Marocco; mandava a Moezz i pesci e le
alghe presi nell'Atlantico, e gli recava egli stesso in gabbie di ferro
i principi di Segelmessa e di Fez. Però, deliberata, dopo la morte di
Kafûr, l'impresa d'Egitto, Moezz la commetteva al liberto siciliano;
provvedeva con esso lui ad ogni cosa, fatti financo scavar pozzi nel
deserto di Barca su la strada che dovea battere l'esercito da Sort a
Faiûm. Giawher s'infermò a morte in questo tempo; e il califo a
visitarlo ed assisterlo; e sicuro dicea: “Non morrà, poichè mi dèe
conquistare l'Egitto.”[644]
All'entrar di febbraio del novecensessantanove, ragunate le genti nei
piani di Rakkâda per muovere all'impresa, apparve più brutta che mai
l'uguaglianza del dispotismo. Giawher smontava di sella, baciava la mano
di Moezz e l'unghia del pontifical palafreno; e alla sua volta,
cavalcando con l'esercito, si vedea camminar dinanzi a piè, per comando
del califo, i costui figliuoli e congiunti, non che i grandi del regno.
I centomila uomini che gli danno i cronisti, significano che fu possente
l'esercito; i cameli carichi d'oro gittato in forma di macine,
simboleggiano, a mo' delle Mille ed una notte, il provvedimento
necessario a chi andava a combattere in paese affamato, con giunta
d'infinite barche stivate di grano che seguivano l'armata alle bocche
del Nilo. Nei primi di giugno, non lungi da Fostat, sede del governo,
Giawher fermava un accordo coi principali cittadini;[645] concedendo a
tutto il popol d'Egitto la sicurtà della vita, sostanze e famiglie, a
nome del califo; il quale, mosso a pietà del paese, avea mandato sue
armi invitte a liberarli dai ladroni e dagli empii e farvi rifiorir la
giustizia. Scendendo alle realtà, promettea di rilasciare le indebite
esazioni del fisco su i retaggi; fornir le spese necessarie alle
moschee; rispettare le opinioni religiose,[646] e i giudizii secondo
l'usanza del paese, non contraria al Corano nè alla _sunna_; e mantenere
i dritti dei _dsimmi_.[647] Si recò allora in parti la città; chi
sdegnava l'accordo uscì a combattere e fu rotto; il vincitore,
confermati saviamente i patti, entrava a Fostat nei primi di luglio.
Altro non mutò dei riti che il nome del principe nella _Khotba_,
l'appello alle preghiere, e il color delle vestimenta degli oficiali
pubblici, di nero in bianco. Provvide all'azienda da uom del mestiere;
pose in ogni uficio un egiziano e un affricano; amministrò rettamente la
giustizia; e con rara modestia esercitò il pien potere commessogli.[648]
Piantato il campo presso Fostat, disegnovvi la novella capitale, la
_Kâhira_, ossia trionfatrice; e diè mano immantinente a edificarla.[649]
Quivi innalzò la moschea Azahr, che fu compiuta entro due anni; nella
quale il fondatore volle tramandare ai posteri il nome della patria
siciliana e dell'oficio ch'era stato principio di sua grandezza.[650]
Assicurò il conquisto reprimendo chi si levasse nelle province; e dando
una memorabile sconfitta (971) ai Karmati, che vennero ad assalirlo al
Cairo.[651]
Intanto il nome di Moezz era gridato alla Mecca e Medina; capitani
minori mandati da Giawher gli acquistavano parte di Siria;[652] non
ostante i Karmati, o forse per la paura che avean di loro i Musulmani,
parea che i popoli da Suez all'Eufrate volesserlo riconoscere signore.
Onde Giawher tanto insistè, che il trasse a trasferir la sede in Egitto;
il che se non bastò a dare ai Fatemiti l'ambito impero musulmano, fece
durar due secoli la dinastia, la quale, rimasa in Affrica, sarebbe stata
spiantata di corto. La prodigiosa fertilità dell'Egitto; la postura che
ne fa scala del commercio tra l'Oriente e l'Occidente; la popolazione
gran parte cristiana, docile o servile e attaccata al suolo, offrian
salda base a una dominazione reggentesi sugli ordini dell'azienda, d'una
setta e d'una tribù berbera, non su popolo ed armi di sua propria
nazione: oltrechè i padroni d'Egitto, per necessità geografica,
comandaron sempre alla Siria e tennero le chiavi dell'Arabia
occidentale. In Affrica, al contrario, i Fatemiti non avean potuto
vincere la nimistà dei cittadini arabi in sessant'anni di terrore e di
sferza,[653] non spegnere l'antagonismo del sangue berbero racceso dalle
sètte kharegite; e mentre e' conquistavan l'Egitto, erano necessitati
raccomandarsi alla tribù di Sanhâgia per reprimere un altro ribelle che
seguía le orme di Abu-Iezîd.[654] Nè Sanhâgia, condotta dalla famiglia
zîrita, lor prestava le armi con sì cieca lealtà da far serva sè stessa.
Nè i Kotamii soffrivano che il califo comandasse in casa loro:[655] nè
d'altronde bastavano a tener l'Affrica, facendo insieme da pretoriani in
Egitto e un pugno anco in Sicilia.
Moezz si deliberò dunque a sgomberare d'Affrica per sempre, recando seco
arredi, tesori, armerie e fin le ossa degli avi. Partì d'agosto
novecensettantadue; sostato alquanto a Sardegna, villa d'Affrica che par
abbia preso il nome dai Sardi che vi soggiornarono,[656] con magnifica
lentezza entrò al Cairo di giugno novecensettantatrè; assestò le cose
pubbliche con Giawher; poi messe da canto l'illustre liberto, il quale
morì il novantadue; e il suo figliuolo Hosein, generalissimo del nipote
di Moezz, fu ucciso da quello a tradimento.[657]
Di rado ci occorrerà ormai di tornare alla storia dell'Egitto; e di
Moezz, basterà aggiugnere gli ordini politici lasciati nelle antiche
province. Presto ei depose, se pur l'ebbe mai, il pensiero di commettere
l'Affrica a un Arabo di nobil sangue, il quale, non sarebbe stato
contento a picciola autorità; nè bastante a tenere il paese coi coloni
arabi contumaci.[658] Si volse pertanto ai Berberi, alla tribù di
Sanhâgia, alla famiglia zîrita, al capo Bolukkîn, e, per arabizzarlo,