Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II - 10
a ponente del Salso; a spiegar la quale non basterebbero nè le
migrazioni dall'Affrica, nè il naturale accrescimento di popolo che
prosperi. Del fatto non si può dubitare. Ibn-Haukal, venuto in Palermo
il novecentosettantadue, fornisce dati da ragionare la popolazione della
capitale a più di trecentomila anime.[476] Khalîl, trent'anni prima fece
morire oltre secentomila persone nel Val di Mazara, esclusa Palermo,
dove l'efferato animo non trovò pretesto a sfogarsi. A suppor dunque
distrutto in quattro anni (938-41) un terzo della popolazione della
provincia musulmana, il Val di Mazara, cioè, con Palermo, le si debbon
dare innanzi il novecentrentotto due milioni d'abitatori, quanti ne ha
adesso tutta l'isola. Men della metà erano Musulmani.[477]
Quanto alle schiatte, credo gran parte di tal popolazione antichi
abitatori della Sicilia tutta, ridotti in Val di Mazara; tra liberti,
vassalli e schiavi, tra cristiani, rinnegati e giudei:[478] questi
ultimi stanziati nelle città; gli altri, in città e ville. Non occorre
di replicare ciò che dicemmo degli antichi coloni musulmani. Ma quei
venuti d'Affrica nella prima metà del decimo secolo, furono di tre
maniere: industriali, soldatesche, e rifuggiti. Pei primi non
sarebbe necessario allegare testimonianze e poche possono
rimanerne: pure abbiamo il ricordo d'un Sa'îd-ibn-Heddâd, di famiglia
artigiana come lo accenna il nome patronimico, al quale, sotto il regno
d'Ibrahim-ibn-Ahmed, morì in Sicilia un fratello che gli lasciò
quattrocento dînar, guadagnati com'ei pare, con alcuna industria.[479]
Dal novecento al novecentrentanove quattro grossi eserciti erano stati
mandati a ripigliar lo stato in Sicilia; un altro (902) e parecchi
stuoli minori vi erano passati andando in Calabria. Ma di cotesta massa
soldatesca di Berberi, Negri, Slavi e milizie arabiche d'Affrica,
sbarcati nell'isola in men di mezzo secolo, chi fu spento, chi se ne
tornò; picciola parte è da supporre rimasa a soggiorno: e di ciò si ha
indizio pei soli Slavi, che diedero nome al più grosso quartier della
capitale.[480] Sembra di maggiore importanza, per lo numero e per la
qualità degli uomini, la migrazione dei partigiani di casa aghlabita e
dei fervidi ortodossi che lasciavano l'Affrica, per paura o dispetto, al
mutamento della dinastia e alle varie persecuzioni che seguirono. Ai
quali la Sicilia era asilo, come paese più lontano dagli occhi
sospettosi dei governanti e come quello che odiava i Fatemiti e vivea
più o meno apertamente in rivoluzione.
E cresciuta la popolazione, cessate le continue guerre del conquisto,
incominciavano a metter fronde, se non per anco fiori e frutti, gli
studii; sturbati sì nelle guerre d'independenza dal romor delle armi, ma
molto più promossi dal principio civile che accompagna i moti politici e
fa lor precedere o seguire da presso lo svegliamento degli ingegni.
Favoriva anche gli studii il contatto più familiare coi vinti, la
liberale educazione e dottrina dei rifuggiti d'Affrica e l'esempio dei
giuristi mandati a tenere i magistrati.
Per cominciar dagli avanzi dell'antica civiltà del paese, ricorderemo
l'opera che prestò un dotto siciliano nella versione della materia
medica di Dioscoride. Aveva abbozzato questo gran lavoro a Bagdad verso
la metà del nono secolo, Stefano cristiano di Siria; il quale, sapendo
la lingua meglio che la scienza, tradusse i nomi dei semplici più ovvii,
e di molti altri trascrisse la denominazione greca senza il riscontro in
arabico. Si doleano dunque della imperfetta versione i medici che
fiorirono sotto gli Omeiadi di Spagna, quando del novecenquarantotto,
trattato un accordo tra Romano imperatore di Costantinopoli e l'omeiade
Abd-er-Rahman-Naser-lidin-illah, Romano gli inviò, tra gli altri doni,
il testo latino delle storie di Paolo Orosio ed un manoscritto greco di
Dioscoride, con belle miniature delle piante. Deste a ciò le speranze
dei dotti di Cordova, come ci narra Ibn-Giolgiol che fu medico della
corte nel regno seguente, il califo Abd-er-Rahman richiedeva a Romano un
interprete di greco e di latino; e mandatogli del novecentocinquantuno
il monaco greco Niccolò, fu riveduta o piuttosto rifatta la versione con
l'aiuto dei disegni. Se ne dèe merito a parecchi medici arabi di Spagna,
al dotto medico giudeo Hasdai-ibn-Bescrût, all'interprete Niccolò ed al
siciliano Abu-abd-Allah, che parlava l'arabo e il greco e conoscea la
materia medica; tantochè la difficile interpretazione tecnica fu
compiuta, nè altro rimase ad appurare che una diecina di semplici di
poco rilievo. Fin qui Ibn-Giolgiol, il quale in gioventù conobbe e
praticò tutti i collaboratori. Del Siciliano altro ei non dice; ma ben
si può supporre di schiatta greca e convertito di fresco, non avendo
nome patronimico, e prendendosi sovente dagli uomini nuovi il nome
proprio di Abd-Allah, che significa servo di Dio.[481] Possiamo supporre
di gran momento la cooperazione sua, poichè si narra di lui solo che
unisse le nozioni tecniche alle filologiche.
Dalla medicina passiamo di sbalzo alla giurisprudenza; non concedendo
quadro più compiuto le memorie che abbiamo. Ma se giurisprudenza vuol
dir la base d'ogni civiltà; se l'incivilimento europeo si debbe alla
legge romana, più che a niun altro libro o istituzione; lo studio del
dritto ebbe nell'islamismo confini assai più larghi e maggiore influenza
civile e letteraria che nell'Occidente pagano o cristiano. Accennammo
già la importanza politica dei giuristi musulmani dell'ottavo e nono
secolo.[482] Lo studio loro abbracciava tutte le scienze che noi
chiamiamo morali e politiche, trascorrea fino alla teologia, chiamava la
filologia a darle aiuto nella interpretazione del Corano, adoperava la
biografia come strumento di critica della tradizione, arrivava alle
soglie della matematica computando le tasse legali e le frazioni nel
partaggio delle eredità. Però non fa torto all'Affrica se non coltivò
con onore altra scienza che questa. Ve la illustrarono nel nono secolo
Ased-ibn-Forât, conquistatore della Sicilia, e Sehnûn;[483] entrambi
della scuola di Malek. Nè tardò molto a passare in Sicilia mediante i
discepoli di Sehnûn. Fra i quali levò grido un Iehia-ibn-Omar-ibn-Iusûf
morto in Susa il novecentotrè in odore di santità[484] e maestro del
siciliano Abu-Bekr-Ahmed-ibn-Mohammed-ibn-Iehia, coreiscita, devoto
famigerato.[485] Più che la voce di tal discepolo, giovò una grande
opera di Iehia-ibn-Omar, intitolata “Comandamenti della fede e leggi
dell'islâm,” la quale si leggea nelle scuole di dritto di Sicilia e
d'Affrica, e chiamavanla comunemente il Libro dei Miracoli. Vivendo
l'autore, un liberto degli aghlabiti, diligentissimo editore,[486] s'era
venduto il giubbone per comperare pergamena vecchia[487] da copiar
questa o altra opera di Iehia-ibn-Omar; e, com'egli ebbe fornita la
copia, un altro zelante e povero letterato fe' lungo viaggio a piedi per
amor di leggerla e trascriverla. Parecchi anni appresso un giurista
siciliano o stato nell'isola, infervorato del Libro de' Miracoli sel
vide in sogno tutto illuminato d'una luce che scendea dal cielo. A tal
venerazione era giunta l'opera d'Iehia e la scienza ch'ei coltivò! In
Palermo insegnava per quattordici anni la _Modawwana_, celebre manuale
di dritto secondo Malek, il professore Abu-Sa'îd-Lokmân-ibn-Iusûf, della
tribù arabica di Ghassân, trapassato a Tunis il trecentodiciotto
dell'egira (930-31); martire della didascalia, s'egli è vero che morì
d'una piaga fattasi al costato con l'angolo della tavola sulla quale
solea scrivere e spiegare il testo. Si nota di costui che possedette
dodici rami diversi di scienze;[488] nè fa maraviglia, atteso la vastità
degli studii che rannodavansi al dritto.[489]
Segnalossi tra i discepoli di Sehnûn, per dottrina e austera integrità,
un Abu-'Amr-Meimûn-ibn-'Amr, il quale diè alla Sicilia bell'esempio
delle virtù di magistrato. Promosso a cadi dell'isola, da delegato
ch'egli era al tribunale dei soprusi di Kairewân, andando a Susa per
imbarcarsi, Meimûn si volse alla gente che gli dava il buon viaggio.
“Cittadini,” lor disse, “ecco la giubba e il mantello che ho indosso;
ecco lo zaino coi miei libri, e cotesta schiava negra che mi fa i
servigi di casa, con una giubba e un mantello nè più nè manco di me:
ponete ben mente, e vedrete in che arnese tornerò di Sicilia.” Giunto in
Palermo, come poi narrò il siciliano Sa'îd-ibn-Othman, e condotto alla
casa dei cadi, Meimûn quando la vide, ricusò d'entrarvi, dicendo non
saper come acconciarsi in sì gran palagio; e volle albergare in una
picciola casetta. Dove, senza aguzzini nè uscieri, quando alcun
picchiava alla porta, correa la negra ad aprire, rispondeva: “or ora
parlerete al cadi;” e chiamatolo, se ne tornava a filare per vendere il
refe e supplire allo scarso mantenimento del padrone. Il qual magistrato
non è a dire se fosse caro a tutta la città. Poi si ammalò. Non
vedendolo uscir di casa da tre dì, gli amici, andati a visitarlo, lo
trovarono giacente, in vece di tappeto, sopra una stuoia di papiro,
manifattura indigena,[490] appoggiando il capo su due cuscini imbottiti
di fieno. Piangendo lor disse avere atteso all'oficio, che n'era
testimone Iddio, finchè gli eran bastate le forze; nè li avrebbe
abbandonati giammai se non fosse stato per quella incurabile infermità
che si sentiva. Volle andare a morire in patria. E quando partì: “Che
Dio vi conceda un successore miglior di me,” furon le ultime parole di
Meimûn ai Palermitani; e quelli a benedirlo ed a pregargli salute. Nè
dimenticò, messo il piè a Susa, di mostrare alla gente il sacco dei
libri, le vestimenta fatte più logore e la stessa schiava.[491]
Per certo le relazioni politiche con l'Affrica fruttarono alla Sicilia
un utilissimo commercio d'idee e di studii. Si novera tra i discepoli di
Sehnûn, un Diama-ibn-Mohammed, morto il dugentonovantasette (909-910),
ch'era stato cadi di Sicilia sotto gli Aghlabiti.[492] Con
l'insegnamento ortodosso trapelavan anco i novelli ardimenti
filosofici dei Musulmani; sapendosi che il giureconsulto
Abu-Giafar-Mohammed-ibn-Hosein-Marwazi, com'ei pare, oriundo persiano,
trapassato in Sicilia del dugentonovantatrè (905-906) era forte sospetto
di miscredenza.[493] Sembrano incominciati in Sicilia nella stessa metà
del decimo secolo gli studii filologici; poichè il primo Siciliano
lettor del Corano e grammatico di cui si trovi il nome nelle raccolte
biografiche, è Abu-abd-Allah-Mohammed-ibn-Khorassân, liberto degli
Aghlabiti, nato il trecentosei (918-19), di schiatta persiana anch'egli,
se è da stare all'indizio del nome patronimico.[494]
Appariscono al tempo stesso in Sicilia i primi esempii d'una maniera di
erudizione che fu molto in voga appo i Musulmani, dico i racconti
biografici che correano nelle scuole e ritrovi dei dotti: officine delle
effemeridi letterarie di quel tempo. Taluno li messe in carta; poi
vennero i compilatori che ci hanno serbato cotesti materiali di Storia
letteraria, chiamati per lo più _Tabakât_, o vogliam dir classi, sendo
ordinati i cenni biografici in classi, di giureconsulti, grammatici,
poeti, lessicografi e simili: Delle più antiche e preziose, è il
_Riâdh-en-Nofûs_, da noi ricordato sovente; il quale, trattando dei
giuristi e santi musulmani d'Affrica fin oltre la metà del decimo
secolo, ci dà i nomi dei Siciliani che tramandarono parecchi aneddoti a
voce o in iscritto. Indi veggiamo che Abu-Bekr-Ahmed, citato dianzi tra
i discepoli di Iehia-ibn-Omar, lasciò ricordi, scritti com'e' pare,
intorno il pio giurista Abu-Harûn-Andalosi, vissuto in Affrica; pei
quali fatti Abu-Bekr or si dà come testimone oculare, or allega i detti
altrui.[495] Il medesimo Abu-Bekr, su la fede dell'altro Siciliano
Abu-abd-Allah-Mohammed-ibn-Khorassân,[496] riferisce aneddoti d'un
Ibn-Ghazi da Susa, devoto un tempo e rinomato lettore del Corano per la
melodia della voce, poi infame tra gli Ortodossi perchè alla esaltazione
del Mehdi lo adulò vilmente, è s'affiliò a setta ismaeliana.[497]
Abu-Bekr, avendo in sua giovinezza conosciuto Iehia-ibn-Omar (m. 903) ed
Abu-Harûn-Andalosi (m. 905), visse nella prima metà del decimo secolo.
Contemporaneo di lui, e al par siciliano Saîd-ibn-Othman; il quale
raccontò a voce i fatti del cadi Meimûn in Palermo.[498] Un altro
Abu-Bekr, per nome Mohammed-ibn-Ahmed-ibn-Ibrahim, maestro di scuola,
detto il Siciliano, forniva all'autore del _Riâdh_ alcuni aneddoti del
devoto africano Abu-Iunis-ibn-Noseir, morto il trecentoquattro (916-17)
del quale ei fu amico ed ospite.[499] Il Siciliano Abu-Hasan-Harîri, o
diremmo il Setaiolo, morto il trecentoventidue (934), che guadagnò con
ascetiche stravaganze un cenno biografico nel _Riâdh_, può passare
anch'egli tra gli agiografi; poichè si seppero dalla sua bocca le dolci
visioni di Moferreg,[500] le zuffe d'Abu-Ali da Tanger col nemico del
genere umano,[501] e le vicende del pellegrino Abu-Sari-Wâsil,
ritrattosi in eremitaggio presso il castello Dîmâs in Affrica.[502]
Per quanto si voglian supporre perduti i ricordi di quella età, la somma
è che, innanzi la dominazione kelbita, la cultura intellettuale della
Sicilia si ristringea quasi alla scienza del dritto; nè lasciò nomi
illustri. L'argomento negativo che viene dal _Riâdh_ e da altre
compilazioni parziali, pienamente si conferma col dizionario generale
d'Ibn-Khallikân, dove si leggono le biografie di Siciliani del duodecimo
e undecimo secolo, ma nessuna ve n'ha del decimo. Ciò non vuol dire che
gli studii lontani dalla giurisprudenza, l'erudizione, le lettere, la
poesia fossero trascurati al tutto in Sicilia, avanti i Kelbiti. Sarebbe
bastata a recarveli la sola famiglia aghlabita, che sì larga diramossi
allato al regio ceppo d'Ibrahim. Perchè nel nono secolo que' nobili rami
dieron molti emiri alla Sicilia;[503] una lor famiglia anco par
trapiantata nella colonia:[504] e dall'altra mano sappiamo coltivate dai
discendenti d'Aghlab logica, dialettica, astronomia o astrologia che dir
si voglia, rettorica, filologia, e lo stile peregrino di scrivere; ne
troviamo anche un che dettò cronica o storia della casa d'Aghlab; e dei
verseggiatori non v'ebbe penuria.[505] Ma in Affrica coteste discipline
non fiorirono mai al par del dritto, nè salirono al ragguaglio delle
letterature contemporanee dei califati d'Oriente e di Spagna: e la
colonia siciliana, che le toglieva in prestito dalla madre patria, pur
dovea rimanere più addietro. Non si veggono Affricani nè Siciliani nel
_Ietimat-ed-dahr_, antologia poetica di Th'âlebi, oriundo persiano
vivuto nei principii dell'undicesimo secolo; il quale, ricercando i
poeti buoni e mediocri dell'Oriente musulmano, gittò pure uno sguardo su
quei della Spagna.[506]
Ci torna da tutti i lati quell'operoso commercio tra la Sicilia e
l'Affrica, che necessariamente dovea nascere dalle relazioni politiche
de' due paesi e che portava seco una somiglianza di industrie,
d'incivilimento letterario, e di costumi. Al frequente passaggio che si
è visto di uomini notabili dall'Affrica in Sicilia, si può contrapporre
il tramutamento di coloni che andavano a tentar la sorte nella madre
patria, ai quali si dava, sia per nascita, sia per lungo soggiorno, il
nome di Siciliani. Taluno salì ad alto grado in Affrica. Leggiamo tra i
governatori di Tripoli uno Scekr, detto il Siciliano, che diè principio
il dugentosessantanove (882-83) alla fabbrica d'una cisterna
monumentale, e compiè una cupola nella moschea giami'.[507]
Le mura della stessa città furono ristorate ed ampliate il
trecentoquarantacinque (956-957) da Abu-l-Feth-Ziân il Siciliano,
_motewalli_, o vogliam dire delegato al reggimento del paese.[508] E
poco fa ci è occorso di nominare il capitan siciliano Boscera nelle
battaglie dei Fatemiti contro Abu-Iezîd.[509]
Perchè poi non mancasse alla colonia un vizio grave della madre patria,
veggonsi i Siciliani gareggiar coi fratelli d'oltremare nei fasti
dell'ascetismo musulmano. Operano le superstizioni nei popoli come i
liquori inebbrianti nel corpo umano; i quali all'assaggiarli dan vigore
e brio; poi turbano il cervello, concitano sovente a rabbioso furore;
alla fine snervan l'uomo, lo fan cadere in letargo o senile imbecillità.
La macchina soprannaturale dell'islamismo, dopo avere aiutato a
conseguire gli effetti morali, sociali e politici, ai quali aspiravano
le nazioni dell'Asia anteriore, invasò i Musulmani d'infecondo ardore
teologico e li assopì nei vaneggiamenti delle espiazioni e
propiziazioni: e così quello zelo ch'era stato virtù giovando
all'universale, si mutò in vizio, quando portò a sanguinose discordie, o
peggio, alla devota misantropia, allo straziar sè stesso senz'altrui
pro, allo sciogliersi dai legami della famiglia e della città, allo
scambiar la moneta sonante delle virtù umane con polizze su l'altro
mondo, non pur sottoscritte dal fondator di loro religione, ma dagli
interpreti di seconda e terza mano. Percorrendo il _Riâdh-en-Nofûs_, si
veggono comparire successivamente tra i Musulmani d'Affrica tre tipi di
perfezione morale: nel settimo e ottavo secolo, il guerriero del
conquisto, ambizioso di martirio; nel nono secolo il giureconsulto che
impavido affronta tiranni e plebi; nel decimo il mote'abbed, uom di
santa vita diremmo noi, che si macera d'astinenza, si stempra in
lagrime, passa dì e notte pregando e ruminando fatti soprannaturali, e
di rado avvien che si levi di ginocchioni, per vedere se i concittadini
sian vivi o morti. Pur i bacchettoni penaron lungo tempo a ragguagliar
la devozione musulmana a quella dell'impero bizantino, spogliandola
della virtù guerriera e della carità spirate da Maometto.
Ce ne dà esempio Mofarreg, il primo santone siciliano che si presenti
nel _Riâdh_, il quale, se consumò il rimanente della vita in sterile
penitenza, avea sparso prima (882?) il sangue per la patria.[510]
Abu-Hasan il setaiolo, autor di questo aneddoto d'agiografia, raccontava
anco i travagli di Abu-Ali, oriundo di Tanger, nato o stanziato in
Sicilia, ch'ei conobbe di persona e passò la vita tra indefesse
austerità; lontano dalle cure mondane; assorto tutto nella preghiera.
Cui soleva comparire il demonio, in sembiante d'uomo, scongiurandolo per
Dio di smetter sua dura penitenza, “con la quale,” aggiugneva il maligno
spirito, “non ti avverrà mai di sentir pace nell'animo.” Ed Abu-Ali a
rispondergli: “Via di qui, Tentatore; se Dio m'aiuti, continuerò a tuo
dispetto.” Ma coltolo un dì che dormiva sur una panca, Satan gli diè una
voltolata; onde cadendo a terra si spezzò la fronte; ed enfiatagli la
piaga, e prendendogli tutta la faccia, que' tornava a susurrargli:
“Smetti, e d'un subito ti guarirò.” Finchè, ostinandosi il devoto a
respingerlo e a dirgli che amava meglio morire, il demonio lo abbandonò
al suo fato, che non tardò guari a compiersi.[511] Di questo
Abu-Hasan setaiolo, rimase un ricordo biografico scritto da
Abu-Soleiman-Rebî'-Kattan,[512] erudito affricano che soleva andare a
visitarlo in casa presso la moschea d'Abu-Zarmuna, credo a Kairewân,
ov'ei gli narrava quei fatti de' devoti di Sicilia. Par che Rebî', si
fosse invogliato di conoscere il Setaiolo, per le maraviglie che sentiva
di sua pietà: un uom fitto sempre a suo telaio; triste e silenzioso, se
non che a volta a volta prorompeva in ringraziamenti e lodi a Dio; e
all'annunzio delle preghiere canoniche, metteasi a gemere, a trascinarsi
in terra, a dolersi delle peccata, a gridare “Ahimè c'ho dissipato la
vita mia negli errori!” Il dotto giurista, mezzo devoto anch'egli, ma di
zelo più robusto, ammirava pure le ubbie di Abu-Hasan; nè seppe
trattenersi dal dirgli: “Tu mi colmi di gioia,” quando gli sentì
ripetere aver fitto ormai ogni suo pensiero nella morte, nè altro bramar
che l'ora di comparire al cospetto di Dio.[513] Così, secondo la tempra
degli animi, variavano i sintomi della devozione, mentre si corrompea
l'islamismo. Nè mancarono superstizioni più puerili. Kazwîni,
compilatore di cosmografia e storia naturale nel decimoterzo secolo, ci
serbò, nel capitolo dell'ictiografia del Mediterraneo, il racconto d'un
buon Musulmano d'Occidente; il quale navigando in quel mare il
dugentottantotto (901) vide un giovane siciliano ch'era seco nella
barca, gittar la rete e cogliere certo pesciolino miracoloso il quale
portava, a mo' di collana, tutto il simbolo musulmano: avea scritto su
la mascella destra “Non v'ha dio che il Dio;” nell'occipite “Maometto;”
e su la mascella sinistra “è l'apostol di Dio.”[514]
LIBRO QUARTO.
CAPITOLO I.
La tribù di Kelb,[515] rampollo di Kodhâ'a, e però del ceppo himiarita,
diè soldati agli eserciti che passavano in occidente al principio
dell'ottavo secolo; occorrendo poco dipoi nella storia di Affrica e
Spagna emiri kelbiti di gran fama,[516] dei quali Biscir-ibn-Sefwân
capitanò una correria sopra la Sicilia.[517] Prevalsi poi in Affrica gli
Arabi di Adnân, i quali in ogni modo abbassarono e calpestarono la
schiatta di Cahtân, si vede tuttavia un capitano kelbita ucciso nelle
guerre civili alla fin dell'ottavo secolo, ch'avea tenuto Mila presso
Costantina,[518] e però nei luoghi ove facea soggiorno la tribù di
Kotama. Preso infine lo stato dalla casa modharita d'Aghlab, si dilegua
il nome kelbita dalle storie, fino alla esaltazione dei Fatemiti; ai
quali era ragione che si accostassero gli avanzi dei nobili arabi nemici
della passata dinastia. Intanto uomini kelbiti aveano acquistato
séguito, e forse stretto parentele, nella gente di Kotama, che amava ad
arabizzare; poichè nei tempi appresso (986) veggiamo sceikh de' Kotamii
in Egitto, capo connivente a loro insolenza e non dato al certo dai
califi, un Kelbita della casa appunto degli emiri di Sicilia.[519] Sia
dunque in grazia dei Kotamii, sia della setta ismaeliana o d'altri
servigi i Beni-abi-Hosein di Kelb furono ben visti a corte del
Mehdi;[520] Ali di quella gente, morì a Girgenti combattendo per
Kâim;[521] Hasan, figlio di Ali, guadagnò nuovi meriti appo Mansûr, come
si è detto. Affidando a costui la Sicilia, Mansûr potea fare
assegnamento, non meno su la fedeltà e il valor dell'uomo, che su le
qualità della famiglia: nobile e però riverita dal popolo; nuova in
Sicilia e però sciolta d'ogni legame con la parte aristocratica del
paese.
Non occorre di esaminare la sognata concessione feudale della Sicilia ad
Hasan, che si fondava su la versione erronea del testo d'un plagiario; e
i moderni compilatori l'hanno abbandonata, conoscendo quanto ripugnasse
agli ordini musulmani.[522] In vece di quella impossibilità legale, il
Martorana pensò che il califo fatemita, a un tempo con la elezione di
Hasan, avesse ordinato il governo di Sicilia con titolo più illustre ed
autorità più larga, accordando all'isola “un emirato suo proprio.”[523]
Ma veramente, nè il nome era nuovo, nè l'autorità. La prima cosa,
l'oficio di _wâli_, che il Martorana crede inferiore a quel d'_emiro_, è
il medesimo, semprechè si tratti d'una provincia; e vale tanto a dir
_wâli_ d'Africa, d'Egitto, di Sicilia, o simili, quanto _emiro_: e ciò
in linguaggio comune al par che in linguaggio legale.[524] In secondo
luogo, nessuno scrittore fa motto di mutati ordini al tempo di
Hasan;[525] nessuno serba a lui ed ai successori il titolo di _emir_ ed
ai predecessori quello di _wâli_: fin dai principii del conquisto di
Sicilia, son adoperati da sinonimi, or l'uno or l'altro, come portava
l'uso della lingua e il capriccio dello scrittore; allo stesso modo che
gli Aghlabiti or son detti _wâli_, ed or _emiri_ d'Affrica. In fine, se
per “emirato suo proprio” s'intenda governo che non abbracciasse altra
provincia, la Sicilia se l'ebbe sempre sotto i Musulmani. E se voglia
significarsi emirato con pien potere, oficio di _wâli_ o _emir_
generate, come lo chiamano i pubblicisti, la Sicilia l'ebbe senza
interruzione fino all'ottocentosettantotto, e di tratto in tratto, nei
settant'anni che seguirono infino al novecenquarantotto, quante volte i
principi d'Affrica non poteano calpestare i coloni a lor talento.[526]
In ciò si dèe dunque correggere la sentenza. Da un'altra mano la si dèe
spiegare alla più parte dei lettori. “Governo proprio” significava in
Sicilia, venti o trent'anni addietro, un luogotenente del re di Napoli,
albergato più o meno splendidamente nella reggia di Palermo, ed
un'amministrazione civile, finanziaria e giudiziale independente dai
ministri napoletani: il qual ordine bramavano que' Siciliani che non
odiasser molto la dinastia regnante; e loro ne fu conceduta una
sembianza che durò qualche anno. Donde “emirato proprio della Sicilia,”
era frase grata a taluni e credo al Martorana, chiarissima a tutti nel
paese; e nel nostro caso, rendea, propriamente o no, una idea giusta;
poichè l'ordine del milleottocentrentadue somigliò molto a quello del
novecenquarantotto, astrazion fatta dagli antecedenti e dalle
conseguenze. Il Wenrich, non avendo alle mani tal cemento, si appigliò
alla innovazione di titolo e d'autorità, ch'era la parte più debole del
concetto di Martorana; vi persistè non ostante gli schiarimenti datigli
dalla erudizione orientale; e con troppa fretta si cavò da cotesta
esamina di dritto pubblico.[527]
La quale a me par molto piana. Il dritto musulmano ammette due forme di
governo provinciale; autorità civile e militare raccolta in unica mano,
o divisa. La prima forma, obbligatoria nei nuovi conquisti e nei paesi
confinanti con Infedeli, fu adoperata necessariamente in Sicilia, dove i
coloni la tiravano a independenza. Ibrahim-ibn-Ahmed, Mehdi e Kâim
vollero provar l'altra forma; e non bastaron fiumi di sangue a farla
allignare. Mansûr, più generoso, più savio, o che gli aprisse gli occhi
la rivoluzione d'Abu-Iezîd, rinunziò al gusto di reggere la Sicilia,
come un villaggio d'Affrica, dal suo sofà, e di espilarla a suo talento
per commissarii: le rese il governo normale di grande provincia di
confini, con mandarvi un vicerè, com'oggi si direbbe. Il qual fatto non
fu, ne poteva essere, accompagnato da novello statuto, nè da novello
titolo.[528]
Molto manco potea Mansûr istituire l'emirato ereditario. La successione
del quale oficio in una famiglia si vede sovente nelle storie musulmane,
dagli Aghlabiti d'Affrica infino agli odierni pascià d'Egitto, ma sempre
nacque di fatto e durò con le sembianze di elezione che venisse dalla
volontà del principe. Cominciò sempre da un emir temporaneo; finì sempre
col fatto di novella dinastia independente; passando per una serie di
vicende, che da una dinastia all'altra si assomigliano come le figure
simili in geometria; procedono secondo unica legge; e danno agli occhi
lo stesso aspetto. Morto Mansûr, pochi anni appresso la elezione di
Hasan, i successori del primo non mutarono la famiglia degli emiri in
Sicilia, perchè l'era potentissima a corte e governava l'isola
tranquillamente. Quando poi i Kelbiti caddero in disgrazia al Cairo, i
califi fatemiti si accorsero di non poterli sradicare dalla Sicilia.
Perchè già era avvenuto il caso che nascea necessariamente dagli ordini
sociali e politici dei Musulmani, come altrove accennammo. La nobiltà
militare, i soldati mercenarii, i dottori erano avvinti alla famiglia
kelbita dal saldo vincolo dell'interesse, per via degli stipendii e del
patrocinio; la plebe nudrita con le scorrerie contro i Cristiani e le
limosine in patria; l'universale soddisfatto delle entrate che
s'investiano in comodo pubblico o di privati siciliani, degli edifizii
che sorgeano, dello splendor d'una corte protettrice di begli ingegni,
del reggimento condotto secondo i bisogni o il genio dei cittadini di
Sicilia, non degli impiegati di Mehdia; soddisfatto delle colonie che
moveano dal Val di Mazara a ripopolare le città della Sicilia orientale,
a coltivarne le campagne o godersi i tributi di quelle ove rimanessero i
Cristiani. Però non è a domandare se i Musulmani dell'isola volessero
correre il rischio d'un governo d'uomini nuovi, che avrebbe potuto
rimutar tutto e ricondurre i bargelli è i commissarii fiscali del tempo
di Sâlem. Una volta che il califo fatemita il tentò, acconsentendo,
com'e' pare, la casa kelbita per la promessa di maggiore stato in
Egitto, i Siciliani corsero alle armi (969); e il califo non trovò altro
modo di porre fine ai tumulti che d'inviare al più presto un emiro
kelbita. In venti anni dunque era fondata di fatto là eredità
dell'emirato, la quale premeva tanto ai Siciliani.
migrazioni dall'Affrica, nè il naturale accrescimento di popolo che
prosperi. Del fatto non si può dubitare. Ibn-Haukal, venuto in Palermo
il novecentosettantadue, fornisce dati da ragionare la popolazione della
capitale a più di trecentomila anime.[476] Khalîl, trent'anni prima fece
morire oltre secentomila persone nel Val di Mazara, esclusa Palermo,
dove l'efferato animo non trovò pretesto a sfogarsi. A suppor dunque
distrutto in quattro anni (938-41) un terzo della popolazione della
provincia musulmana, il Val di Mazara, cioè, con Palermo, le si debbon
dare innanzi il novecentrentotto due milioni d'abitatori, quanti ne ha
adesso tutta l'isola. Men della metà erano Musulmani.[477]
Quanto alle schiatte, credo gran parte di tal popolazione antichi
abitatori della Sicilia tutta, ridotti in Val di Mazara; tra liberti,
vassalli e schiavi, tra cristiani, rinnegati e giudei:[478] questi
ultimi stanziati nelle città; gli altri, in città e ville. Non occorre
di replicare ciò che dicemmo degli antichi coloni musulmani. Ma quei
venuti d'Affrica nella prima metà del decimo secolo, furono di tre
maniere: industriali, soldatesche, e rifuggiti. Pei primi non
sarebbe necessario allegare testimonianze e poche possono
rimanerne: pure abbiamo il ricordo d'un Sa'îd-ibn-Heddâd, di famiglia
artigiana come lo accenna il nome patronimico, al quale, sotto il regno
d'Ibrahim-ibn-Ahmed, morì in Sicilia un fratello che gli lasciò
quattrocento dînar, guadagnati com'ei pare, con alcuna industria.[479]
Dal novecento al novecentrentanove quattro grossi eserciti erano stati
mandati a ripigliar lo stato in Sicilia; un altro (902) e parecchi
stuoli minori vi erano passati andando in Calabria. Ma di cotesta massa
soldatesca di Berberi, Negri, Slavi e milizie arabiche d'Affrica,
sbarcati nell'isola in men di mezzo secolo, chi fu spento, chi se ne
tornò; picciola parte è da supporre rimasa a soggiorno: e di ciò si ha
indizio pei soli Slavi, che diedero nome al più grosso quartier della
capitale.[480] Sembra di maggiore importanza, per lo numero e per la
qualità degli uomini, la migrazione dei partigiani di casa aghlabita e
dei fervidi ortodossi che lasciavano l'Affrica, per paura o dispetto, al
mutamento della dinastia e alle varie persecuzioni che seguirono. Ai
quali la Sicilia era asilo, come paese più lontano dagli occhi
sospettosi dei governanti e come quello che odiava i Fatemiti e vivea
più o meno apertamente in rivoluzione.
E cresciuta la popolazione, cessate le continue guerre del conquisto,
incominciavano a metter fronde, se non per anco fiori e frutti, gli
studii; sturbati sì nelle guerre d'independenza dal romor delle armi, ma
molto più promossi dal principio civile che accompagna i moti politici e
fa lor precedere o seguire da presso lo svegliamento degli ingegni.
Favoriva anche gli studii il contatto più familiare coi vinti, la
liberale educazione e dottrina dei rifuggiti d'Affrica e l'esempio dei
giuristi mandati a tenere i magistrati.
Per cominciar dagli avanzi dell'antica civiltà del paese, ricorderemo
l'opera che prestò un dotto siciliano nella versione della materia
medica di Dioscoride. Aveva abbozzato questo gran lavoro a Bagdad verso
la metà del nono secolo, Stefano cristiano di Siria; il quale, sapendo
la lingua meglio che la scienza, tradusse i nomi dei semplici più ovvii,
e di molti altri trascrisse la denominazione greca senza il riscontro in
arabico. Si doleano dunque della imperfetta versione i medici che
fiorirono sotto gli Omeiadi di Spagna, quando del novecenquarantotto,
trattato un accordo tra Romano imperatore di Costantinopoli e l'omeiade
Abd-er-Rahman-Naser-lidin-illah, Romano gli inviò, tra gli altri doni,
il testo latino delle storie di Paolo Orosio ed un manoscritto greco di
Dioscoride, con belle miniature delle piante. Deste a ciò le speranze
dei dotti di Cordova, come ci narra Ibn-Giolgiol che fu medico della
corte nel regno seguente, il califo Abd-er-Rahman richiedeva a Romano un
interprete di greco e di latino; e mandatogli del novecentocinquantuno
il monaco greco Niccolò, fu riveduta o piuttosto rifatta la versione con
l'aiuto dei disegni. Se ne dèe merito a parecchi medici arabi di Spagna,
al dotto medico giudeo Hasdai-ibn-Bescrût, all'interprete Niccolò ed al
siciliano Abu-abd-Allah, che parlava l'arabo e il greco e conoscea la
materia medica; tantochè la difficile interpretazione tecnica fu
compiuta, nè altro rimase ad appurare che una diecina di semplici di
poco rilievo. Fin qui Ibn-Giolgiol, il quale in gioventù conobbe e
praticò tutti i collaboratori. Del Siciliano altro ei non dice; ma ben
si può supporre di schiatta greca e convertito di fresco, non avendo
nome patronimico, e prendendosi sovente dagli uomini nuovi il nome
proprio di Abd-Allah, che significa servo di Dio.[481] Possiamo supporre
di gran momento la cooperazione sua, poichè si narra di lui solo che
unisse le nozioni tecniche alle filologiche.
Dalla medicina passiamo di sbalzo alla giurisprudenza; non concedendo
quadro più compiuto le memorie che abbiamo. Ma se giurisprudenza vuol
dir la base d'ogni civiltà; se l'incivilimento europeo si debbe alla
legge romana, più che a niun altro libro o istituzione; lo studio del
dritto ebbe nell'islamismo confini assai più larghi e maggiore influenza
civile e letteraria che nell'Occidente pagano o cristiano. Accennammo
già la importanza politica dei giuristi musulmani dell'ottavo e nono
secolo.[482] Lo studio loro abbracciava tutte le scienze che noi
chiamiamo morali e politiche, trascorrea fino alla teologia, chiamava la
filologia a darle aiuto nella interpretazione del Corano, adoperava la
biografia come strumento di critica della tradizione, arrivava alle
soglie della matematica computando le tasse legali e le frazioni nel
partaggio delle eredità. Però non fa torto all'Affrica se non coltivò
con onore altra scienza che questa. Ve la illustrarono nel nono secolo
Ased-ibn-Forât, conquistatore della Sicilia, e Sehnûn;[483] entrambi
della scuola di Malek. Nè tardò molto a passare in Sicilia mediante i
discepoli di Sehnûn. Fra i quali levò grido un Iehia-ibn-Omar-ibn-Iusûf
morto in Susa il novecentotrè in odore di santità[484] e maestro del
siciliano Abu-Bekr-Ahmed-ibn-Mohammed-ibn-Iehia, coreiscita, devoto
famigerato.[485] Più che la voce di tal discepolo, giovò una grande
opera di Iehia-ibn-Omar, intitolata “Comandamenti della fede e leggi
dell'islâm,” la quale si leggea nelle scuole di dritto di Sicilia e
d'Affrica, e chiamavanla comunemente il Libro dei Miracoli. Vivendo
l'autore, un liberto degli aghlabiti, diligentissimo editore,[486] s'era
venduto il giubbone per comperare pergamena vecchia[487] da copiar
questa o altra opera di Iehia-ibn-Omar; e, com'egli ebbe fornita la
copia, un altro zelante e povero letterato fe' lungo viaggio a piedi per
amor di leggerla e trascriverla. Parecchi anni appresso un giurista
siciliano o stato nell'isola, infervorato del Libro de' Miracoli sel
vide in sogno tutto illuminato d'una luce che scendea dal cielo. A tal
venerazione era giunta l'opera d'Iehia e la scienza ch'ei coltivò! In
Palermo insegnava per quattordici anni la _Modawwana_, celebre manuale
di dritto secondo Malek, il professore Abu-Sa'îd-Lokmân-ibn-Iusûf, della
tribù arabica di Ghassân, trapassato a Tunis il trecentodiciotto
dell'egira (930-31); martire della didascalia, s'egli è vero che morì
d'una piaga fattasi al costato con l'angolo della tavola sulla quale
solea scrivere e spiegare il testo. Si nota di costui che possedette
dodici rami diversi di scienze;[488] nè fa maraviglia, atteso la vastità
degli studii che rannodavansi al dritto.[489]
Segnalossi tra i discepoli di Sehnûn, per dottrina e austera integrità,
un Abu-'Amr-Meimûn-ibn-'Amr, il quale diè alla Sicilia bell'esempio
delle virtù di magistrato. Promosso a cadi dell'isola, da delegato
ch'egli era al tribunale dei soprusi di Kairewân, andando a Susa per
imbarcarsi, Meimûn si volse alla gente che gli dava il buon viaggio.
“Cittadini,” lor disse, “ecco la giubba e il mantello che ho indosso;
ecco lo zaino coi miei libri, e cotesta schiava negra che mi fa i
servigi di casa, con una giubba e un mantello nè più nè manco di me:
ponete ben mente, e vedrete in che arnese tornerò di Sicilia.” Giunto in
Palermo, come poi narrò il siciliano Sa'îd-ibn-Othman, e condotto alla
casa dei cadi, Meimûn quando la vide, ricusò d'entrarvi, dicendo non
saper come acconciarsi in sì gran palagio; e volle albergare in una
picciola casetta. Dove, senza aguzzini nè uscieri, quando alcun
picchiava alla porta, correa la negra ad aprire, rispondeva: “or ora
parlerete al cadi;” e chiamatolo, se ne tornava a filare per vendere il
refe e supplire allo scarso mantenimento del padrone. Il qual magistrato
non è a dire se fosse caro a tutta la città. Poi si ammalò. Non
vedendolo uscir di casa da tre dì, gli amici, andati a visitarlo, lo
trovarono giacente, in vece di tappeto, sopra una stuoia di papiro,
manifattura indigena,[490] appoggiando il capo su due cuscini imbottiti
di fieno. Piangendo lor disse avere atteso all'oficio, che n'era
testimone Iddio, finchè gli eran bastate le forze; nè li avrebbe
abbandonati giammai se non fosse stato per quella incurabile infermità
che si sentiva. Volle andare a morire in patria. E quando partì: “Che
Dio vi conceda un successore miglior di me,” furon le ultime parole di
Meimûn ai Palermitani; e quelli a benedirlo ed a pregargli salute. Nè
dimenticò, messo il piè a Susa, di mostrare alla gente il sacco dei
libri, le vestimenta fatte più logore e la stessa schiava.[491]
Per certo le relazioni politiche con l'Affrica fruttarono alla Sicilia
un utilissimo commercio d'idee e di studii. Si novera tra i discepoli di
Sehnûn, un Diama-ibn-Mohammed, morto il dugentonovantasette (909-910),
ch'era stato cadi di Sicilia sotto gli Aghlabiti.[492] Con
l'insegnamento ortodosso trapelavan anco i novelli ardimenti
filosofici dei Musulmani; sapendosi che il giureconsulto
Abu-Giafar-Mohammed-ibn-Hosein-Marwazi, com'ei pare, oriundo persiano,
trapassato in Sicilia del dugentonovantatrè (905-906) era forte sospetto
di miscredenza.[493] Sembrano incominciati in Sicilia nella stessa metà
del decimo secolo gli studii filologici; poichè il primo Siciliano
lettor del Corano e grammatico di cui si trovi il nome nelle raccolte
biografiche, è Abu-abd-Allah-Mohammed-ibn-Khorassân, liberto degli
Aghlabiti, nato il trecentosei (918-19), di schiatta persiana anch'egli,
se è da stare all'indizio del nome patronimico.[494]
Appariscono al tempo stesso in Sicilia i primi esempii d'una maniera di
erudizione che fu molto in voga appo i Musulmani, dico i racconti
biografici che correano nelle scuole e ritrovi dei dotti: officine delle
effemeridi letterarie di quel tempo. Taluno li messe in carta; poi
vennero i compilatori che ci hanno serbato cotesti materiali di Storia
letteraria, chiamati per lo più _Tabakât_, o vogliam dir classi, sendo
ordinati i cenni biografici in classi, di giureconsulti, grammatici,
poeti, lessicografi e simili: Delle più antiche e preziose, è il
_Riâdh-en-Nofûs_, da noi ricordato sovente; il quale, trattando dei
giuristi e santi musulmani d'Affrica fin oltre la metà del decimo
secolo, ci dà i nomi dei Siciliani che tramandarono parecchi aneddoti a
voce o in iscritto. Indi veggiamo che Abu-Bekr-Ahmed, citato dianzi tra
i discepoli di Iehia-ibn-Omar, lasciò ricordi, scritti com'e' pare,
intorno il pio giurista Abu-Harûn-Andalosi, vissuto in Affrica; pei
quali fatti Abu-Bekr or si dà come testimone oculare, or allega i detti
altrui.[495] Il medesimo Abu-Bekr, su la fede dell'altro Siciliano
Abu-abd-Allah-Mohammed-ibn-Khorassân,[496] riferisce aneddoti d'un
Ibn-Ghazi da Susa, devoto un tempo e rinomato lettore del Corano per la
melodia della voce, poi infame tra gli Ortodossi perchè alla esaltazione
del Mehdi lo adulò vilmente, è s'affiliò a setta ismaeliana.[497]
Abu-Bekr, avendo in sua giovinezza conosciuto Iehia-ibn-Omar (m. 903) ed
Abu-Harûn-Andalosi (m. 905), visse nella prima metà del decimo secolo.
Contemporaneo di lui, e al par siciliano Saîd-ibn-Othman; il quale
raccontò a voce i fatti del cadi Meimûn in Palermo.[498] Un altro
Abu-Bekr, per nome Mohammed-ibn-Ahmed-ibn-Ibrahim, maestro di scuola,
detto il Siciliano, forniva all'autore del _Riâdh_ alcuni aneddoti del
devoto africano Abu-Iunis-ibn-Noseir, morto il trecentoquattro (916-17)
del quale ei fu amico ed ospite.[499] Il Siciliano Abu-Hasan-Harîri, o
diremmo il Setaiolo, morto il trecentoventidue (934), che guadagnò con
ascetiche stravaganze un cenno biografico nel _Riâdh_, può passare
anch'egli tra gli agiografi; poichè si seppero dalla sua bocca le dolci
visioni di Moferreg,[500] le zuffe d'Abu-Ali da Tanger col nemico del
genere umano,[501] e le vicende del pellegrino Abu-Sari-Wâsil,
ritrattosi in eremitaggio presso il castello Dîmâs in Affrica.[502]
Per quanto si voglian supporre perduti i ricordi di quella età, la somma
è che, innanzi la dominazione kelbita, la cultura intellettuale della
Sicilia si ristringea quasi alla scienza del dritto; nè lasciò nomi
illustri. L'argomento negativo che viene dal _Riâdh_ e da altre
compilazioni parziali, pienamente si conferma col dizionario generale
d'Ibn-Khallikân, dove si leggono le biografie di Siciliani del duodecimo
e undecimo secolo, ma nessuna ve n'ha del decimo. Ciò non vuol dire che
gli studii lontani dalla giurisprudenza, l'erudizione, le lettere, la
poesia fossero trascurati al tutto in Sicilia, avanti i Kelbiti. Sarebbe
bastata a recarveli la sola famiglia aghlabita, che sì larga diramossi
allato al regio ceppo d'Ibrahim. Perchè nel nono secolo que' nobili rami
dieron molti emiri alla Sicilia;[503] una lor famiglia anco par
trapiantata nella colonia:[504] e dall'altra mano sappiamo coltivate dai
discendenti d'Aghlab logica, dialettica, astronomia o astrologia che dir
si voglia, rettorica, filologia, e lo stile peregrino di scrivere; ne
troviamo anche un che dettò cronica o storia della casa d'Aghlab; e dei
verseggiatori non v'ebbe penuria.[505] Ma in Affrica coteste discipline
non fiorirono mai al par del dritto, nè salirono al ragguaglio delle
letterature contemporanee dei califati d'Oriente e di Spagna: e la
colonia siciliana, che le toglieva in prestito dalla madre patria, pur
dovea rimanere più addietro. Non si veggono Affricani nè Siciliani nel
_Ietimat-ed-dahr_, antologia poetica di Th'âlebi, oriundo persiano
vivuto nei principii dell'undicesimo secolo; il quale, ricercando i
poeti buoni e mediocri dell'Oriente musulmano, gittò pure uno sguardo su
quei della Spagna.[506]
Ci torna da tutti i lati quell'operoso commercio tra la Sicilia e
l'Affrica, che necessariamente dovea nascere dalle relazioni politiche
de' due paesi e che portava seco una somiglianza di industrie,
d'incivilimento letterario, e di costumi. Al frequente passaggio che si
è visto di uomini notabili dall'Affrica in Sicilia, si può contrapporre
il tramutamento di coloni che andavano a tentar la sorte nella madre
patria, ai quali si dava, sia per nascita, sia per lungo soggiorno, il
nome di Siciliani. Taluno salì ad alto grado in Affrica. Leggiamo tra i
governatori di Tripoli uno Scekr, detto il Siciliano, che diè principio
il dugentosessantanove (882-83) alla fabbrica d'una cisterna
monumentale, e compiè una cupola nella moschea giami'.[507]
Le mura della stessa città furono ristorate ed ampliate il
trecentoquarantacinque (956-957) da Abu-l-Feth-Ziân il Siciliano,
_motewalli_, o vogliam dire delegato al reggimento del paese.[508] E
poco fa ci è occorso di nominare il capitan siciliano Boscera nelle
battaglie dei Fatemiti contro Abu-Iezîd.[509]
Perchè poi non mancasse alla colonia un vizio grave della madre patria,
veggonsi i Siciliani gareggiar coi fratelli d'oltremare nei fasti
dell'ascetismo musulmano. Operano le superstizioni nei popoli come i
liquori inebbrianti nel corpo umano; i quali all'assaggiarli dan vigore
e brio; poi turbano il cervello, concitano sovente a rabbioso furore;
alla fine snervan l'uomo, lo fan cadere in letargo o senile imbecillità.
La macchina soprannaturale dell'islamismo, dopo avere aiutato a
conseguire gli effetti morali, sociali e politici, ai quali aspiravano
le nazioni dell'Asia anteriore, invasò i Musulmani d'infecondo ardore
teologico e li assopì nei vaneggiamenti delle espiazioni e
propiziazioni: e così quello zelo ch'era stato virtù giovando
all'universale, si mutò in vizio, quando portò a sanguinose discordie, o
peggio, alla devota misantropia, allo straziar sè stesso senz'altrui
pro, allo sciogliersi dai legami della famiglia e della città, allo
scambiar la moneta sonante delle virtù umane con polizze su l'altro
mondo, non pur sottoscritte dal fondator di loro religione, ma dagli
interpreti di seconda e terza mano. Percorrendo il _Riâdh-en-Nofûs_, si
veggono comparire successivamente tra i Musulmani d'Affrica tre tipi di
perfezione morale: nel settimo e ottavo secolo, il guerriero del
conquisto, ambizioso di martirio; nel nono secolo il giureconsulto che
impavido affronta tiranni e plebi; nel decimo il mote'abbed, uom di
santa vita diremmo noi, che si macera d'astinenza, si stempra in
lagrime, passa dì e notte pregando e ruminando fatti soprannaturali, e
di rado avvien che si levi di ginocchioni, per vedere se i concittadini
sian vivi o morti. Pur i bacchettoni penaron lungo tempo a ragguagliar
la devozione musulmana a quella dell'impero bizantino, spogliandola
della virtù guerriera e della carità spirate da Maometto.
Ce ne dà esempio Mofarreg, il primo santone siciliano che si presenti
nel _Riâdh_, il quale, se consumò il rimanente della vita in sterile
penitenza, avea sparso prima (882?) il sangue per la patria.[510]
Abu-Hasan il setaiolo, autor di questo aneddoto d'agiografia, raccontava
anco i travagli di Abu-Ali, oriundo di Tanger, nato o stanziato in
Sicilia, ch'ei conobbe di persona e passò la vita tra indefesse
austerità; lontano dalle cure mondane; assorto tutto nella preghiera.
Cui soleva comparire il demonio, in sembiante d'uomo, scongiurandolo per
Dio di smetter sua dura penitenza, “con la quale,” aggiugneva il maligno
spirito, “non ti avverrà mai di sentir pace nell'animo.” Ed Abu-Ali a
rispondergli: “Via di qui, Tentatore; se Dio m'aiuti, continuerò a tuo
dispetto.” Ma coltolo un dì che dormiva sur una panca, Satan gli diè una
voltolata; onde cadendo a terra si spezzò la fronte; ed enfiatagli la
piaga, e prendendogli tutta la faccia, que' tornava a susurrargli:
“Smetti, e d'un subito ti guarirò.” Finchè, ostinandosi il devoto a
respingerlo e a dirgli che amava meglio morire, il demonio lo abbandonò
al suo fato, che non tardò guari a compiersi.[511] Di questo
Abu-Hasan setaiolo, rimase un ricordo biografico scritto da
Abu-Soleiman-Rebî'-Kattan,[512] erudito affricano che soleva andare a
visitarlo in casa presso la moschea d'Abu-Zarmuna, credo a Kairewân,
ov'ei gli narrava quei fatti de' devoti di Sicilia. Par che Rebî', si
fosse invogliato di conoscere il Setaiolo, per le maraviglie che sentiva
di sua pietà: un uom fitto sempre a suo telaio; triste e silenzioso, se
non che a volta a volta prorompeva in ringraziamenti e lodi a Dio; e
all'annunzio delle preghiere canoniche, metteasi a gemere, a trascinarsi
in terra, a dolersi delle peccata, a gridare “Ahimè c'ho dissipato la
vita mia negli errori!” Il dotto giurista, mezzo devoto anch'egli, ma di
zelo più robusto, ammirava pure le ubbie di Abu-Hasan; nè seppe
trattenersi dal dirgli: “Tu mi colmi di gioia,” quando gli sentì
ripetere aver fitto ormai ogni suo pensiero nella morte, nè altro bramar
che l'ora di comparire al cospetto di Dio.[513] Così, secondo la tempra
degli animi, variavano i sintomi della devozione, mentre si corrompea
l'islamismo. Nè mancarono superstizioni più puerili. Kazwîni,
compilatore di cosmografia e storia naturale nel decimoterzo secolo, ci
serbò, nel capitolo dell'ictiografia del Mediterraneo, il racconto d'un
buon Musulmano d'Occidente; il quale navigando in quel mare il
dugentottantotto (901) vide un giovane siciliano ch'era seco nella
barca, gittar la rete e cogliere certo pesciolino miracoloso il quale
portava, a mo' di collana, tutto il simbolo musulmano: avea scritto su
la mascella destra “Non v'ha dio che il Dio;” nell'occipite “Maometto;”
e su la mascella sinistra “è l'apostol di Dio.”[514]
LIBRO QUARTO.
CAPITOLO I.
La tribù di Kelb,[515] rampollo di Kodhâ'a, e però del ceppo himiarita,
diè soldati agli eserciti che passavano in occidente al principio
dell'ottavo secolo; occorrendo poco dipoi nella storia di Affrica e
Spagna emiri kelbiti di gran fama,[516] dei quali Biscir-ibn-Sefwân
capitanò una correria sopra la Sicilia.[517] Prevalsi poi in Affrica gli
Arabi di Adnân, i quali in ogni modo abbassarono e calpestarono la
schiatta di Cahtân, si vede tuttavia un capitano kelbita ucciso nelle
guerre civili alla fin dell'ottavo secolo, ch'avea tenuto Mila presso
Costantina,[518] e però nei luoghi ove facea soggiorno la tribù di
Kotama. Preso infine lo stato dalla casa modharita d'Aghlab, si dilegua
il nome kelbita dalle storie, fino alla esaltazione dei Fatemiti; ai
quali era ragione che si accostassero gli avanzi dei nobili arabi nemici
della passata dinastia. Intanto uomini kelbiti aveano acquistato
séguito, e forse stretto parentele, nella gente di Kotama, che amava ad
arabizzare; poichè nei tempi appresso (986) veggiamo sceikh de' Kotamii
in Egitto, capo connivente a loro insolenza e non dato al certo dai
califi, un Kelbita della casa appunto degli emiri di Sicilia.[519] Sia
dunque in grazia dei Kotamii, sia della setta ismaeliana o d'altri
servigi i Beni-abi-Hosein di Kelb furono ben visti a corte del
Mehdi;[520] Ali di quella gente, morì a Girgenti combattendo per
Kâim;[521] Hasan, figlio di Ali, guadagnò nuovi meriti appo Mansûr, come
si è detto. Affidando a costui la Sicilia, Mansûr potea fare
assegnamento, non meno su la fedeltà e il valor dell'uomo, che su le
qualità della famiglia: nobile e però riverita dal popolo; nuova in
Sicilia e però sciolta d'ogni legame con la parte aristocratica del
paese.
Non occorre di esaminare la sognata concessione feudale della Sicilia ad
Hasan, che si fondava su la versione erronea del testo d'un plagiario; e
i moderni compilatori l'hanno abbandonata, conoscendo quanto ripugnasse
agli ordini musulmani.[522] In vece di quella impossibilità legale, il
Martorana pensò che il califo fatemita, a un tempo con la elezione di
Hasan, avesse ordinato il governo di Sicilia con titolo più illustre ed
autorità più larga, accordando all'isola “un emirato suo proprio.”[523]
Ma veramente, nè il nome era nuovo, nè l'autorità. La prima cosa,
l'oficio di _wâli_, che il Martorana crede inferiore a quel d'_emiro_, è
il medesimo, semprechè si tratti d'una provincia; e vale tanto a dir
_wâli_ d'Africa, d'Egitto, di Sicilia, o simili, quanto _emiro_: e ciò
in linguaggio comune al par che in linguaggio legale.[524] In secondo
luogo, nessuno scrittore fa motto di mutati ordini al tempo di
Hasan;[525] nessuno serba a lui ed ai successori il titolo di _emir_ ed
ai predecessori quello di _wâli_: fin dai principii del conquisto di
Sicilia, son adoperati da sinonimi, or l'uno or l'altro, come portava
l'uso della lingua e il capriccio dello scrittore; allo stesso modo che
gli Aghlabiti or son detti _wâli_, ed or _emiri_ d'Affrica. In fine, se
per “emirato suo proprio” s'intenda governo che non abbracciasse altra
provincia, la Sicilia se l'ebbe sempre sotto i Musulmani. E se voglia
significarsi emirato con pien potere, oficio di _wâli_ o _emir_
generate, come lo chiamano i pubblicisti, la Sicilia l'ebbe senza
interruzione fino all'ottocentosettantotto, e di tratto in tratto, nei
settant'anni che seguirono infino al novecenquarantotto, quante volte i
principi d'Affrica non poteano calpestare i coloni a lor talento.[526]
In ciò si dèe dunque correggere la sentenza. Da un'altra mano la si dèe
spiegare alla più parte dei lettori. “Governo proprio” significava in
Sicilia, venti o trent'anni addietro, un luogotenente del re di Napoli,
albergato più o meno splendidamente nella reggia di Palermo, ed
un'amministrazione civile, finanziaria e giudiziale independente dai
ministri napoletani: il qual ordine bramavano que' Siciliani che non
odiasser molto la dinastia regnante; e loro ne fu conceduta una
sembianza che durò qualche anno. Donde “emirato proprio della Sicilia,”
era frase grata a taluni e credo al Martorana, chiarissima a tutti nel
paese; e nel nostro caso, rendea, propriamente o no, una idea giusta;
poichè l'ordine del milleottocentrentadue somigliò molto a quello del
novecenquarantotto, astrazion fatta dagli antecedenti e dalle
conseguenze. Il Wenrich, non avendo alle mani tal cemento, si appigliò
alla innovazione di titolo e d'autorità, ch'era la parte più debole del
concetto di Martorana; vi persistè non ostante gli schiarimenti datigli
dalla erudizione orientale; e con troppa fretta si cavò da cotesta
esamina di dritto pubblico.[527]
La quale a me par molto piana. Il dritto musulmano ammette due forme di
governo provinciale; autorità civile e militare raccolta in unica mano,
o divisa. La prima forma, obbligatoria nei nuovi conquisti e nei paesi
confinanti con Infedeli, fu adoperata necessariamente in Sicilia, dove i
coloni la tiravano a independenza. Ibrahim-ibn-Ahmed, Mehdi e Kâim
vollero provar l'altra forma; e non bastaron fiumi di sangue a farla
allignare. Mansûr, più generoso, più savio, o che gli aprisse gli occhi
la rivoluzione d'Abu-Iezîd, rinunziò al gusto di reggere la Sicilia,
come un villaggio d'Affrica, dal suo sofà, e di espilarla a suo talento
per commissarii: le rese il governo normale di grande provincia di
confini, con mandarvi un vicerè, com'oggi si direbbe. Il qual fatto non
fu, ne poteva essere, accompagnato da novello statuto, nè da novello
titolo.[528]
Molto manco potea Mansûr istituire l'emirato ereditario. La successione
del quale oficio in una famiglia si vede sovente nelle storie musulmane,
dagli Aghlabiti d'Affrica infino agli odierni pascià d'Egitto, ma sempre
nacque di fatto e durò con le sembianze di elezione che venisse dalla
volontà del principe. Cominciò sempre da un emir temporaneo; finì sempre
col fatto di novella dinastia independente; passando per una serie di
vicende, che da una dinastia all'altra si assomigliano come le figure
simili in geometria; procedono secondo unica legge; e danno agli occhi
lo stesso aspetto. Morto Mansûr, pochi anni appresso la elezione di
Hasan, i successori del primo non mutarono la famiglia degli emiri in
Sicilia, perchè l'era potentissima a corte e governava l'isola
tranquillamente. Quando poi i Kelbiti caddero in disgrazia al Cairo, i
califi fatemiti si accorsero di non poterli sradicare dalla Sicilia.
Perchè già era avvenuto il caso che nascea necessariamente dagli ordini
sociali e politici dei Musulmani, come altrove accennammo. La nobiltà
militare, i soldati mercenarii, i dottori erano avvinti alla famiglia
kelbita dal saldo vincolo dell'interesse, per via degli stipendii e del
patrocinio; la plebe nudrita con le scorrerie contro i Cristiani e le
limosine in patria; l'universale soddisfatto delle entrate che
s'investiano in comodo pubblico o di privati siciliani, degli edifizii
che sorgeano, dello splendor d'una corte protettrice di begli ingegni,
del reggimento condotto secondo i bisogni o il genio dei cittadini di
Sicilia, non degli impiegati di Mehdia; soddisfatto delle colonie che
moveano dal Val di Mazara a ripopolare le città della Sicilia orientale,
a coltivarne le campagne o godersi i tributi di quelle ove rimanessero i
Cristiani. Però non è a domandare se i Musulmani dell'isola volessero
correre il rischio d'un governo d'uomini nuovi, che avrebbe potuto
rimutar tutto e ricondurre i bargelli è i commissarii fiscali del tempo
di Sâlem. Una volta che il califo fatemita il tentò, acconsentendo,
com'e' pare, la casa kelbita per la promessa di maggiore stato in
Egitto, i Siciliani corsero alle armi (969); e il califo non trovò altro
modo di porre fine ai tumulti che d'inviare al più presto un emiro
kelbita. In venti anni dunque era fondata di fatto là eredità
dell'emirato, la quale premeva tanto ai Siciliani.
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