Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II - 04

scrigni grosse somme di danaro e dielle ai giuristi e notabili di
Kairewân per dispensarle ai bisognosi; ma ebberle, aggiugne un cronista,
quei che men le meritavano e furono scialacquate.[159] Con ciò
premurosamente scriveva ad Abd-Allah di venire in Affrica; il quale,
lasciato l'esercito in Palermo ai proprii figliuoli Abu-Modhar e
Abu-Ma'd, andò in fretta con cinque galee sole.[160] Arrivato ch'ei fu,
Ibrahim, del mese di rebi' primo (13 febbraio a 14 marzo 902), gli
risegnava il principato. Quanto a sè, non potendo rimanere in Affrica nè
volendo ire a Bagdad, scrisse al califo ch'ei si metteva in
pellegrinaggio per la Mecca. Poi pretestò che convenia passare per
l'Egitto, e che ei nol potea senza azzuffarsi coi Beni-Tolûn; onde inviò
a Bagdad un'altra lettera: che ad evitare spargimento di sangue
musulmano, vedi s'egli era contrito, e a compiere insieme i due precetti
del pellegrinaggio e della guerra sacra, piglierebbe la via di
Sicilia.[161] Forse agitava in mente il pazzo disegno di andare alla
Mecca per a traverso i territorii di Cristianità, il Bosforo e l'Asia
Minore, poich'egli non avea rinunziato al figliuolo la signoria di
Sicilia, e pensò al certo al conquisto d'Italia, e in Italia parlò di
quel di Costantinopoli.[162] Che che ne fosse, Ibrahim, sceso dal trono,
parea rifatto altr'uomo. Dissepolti i suoi tesori e armerie, indossò a
mo' degli anacoreti un cilicio tutto rattoppato; andò a Susa a bandire
la guerra sacra. Di lì il sedici di rebi' secondo (30 marzo) parte per
Nûba, castello in su la marina tra Susa e Iklibia (_Clypea_); ove fa la
mostra dei volontarii; li provvede d'armi e cavalli; dispensa venti
dinâr a ogni cavaliero e dieci a ogni fante; e con loro fa vela per la
Sicilia.[163]


CAPITOLO IV.

Il tiranno penitente trovò perdono e anche séguito in Sicilia. Sbarcato
a Trapani[164] verso la fine di maggio[165] si messe a far gente: poi
cavalcò alla volta di Palermo; giunsevi l'otto di luglio, ma, com'ei
sembra, non entrava in città.[166] Comandando tuttavia da re non ostante
l'abdicazione, Ibrahim alzò in Palermo il Tribunal dei Soprusi; deputò
altri a presedervi; ed egli, intento anima e corpo alla guerra sacra,
conduceva a soldo marinai, largheggiava stipendii a cavalieri; talchè
tra gli Affricani che avea seco e i Musulmani di Sicilia che arruolò,
messe in punto un'oste poderosa. Il diciassette di luglio movea con
quella sopra Taormina.[167]
Per fortezza di sito, numero di popolo, tradizioni, e monumenti, era
ormai questa la capitale della Sicilia bizantina, degli aspri luoghi,
cioè, tra l'Etna e la Peloriade, ne' quali un pugno d'uomini difendeva
ancora il vessillo della Croce. Non potendo abbandonar costoro senza
vergogna, Leone il Sapiente li aiutava com'ei sapea; che è a dire, poco,
tardi, e strambo. Quel che conosciam di certo è che, sovrastando il
pericolo pei notissimi appresti d'Ibrahim, Leone teneva i soldati
dell'armata a Costantinopoli a fare i manovali nella fabbrica di due
chiese e d'un monastero di eunuchi; e ch'avea già mandato a Taormina un
presidio con Costantino Caramalo[168] e Michele Characto; dei quali il
primo fe' mala prova; e il secondo, inferiore in grado, non potè
riparare, o almeno il diè a credere.[169] Al medesimo tempo Leone
richiedeva Elia da Castrogiovanni di pregare per la salute dell'impero,
dice l'agiografo, i fatti mostrano, di andare a Taormina; ov'egli,
Siciliano, con la sua fama di santità, rozza eloquenza, e venerabile
aspetto, prendesse due colombi a un favo, come pareva alla corte
bizantina: incoraggiare cioè i combattenti; e mondarli dalle peccata,
dalle quali fermamente si credea che venisse ogni sconfitta delle armi
bizantine. Elia, ottuagenario, infermo, sostenuto in piè dall'indomabile
costanza dell'animo, passava incontanente col fidato suo Daniele, di
Calabria in Sicilia, sotto specie di venire a baciar le ossa di San
Pancrazio, primo vescovo di Taormina; e si messe all'opera con impeto.
Rinfacciava alla misera città non mancarle nessun peccato; rampognava
Costantino che non sapesse ritenere i soldati dagli omicidii, oltraggi,
gozzoviglie, dissolutezze; gli parlava d'Epaminonda e di Scipione,
uomini di sì specchiati costumi da far arrossire i Cristiani di quei
tempi corrotti; gli ricordava la temperanza e la continenza, come
necessarie virtù di chi s'appresti alla guerra. Rincalzò, al solito, i
savii consigli con la macchina epica: vaticinò, e non era sforzo di
profezia, il passaggio imminente del fier Brachimo Affricano; il guasto,
la carnificina, l'arsione di Taormina. Giacendo infermo a casa del
cittadino Chrisione, Elia diceva all'ospite: “Vedi; qui in questo letto
si adagerà Brachimo vincitore: ed ahi quanta strage insanguinerà queste
mura!” Un'altra fiata, andando per la piazza maggiore, s'alzava i panni
a ginocchio, e richiesto del perchè, rispondea: “Veggo abbondare i rivi
di sangue.” Poi girava le strade, in mutande,[170] stranamente
avviluppato di catene; si poneva un giogo di legno sul collo: per lui
non restò di sbigottire soldati e cittadini, se punto credeano a profeti
viventi. Così la religione dei Bizantini sbagliava sempre il segno.
Elia, fatto ludibrio della gente, non perdonò all'ultima cerimonia di
scuoter la polvere da' sandali, uscendo dalla città; e come Ibrahim
s'appressava, così egli navigò ad Amalfi.
Comparso il nemico, i difenditori di Taormina non si stetter chiusi
entro le mura. Scendendo, com'e' sembra, alla marina di Giardini,
presentarono la battaglia ad Ibrahim; virtuosamente la combatterono con
gran sangue d'ambo le parti: e già le schiere musulmane balenavano;
serpeggiava tra quelle un pensier di fuga; perdeasi al vento la voce
d'un che aveva intonato per rincorarli le parole di lor sacro libro: “Sì
che ti daremo segnalata vittoria,”[171] quando Ibrahim lanciossi nella
mischia. Volto a quel pio guerriero: “Perchè non reciti,” gli gridò,
“cotesti altri versi: — Ecco due litiganti che disputano chi sia il
Signor loro. Ma agl'Infedeli son apparecchiate vestimenta di fuoco e
mazze di ferro: su le teste loro si verserà acqua bollente, da strugger
viscere e pelle.”[172] E quando quegli ebbe fornito i due versi: “O
sommo Iddio,” ripigliava Ibrahim, “di te disputiamo quest'oggi io e gli
Infedeli;” e tornò all'assalto, caricando con essolui gli uomini più
valorosi e di più alto consiglio; i quali fecer impeto che spezzò
l'ordinanza nemica. Allora i Cristiani a fuggire sparpagliati; i
Musulmani a inseguirli su per le vette dei monti, dicon le croniche, e
in fondo ai burroni. Altri scampavano su le navi; e tra questi forse i
due capitani bizantini. Altri riparavansi alla città; coi quali alla
rinfusa salirono il monte ed entrarono i vincitori; e incalzaronli fino
alla cittadella, Castel di Mola, come oggi s'addimanda, che sovrasta
all'erta di Taormina da un'erta assai più scoscesa e superba, a distanza
d'un miglio. Ibrahim pur tentò un colpo di mano: impaziente di far
macello tra la popolazione che s'era messa in salvo nella rôcca, mentre
le ultime schiere vi si ritraean combattendo. Girata intorno intorno la
costa, sparsi i suoi d'ogni lato, Ibrahim scoprì un luogo ove gli parve
ch'uom potesse inerpicarsi con mani e piè; e a furia di promesse cacciò
su per quei dirupi un drappello de' suoi stanziali negri; i quali
superaron l'altezza, e a un tratto tuonarono agli orecchi dei guerrieri
cristiani “Akbar Allah.” S'erano essi adagiati a prendere un po' di
cibo, fidandosi nel sito inespugnabile; stanchi della sanguinosa
giornata; tenendo guardie nei luoghi accessibili e negli altri no;
quando li percosse il noto grido di guerra dei nemici. Scompigliati e
confusi, non corrono a gittar a basso delle rupi quel pugno di schiavi,
non a difendere la strada del castello. Ibrahim dunque, udito il segno
de' suoi, salì senza contrasto con le altre schiere; spezzò le porte; e
comandò l'eccidio. Era la domenica, primo d'agosto novecento due.[173]
Ibrahim efferatamente abusò questa vittoria. Alla prima fe' trucidare,
con gli uomini da portar armi, anco le donne, i bambini, i chierici, cui
la legge musulmana perdona la vita; fece porre fuoco alla città; dar la
caccia ai fuggenti per le foreste di que' monti ed entro le caverne;
addurre a sè i cattivi, perchè niuno di cui potea comandare la morte non
gli escisse di mano per umanità o avarizia altrui. Così, recatagli una
gran torma nella quale si trovò Procopio vescovo della città, Ibrahim
chiamatolo a sè: “Cotesti tuoi capelli bianchi” gli disse “mi ti fan
parlare pacatamente. Se e' ti rendon savio, abiura la fede cristiana; e
salverai la tua vita e di tutti costoro; e ti darò tal grado, che in
Sicilia sarai secondo a me solo.” Procopio sorrise senza rispondere; e
incalzandolo il Musulmano: “Ma tu non sai chi ti parla?” replicò. “Sì;
l'è il demonio per bocca tua; e indi rido.” Onde Ibrahim volto agli
sgherri comandava: “Sparategli il petto, cavategli il cuore, ch'io vo'
cercarvi gli arcani di cotesta mente superba:” linguaggio del vero conio
di Ibrahim. Il santo vecchio, dato al supplizio, finchè potè articolare
la voce, imprecò contro il tiranno, confortò i compagni al martirio.
Aggiugne Giovanni Diacono, autor della narrazione, che Ibrahim,
furibondo a tal costanza, digrignando i denti, arrivò a chiedere che gli
dessero a mangiar il cuore; e se non compì l'orrenda jattanza, fece
scannare gli altri prigioni sul cadavere del vescovo, arderli tutti
insieme, e alla fine della festa si levò mormorando: “Così sia consumato
chi mi resiste.”[174]
Lieve opera fu alla caduta di Taormina di ridurre il rimanente del Val
Demone. Ibrahim, venduti i prigioni e il bottino, e spartito il prezzo
tra' suoi, mandava quattro forti schiere; una col nipote Ziadet-Allah a
Mico o Vico, fortissimo castello dentro terra, non lungi, credo io, dal
Capo Scaletta;[175] l'altra col proprio figliuolo Abu-Aghlab, sopra
Demona;[176] la terza capitanata dall'altro figliuol suo Abu-Hogir[177]
sopra Rametta; l'ultima contro il castel di Aci[178] condotta da un
Sa'dûn-el-Gelowi. Delle quali castella, le due prime, sendo state
sgombrate già dai terrazzani alla nuova del caso di Taormina, fruttaron
solo ai Musulmani quel po' di roba che vi era rimasta. I cittadini di
Rametta offrivano di pagar la gezîa; ma non lo assentì Abu-Hogir e volle
gli abbandonassero la rôcca; e, avutala, la smantellò, quanto potea.
Similmente que' d'Aci e delle rôcche e fortezze dei contorni, fattisi
insieme a chieder patti, non ottennero altro che la vita, fors'anco la
libertà delle persone: e uscendo dalle mura che avean sì lungamente e
gloriosamente difeso, le videro diroccar dai nemici e gittarne i sassi
in mare.[179] Pietro Diacono, monaco cassinese del duodecimo secolo, su
quest'eccidio di Taormina fabbricò l'apocrifa narrazione accennata da
noi nel primo Libro; nella quale affermò che Agrigento, Catania,
Trapani, Partinico, Iccara, e le distrutte già parecchi secoli innanzi
Cristo, Tindaro, Segesta, Solunto, fossero ville della Badia di Monte
Cassino, quando vennero di Babilonia e d'Affrica innumerevoli Saraceni
capitanati da Ibrahim a rapir quei ricchi poderi, immolando le migliaia
di frati che li tenessero.[180]
Ma pervenute a Costantinopoli le infauste nuove di Taormina, Leone
gravemente se n'accorò, scrivon le cronache musulmane; e per sette dì,
ricusava di cinger la corona, dicendo non star bene ad uom tribolato.
Continuano a narrare che sorgea nell'universale il generoso pensiero di
aiutare i Cristiani di Sicilia; ma che lo sturbò la voce che Ibrahim si
apprestasse ad andar sopra Costantinopoli; onde Leone afforzava la
capitale con un esercito e pur avviava forti schiere alla volta di
Sicilia.[181] Il vero è ch'egli volle mandar danaro in Calabria per
levar gente e assoldare i feudatarii longobardi o franchi che passassero
in Sicilia. Lo ricaviamo dalle memorie bizantine che si accordano con le
musulmane nella esposizione dei sentimenti, se non de' fatti. Leone
condannò a morte il Caramalo per la viltà o tradimento suo a Taormina; e
ai preghi del patriarca di Costantinopoli, commutò il supplizio in
professione monastica: strana gradazione di pene in una età in cui la
vita monastica, assomigliata all'essere degli angioli, si tenea
com'apice di perfezione cristiana![182] Vero altresì che si temesse a
Costantinopoli l'assalto, sia d'Ibrahim stesso che minacciava di
andarvi,[183] sia del rinnegato Leone da Tripoli di Siria; il quale con
cinquantaquattro navi, armate in Siria stessa e in Egitto e rinforzate
di Schiavoni, nei principii della state del novecento quattro, accennò
alla capitale bizantina; fe' voltar faccia a due ammiragli; e, gittatosi
sopra Tessalonica, entrovvi dopo tre giorni d'assalto il trentuno
luglio.[184] Nell'occupazione della quale città si narra un episodio che
attesta e le cure di Leone il Sapiente a favor dei Siciliani, e la
scempia guisa in che si mandavano ad effetto. Rodofilo eunuco e camerier
dello imperatole, viaggiando con cento libbre d'oro destinate
all'esercito che dovea mandarsi in Sicilia,[185] s'era intrattenuto a
Tessalonica per faccende, o, com'altri scrive, per malattia da curarsi
coi bagni; quando piombaron su la città i Musulmani di Siria e di
Egitto. Allora ei metteva in salvo il tesoro, inviandolo in una
provincia vicina; ma fatto prigione ei medesimo quand'entrò Leone da
Tripoli, questi n'ebbe spia, gliene domandò conto, e, non credendo alla
scusa che allegava, lo fe' morir sotto le verghe. Poi s'ebbe il danaro,
minacciando d'ardere Tessalonica.[186]
Ibrahim-ibn-Ahmed non soggiornò a lungo tra le ruine di Taormina.
Ragunate le schiere che avea mandato alle dette fazioni, marciò sopra
Messina; stettevi due dì soli; e il ventisei di ramadhan (3 settembre)
tra le preci, i digiuni, le luminarie del mese santo e il fanatismo che
ne crescea, valicò il Faro con tutto l'esercito. Attraversò l'ultima
Calabria senza trovar nemici; sostò non lungi da Cosenza;[187] dove,
traendo al campo ambasciadori delle atterrite città a chieder patti,
Ibrahim li intrattenne alquanti dì; poi rispose nella insolenza della
vittoria: “Tornate ai vostri e dite che prenderò cura io dell'Italia e
che farò degli abitatori quel che mi parrà! Speran forse resistermi il
regolo greco o il franco? Così fossermi attendati qui innanzi con tutti
gli eserciti! Aspettatemi dunque nelle città vostre; m'aspetti Roma, la
città del vecchiarello Piero, coi suoi soldati germanici; e poi verrà
l'ora di Costantinopoli!”
Indi gli oratori a tornarsene frettolosi; e le città ad apprestarsi
contro l'estrema fortuna: risarcir mura, alzare bastioni, far provigioni
di vitto, ridurre ne' luoghi forti quanti arredi preziosi o derrate
fossero nelle campagne. Il terrore giunse infino a Napoli. Tra gli altri
provvedimenti, Gregorio console, Stefano vescovo e gli ottimati della
città, deliberavano di abbattere il Castel Lucullano, come chiamavasi, a
Capo Miseno: villa costruita da Mario; comperata e profusa di delizie da
Lucullo; teatro di laidezze e domestici misfatti degli imperatori di
Roma; vergognoso confino d'Augustolo che vissevi d'una pensione
d'Odoacre (479); mutata poscia in monastero e monumento sepolcrale di
San Severino (496); afforzata di mura, occupata dai Musulmani di Sicilia
(846): vera tavola cronologica delle rivoluzioni della società italiana
per nove secoli. I Napoletani a ragione temeano che quelle moli non
fossero occupate di nuovo dalle navi di Sicilia per intercettare la
navigazione del golfo. Lavorarono dunque popolarmente per cinque dì a
spiantarle e a cercar tra le tombe le ossa di San Severino che volean
serbare con gli altri tesori in città; domandandole l'abate del
monastero dello stesso nome a Napoli. Trovatele, o credutolo, ruppero
tutti in lagrime di gioia: e il dì appresso, che fu il tredici ottobre,
le sacre reliquie erano condotte in processione alla città; uscendo
all'incontro i magistrati, il popolo e i chierici che salmeggiavano,
come parlavansi due lingue a Napoli, chi in greco e chi in latino. Per
una settimana gli animi s'agitavano tra così fatte effervescenze
religiose e le male nuove di Calabria, quando, a soverchiarli di paura,
scherzò nel firmamento non più vista moltitudine di stelle cadenti, la
notte del diciotto ottobre, secondo Giovanni Diacono, del ventisette al
dire del _Baiân_, o più fiate in quella stagione, come par che voglia
significare Ibn-Abbâr. Aggiugne questi che si sparnazzavano a dritta e a
manca a somiglianza di pioggia. Le innocenti asteroidi, o meteore
elettriche, o che che fossero, chè la scienza per anco nol sa, passaron
tosto in buon augurio, poichè San Severino, comparso in sogno, secondo
il costume, a un fanciullo, mandò a dire ai Napoletani che nulla ne
temessero e si fidassero in lui che li difendea nella corte del
Cielo.[188] Risaputasi poscia la morte di Ibrahim, non fu in Italia chi
non credesse infallibilmente averne dato segno le stelle cadenti. Un
Tedesco, più scaltro, pensò che questo fenomeno, non essendosi visto in
Italia sola, dovea risguardar tutti i popoli, onde probabilmente era
venuto a compiere una profezia ricordata nel vangelo di San Luca;[189]
il che torna all'annunzio del finimondo aspettato tante volte in
Cristianità. Gli Arabi d'Affrica, come se fossero stati meno
superstiziosi, contentaronsi a chiamar quell'anno l'anno delle stelle:
ond'ebbe tre nomi, notano i cronisti; poichè Ibrahim gli avea voluto
porre anno della giustizia e altri l'avea detto della tirannide. Ma niun
Musulmano potea far grave caso delle stelle cadenti, sapendo dal Corano
ciò che fossero appunto: demonii curiosi, fulminati dagli Angioli,
quando s'appressan troppo ad origliare alle porte del Cielo.[190]
Non ostante sue minacce agli ambasciatori delle città, Ibrahim tardò a
investir Cosenza. Ei che avea saputo maneggiare quell'esercito
innumerevole e discorde,[191] in cui fermentavano tanti odii, era
sforzato adesso di restare al retroguardo per una dissenteria mortale; e
invano si studiava ad occultare suo pericolo con la tenacità dei
tiranni. Pur fece dar mano all'assedio il primo ottobre; accampare le
genti su le sponde del Crati;[192] fronteggiar tutte le porte di Cosenza
dai suoi figliuoli o uomini fidati, con forti schiere; drizzare i
mangani contro le mura: ma par ch'ei poscia non abbia potuto esercitare
nè voluto delegare il comando, nè altri abbia osato pigliarlo. Per più
di venti giorni dunque si scaramucciò con disavvantaggio degli
assedianti; ai quali cadean le braccia, non più sentendosi reggere da
quella feroce e ferma volontà del capitano. Aggravatoglisi il morbo,
perduto il sonno, Ibrahim s'andò a chiuder tutto solo in una
chiesetta;[193] ove spirò il sabato ventitrè ottobre, a cinquantatrè
anni di età, dopo ventisette anni di tirannide e sette mesi di
penitenza; trapassato come un santo, guerreggiando la guerra sacra,
disponendo di tutto il contante in limosine, degli stabili in opere pie.
Non prima saputo ch'ei boccheggiava, i capitani dell'oste, adunatisi in
segreto, cavalcarono alla tenda di Ziadet-Allah, figliuolo del suo
figliuolo Abd-Allah, e instantemente il richiesero che si mettesse alla
testa dell'esercito per ricondurlo in Affrica. Al quale segno
d'ammutinamento, il giovane, pigro, dissoluto, vigliacco, scellerato
senza il vigor dell'avolo, tentennò: volea scaricarsi del supremo
comando sopra lo zio Abu-Aghlab; ma questi gli uscì di sotto.
Capitanando dunque suo malgrado la ritirata, Ziadet-Allah aspettava che
tornassero al campo le gualdane sparse intorno a far preda: accordava
patti ai Cosentini che di nuovo ne avean chiesto, ignorando la morte
d'Ibrahim: e poi con tutto l'esercito e le rapite ricchezze e le
salmerie prendea la via di Sicilia; portando seco il corpo dell'avolo in
un feretro. Dice uno scrittore cristiano che al ritorno gran parte delle
genti perisse per naufragio. Giunto Ziadet-Allah in Palermo, secondo
Nowairi e il _Baiân_ fuvvi sepolto Ibrahim quarantatrè giorni dopo la
morte, e innalzato un monumento su la sua fossa. Secondo altri, lo
recarono al Kairewân: talchè s'ignora qual delle due terre sia profanata
da quelle ossa.[194]
La morte d'Ibrahim, avendo liberato l'Italia meridionale senza fatica
degli abitatori, vi fu tenuta necessariamente opera del Cielo. Scrive
Giovanni Diacono che mentre i Napoletani stavan tra sì e no su l'augurio
delle stelle cadenti, venne a confermar la rivelazione di San Severino
un prigione testè fuggito di Cosenza. Narrava questi a Gregorio Console
di Napoli, che, dormendo Ibrahim nella chiesa di San Michele, gli era
paruto di vedere un vegliardo di maestoso aspetto, il quale minacciato
di morte dal tiranno perchè osava entrar nella stanza, gli scagliò un
bastone che avea alle mani e si dileguò. Destatosi, ma pur sentendosi
ferito al fianco Ibrahim, richiedea di alcun prigion latino, e,
addottogli il narratore, gli domandava se conoscesse il vecchio Pietro
di Roma, o n'avesse mai visto la effigie; e saputo che lo si dipingea di
grande statura, raso i capelli e la barba, ravvisò lo spettro del sogno,
e in breve tempo gli s'ingangrenì la ferita.[195] Il biografo di
Sant'Elia da Castrogiovanni toglie l'impresa a San Pietro per onorarne
il suo protagonista; il quale, riparato ad Amalfi, tanto pregò con
lagrime, digiuni e cilizii, che il fier Brachimo, mentre assediava
Cosenza e pensava a Costantinopoli, venne a morte,[196] percosso non si
sa come dalla orazione del sant'uomo. Un'altra tradizione italiana
ripetuta da parecchi cronisti, senza macchina di iddii minori, lo fe'
spacciare, all'antica, con una folgore.[197]


CAPITOLO V.

Non bastando ormai alla storia il classico quadro dei fatti e delle
passioni umane, se non siano anco divisati gli ordini e le opinioni che
nascono da sorgenti assai remote, forza è ch'io interrompa nuovamente la
cronica di Sicilia, e torni addietro parecchi secoli, per rintracciare
in Asia le cagioni del mutamento di dinastia che s'apparecchiava alla
morte d'Ibrahim-ibn-Ahmed. Lo apparecchiava la setta ismaeliana, della
quale mi fo ad esporre l'origine, l'indole, i progressi.
L'autorità dell'impero musulmano, si come portava sua natura mista, fu
combattuta da tre maniere di nemici: le fazioni politiche, gli scismi
religiosi, e le sètte partecipanti dell'uno e dell'altro. Fazioni chiamo
quelle che agognavano a mutare il principe non le leggi; onde nè
impugnarono durante la lotta, nè toccarono dopo la vittoria, quegli
assiomi teologici e civili che costituivano l'islamismo ortodosso; cioè
la fede che parea diritta al maggior numero. Parecchi Stati in fatti
continuarono a rispettar come pontefice il califo, cui disubbidivano
come principe. Fino gli Omeîadi di Spagna, con lor pretensioni di
legittimità, esitarono per un secolo e mezzo a ripigliare il sacro
titolo di Comandator dei Credenti, usurpato, dicean essi, dalla casa di
Abbâs, ma pure assentitole dalla più parte dei popoli musulmani.
Al contrario nacquero di molte eresie, i cui settatori non si proposero
dominazione politica, nè vollero sostener le opinioni con la forza delle
armi; ma la ragione o l'errore, la coscienza o la superbia
dell'intelletto, li spinsero a propagar, dottrine diverse dalle sunnite;
affrontando spesso la crudeltà dei principi, il furor della plebe, i
disagi delle persecuzioni, la fatica d'una continua lotta, il pesante
biasimo delle moltitudini. Svilupossi tal movimento tra la metà del
primo e la metà del terzo secolo dell'egira, nella Mesopotamia e
province persiane; nelle quali regioni e nel qual tempo la schiatta
arabica, venendo a contatto con genti più incivilite, apprese le
speculazioni dell'umano intelletto accumulate per sessanta secoli da
panteisti, politeisti, dualisti, unitarii, razionalisti. Dettero materia
agli scismi maomettani quelle tesi che gli uomini in tutti i tempi han
proposto sì facilmente e poi sonvisi avviluppati come in laberinto di
spine: la natura dell'Ente supremo; la influenza di quello sopra le
azioni umane e però predestinazione, libero arbitrio, grazia; il merito
della Fede e delle opere; i gastighi serbati, a chi peccasse nell'una o
nelle altre; e via discorrendo. Su cotesti argomenti l'autorità sunnita
s'era appigliata sovente al partito più ripugnante alla ragione. Basti
in esempio il domma ortodosso della eternità del Corano, negata dai
Motazeliti; i quali furono perseguitati; finchè, persuaso alcun califo
abbassida, a lor volta divennero persecutori. Ma gli scandali, i
tumulti, il sangue sparso per questa e altre liti teologiche, non
portarono a rivolgimenti politici. Dei settantadue scismi che novera la
storia ecclesiastica dei Musulmani, una ventina si mantenne entro i
detti limiti della disputa; come i Kaderiti sostenitori del libero
arbitrio; i Geberiti dell'opera passiva dell'uomo; i Motazeliti che
faceano eterna la sola sostanza della divinità; i Sefetiti che le
accomunavano nella eternità i suoi accidenti o qualità; i pigri Morgii
affidantisi tutti nella Fede; i Nizâmiti che negavano la libera volontà
di Dio, e s'accostavano ai filosofi materialisti; e altre sètte i cui
nomi e opinioni sarebbe superfluo a ripetere.[198]
Avviati ch'e' furono a libero esame, i pensatori musulmani non poteano
trattenere il piè, che dalle eresie non passassero ai razionalismo. A
ciò li condusse la serena luce della scienza greca, la quale cominciò a
splendere nell'impero dei califi più presto che non si crederebbe.
Qualche libro di filosofia era stato voltato in arabico dal greco e dal
copto verso la fine del settimo secolo dell'era cristiana, primo
dell'era musulmana, per opera di Khâled-ibn-Iezîd-ibn-Moa'wia, principe
del sangue omeîade, soprannominato il filosofo della casa di
Merwan.[199] Ma accelerato l'incivilimento dai Persiani che esaltarono
la casa di Abbâs,[200] si diè mano a volgarizzare i pochi libri che
avanzavano in Persia della letteratura indiana e nazionale dei tempi
sassanidi; si pose maggiore studio a interpretare i libri scientifici
dei Greci: immenso beneficio che la civiltà riconosce dai califi Mansûr
(754-755) e Mamûn (813-833), e da' costui ministri della schiatta
persiana di Barmek. Le scienze greche penetrarono allora nella società
musulmana per triplice via: di Siria, di Persia e dell'impero bizantino;
perchè in quelle due province dei califi se ne serbavano le tradizioni e
qualche scritto; e dalle province bizantine s'ebbero moltissimi libri
per richiesta che ne fece Mamûn agli imperatori di Costantinopoli
Così fiorivano nella capitale abbassida, e poscia in altre città
dell'impero, gli studii di medicina, astronomia, geografia, matematiche,
storia naturale, logica, metafisica; e correano per le mani dei dotti le
opere degli antichi filosofi, massime di Aristotile.[201] Vo dir di
passaggio che quelle di Empedocle d'Agrigento o d'alcun suo discepolo
furono anco studiate in Oriente; e che nei principii del decimo secolo
un Musulmano di Spagna tentò di fondare con tai dottrine una scuola, la
quale non resse alle persecuzioni.[202] La filosofia greca da una mano
diè armi agli eresiarchi musulmani dei quali abbiam detto di sopra;
dall'altra mano fe' nascere varie scuole di liberi pensatori che
combatteano, più o meno apertamente i principii d'ogni religione. Tali i
Bâteni che presero il nome dal significato latente, o vogliam dire
allegorico, supposto da loro nei libri sacri; ma alcuni arrivavano a
pretto ateismo; per esempio, il cieco Abu-l-'Ala da Me'arra in Siria, il
quale, in versi che parrebbero di Lucrezio, sferzava insieme Giudei,
Magi, Cristiani, Musulmani; e conchiudea che l'uman genere va spartito
in due: pensatori senza religione, e devoti senza cervello.[203] Le
denominazioni delle scuole razionaliste furono sempre confuse appo i
Musulmani, tra per cautela degli adetti, sforzati a nascondersi sotto i
misteri e gli equivoci di sètte men radicali, e tra per la ignoranza
della comune degli uomini e la pronta calunnia dei devoti. Appiccaron
costoro malignamente a tutti i liberi pensatori l'appellazione di
_zindîk_, perch'era abborrita in persona dei comunisti persiani e fatta
sinonimo d'empio, com'or si dirà. Quando poi suonarono sì terribili in
Oriente i nomi d'Ismaeliani, Karmati, Drusi, Assassini, novelle sètte
miste aiutantisi con le spiegazioni allegoriche, i devoti colsero il
destro di gridarli a gran voce _Bâteni_; mettendo i filosofi a fascio
con loro. E così è pervenuta la storia agli eruditi europei del nostro