Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II - 09
che non gli facessero altra vergogna, e che sentissero più crudelmente
la fame.
La quale straziava tutta l'isola; prodotta non tanto da inclemenza di
stagioni e da' guasti inevitabili della guerra, quanto da satanic'arte
di Khalîl; il quale non mentì al certo quando vantossi d'avere spento di
ferro e di fame centinaia di migliaia d'anime in Sicilia. Ormai tutta la
strategia stava nel nudrire i proprii soldati, poichè i nemici sarebbero
morti senza ferite: e il capitano computista d'Affrica, facendo rapir
ogni maniera di cibo che potesse, conseguiva a un tratto la salute de'
suoi e la distruzion de' Siciliani. La carestia ingombrò cittadi e
campagne, scrive la cronica del paese; padri e madri mangiarono i
cadaveri dei figli; abbandonate dagli uomini, rovinarono le castella; le
terre coltivate rinsalvatichirono: una infinità di gente, aggiugne il
_Baiân_, fuggendo la carestia e i sicarii di Khalîl, riparò qua e là nei
paesi di Rûm, ch'è a dire Italia o Grecia; dove la più parte si fecero
cristiani. Mentre seguia nell'isola cotesto scempio, Khalîl stava
all'assedio di Girgenti: poi lasciovvi forte schiera con
Abu-Kelef-ibn-Harûn, ed egli si ridusse in Palermo, certo ormai
dell'esito. E di marzo del novecenquaranta, Platani inespugnabile
s'arrendè; Girgenti tenne il fermo finchè i più savii o avventurati si
salvarono con la fuga; i rimagnenti aprirono le porte a patto d'uscire
salvi, il venti novembre: ma Khalîl, quand'ebbeli nelle sue forze,
spezzando la fede menolli in Palermo. Le altre castella spaventate a
questo eccesso s'affrettarono a chiedere perdono, sperando placare il
tiranno: tutta la Sicilia tornò al nome dei Fatemiti. Khalîl mandava a
Kâim in Affrica le caterve dei prigioni da vendere;[437] nè andò guari
che parendogli queta ogni cosa, s'imbarcò egli stesso per l'Affrica a'
dieci settembre novecenquarantuno; lasciando al governo di Palermo due
delegati, per nome Ibn-Kufi e Ibn-'Attâf della tribù di Azd;[438] chè
Sâlem era morto l'anno innanzi. Si tirò dietro in altro legno i notabili
di Girgenti. E in alto mare comandò di sfondare la nave; sì che tutti
perirono.[439]
Donde gli annalisti musulmani si scoton di loro aritmetica
impassibilità, venendo a parlare di questo Khalîl; e chi l'infama d'aver
ecceduto ogni limite di efferata barbarie, chi nota aver costui fatto in
Sicilia ciò che niun altro Musulmano osò prima nè poi in alcun paese. Si
narra che al ritorno in Mehdia, sedendo un giorno a brigata coi primi
della città, caduto il discorso su la guerra di Sicilia, l'empio si
millantava: “Non saprei giusto giusto quanti ve ne feci morire; non
furono più d'un milione, non meno di secentomila.” E fatta breve pausa,
ripigliò: “Sì, per Dio, passarono i secentomila.” E una voce s'alzò, del
maestro di scuola Abu-abd-Allah, che gli rispose senza cirimonie:[440]
“Va, Abu-l-Abbâs, che ti basta un omicidio solo,”[441] alludendo al
grave peccato ch'era di sparger sangue per caso di maestà.[442]
Non andò guari che Khalîl n'ebbe il gastigo dalle mani degli uomini;
Minacciata Kairewân dal ribelle Abu-Iezîd, e tentennando i cittadini tra
la paura delle sfrenate sue moltitudini, e l'odio contro casa fatemita,
Kâim vi mandò il gran sicario della dinastia con una banda di mille
Negri a cavallo. Il quale, all'usanza vecchia, cominciò a velare e
maltrattare, e tentava anco la cura della fame, spazzando il contado con
orribile guasto; ma fe' contrario effetto, poichè i cittadini
mormorarono, poi cospirarono, e, come minor male, chiamarono Abu-Iezîd.
Appressandosi l'esercito ribelle (ottobre 944), Khalîl perdè l'animo:
uscì alla battaglia quasi sforzato; fuggì pria che si venisse alle mani;
e corse a chiudersi nel palagio di Kairewân. Dove preso dai ribelli,
l'uccisero coi suoi sgherri, e appiccarono il cadavere a un palo, alla
porta chiamata di Rebi'.[443]
CAPITOLO X.
Fortuneggiarono i Fatemiti in questa rivoluzione. Dicemmo noi che le
sètte kharegite ardeano ab antico tra i Berberi, or covando, or
divampando. Dal ramo degli Ibaditi si spiccò, com'egli avviene, novella
affiliazione che prese nome di Nekkariti;[444] e contaminò la giustizia
dello scopo con la stolta iniquità dei mezzi; insegnando legittimi,
l'omicidio, lo stupro, la rapina su tutti i non Nekkariti; ch'era a dir
quasi tutto il genere umano. Gli ultimi proseliti par che oggidì
rimangano gente industre e tranquilla, nell'isola delle Gerbe; ove al
certo fecero gran parte della popolazione e corpo politico dassè, infino
al decimoquarto e al decimoquinto secolo.[445] La setta prese subito
augumento, nei principii del decimo secolo, alla esaltazione dei
Fatemiti; quando si vide per prova la efficacia di coteste trame nella
schiatta berbera, e quando la servile superstizione ismaeliana insultò e
provocò i liberi spiriti dei Kharegi. Surse allora nel Gerîd tunisino, o
vogliam dire regione meridionale dell'odierno Stato di Tunis, un
Abu-Iezid-Mokhalled-ibn-Keidâd della tribù d'Ifren e nazione di Zenata;
uom povero, piccino, zoppo, deforme in volto, ma di grande intelletto e
animo da bastare a qualunque impresa; il quale, noiato di stentar la
vita insegnando il Corano ai giovanetti, si mescolò coi dottori
nakkariti che volean fare e non sapeano; divenne dei principali della
setta; osò allargarla e mutarla in cospirazione. A capo d'una ventina
d'anni d'affaticamento e persecuzioni, imprigionato dal governatore di
Tauzer, liberato da' suoi per audace colpo di mano, si rifuggiva
all'altra estremità dell'impero fatemita, tra i monti Aurès; dove
accozzatisi con esso altri rami di sètte kharegite ed alcune tribù della
nazione di Howâra, l'anno trecentrentuno (942-43) si deliberò la
ribellione: che Abu-Iezîd ne fosse capo, e che, cacciati i Fatemiti,
l'Affrica si reggesse a repubblica. Abu-Iezîd s'intitolò
democraticamente Sceikh dei Credenti; si mostrò alla testa degli
eserciti, vestito d'un rozzo saio di lana; montato sur un asinello
balzano; onde gli dissero “Il cavalier del ciuco.” E con centomila
Berberi di varie tribù, di varie sètte, feroci tutti e indisciplinati,
occupò l'Affrica propria. Delle molte battaglie ch'ei combattè con varia
fortuna, sempre con valore e costanza, ricorderemo sol due, nelle quali
gli stette a fronte un Siciliano, probabilmente di schiatta greca, per
nome Boscera,[446] schiavo di Kâim. Aveva il califo a un tempo mandato
Khalîl-ibn-Ishak a Kairewân, e questo Boscera con un esercito a Begia,
città dentro terra tra Tunis e Bona, perchè la difendesse contro il
ribelle che s'avanzava a quella volta, l'anno quarantaquattro. Appiccata
la zuffa andavano in volta i seguaci d'Abu-Iezîd, quand'ei corso addosso
ai fuggenti, smontava dal destrier di battaglia, si facea recare il
baston da pellegrino, e l'asinello balzano; lo cavalcava gridando: “Così
fa chi vuol non fuggire, ma vincere o morire!” Li rattestò; girò di
fianco, tanto che giunse dietro gli accampamenti di Boscera, minacciando
tagliargli la ritirata. Alla quale mossa, il capitano fatemita fe'
suonare a raccolta; precipitosamente prese la via di Tunis, inseguito da
Abu-Iezîd; il quale gli uccise gran gente; prese e messe a sacco Begia;
occupò Tunis, abbandonata anco da Boscera che indietreggiava a Susa.
Quivi gli giunsero rinforzi di Mehdia, e ordini di Kâim che ripigliasse
le offese. Onde uscito da Susa, trovandosi a fronte un luogotenente
d'Abu-Iezîd per nome Aiûb-ibn-Kheirân, combatterono ad Herkla, com'or si
chiama, in sul golfo di Hammamet; dove trionfò Boscera con grande strage
dei nemici; ma ritirossi a Mehdia pria che lo sopraggiugnesse Abu-Iezîd,
col grosso dell'esercito.[447] Così, facendo una punta quando si poteva,
Kâim contese l'Affrica ai ribelli; senza impedire che il medesimo anno
cacciassero i suoi d'ogni luogo, fuorchè Susa e Mehdia, e lo
assediassero nella capitale (gennaio 945). Occuparono tosto i sobborghi;
dettero assalti alla fortezza, un de' quali (luglio 945) recò tal paura;
che grande numero di cittadini, massime i mercatanti, rifuggivansi chi
in Tripoli, chi in Egitto, molti in Sicilia.
Nondimeno le fortificazioni di Mehdia salvarono la dinastia, dando tempo
alla dissoluzione delle forze d'Abu-Iezîd che si componeano d'elementi
eterogenei. La cittadinanza di Kairewân, e, poco più poco meno, il
rimanente della schiatta arabica, mal soffriva la eresia nekkarita,
quantunque Abu-Iezîd per soddisfar loro avesse ristorato in pubblico il
culto ortodosso. Peggio potean tollerare le licenze e rapine
dell'esercito, e la dominazione dei Berberi. Però la municipalità di
Kairewân, quando aprì le porte ad Abu-Iezîd, fece secolui un accordo che
si chiamassero gli Omeiadi di Spagna; ai quali furono mandati veramente
oratori: e gli Omeiadi promesser molto, ma non si venne a
conchiusione.[448] Intanto Abu-Iezîd, inebbriato dell'aver che fare con
gentiluomini, si vestì di seta, montò bei cavalli, e si alienò gli animi
dei Kharegi più schietti o più rozzi; de' quali un gli surse contro con
le armi; altri a poco a poco l'abbandonavano; nè gli valse allora
ripigliar l'asinello e la casacca di lana. La difficoltà dell'impresa di
Mehdia, accrebbe le discordie tra gli assedianti. Vi si aggiunse la
virtù d'Ismaele figliuolo di Kâim, giovane animoso, eloquentissimo,
attivo, dotato di sagacità politica e di gran vedere nelle cose di
guerra, al quale il padre affidò il comando supremo.
Donde Abu-Iezîd, ributtato in varii assalti, vedendo assottigliare
l'esercito da' malcontenti che se ne andavano e da' masnadieri che
correano qua e là per l'Affrica in busca di più facil preda, partitosi
di Mehdia (gennaio 946), osteggiò Susa, cui sperava ridurre di leggieri;
e gli fallì. Venuto intanto a morte Kâim (maggio 946), Ismaele
l'occultò; poi, avuti segnalati avvantaggi sopra il ribelle, promulgò la
esaltazione al trono; preso il soprannome di Mansûr-biamr-Illah, o
diremmo “Vittorioso per voler di Dio.” Continuando la guerra in persona,
incalzò Abu-Iezîd ritrattosi negli Aurès; dopo fieri combattimenti lo
assediò in un castello tra i monti di Kiâna; donde il ribelle tentò una
sortita: fu colpito in fronte e alle spalle; fuggì; lo presero; e dopo
pochi giorni morì di sue ferite (agosto 947). I Nekkariti intanto erano
uccisi per tutta l'Affrica alla spicciolata. Fadhl, figliuolo di
Abu-Iezîd, che rimase in su le armi dopo il padre, fu morto a tradimento
e mandata la testa a Mansûr; morto a tradimento Aiûb, altro figliuolo
rinomato scrittore di genealogie berbere; perseguitata fieramente tutta
la tribù d'Ifren.
Così ebbe fine dopo quattro anni la ribellione nekkarita. Kâim, serrato
in Mahdia, non s'era trovati altri amici fedeli che la tribù di Kotâma e
una parte della nazione di Sanhâgia che ubbidiva a Zîri-ibn-Menâd: e da
ciò venne la grandezza della casa di Zîri, che regnò in Affrica per due
secoli. Capitano e consigliere fidatissimo di Mansûr nella medesima
guerra fu Abu-l-Kâsem-Hasan-ibn-Ali-ibn-Abi-Hosein, della tribù arabica
di Kelb; rimunerato incontanente col governo della Sicilia, che rimase
per un secolo a' suoi discendenti.[449] Aggiugne un diligente
compilatore, essersi dato ad Hasan tal altro carico che parrebbe macchia
ai nomi più infamati dei nostri dì; ma lo possiam credere al decimo
secolo, sì come i posteri sarà forza che credano al secol decimonono il
supplizio del bastone in Italia. Quel prode e colto Mansûr avea fatto
scorticare il cadavere d'Abu-Iezîd, imbottir di bambagia la pelle e
condurre il misero sembiante per cinque mesi per le città principali
d'Affrica, legato sopra un camelo, in mezzo a due scimmie addestrate a
schiaffeggiarlo e pelargli la barba. Or si narra che Hasan dovesse
recarlo a spettacolo in Sicilia, con giunta della testa di Fadhl, ucciso
di fresco. Se non che il legno fece naufragio; la pelle d'Abu-Iezîd fu
salvata; e si tennero contenti d'appenderla a quella stessa porta di
Mehdia, ov'egli era arrivato a piantare una lancia al tempo
dell'assedio.[450]
In Sicilia per sei anni non s'erano più udite nè guerre nè tumulti, ma
furti, soprusi, violenze private: il forte, dice la cronica, si mangiava
il debole;[451] accennando senza dubbio alle enormezze dei nobili e dei
condottieri berberi e mercenarii che avea lasciato Khalîl. Nè
l'abbondanza potea succedere alla fame, là dove mancavan le braccia a
coltivare il suolo, dopo la orrenda cavata di sangue del
novecenquaranta. In questo incontro un Crinite, armeno, stratego di
Calabria,[452] incettava frumento a basso prezzo nella provincia e
rivendealo a peso d'oro nella Sicilia oppressa (son le parole di
Cedreno) dalla fame e dalla guerra che vi portarono i Cirenaici; nella
quale guerra i Romani dettero asilo ai fuggitivi Cartaginesi, nè lor
nazione osò ridomandarli nè esigere il tributo, temendo non i Romani
negassero le vittuaglie.[453] Traducendo cotesti nomi di storia antica
che i Bizantini non sapeano smettere, si ha la confermazione di quanto
ci narrano gli scrittori arabi. Si ritrae che il Crinite continuava suo
traffico almen fino al novecenquarantacinque; poichè l'imperatore che lo
spogliò dell'oficio e dei danari mal tolti, fu Costantino
Porfirogenito.[454]
Veramente la colonia di Sicilia in questo breve tratto era divenuta
ludibrio delle genti vicine. Ibn-'Attâf e Ibn-Kufi preposti da Khalîl,
quand'ei tornossi in Affrica, sembrano proprio il capo bargello e il
capo riscotitore; nè alcuno avea titolo d'emir, come poc'anzi Sâlem:
_motewalli_, in fatti, li chiama la cronica siciliana, che vuol dire
“delegati” e litteralmente “pseudo-wâli.”[455] Forse fu surrogato, il
novecentrentaquattro, un Ibn-Asci'ath a Ibn-Kufi, che tra i due sembra
il riscotitore; forse Ibn-'Attâf, il bargello, ebbe autorità un po' più
larga il novecentrentacinque, quando il califo fatemita pericolava in
Affrica e ricominciavano le mormorazioni in Palermo.[456] Ma la
debolezza che i compilatori appongono a Ibn-'Attâf era per vero la poca
autorità dell'oficio, da non poter armare la gioventù, dare gli
stipendii, osteggiare gli Infedeli, strappar loro il tributo o far colta
di bottino e prigioni. Kâim, seguendo e rincalzando la pratica del
padre, avea tanto accentrato il governo in Affrica e indebolito la
colonia, da toglierle il principio vitale della società musulmana,
ch'era la guerra: perpetuo errore dei despoti a tener il popolo tra
morto e vivo per assicurarsi di lui. Il che nuoce al popolo, nuoce al
despota e non impedisce le rivoluzioni; poichè e gli oppressi n'avran
voglia sempre e l'oppressore non potrà prevenirle sempre. Di tutte le
città musulmane, Palermo avea patito minor danno nella guerra di Khalîl.
La nobiltà, i giuristi, la plebe, mal soffrendo tanta abiezione;
suscitati dalle nuove d'Affrica, dove Abu-Iezîd tuttavia combattea, non
seppero star cheti l'anno novecenquarantasette alla fine del ramadhan,
quando le pratiche religiose e la frequenza del popolo in piazza
riscaldan più le teste ai Musulmani.
Nella festa che sorvenne del primo scewâl trecentrentacinque (24 aprile
947), i Beni-Tabari, nobil casato d'origine persiana ch'era dei primi
nel consiglio municipale di Palermo, levano il romore contro Ibn-'Attâf,
gridando che per la costui dappocaggine e viltà i Cristiani calpestano
il nome musulmano, si ridon dei patti e da tanti anni non pagan tributo.
Il popolo li seguì: uscito in piazza 'Attâf coi fanti del bargello, si
vien alle mani; sbaragliati i fanti e molti uccisi; prese le bandiere e
le taballe di 'Attâf; sì che a mala pena arrivò a chiudersi in castello.
I cittadini se ne tornavano a lor case senza incalzarlo altrimenti.
Attâf indi a scrivere i soliti letteroni al principe che mandasse stuoli
di soldati subito subito. I capi del tumulto procacciaron dal canto loro
di ritrar come andasse la guerra d'Abu-Iezîd e che intendesse di fare in
Sicilia Mansûr. Saputo ch'egli fosse per commettere il governo
dell'isola ad Hasan-ibn-Ali, partirono per Mehdia Ali-ibn-Tabari ed
altri uomini di nota, a chiedere, in scambio di Hasan, un emiro di lor
piacimento. Il qual fine si proponeano di conseguir per amore o per
forza; raccomandando ai partigiani in Palermo che non lasciassero
entrare in città Hasan-ibn-Ali, nè sbarcare i seguaci dalle navi; ma
aspettassero le lettere ch'essi avrebbero scritto dall'Affrica dopo
l'abboccamento con Mansûr.[457] Cotesta pratica si dèe riferire alla
state del novecenquarantotto, quando Mansûr, spenti gli ultimi avanzi
della ribellione in Affrica, ebbe agio di pensare alla Sicilia.[458]
Diverso dagli emiri che vennero per lo addietro a ripigliar lo stato in
Sicilia, Hasan-ibn-Alî sciolse d'Affrica con poche navi: sbarcato a
Mazara senza strepito, stettevi tutto il dì, come in quarantena; non
facendosi anima vivente a dargli il benvenuto. A notte scura comparve
una man di Kotamii, d'Arabi d'Affrica[459] e d'altre genti, scusandosi
che non l'avessero osato prima per timore dei Beni-Tabari e di loro
aderenti, e ragguagliandolo dell'ambasceria in Affrica e altre
disposizioni della parte. Nè andò guari che giunse a Mazara una brigata
della parte, a speculare le forze e intendimenti di Hasan. Vistolo
sprovveduto, da poterlo menare com'e' voleano, gli contaron fole: ed e
fe' le viste di beversele; promettendo che non moverebbe un passo da
Mazara s'e' non andassero a Palermo e tornassero con la risposta: chè
probabilmente avean pretestato doverne deliberare la _gema'_. Ma come
prima seppeli partiti, cavalcò per altra via con picciolo stuolo per
andare a guadagnar loro le mosse in Palermo; dove era manifesto che
avrebbero adunato tutti i fautori e sollevato la città contro di lui. La
parte dunque consultava comodamente e rideasi forse di Hasan, quando si
sparge che il novello emiro è a Baida, alle porte della città.
L'Hâkim,[460] gli oficiali pubblici, tutti coloro che bramavano il buono
stato, scrive Ibn-el-Athîr, e par non significhi questa volta i
vigliacchi e i pecoroni, tutti gli vanno all'incontro; ed Hasan ad
onorarli, a informarsi delle condizioni e bisogni della città, senza
quel cipiglio sbirresco che da tanti anni si solea vedere in volto ai
governanti. Ismaele-ibn-Tabari, capo della fazione aristocratica,
sapendo che tutta la città usciva ad accoglier l'emiro, non potè far che
non andasse con gli altri; e al par che gli altri, o forse più, fu
ricambiato di cortesie. Tornato alle sue case che si sentiva scappar di
mano le fila della trama, peggio indispettì sapendo che Hasan se n'era
ito bel bello in palagio, e che gli s'accostavano non solamente gli
avversarii ma i partigiani stessi dei Beni-Tabari. Pensando ai modi di
frastornare la opinione pubblica, il migliore gli parve una calunnia.
Un cittadino, cagnotto suo, gitta gli occhi addosso ad un negro della
guardia d'Hasan ch'avea nome d'uomo valorosissimo e amato indi
dall'emiro; gli si avvicina con bei modi; lo invita ad entrare nelle sue
stanze; quando ve l'ebbe attirato, salta fuori gridando: “Accorrete,
accorrete, questo masnadiere mi s'è ficcato in casa e vuole sforzarmi la
moglie in faccia mia.” Il popolo trasse al romore. Ismaele non mancò di
cacciarsi in mezzo borbottando: “Bel preludio! Non son padroni per anco
del paese, e ci trattan così! Che dobbiamo aspettarci quando metteranno
radice?” E suggeriva d'andare a chieder vendetta all'emiro; supponendo
ch'ei non la farebbe, e che il popolo infiammato di sdegno romperebbesi
al tumulto e ne sarebbe cacciato Hasan. La plebe, seguendo lo zimbello
che non cessava dalli schiamazzi, trasse dinanzi all'emiro. Il quale
ascolta pacatamente la querela; risponde a quell'uomo: “Se dici il vero,
giuralo dinanzi a Dio;” e poichè lo sciagurato giurava, comandò
incontanente di mozzar la testa allo schiavo. Al quale supplizio
inaspettato, rallegrossi tutta la città: “Ecco la prima volta,
sclamavano, che veggiam far la giustizia; or si può viver sicuri in
Palermo.” Ismaele si rannicchiò.[461]
Ed Hasan, come se nulla fosse stato, lo vezzeggiava al par che gli altri
capi della parte; la qual commedia durò sino allo scorcio del
novecenquarantotto. Dello scioglimento abbiamo due tradizioni: la prima,
riferita da Ibn-el-Athîr e scritta evidentemente nelle croniche
musulmane d'Affrica; la seconda, è immediata testimonianza d'un
Siciliano, di professione o almen d'origine cristiano: e l'una
rappresenta la sostanza del fatto; l'altra l'apparenza che gli diè il
governo. Al dir della prima, il califo, che avea senza dubbio tenuto a
bada gli ambasciatori della fazione, sapendo ben avviate le cose di
Palermo, li fe' d'un subito catturare in Affrica: che furono
Ali-ibn-Tabari, Mohammed-ibn-'Abdûn, Mohammed-ibn-Genâ e altri di minor
nome; e scrisse ad Hasan che prendesse lor compagni; il quale,
giudicando ardua cotesta impresa, la compiè a tradimento. La cronica del
paese, narra in vece che quei di Palermo congiuravano contro Hasan; e
ch'egli addandosene “li colse alla rete:” questa è proprio la parola, la
quale si direbbe rubata ai liberti che scrivean le croniche degli
Omeiadi di Spagna e ne palliavano i delitti.[462] Ma ognun vede che le
due tradizioni s'addentellano come pezzi d'antica iscrizione che il caso
abbia fatto trovare in tempi diversi. Il venticinque dicembre del
quarantotto[463] Hasan mandava a dire da buon compagnone ad Ismaele:
“M'hai promesso di condurmi a diporto nel tuo giardino; vien dunque al
castello e andremo insieme.” Somigliante messaggio inviò, a nome
d'Ismaele, agli altri notabili della fazione. Entrati tutti senza
sospetto, lasciando gli stuoli di lor séguito alle porte del palagio,
l'emiro li intrattenne con bei ragionamenti e cortesie fino ad ora
tarda; non traspirando fuor le mura altro che allegrezza: poi richiese
la brigata di spender quella notte in festa secolui e che la dimane si
cavalcherebbe alla villa dei Beni-Tabari e fe' dire ai seguaci di fuori,
si ritirassero a casa e tornassero la dimane, poichè lor signorie
rimanean ospiti dell'emiro. Al sacro nome d'ospitalità niuno pensò a
male. E la dimane si videro appiccati ai pali tanti cadaveri mutili
delle mani e dei piè. Erano Ismaele-ibn-Tabari, Regiâ-ibn-Genâ un
Mohammed e parecchi altri di cui non si ricordano i nomi.[464] Tenne
dietro al supplizio la confiscazion dei beni. Fatto il colpo, crebbero i
partigiani di Hasan; il reggimento piacque all'universale dei cittadini;
la colonia posò dai tumulti; ripigliò animo e forze: così litteralmente
le croniche.[465] Ed e' si comprende come l'utile colpa sia stata
approvata non solo da chi scrisse, ma anco da chi vide e forse dalla più
parte del popolo che ne fruì. Oltre i costumi dei tempi, oltre
l'ammirazione volgare della vittoria, oltre l'invidia soddisfatta di
questo e di quello, ei non si può negare che il misfatto di Hasan tornò
utile al pubblico; poichè i Tabari, i Genâ, i nobili di Palermo e lor
clientele non erano al certo tribuni zelanti del ben pubblico, ma
tirannelli che disputavan tra loro e ad un tiranno più grande il dritto
di sopraffare la gente minuta. Donde possiam dire anche noi: bene stia
ai vinti. Nè però assolviamo il vincitore, il quale esordì a Mazara con
la menzogna: rincalzò all'entrare in Palermo col supplizio del soldato
innocente; compì l'opera con far trappola delle proprie case e arme
della giustizia il tradimento. Come dovea navigare Hasan tra cotesti due
scogli, lo lasciamo a risolvere ai casisti. L'insegnamento che vogliamo
cavarne è che gli Stati non ordinati secondo uguaglianza e libertà, non
hanno rimedio ai mali loro che sia scevro di colpa.
CAPITOLO XI.
Terminando in questo tempo la lotta della independenza e principiando un
periodo più culto, è bene rassegnare gli elementi civili che rimaneano.
Le vicende dei Cristiani nella prima metà del decimo secolo mostrano
ch'e' tenessero tuttavia il lato orientale dell'isola. Ibrahim-ibn-Ahmed
avea distrutto sì loro fortezze; ma le guerre civili impedirono
ai Musulmani di porre colonie in quelle parti. Però non avvi
ricordo d'alcuna terra di Valdemone o Val di Noto nella sanguinosa
storia di Khalîl, nè in altra rivoluzione della colonia fino al
novecensessantanove; però nella guerra di Manuele Foca (964) i Bizantini
sbarcarono come in luoghi amici per tutta la costiera da Messina a
Lentini. E cotesta guerra si accese appunto, perchè i Musulmani voleano
porre stanza e possedere terreni nella Sicilia orientale.[466]
Regione fatta squallida e desolata, a dispetto della natura, in quel
dubbio confine di due epoche; quando la dominazione bizantina,
nell'andarsene, le avea lasciato il tristo retaggio di suoi vizii
sociali; e i Musulmani, anzichè veri padroni, eran tuttavia nemici,
liberi sì di correre la provincia. Di certo mancar dovea l'agricoltura
con la popolazione, diradata dalle stragi d'Ibrahim e dalle emigrazioni
in Calabria e altri paesi cristiani; e n'è prova la lunga carestia,
nella quale una metà dell'isola non bastava a sfamar l'altra metà
afflitta dalla guerra civile.[467] Con la ricchezza e con la popolazione
si dileguavan anco gli ultimi avanzi di coltura intellettuale; talchè
sparisce in questo tempo ogni vestigio di scrittori cristiani di
Sicilia.[468]
La stessa religione par abbia perduto nelle province orientali, se non
la speranza ch'è sua radice, certo gli effetti esteriori che mostran
viva la pianta. Mancano infatti le memorie ecclesiastiche di quel
periodo. Nessuna agiografia ne abbiamo; se non che l'autore anonimo
della Vita di San Niceforo vescovo di Mileto vagamente parla della gran
copia di “veggenti in Dio” che vissero in Sicilia (964), dei quali
nomina il solo Prassinachio; com'e' pare, romito, stanziante in su lo
Stretto di Messina; uomo famosissimo per pietà, e per avere presagito la
sconfitta di Manuele Foca.[469] E quest'abbondanza di profeti è pur
segno infallibile di presente miseria, di che la ragione umana vegga
chiusa ogni uscita. Torna alla stessa, alla precedente generazione,
Ippolito vescovo di Sicilia, non sappiamo di qual città, autore di certi
vaticinii molto oscuri su la caduta della potenza musulmana, i quali
erano in voga a Costantinopoli nella seconda legazione di Liutprando.
Nè è da lasciare inosservata cotesta strana appellazione di vescovo di
Sicilia, che comparisce a un tratto alla metà del decimo secolo. Oltre
Liutprando, l'adopera la Cronica di Cambridge, parlando d'un Leone che
fu mandato in ostaggio a Palermo nel novecenventicinque;[470] dond'è
evidente aver que' due scrittori ripetuto un modo di dire che correva in
Palermo e in Costantinopoli verso il novecensessantotto, quando vissero
entrambi. I titoli canonici delle sedi siciliane non erano al certo
mutati; ma supposto che ne rimanesse in piedi una sola, il vescovo
comunemente si dovea chiamar di Sicilia, non di tale o tal città. E
fors'era quello di Taormina.
Cotesti indizii messi insieme provano il picciol numero a che era
ridotta la gente greca e italica della Sicilia orientale e la vita che
vivea di stenti, di fatiche, di pericoli. Le città independenti eran
fatte tributarie dopo la guerra d'Ibrahim-ibn-Ahmed; spezzato pertanto
ogni legame con l'impero bizantino, tanto più dopo la pace che fermò
l'impero coi califi fatemiti.[471] Costantino Porfirogenito, in fatti,
nella descrizione delle province, confessa perduta l'isola di Sicilia,
le cui città, dice egli, “parte son abbandonate, parte si tengono dagli
atei Saraceni.”[472] Che se rimase negli almanacchi di corte il tema di
Sicilia, significava soltanto la Calabria che una volta ne avea fatto
parte; consolandosi la povertà bizantina con dare all'accessorio il
titolo del principale: onde il governatore si chiamò promiscuamente
stratego di Sicilia, stratego di Calabria e anche duca di Calabria.[473]
Le popolazioni tributarie di Sicilia reggeansi necessariamente a
municipio;[474] soddisfaceano il tributo quando non poteano ricusarlo
impunemente; rialzavan le mura per poco che i Musulmani non ci
badassero; e di tratto in tratto, or adescate da occasione propizia, ora
esasperate da sopruso de' vincitori, ritentavan la prova di resistere.
Taormina così; così qualche altra rôcca di Val Demone. Del Val di Noto
non si fa motto, dopo la caduta di Siracusa e delle città dell'Etna.
Forse la popolazione, menomata delle migliaia che si menavano in
schiavitù in altre parti dell'isola[475] o fuori, rimase sì poca e
sparsa che nulla osò, e niuno parlò di lei.
Mi conferma in tal supposto la sovrabbondanza di abitatori che si notava
la fame.
La quale straziava tutta l'isola; prodotta non tanto da inclemenza di
stagioni e da' guasti inevitabili della guerra, quanto da satanic'arte
di Khalîl; il quale non mentì al certo quando vantossi d'avere spento di
ferro e di fame centinaia di migliaia d'anime in Sicilia. Ormai tutta la
strategia stava nel nudrire i proprii soldati, poichè i nemici sarebbero
morti senza ferite: e il capitano computista d'Affrica, facendo rapir
ogni maniera di cibo che potesse, conseguiva a un tratto la salute de'
suoi e la distruzion de' Siciliani. La carestia ingombrò cittadi e
campagne, scrive la cronica del paese; padri e madri mangiarono i
cadaveri dei figli; abbandonate dagli uomini, rovinarono le castella; le
terre coltivate rinsalvatichirono: una infinità di gente, aggiugne il
_Baiân_, fuggendo la carestia e i sicarii di Khalîl, riparò qua e là nei
paesi di Rûm, ch'è a dire Italia o Grecia; dove la più parte si fecero
cristiani. Mentre seguia nell'isola cotesto scempio, Khalîl stava
all'assedio di Girgenti: poi lasciovvi forte schiera con
Abu-Kelef-ibn-Harûn, ed egli si ridusse in Palermo, certo ormai
dell'esito. E di marzo del novecenquaranta, Platani inespugnabile
s'arrendè; Girgenti tenne il fermo finchè i più savii o avventurati si
salvarono con la fuga; i rimagnenti aprirono le porte a patto d'uscire
salvi, il venti novembre: ma Khalîl, quand'ebbeli nelle sue forze,
spezzando la fede menolli in Palermo. Le altre castella spaventate a
questo eccesso s'affrettarono a chiedere perdono, sperando placare il
tiranno: tutta la Sicilia tornò al nome dei Fatemiti. Khalîl mandava a
Kâim in Affrica le caterve dei prigioni da vendere;[437] nè andò guari
che parendogli queta ogni cosa, s'imbarcò egli stesso per l'Affrica a'
dieci settembre novecenquarantuno; lasciando al governo di Palermo due
delegati, per nome Ibn-Kufi e Ibn-'Attâf della tribù di Azd;[438] chè
Sâlem era morto l'anno innanzi. Si tirò dietro in altro legno i notabili
di Girgenti. E in alto mare comandò di sfondare la nave; sì che tutti
perirono.[439]
Donde gli annalisti musulmani si scoton di loro aritmetica
impassibilità, venendo a parlare di questo Khalîl; e chi l'infama d'aver
ecceduto ogni limite di efferata barbarie, chi nota aver costui fatto in
Sicilia ciò che niun altro Musulmano osò prima nè poi in alcun paese. Si
narra che al ritorno in Mehdia, sedendo un giorno a brigata coi primi
della città, caduto il discorso su la guerra di Sicilia, l'empio si
millantava: “Non saprei giusto giusto quanti ve ne feci morire; non
furono più d'un milione, non meno di secentomila.” E fatta breve pausa,
ripigliò: “Sì, per Dio, passarono i secentomila.” E una voce s'alzò, del
maestro di scuola Abu-abd-Allah, che gli rispose senza cirimonie:[440]
“Va, Abu-l-Abbâs, che ti basta un omicidio solo,”[441] alludendo al
grave peccato ch'era di sparger sangue per caso di maestà.[442]
Non andò guari che Khalîl n'ebbe il gastigo dalle mani degli uomini;
Minacciata Kairewân dal ribelle Abu-Iezîd, e tentennando i cittadini tra
la paura delle sfrenate sue moltitudini, e l'odio contro casa fatemita,
Kâim vi mandò il gran sicario della dinastia con una banda di mille
Negri a cavallo. Il quale, all'usanza vecchia, cominciò a velare e
maltrattare, e tentava anco la cura della fame, spazzando il contado con
orribile guasto; ma fe' contrario effetto, poichè i cittadini
mormorarono, poi cospirarono, e, come minor male, chiamarono Abu-Iezîd.
Appressandosi l'esercito ribelle (ottobre 944), Khalîl perdè l'animo:
uscì alla battaglia quasi sforzato; fuggì pria che si venisse alle mani;
e corse a chiudersi nel palagio di Kairewân. Dove preso dai ribelli,
l'uccisero coi suoi sgherri, e appiccarono il cadavere a un palo, alla
porta chiamata di Rebi'.[443]
CAPITOLO X.
Fortuneggiarono i Fatemiti in questa rivoluzione. Dicemmo noi che le
sètte kharegite ardeano ab antico tra i Berberi, or covando, or
divampando. Dal ramo degli Ibaditi si spiccò, com'egli avviene, novella
affiliazione che prese nome di Nekkariti;[444] e contaminò la giustizia
dello scopo con la stolta iniquità dei mezzi; insegnando legittimi,
l'omicidio, lo stupro, la rapina su tutti i non Nekkariti; ch'era a dir
quasi tutto il genere umano. Gli ultimi proseliti par che oggidì
rimangano gente industre e tranquilla, nell'isola delle Gerbe; ove al
certo fecero gran parte della popolazione e corpo politico dassè, infino
al decimoquarto e al decimoquinto secolo.[445] La setta prese subito
augumento, nei principii del decimo secolo, alla esaltazione dei
Fatemiti; quando si vide per prova la efficacia di coteste trame nella
schiatta berbera, e quando la servile superstizione ismaeliana insultò e
provocò i liberi spiriti dei Kharegi. Surse allora nel Gerîd tunisino, o
vogliam dire regione meridionale dell'odierno Stato di Tunis, un
Abu-Iezid-Mokhalled-ibn-Keidâd della tribù d'Ifren e nazione di Zenata;
uom povero, piccino, zoppo, deforme in volto, ma di grande intelletto e
animo da bastare a qualunque impresa; il quale, noiato di stentar la
vita insegnando il Corano ai giovanetti, si mescolò coi dottori
nakkariti che volean fare e non sapeano; divenne dei principali della
setta; osò allargarla e mutarla in cospirazione. A capo d'una ventina
d'anni d'affaticamento e persecuzioni, imprigionato dal governatore di
Tauzer, liberato da' suoi per audace colpo di mano, si rifuggiva
all'altra estremità dell'impero fatemita, tra i monti Aurès; dove
accozzatisi con esso altri rami di sètte kharegite ed alcune tribù della
nazione di Howâra, l'anno trecentrentuno (942-43) si deliberò la
ribellione: che Abu-Iezîd ne fosse capo, e che, cacciati i Fatemiti,
l'Affrica si reggesse a repubblica. Abu-Iezîd s'intitolò
democraticamente Sceikh dei Credenti; si mostrò alla testa degli
eserciti, vestito d'un rozzo saio di lana; montato sur un asinello
balzano; onde gli dissero “Il cavalier del ciuco.” E con centomila
Berberi di varie tribù, di varie sètte, feroci tutti e indisciplinati,
occupò l'Affrica propria. Delle molte battaglie ch'ei combattè con varia
fortuna, sempre con valore e costanza, ricorderemo sol due, nelle quali
gli stette a fronte un Siciliano, probabilmente di schiatta greca, per
nome Boscera,[446] schiavo di Kâim. Aveva il califo a un tempo mandato
Khalîl-ibn-Ishak a Kairewân, e questo Boscera con un esercito a Begia,
città dentro terra tra Tunis e Bona, perchè la difendesse contro il
ribelle che s'avanzava a quella volta, l'anno quarantaquattro. Appiccata
la zuffa andavano in volta i seguaci d'Abu-Iezîd, quand'ei corso addosso
ai fuggenti, smontava dal destrier di battaglia, si facea recare il
baston da pellegrino, e l'asinello balzano; lo cavalcava gridando: “Così
fa chi vuol non fuggire, ma vincere o morire!” Li rattestò; girò di
fianco, tanto che giunse dietro gli accampamenti di Boscera, minacciando
tagliargli la ritirata. Alla quale mossa, il capitano fatemita fe'
suonare a raccolta; precipitosamente prese la via di Tunis, inseguito da
Abu-Iezîd; il quale gli uccise gran gente; prese e messe a sacco Begia;
occupò Tunis, abbandonata anco da Boscera che indietreggiava a Susa.
Quivi gli giunsero rinforzi di Mehdia, e ordini di Kâim che ripigliasse
le offese. Onde uscito da Susa, trovandosi a fronte un luogotenente
d'Abu-Iezîd per nome Aiûb-ibn-Kheirân, combatterono ad Herkla, com'or si
chiama, in sul golfo di Hammamet; dove trionfò Boscera con grande strage
dei nemici; ma ritirossi a Mehdia pria che lo sopraggiugnesse Abu-Iezîd,
col grosso dell'esercito.[447] Così, facendo una punta quando si poteva,
Kâim contese l'Affrica ai ribelli; senza impedire che il medesimo anno
cacciassero i suoi d'ogni luogo, fuorchè Susa e Mehdia, e lo
assediassero nella capitale (gennaio 945). Occuparono tosto i sobborghi;
dettero assalti alla fortezza, un de' quali (luglio 945) recò tal paura;
che grande numero di cittadini, massime i mercatanti, rifuggivansi chi
in Tripoli, chi in Egitto, molti in Sicilia.
Nondimeno le fortificazioni di Mehdia salvarono la dinastia, dando tempo
alla dissoluzione delle forze d'Abu-Iezîd che si componeano d'elementi
eterogenei. La cittadinanza di Kairewân, e, poco più poco meno, il
rimanente della schiatta arabica, mal soffriva la eresia nekkarita,
quantunque Abu-Iezîd per soddisfar loro avesse ristorato in pubblico il
culto ortodosso. Peggio potean tollerare le licenze e rapine
dell'esercito, e la dominazione dei Berberi. Però la municipalità di
Kairewân, quando aprì le porte ad Abu-Iezîd, fece secolui un accordo che
si chiamassero gli Omeiadi di Spagna; ai quali furono mandati veramente
oratori: e gli Omeiadi promesser molto, ma non si venne a
conchiusione.[448] Intanto Abu-Iezîd, inebbriato dell'aver che fare con
gentiluomini, si vestì di seta, montò bei cavalli, e si alienò gli animi
dei Kharegi più schietti o più rozzi; de' quali un gli surse contro con
le armi; altri a poco a poco l'abbandonavano; nè gli valse allora
ripigliar l'asinello e la casacca di lana. La difficoltà dell'impresa di
Mehdia, accrebbe le discordie tra gli assedianti. Vi si aggiunse la
virtù d'Ismaele figliuolo di Kâim, giovane animoso, eloquentissimo,
attivo, dotato di sagacità politica e di gran vedere nelle cose di
guerra, al quale il padre affidò il comando supremo.
Donde Abu-Iezîd, ributtato in varii assalti, vedendo assottigliare
l'esercito da' malcontenti che se ne andavano e da' masnadieri che
correano qua e là per l'Affrica in busca di più facil preda, partitosi
di Mehdia (gennaio 946), osteggiò Susa, cui sperava ridurre di leggieri;
e gli fallì. Venuto intanto a morte Kâim (maggio 946), Ismaele
l'occultò; poi, avuti segnalati avvantaggi sopra il ribelle, promulgò la
esaltazione al trono; preso il soprannome di Mansûr-biamr-Illah, o
diremmo “Vittorioso per voler di Dio.” Continuando la guerra in persona,
incalzò Abu-Iezîd ritrattosi negli Aurès; dopo fieri combattimenti lo
assediò in un castello tra i monti di Kiâna; donde il ribelle tentò una
sortita: fu colpito in fronte e alle spalle; fuggì; lo presero; e dopo
pochi giorni morì di sue ferite (agosto 947). I Nekkariti intanto erano
uccisi per tutta l'Affrica alla spicciolata. Fadhl, figliuolo di
Abu-Iezîd, che rimase in su le armi dopo il padre, fu morto a tradimento
e mandata la testa a Mansûr; morto a tradimento Aiûb, altro figliuolo
rinomato scrittore di genealogie berbere; perseguitata fieramente tutta
la tribù d'Ifren.
Così ebbe fine dopo quattro anni la ribellione nekkarita. Kâim, serrato
in Mahdia, non s'era trovati altri amici fedeli che la tribù di Kotâma e
una parte della nazione di Sanhâgia che ubbidiva a Zîri-ibn-Menâd: e da
ciò venne la grandezza della casa di Zîri, che regnò in Affrica per due
secoli. Capitano e consigliere fidatissimo di Mansûr nella medesima
guerra fu Abu-l-Kâsem-Hasan-ibn-Ali-ibn-Abi-Hosein, della tribù arabica
di Kelb; rimunerato incontanente col governo della Sicilia, che rimase
per un secolo a' suoi discendenti.[449] Aggiugne un diligente
compilatore, essersi dato ad Hasan tal altro carico che parrebbe macchia
ai nomi più infamati dei nostri dì; ma lo possiam credere al decimo
secolo, sì come i posteri sarà forza che credano al secol decimonono il
supplizio del bastone in Italia. Quel prode e colto Mansûr avea fatto
scorticare il cadavere d'Abu-Iezîd, imbottir di bambagia la pelle e
condurre il misero sembiante per cinque mesi per le città principali
d'Affrica, legato sopra un camelo, in mezzo a due scimmie addestrate a
schiaffeggiarlo e pelargli la barba. Or si narra che Hasan dovesse
recarlo a spettacolo in Sicilia, con giunta della testa di Fadhl, ucciso
di fresco. Se non che il legno fece naufragio; la pelle d'Abu-Iezîd fu
salvata; e si tennero contenti d'appenderla a quella stessa porta di
Mehdia, ov'egli era arrivato a piantare una lancia al tempo
dell'assedio.[450]
In Sicilia per sei anni non s'erano più udite nè guerre nè tumulti, ma
furti, soprusi, violenze private: il forte, dice la cronica, si mangiava
il debole;[451] accennando senza dubbio alle enormezze dei nobili e dei
condottieri berberi e mercenarii che avea lasciato Khalîl. Nè
l'abbondanza potea succedere alla fame, là dove mancavan le braccia a
coltivare il suolo, dopo la orrenda cavata di sangue del
novecenquaranta. In questo incontro un Crinite, armeno, stratego di
Calabria,[452] incettava frumento a basso prezzo nella provincia e
rivendealo a peso d'oro nella Sicilia oppressa (son le parole di
Cedreno) dalla fame e dalla guerra che vi portarono i Cirenaici; nella
quale guerra i Romani dettero asilo ai fuggitivi Cartaginesi, nè lor
nazione osò ridomandarli nè esigere il tributo, temendo non i Romani
negassero le vittuaglie.[453] Traducendo cotesti nomi di storia antica
che i Bizantini non sapeano smettere, si ha la confermazione di quanto
ci narrano gli scrittori arabi. Si ritrae che il Crinite continuava suo
traffico almen fino al novecenquarantacinque; poichè l'imperatore che lo
spogliò dell'oficio e dei danari mal tolti, fu Costantino
Porfirogenito.[454]
Veramente la colonia di Sicilia in questo breve tratto era divenuta
ludibrio delle genti vicine. Ibn-'Attâf e Ibn-Kufi preposti da Khalîl,
quand'ei tornossi in Affrica, sembrano proprio il capo bargello e il
capo riscotitore; nè alcuno avea titolo d'emir, come poc'anzi Sâlem:
_motewalli_, in fatti, li chiama la cronica siciliana, che vuol dire
“delegati” e litteralmente “pseudo-wâli.”[455] Forse fu surrogato, il
novecentrentaquattro, un Ibn-Asci'ath a Ibn-Kufi, che tra i due sembra
il riscotitore; forse Ibn-'Attâf, il bargello, ebbe autorità un po' più
larga il novecentrentacinque, quando il califo fatemita pericolava in
Affrica e ricominciavano le mormorazioni in Palermo.[456] Ma la
debolezza che i compilatori appongono a Ibn-'Attâf era per vero la poca
autorità dell'oficio, da non poter armare la gioventù, dare gli
stipendii, osteggiare gli Infedeli, strappar loro il tributo o far colta
di bottino e prigioni. Kâim, seguendo e rincalzando la pratica del
padre, avea tanto accentrato il governo in Affrica e indebolito la
colonia, da toglierle il principio vitale della società musulmana,
ch'era la guerra: perpetuo errore dei despoti a tener il popolo tra
morto e vivo per assicurarsi di lui. Il che nuoce al popolo, nuoce al
despota e non impedisce le rivoluzioni; poichè e gli oppressi n'avran
voglia sempre e l'oppressore non potrà prevenirle sempre. Di tutte le
città musulmane, Palermo avea patito minor danno nella guerra di Khalîl.
La nobiltà, i giuristi, la plebe, mal soffrendo tanta abiezione;
suscitati dalle nuove d'Affrica, dove Abu-Iezîd tuttavia combattea, non
seppero star cheti l'anno novecenquarantasette alla fine del ramadhan,
quando le pratiche religiose e la frequenza del popolo in piazza
riscaldan più le teste ai Musulmani.
Nella festa che sorvenne del primo scewâl trecentrentacinque (24 aprile
947), i Beni-Tabari, nobil casato d'origine persiana ch'era dei primi
nel consiglio municipale di Palermo, levano il romore contro Ibn-'Attâf,
gridando che per la costui dappocaggine e viltà i Cristiani calpestano
il nome musulmano, si ridon dei patti e da tanti anni non pagan tributo.
Il popolo li seguì: uscito in piazza 'Attâf coi fanti del bargello, si
vien alle mani; sbaragliati i fanti e molti uccisi; prese le bandiere e
le taballe di 'Attâf; sì che a mala pena arrivò a chiudersi in castello.
I cittadini se ne tornavano a lor case senza incalzarlo altrimenti.
Attâf indi a scrivere i soliti letteroni al principe che mandasse stuoli
di soldati subito subito. I capi del tumulto procacciaron dal canto loro
di ritrar come andasse la guerra d'Abu-Iezîd e che intendesse di fare in
Sicilia Mansûr. Saputo ch'egli fosse per commettere il governo
dell'isola ad Hasan-ibn-Ali, partirono per Mehdia Ali-ibn-Tabari ed
altri uomini di nota, a chiedere, in scambio di Hasan, un emiro di lor
piacimento. Il qual fine si proponeano di conseguir per amore o per
forza; raccomandando ai partigiani in Palermo che non lasciassero
entrare in città Hasan-ibn-Ali, nè sbarcare i seguaci dalle navi; ma
aspettassero le lettere ch'essi avrebbero scritto dall'Affrica dopo
l'abboccamento con Mansûr.[457] Cotesta pratica si dèe riferire alla
state del novecenquarantotto, quando Mansûr, spenti gli ultimi avanzi
della ribellione in Affrica, ebbe agio di pensare alla Sicilia.[458]
Diverso dagli emiri che vennero per lo addietro a ripigliar lo stato in
Sicilia, Hasan-ibn-Alî sciolse d'Affrica con poche navi: sbarcato a
Mazara senza strepito, stettevi tutto il dì, come in quarantena; non
facendosi anima vivente a dargli il benvenuto. A notte scura comparve
una man di Kotamii, d'Arabi d'Affrica[459] e d'altre genti, scusandosi
che non l'avessero osato prima per timore dei Beni-Tabari e di loro
aderenti, e ragguagliandolo dell'ambasceria in Affrica e altre
disposizioni della parte. Nè andò guari che giunse a Mazara una brigata
della parte, a speculare le forze e intendimenti di Hasan. Vistolo
sprovveduto, da poterlo menare com'e' voleano, gli contaron fole: ed e
fe' le viste di beversele; promettendo che non moverebbe un passo da
Mazara s'e' non andassero a Palermo e tornassero con la risposta: chè
probabilmente avean pretestato doverne deliberare la _gema'_. Ma come
prima seppeli partiti, cavalcò per altra via con picciolo stuolo per
andare a guadagnar loro le mosse in Palermo; dove era manifesto che
avrebbero adunato tutti i fautori e sollevato la città contro di lui. La
parte dunque consultava comodamente e rideasi forse di Hasan, quando si
sparge che il novello emiro è a Baida, alle porte della città.
L'Hâkim,[460] gli oficiali pubblici, tutti coloro che bramavano il buono
stato, scrive Ibn-el-Athîr, e par non significhi questa volta i
vigliacchi e i pecoroni, tutti gli vanno all'incontro; ed Hasan ad
onorarli, a informarsi delle condizioni e bisogni della città, senza
quel cipiglio sbirresco che da tanti anni si solea vedere in volto ai
governanti. Ismaele-ibn-Tabari, capo della fazione aristocratica,
sapendo che tutta la città usciva ad accoglier l'emiro, non potè far che
non andasse con gli altri; e al par che gli altri, o forse più, fu
ricambiato di cortesie. Tornato alle sue case che si sentiva scappar di
mano le fila della trama, peggio indispettì sapendo che Hasan se n'era
ito bel bello in palagio, e che gli s'accostavano non solamente gli
avversarii ma i partigiani stessi dei Beni-Tabari. Pensando ai modi di
frastornare la opinione pubblica, il migliore gli parve una calunnia.
Un cittadino, cagnotto suo, gitta gli occhi addosso ad un negro della
guardia d'Hasan ch'avea nome d'uomo valorosissimo e amato indi
dall'emiro; gli si avvicina con bei modi; lo invita ad entrare nelle sue
stanze; quando ve l'ebbe attirato, salta fuori gridando: “Accorrete,
accorrete, questo masnadiere mi s'è ficcato in casa e vuole sforzarmi la
moglie in faccia mia.” Il popolo trasse al romore. Ismaele non mancò di
cacciarsi in mezzo borbottando: “Bel preludio! Non son padroni per anco
del paese, e ci trattan così! Che dobbiamo aspettarci quando metteranno
radice?” E suggeriva d'andare a chieder vendetta all'emiro; supponendo
ch'ei non la farebbe, e che il popolo infiammato di sdegno romperebbesi
al tumulto e ne sarebbe cacciato Hasan. La plebe, seguendo lo zimbello
che non cessava dalli schiamazzi, trasse dinanzi all'emiro. Il quale
ascolta pacatamente la querela; risponde a quell'uomo: “Se dici il vero,
giuralo dinanzi a Dio;” e poichè lo sciagurato giurava, comandò
incontanente di mozzar la testa allo schiavo. Al quale supplizio
inaspettato, rallegrossi tutta la città: “Ecco la prima volta,
sclamavano, che veggiam far la giustizia; or si può viver sicuri in
Palermo.” Ismaele si rannicchiò.[461]
Ed Hasan, come se nulla fosse stato, lo vezzeggiava al par che gli altri
capi della parte; la qual commedia durò sino allo scorcio del
novecenquarantotto. Dello scioglimento abbiamo due tradizioni: la prima,
riferita da Ibn-el-Athîr e scritta evidentemente nelle croniche
musulmane d'Affrica; la seconda, è immediata testimonianza d'un
Siciliano, di professione o almen d'origine cristiano: e l'una
rappresenta la sostanza del fatto; l'altra l'apparenza che gli diè il
governo. Al dir della prima, il califo, che avea senza dubbio tenuto a
bada gli ambasciatori della fazione, sapendo ben avviate le cose di
Palermo, li fe' d'un subito catturare in Affrica: che furono
Ali-ibn-Tabari, Mohammed-ibn-'Abdûn, Mohammed-ibn-Genâ e altri di minor
nome; e scrisse ad Hasan che prendesse lor compagni; il quale,
giudicando ardua cotesta impresa, la compiè a tradimento. La cronica del
paese, narra in vece che quei di Palermo congiuravano contro Hasan; e
ch'egli addandosene “li colse alla rete:” questa è proprio la parola, la
quale si direbbe rubata ai liberti che scrivean le croniche degli
Omeiadi di Spagna e ne palliavano i delitti.[462] Ma ognun vede che le
due tradizioni s'addentellano come pezzi d'antica iscrizione che il caso
abbia fatto trovare in tempi diversi. Il venticinque dicembre del
quarantotto[463] Hasan mandava a dire da buon compagnone ad Ismaele:
“M'hai promesso di condurmi a diporto nel tuo giardino; vien dunque al
castello e andremo insieme.” Somigliante messaggio inviò, a nome
d'Ismaele, agli altri notabili della fazione. Entrati tutti senza
sospetto, lasciando gli stuoli di lor séguito alle porte del palagio,
l'emiro li intrattenne con bei ragionamenti e cortesie fino ad ora
tarda; non traspirando fuor le mura altro che allegrezza: poi richiese
la brigata di spender quella notte in festa secolui e che la dimane si
cavalcherebbe alla villa dei Beni-Tabari e fe' dire ai seguaci di fuori,
si ritirassero a casa e tornassero la dimane, poichè lor signorie
rimanean ospiti dell'emiro. Al sacro nome d'ospitalità niuno pensò a
male. E la dimane si videro appiccati ai pali tanti cadaveri mutili
delle mani e dei piè. Erano Ismaele-ibn-Tabari, Regiâ-ibn-Genâ un
Mohammed e parecchi altri di cui non si ricordano i nomi.[464] Tenne
dietro al supplizio la confiscazion dei beni. Fatto il colpo, crebbero i
partigiani di Hasan; il reggimento piacque all'universale dei cittadini;
la colonia posò dai tumulti; ripigliò animo e forze: così litteralmente
le croniche.[465] Ed e' si comprende come l'utile colpa sia stata
approvata non solo da chi scrisse, ma anco da chi vide e forse dalla più
parte del popolo che ne fruì. Oltre i costumi dei tempi, oltre
l'ammirazione volgare della vittoria, oltre l'invidia soddisfatta di
questo e di quello, ei non si può negare che il misfatto di Hasan tornò
utile al pubblico; poichè i Tabari, i Genâ, i nobili di Palermo e lor
clientele non erano al certo tribuni zelanti del ben pubblico, ma
tirannelli che disputavan tra loro e ad un tiranno più grande il dritto
di sopraffare la gente minuta. Donde possiam dire anche noi: bene stia
ai vinti. Nè però assolviamo il vincitore, il quale esordì a Mazara con
la menzogna: rincalzò all'entrare in Palermo col supplizio del soldato
innocente; compì l'opera con far trappola delle proprie case e arme
della giustizia il tradimento. Come dovea navigare Hasan tra cotesti due
scogli, lo lasciamo a risolvere ai casisti. L'insegnamento che vogliamo
cavarne è che gli Stati non ordinati secondo uguaglianza e libertà, non
hanno rimedio ai mali loro che sia scevro di colpa.
CAPITOLO XI.
Terminando in questo tempo la lotta della independenza e principiando un
periodo più culto, è bene rassegnare gli elementi civili che rimaneano.
Le vicende dei Cristiani nella prima metà del decimo secolo mostrano
ch'e' tenessero tuttavia il lato orientale dell'isola. Ibrahim-ibn-Ahmed
avea distrutto sì loro fortezze; ma le guerre civili impedirono
ai Musulmani di porre colonie in quelle parti. Però non avvi
ricordo d'alcuna terra di Valdemone o Val di Noto nella sanguinosa
storia di Khalîl, nè in altra rivoluzione della colonia fino al
novecensessantanove; però nella guerra di Manuele Foca (964) i Bizantini
sbarcarono come in luoghi amici per tutta la costiera da Messina a
Lentini. E cotesta guerra si accese appunto, perchè i Musulmani voleano
porre stanza e possedere terreni nella Sicilia orientale.[466]
Regione fatta squallida e desolata, a dispetto della natura, in quel
dubbio confine di due epoche; quando la dominazione bizantina,
nell'andarsene, le avea lasciato il tristo retaggio di suoi vizii
sociali; e i Musulmani, anzichè veri padroni, eran tuttavia nemici,
liberi sì di correre la provincia. Di certo mancar dovea l'agricoltura
con la popolazione, diradata dalle stragi d'Ibrahim e dalle emigrazioni
in Calabria e altri paesi cristiani; e n'è prova la lunga carestia,
nella quale una metà dell'isola non bastava a sfamar l'altra metà
afflitta dalla guerra civile.[467] Con la ricchezza e con la popolazione
si dileguavan anco gli ultimi avanzi di coltura intellettuale; talchè
sparisce in questo tempo ogni vestigio di scrittori cristiani di
Sicilia.[468]
La stessa religione par abbia perduto nelle province orientali, se non
la speranza ch'è sua radice, certo gli effetti esteriori che mostran
viva la pianta. Mancano infatti le memorie ecclesiastiche di quel
periodo. Nessuna agiografia ne abbiamo; se non che l'autore anonimo
della Vita di San Niceforo vescovo di Mileto vagamente parla della gran
copia di “veggenti in Dio” che vissero in Sicilia (964), dei quali
nomina il solo Prassinachio; com'e' pare, romito, stanziante in su lo
Stretto di Messina; uomo famosissimo per pietà, e per avere presagito la
sconfitta di Manuele Foca.[469] E quest'abbondanza di profeti è pur
segno infallibile di presente miseria, di che la ragione umana vegga
chiusa ogni uscita. Torna alla stessa, alla precedente generazione,
Ippolito vescovo di Sicilia, non sappiamo di qual città, autore di certi
vaticinii molto oscuri su la caduta della potenza musulmana, i quali
erano in voga a Costantinopoli nella seconda legazione di Liutprando.
Nè è da lasciare inosservata cotesta strana appellazione di vescovo di
Sicilia, che comparisce a un tratto alla metà del decimo secolo. Oltre
Liutprando, l'adopera la Cronica di Cambridge, parlando d'un Leone che
fu mandato in ostaggio a Palermo nel novecenventicinque;[470] dond'è
evidente aver que' due scrittori ripetuto un modo di dire che correva in
Palermo e in Costantinopoli verso il novecensessantotto, quando vissero
entrambi. I titoli canonici delle sedi siciliane non erano al certo
mutati; ma supposto che ne rimanesse in piedi una sola, il vescovo
comunemente si dovea chiamar di Sicilia, non di tale o tal città. E
fors'era quello di Taormina.
Cotesti indizii messi insieme provano il picciol numero a che era
ridotta la gente greca e italica della Sicilia orientale e la vita che
vivea di stenti, di fatiche, di pericoli. Le città independenti eran
fatte tributarie dopo la guerra d'Ibrahim-ibn-Ahmed; spezzato pertanto
ogni legame con l'impero bizantino, tanto più dopo la pace che fermò
l'impero coi califi fatemiti.[471] Costantino Porfirogenito, in fatti,
nella descrizione delle province, confessa perduta l'isola di Sicilia,
le cui città, dice egli, “parte son abbandonate, parte si tengono dagli
atei Saraceni.”[472] Che se rimase negli almanacchi di corte il tema di
Sicilia, significava soltanto la Calabria che una volta ne avea fatto
parte; consolandosi la povertà bizantina con dare all'accessorio il
titolo del principale: onde il governatore si chiamò promiscuamente
stratego di Sicilia, stratego di Calabria e anche duca di Calabria.[473]
Le popolazioni tributarie di Sicilia reggeansi necessariamente a
municipio;[474] soddisfaceano il tributo quando non poteano ricusarlo
impunemente; rialzavan le mura per poco che i Musulmani non ci
badassero; e di tratto in tratto, or adescate da occasione propizia, ora
esasperate da sopruso de' vincitori, ritentavan la prova di resistere.
Taormina così; così qualche altra rôcca di Val Demone. Del Val di Noto
non si fa motto, dopo la caduta di Siracusa e delle città dell'Etna.
Forse la popolazione, menomata delle migliaia che si menavano in
schiavitù in altre parti dell'isola[475] o fuori, rimase sì poca e
sparsa che nulla osò, e niuno parlò di lei.
Mi conferma in tal supposto la sovrabbondanza di abitatori che si notava
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