Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II - 03
guidava tutti i cavalli del carro, poichè s'ebbe aggiustata in mano
quella ferrea sferza degli schiavi stanziali.[111]
Poi surse in arme la colonia di Belezma, gente arabica della tribù di
Kais, venuta la più parte nei principii del conquisto, e stanziata da
parecchie generazioni in quella città, sul confin meridionale
dell'odierna provincia di Costantina, in mezzo alla catena degli Aurès,
donde teneva a segno la tribù berbera di Kotâma. Gli agguerriti Arabi di
Belezma ributtarono Ibrahim, ito in persona a combatterli: ond'ei
perdonò loro; attirò a Rakkâda, prima alcuni capi sotto specie di
trattar faccende, poi, con altri pretesti, più numero di gente; lor diè
splendide vestimenta, onori quanti ne vollero e alloggiamento in uno
edifizio circondato di mura con una sola porta, nel quale settecento o
mille cavalieri, chè tanti se n'erano accolti, se pur pensavano allo
esempio dei liberti del Castel Vecchio, si fidavano al certo di
affrontar chi che si fosse. E così ogni evento delle istorie avvera la
sentenza del Machiavelli, che colui che inganna, troverà sempre chi si
lascerà ingannare.[112] Il dì che le altre soldatesche toccavan la paga,
inebbriate di danaro, fors'anco di vino, Ibrahim le lanciava allo
scannatoio ov'eran serrati i guerrieri di Belezma; i quali (893-894)
valorosamente si difesero; e tutti perirono.[113] La pena di tal
misfatto, come spesso accade, la pagò non Ibrahim, ma la dinastia;
poichè, decadendo Belezma, la tribù di Kotâma imbaldanzì, e condusse al
trono i Fatemiti.[114] Più pronto gastigo minacciava la sollevazione
generale delle milizie arabiche, scoppiata immediatamente e rinnovatasi
poi varie fiate; ma Ibrahim trionfò di tutti, mercè le mura di Rakkâda,
la virtù militare del figliuolo Abd-Allah, e gli schiavi armati; dei
quali accrebbe il numero; lor affidò la reggia; e pose capitani sopra di
loro due schiavi, Meimûn e Rescîd. Accentrò al medesimo tempo Ibrahim
grande autorità in persona di Hasân-ibn-Nâkid, nuovo suo ciambellano,
capitan di eserciti, emir di Sicilia, e rivestito di altri oficii,
scrive la cronica,[115] probabilmente le amministrazioni di finanza, e
il tribunale dei soprusi nelle province sollevate.
Tra i casi di questa rivoluzione seguirono non più udite enormezze dei
soldati regii, i quali, presa Tunis per battaglia, fecero schiavi tra i
Musulmani, sforzaron le donne e sparsero gran sangue (893-894). Dato
avviso della vittoria a Rakkâda per lettere legate al collo dei colombi,
Ibrahim rescrisse di caricare i cadaveri su le carra; mandarli a
Kairewân; e condurli in giro per le strade. Comandò, non guari dopo
(894-895), di mettere a morte i nobili della tribù di Temîm, ceppo di
sua famiglia, e appendere i cadaveri alle porte di Tunis. Ministro di
tai vendette era stato Meimûn, nominato dianzi, donde venne fieramente
in odio a quei cittadini; ma Ibrahim, non prima n'ebbe sentore, che gli
mandò, diremmo noi, un bell'ordine cavalleresco: all'uso di que' tempi
collana d'oro e vestimenta di seta ricche d'oro, disegni e svariati
colori; e il manigoldo in tanto sfarzo cavalcò trionfalmente in Tunis.
Un anno appresso, fattevi rizzar nuove fortezze, vi andò a soggiornare
il tiranno in persona;[116] meditando già la impresa di Sicilia, o
parendogli Rakkâda mal sicura senza lo scampo del mare: o volle sfogare
la superbia dell'animo suo sopra la città ribelle, prostratagli ai piè
come cadavere.
Il medesimo anno della rivolta, Ibrahim allagò di sangue la reggia per
sospetto di una congiura degli eunuchi e stanziali schiavoni contro la
vita di lui e della madre:[117] dal qual tempo in poi, aspettandosi che
alcuno dei tanti che tremavano trovasse modo ad ammazzarlo, per meglio
guardarsi, consultò astrologhi e arioli, nei quali ponea molta fede. Gli
dissero dover morire di certo per man d'un piccino; se di statura o di
anni, i furbi maestri nol discernean bene in lor arte: ond'egli visse in
sospetto de' giovani paggi schiavoni; e se gliene venia veduto alcuno
audace e fiero in volto, vago di maneggiar la spada, pensava tra sè:
ecco l'assassino; e lo facea spacciare. Quando n'ebbe ucciso molti, temè
la vendetta dei rimagnenti: onde li uccise tutti;[118] e tolse paggi
negri in luogo dei bianchi; e non tardò a fare sgombero anche di quelli,
l'anno dugento ottantotto (900).[119] Ma nel lungo suo regno i domestici
eccidii sovente si rinnovarono e cominciaron prima della tirannide di
fuori; bastando l'ira ad aizzarlo quanto il sospetto, e quanto l'uno e
l'altra la gelosia. Aveva egli vietato sotto pene severe la vendita del
vino a Kairewân; la tollerava a Rakkâda[120] in grazia forse dei suoi
stanziali; e beveva egli stesso senza scrupolo nei penetrali dello
harem. Or accadde che fattosi mescer vino da una donna, nei primi credo
io del regno, e datole a tenere il fazzoletto di seta con che si
asciugava le labbra, colei lasciosselo cader di mano, e un eunuco il
trovò e nascose. Ibrahim non sapendo qual fosse costui, tutti i trecento
eunuchi che avea fe' morire,[121] per seppellir forse con loro il
segreto della regia intemperanza. Diversa cagione ebbe la morte di
sessanta sciagurati giovanetti ch'ei teneasi in palagio, e, calpestando
più d'uno dei precetti di sua religione, ogni sera lor dava a ber vino,
e poi non volea che troppo dimesticamente vivesser tra loro. Avutane
spia, chiamolli dinanzi a sè; interrogolli, e confessando alcuni il
fallo, e negandolo tra gli altri audacemente un fanciullo molto amato da
lui, Ibrahim gli spezzò il cranio con una mazza di ferro: gli altri fece
morire a cinque o sei il dì, tra soffocati nella stufa e arsi nella
fornace del bagno.[122]
Nè men geloso in punto di religione, aggravò la vergogna degli _dsimmi_,
come se non bastassero al suo zelo i segni esteriori di vassallaggio che
si costumavano innanzi.[123] Comandò Ibrahim che portassero su le spalle
una toppa bianca, con la figura, i Giudei d'una scimmia e i Cristiani
d'un maiale; e che gli stessi animali si dipingessero in tavole confitte
su le porte di lor case.[124] Il martirio ch'ei diè ai quattro
Siracusani si è narrato di sopra, su la fede delle agiografie
cristiane.[125] Non sappiam se sia dei martiri siracusani un Sewâda, di
cui scrivon le cronache musulmane che proffertogli l'oficio di direttore
della tassa fondiaria, se rinnegasse, e rispondendo egli che non
barattava la fede, Ibrahim lo fece spaccare in due e sospender mezzo
cadavere a un palo, mezzo ad un altro, l'anno dugentosettantotto
dell'egira (891-892).[126] Tuttavia gli eretici dell'islamismo poteano
invidiare la condizione de' Cristiani. Dopo le stragi d'una battaglia,
vinta sopra la tribù berbera di Nefûsa, l'anno dugentottantaquattro
(897-898), Ibrahim interrogò un dottore che si trovava tra i prigioni:
“Che pensi di Alì?” “Era infedele e però sta in inferno; e chi non dice
così, andravvi con lui,” rispose il prigione; scoprendosi Kharegita a
questo parlare. Il tiranno allora gli domandava se tutta la tribù di
Nefûsa tenesse tal credenza, e saputo di sì, ringraziava il Cielo
d'averne fatto macello. I prigioni, ch'eran cinquecento, se li fece
recare innanzi a uno a uno: egli assiso in alto, tenendo in mano un suo
lanciotto, cercava con la punta sotto l'ascella ove fosse il vano tra
costola e costola dell'uomo,[127] e poi data una spinta, andava a trovar
dritto il cuore, e facea passare un altro, finchè tutti gli trafisse.
Così il Nowairi.[128] L'autore del _Baiân_ scrive che i prigioni fossero
trecento, ch'ei ne avesse fatto spacciar uno e poi trattogli il cuor con
le proprie mani, e fattolo trarre agli altri, infilzati in una funicella
i trecento cuori, e sospesi a festone su la porta di Tunisi.[129] Ambo
le tradizioni bene stanno ad Ibrahim-ibn-Ahmed, e possono ammettersi
insieme.
Innanzi tal pia scelleratezza, era ito Ibrahim a Tripoli (896-897),
governata per lui da un suo cugin carnale, Mohammed-ibn-Ziadet-Allah,
uomo di egregii costumi, erudito, poeta e scrittore d'una storia di casa
aghlabita: onde il tiranno ignorante l'invidiava fin dalla gioventù, ma
adoperavale per averne bisogno. Il coperto odio divampò, quando il
califo abbassida Mo'tadhed, risapendo le enormezze di Tunis, minacciò in
parole, e secondo altri scrisse a dirittura a Ibrahim, ch'ei lo avrebbe
deposto, e surrogatogli il cugino, specchio di virtù. Pertanto non
contentossi Ibrahim d'ucciderlo; ma volle fosse appiccato il cadavere a
un palo come di malfattore.[130] Somiglianti sospetti di Stato lo
spinsero, prima e poi, a mandare a morte ciambellani, ministri,
cortigiani, e un povero segretario, chiuso vivo nel feretro. Otto
fratelli suoi proprii erano scannati al suo cospetto; un de' quali,
obeso e infermo che non potea reggersi, implorava gli si lasciassero
quei pochi giorni di vita; e Ibrahim rispose: “Non fo eccezioni;” e
accennò il carnefice di percuotere. Abu-l-Aghlab suo figlio ebbe tronco
il capo dinanzi a lui; dicesi per trame di Stato. Abd-Allah, maggior tra
i figliuoli, erede presuntivo della corona, folgor di guerra che
spezzava nei campi di battaglia i viluppi creati dalla tirannide del
padre, Abd-Allah ubbidiente troppo, virtuoso, dotto, modesto, pur si
sentiva ad ogni istante sul collo la scimitarra del carnefice.[131]
Inviperiva Ibrahim ogni dì più che l'altro; ciascun misfatto tirandosene
dietro parecchi; incarnandosi ogni vizio con l'uso e con la età;
aggravandosi in lui l'atrabile, la monomania, la causa qual si fosse che
lo portava al sangue; su la quale decida chi mai arriverà a penetrare
l'arcano della umana volontà. Chi raccoglie i fatti, noterà due sintomi
atrocissimi. L'un che costui nelle vittime segnalate per la costanza
dell'animo, ricercava rabidamente il cuore, sede del pensiero secondo
gli Arabi; quasi il tiranno volesse dar di piglio alla causa materiale
di lor contumacia. Il disse ei medesimo a San Procopio vescovo di
Taormina, mandandolo al supplizio (902).[132] Parecchi anni innanzi avea
notomizzato il cuore di un altro valoroso, Ibn-Semsâma, suo primo
ministro; il quale straziato di cinquecento battiture, non avea detto un
ahi, nè s'era mosso; e a ciò, comandando Ibrahim di ucciderlo, s'era
vantato di aprire e chiuder la mano tre fiate dopo recisogli il capo, e
avea tenuto parola.[133]
L'altra orribilità mi sembra un'avversione, un dispetto, un'invidia
ch'ei sentisse della perpetuità della umana schiatta. Non dirò delle
mogli e concubine che facea strangolare, murar vive, sparar loro il
corpo, se incinte: e tuttociò senza lor colpa, forse senza gelosia.
Lungo tempo così era vissuto, non parlando a donne fuorchè la madre, la
_Sîda_ che è a dir “Signora” come chiamavanla a corte. Costei, cercando
ridurlo ad alcun sentimento umano, un dì che le parve di umor men tetro,
gli appresentò due leggiadre donzelle, alle quali fe' recitare il Corano
e cantar versi su la chitarra e il liuto. A che parendo si compiacesse
il tiranno, rallegrato anco dal vino, la madre gli offrì in dono le due
schiave; ei le accettò, e lo seguirono. Ed entro un'ora veniva alla Sîda
lo schiavo fidato d'Ibrahim con una cesta ricoperta di ricco drappo.
Trovò le due teste; e, gittando un grido, cadde svenuta; ma tornata in
sè, le prime parole che profferì furono maledizioni sopra il figliuolo.
Pur era serbata a veder maggiore empietà. Avea comandato Ibrahim di
mettere a morte ogni figliuola che gli nascesse; e talvolta non avea
aspettato che venissero alla luce. E la Sîda pur osava trafugare e far
nudrire occultamente le bambine. Nell'età matura del figliuolo, coltolo
un'altra fiata in velleità di clemenza, si provò a mostrargli le
fanciulle cresciute come lune di bellezza, dice la cronica; e credette
aver vinto quando gliele sentì lodare. Si fa allora più ardita; gli
svela che son sua prole; gli rassegna i nomi loro e delle madri. Il
tiranno uscì dalla stanza. Chiamato un suo negro “Meimûn,” dissegli,
“arrecami le teste delle donzelle che tien la Sîda.” Il carnefice non si
movea. “Obbedisci, sciagurato schiavo,” ripigliava Ibrahim, “o ti farò
andare innanzi, ed esse dopo.” E Meimûn tornò poco stante, avvolgendosi
alle mani le sanguinose chiome di sedici teste, e le gettò a mucchio sul
pavimento.[134] La critica non può mettere in forse coteste orribilità.
Ancorchè noi le tenghiamo di seconda mano, è evidente la veracità degli
scrittori primitivi, cittadini del Kairewân o d'Affrica al certo, e
concordi tra loro, non avversi punto a casa aghlabita, vissuti in tempi
vicinissimi e di cultura letteraria. D'altronde i misfatti narrati ben
s'attagliano l'uno all'altro; e molti particolari che rivelano
quell'istinto d'uom tigre, sono ricordati quasi con le medesime parole
dai Musulmani e dai Cristiani, tra i quali il diligentissimo
contemporaneo Giovanni, diacono napoletano.[135]
CAPITOLO III.
Contro lo scellerato signore s'era levata la colonia siciliana, Arabi e
Berberi al paro; e da quattro anni tenean fermo, succedendo a lor posta
i tumulti d'Affrica, quando, l'ottocento novantotto, non so per qual
ribollimento di sangui o magagna d'Ibrahim, tornarono i Berberi ad
assalire il giund. Vedendo fitti i coloni nell'assurdo intento di
scuotere il giogo senza cessare di straziarsi l'un l'altro, Ibrahim,
ridendosene, entrò di mezzo: scrisse ad ambe le fazioni ch'ei
perdonerebbe, se tornassero alla ubbidienza, e che sarebbe contento a
gastigare i capi soli; ch'erano, dei Berberi un Abu-Hosein-ibn-Iezîd,
coi figliuoli; e del giund un Hadhrami, oriundo, come lo mostra tal
nome, dell'Arabia meridionale. Affrettaronsi i sollevati a consegnarli
di peso alle soldatesche affricane, di presidio, credo io, a Mazara:
dalle quali furono imprigionati, imbarcati per l'Affrica, e quivi dati
al supplizio. Il Berbero, per fuggirlo, bevve un veleno che di presente
lo fe' morire; talchè non rimase ad Ibrahim che d'appiccare il cadavere
al patibolo e scannare i figliuoli del suicida. Sfogò con nuovo
argomento di tortura sopra l'Hadhrami. Fattoselo recare innanzi, disse a
un carnefice pien di facezie, come tanti ve n'ha, che tentasse il
condannato con motteggi e buffonerie: e quando il misero cominciava a
sperarne salvezza e gli spuntava il riso in faccia, “No,” proruppe
Ibrahim, “non è ora da burle:” e fe' cenno al manigoldo; il quale a
colpi di bastone lo ammazzò.[136]
Mandava poi Ibrahim a reggere la Sicilia un uom di sangue aghlabita,
statovi emiro, com'e' sembra, una ventina d'anni innanzi, per nome
Abu-Mâlek-Ahmed-ibn-Omar-ibn-Abd-Allah.[137] Con la riputazione del
casato sperava il tiranno lusingare o tenere in rispetto i popoli; e con
la imbecillità della costui persona si fidava governar la colonia a suo
piacimento dall'Affrica. Ma le due inveterate discordie che sopra
toccammo, non si poteano comporre sì di leggieri; e per giunta gli
sdegni, i rancori, i rimproveri, che tengon dietro ad una rivoluzione
repressa, fecer nascere nuove scissure. Donde l'anno ottocento
novantanove, tante piccole fazioni, confusamente combattendo, empiean la
Sicilia di sangue.[138] Per ovviare alla debolezza di Ahmed, dicon le
croniche, o piuttosto per domare la Sicilia nel solo modo che si poteva,
Ibrahim vi mandò un esercito poderoso, capitanato dal proprio figliuolo
Abu-Abbâs-Abd-Allah, vincitor dei ribelli d'Affrica.[139]
Salpò costui con centoventi navi da trasporto e quaranta da guerra, il
ventiquattro luglio del novecento; arrivò a Mazara il primo
d'agosto;[140] donde movea all'assedio di Trapani. A ciò l'esercito
palermitano, ch'era uscito a far guerra contro que' di Girgenti, si
ritrasse immantinente alla capitale; e inviò al campo affricano il cadi
e parecchi sceikhi, a protestare obbedienza verso il principe, e
scusarsi, bene o male, dello assalto sopra Girgenti. Vennero al medesimo
tempo messaggi di cotesta città a dolersi dell'esorbitanza dei
Palermitani: e sufolarono all'orecchio di Abd-Allah, non si fidasse di
quel popol contumace, senza legge nè fede, nè di sua simulata e
frodolenta sommessione; e che, se volea pescare al fondo della magagna,
chiamasse di Palermo il tale e il tale, e se ne chiarirebbe. Ed ei sì
chiamolli: ma ricusarono; e tutta la città dichiarò che non andrebbero.
Abd-Allah, a questo, ritien prigioni gli oratori palermitani, rilasciato
il solo cadi; e poco appresso mandavi, a portar forse orgogliosi
comandi, otto sceikhi affricani. Gli Arabi di Palermo a lor volta li
imprigionavano; e risolveansi a tentar la sorte delle armi. Fu capo in
questo periodo di rivoluzione un Rakamûweih, uom di nome persiano. Fu
emir degli stolti, dice amaramente Ibn-el-Athîr che visse tre secoli
appresso: contemporaneo del gran Saladino, scrittor non servile,
incapricciatosi d'Ibrahim-ibn-Ahmed, per quella sua feroce severità.
Perciò doveano parere savii ad Ibn-el-Athîr coloro che di queto si
lasciasser divorare dalla tigre; perciò l'annalista metteva in non cale
i dritti dei Musulmani, le sacre franchige calpestate da Ibrahim,
valorosamente difese dal popol di Palermo!
Lascio indietro, perchè sembra error di compilazione, l'episodio narrato
da un altro storico:[141] che i Girgentini, dopo di avere stigato
Abd-Allah, si unissero coi Palermitani contro di lui. Movea di Palermo
il dì quindici agosto, alla volta di Trapani, lo esercito capitanato da
un Mesûd-Bâgi.[142] L'armata d'una trentina di vele uscì non guari dopo:
fu colta da una tempesta nella breve e difficile navigazione ch'è da
Palermo a Trapani, onde la più parte dei legni perì; quegli scampati,
senza potere altrimenti offendere il nemico, si ridussero a casa. L'oste
intanto assaliva il campo affricano sotto Trapani: si combattea
fieramente da ambo le parti con gran sangue, e rimaneva indecisa la
vittoria. Ma il ventidue agosto, rappiccata dai Palermitani la zuffa,
mantenuta con uguale fortuna infino a vespro,[143] prevalse in ultimo la
esperienza di guerra di Abd-Allah, o il numero degli Affricani che
arrivava al certo a quattordici o quindici mila nomini, se si risguardi
ai centoventi legni che li avean portato. Abd-Allah, usando la vittoria,
prese la via di Palermo su le orme del nemico; indirizzò a Palermo
l'armata che aveva ormai libero il mare, e poteva assaltare la città e
molestar anco l'oste che si ritraea. Lenti e minacciosi ritraeansi i
Palermitani, come quelli che sapean difendere patria e libertà; sì che
fecero far al vincitore una sessantina di miglia in quattordici giorni;
e al decimoquinto, che fu l'otto settembre, gli presentaron la terza
battaglia. Pugnarono dieci ore continue dall'alba a vespro, in una delle
due valli, credo io, che sboccano nell'agro palermitano a dritta e a
sinistra di Baida.[144] Alfine menomati, rifiniti, sopraffatti,
sbaragliaronsi fuggendo verso la città vecchia: gli Affricani da vespro
a sera ferono orribil macello di loro; occuparono i sobborghi;
saccheggiaronli,[145] a spreto della legge che vietava di por mano nella
roba e nel sangue dei ribelli musulmani. Con tuttociò non si fa ricordo
di enormezze come quelle di Tunisi, dalle quali rifuggia l'animo alto e
gentile di Abd-Allah. Gli increbbe anco della battaglia, se ci
apponghiamo al sentimento di tre versi, che improvvisò in Sicilia, forse
quel dì stesso; nei quali, disgustato delle stragi, incendii e
distruzioni, quel prode, sospirando, pensava a qualche giorno
tranquillo, vivuto nei giardini di Rakkâda, in mezzo alle sue donne e
figliuoli.[146]
Palermo ingrossando di quartieri suburbani, stendeasi in questo tempo
dalla parte di scirocco infino alla sponda dell'Oreto; da ponente ne
saliva una catena di abituri per due miglia e più infino al villaggio di
Baida, ossia alle falde dei monti: sobborghi sì importanti che
racchiudeano da dugento moschee e però vi si debbon supporre a un di
presso due quinti di tutta la popolazione palermitana.[147] Su quel
vasto aggregato di ville da diletto ed umili case della gente
industriale, torreggiava la città antica, afforzata di bastioni e di
lagune, il Cassaro come l'appellarono gli Arabi, spaziosa cittadella di
figura ovale che tenea quasi il mezzo dell'odierna città.[148] Occupati
i sobborghi dal nemico, i cittadini si difesero nel Cassaro per dieci
giorni e stipularono un accordo; onde furono schiuse le porte ad
Abd-Allah, il diciotto settembre. Per patto, o innanzi che si fermasse,
grandissimo numero di cittadini con lor donne e figliuoli andavano a
rifuggirsi in Taormina; Rakamûweih e i più intinti nella rivoluzione
facean vela chi per Costantinopoli, chi per altri paesi di Cristianità,
ove mai non potesse arrivare il braccio d'Ibrahim. Dopo lo sgombro,
rimase pure uno stuolo di ottimati sospetti che Abd-Allah inviava al
padre in Affrica; forse di quelli cui non v'era pretesto ad uccidere,
poichè le croniche non parlan di supplizio loro. Così riluce per ogni
verso la umanità del vincitore.[149]
Sì lunghe discordie non poteano ignorarsi dai Cristiani. Que' di Val
Demone le aveano usato nella tregua dell'ottocento novantacinque, nella
quale sembra entrato, allora o poi, lo stratego di Calabria; atteso che
Giovanni Diacono di Napoli dice provocata da cotesto accordo la guerra
di Abd-Allah in quella provincia.[150] Nel medesimo tempo Sant'Elia da
Castrogiovanni, ancorchè ottuagenario e infermo, si apprestava a
ripassare in Sicilia, lusingato, forse richiesto, dall'imperatore Leone
il Sapiente: Elia da Castrogiovanni, stato ausiliare di Basilio Macedone
nel tentato racquisto dell'isola venti anni innanzi; e il vedremo tra
non guari incoraggiare, a modo suo, all'estrema difesa il popolo di
Taormina.[151] Vedrem anco novelli sforzi dei Bizantini: un patrizio e
un presidio mandati a Taormina; grand'oste adunata a Reggio; armata
venuta di Costantinopoli a Messina. I quali fatti mostrano ad evidenza
che l'impero fe' disegno nelle guerre civili dei Musulmani e nel bisogno
che avea di lui la colonia ribelle. Dopo la occupazione di Palermo,
l'impero armò un poco; suscitò al riscatto le popolazioni cristiane
dell'isola, alla guerra quelle di Calabria; trascinato egli stesso dai
Musulmani rifuggiti a Taormina, a Costantinopoli e in Calabria, i quali
speravano gran cose al certo e molte più ne diceano.
Abd-Allah, sapesse o no coteste pratiche, dovea combattere la guerra
sacra, per dare sfogo agli agitati animi dei Musulmani di Sicilia, per
soddisfare a sè stesso, alla opinione pubblica, al padre. Non tardò
dunque a uscir di Palermo; cavalcò il contado di Taormina; svelse le
vigne; molestò il presidio con avvisaglie; e come l'inverno
s'innoltrava, sperando ridurre più agevolmente Catania, città in
pianura, la assediò; ma indarno. Perlochè, tornato in Palermo a
svernare, apparecchiò più poderosi armamenti, e, abbonacciata la
stagione, fe' salpare il navilio a' venticinque marzo del novecento uno.
Egli con l'esercito andò a porre il campo a Demona; piantò i mangani
contro le mura; le battè per diciassette giorni; ma risaputo d'un grande
sforzo di genti che i Bizantini adunavano in Calabria, lasciò stare il
presidio di Demona buono a difendersi e non ad offendere; e volò con
l'esercito a Messina. Par che l'armata vi fosse ita innanzi, e che la
città si fosse di queto sottomessa. Abd-Allah passava immantinenti lo
stretto. Trovata l'oste sotto le mura di Reggio, un'accozzaglia dei
presidii bizantini dell'Italia meridionale e di Calabresi che li
abborrivano, i Musulmani la sbaragliaron col solo terrore, dice Giovanni
Diacono. Mentre i fuggenti correano da ogni banda per la campagna,
Abd-Allah irruppe senza ostacolo in città il dieci giugno. Le feroci
genti sue cominciarono una strage indistinta: poi l'avarizia consigliò
di far prigioni; che ne ragunarono diciassettemila, tra i quali fu
tratto in carcere, come scrive Giovanni, il venerando vescovo dal crin
bianco e dalla faccia colorita, spirante dolcezza. Immenso il cumulo
della preda: oro, argento, suppellettili; rigorosamente custodito dai
vincitori, continua il medesimo autore, e ben si riscontra con la legge
musulmana che vieta di scompartire il bottino in territorio nemico. Vi
si aggiunsero i tributi e presenti delle città vicine, le quali si
affrettavano a mandare oratori chiedendo l'amân; poichè Abd-Allah avea
dato voce di volere stanziare a Reggio. Ma improvvisamente ei ripassa lo
stretto, sapendo arrivata da Costantinopoli a Messina un armata greca; e
la coglie nel porto; le prende trenta legni; fa diroccar le mura della
città, per gastigo o cautela. Intanto traghettavano continuamente da
Reggio a Messina le navi da carico, zeppe di roba e schiavi. Abd-Allah
condusse di nuovo l'armata su le costiere di Terraferma; combattè altri
nemici, forse gente dei duchi Franchi di Spoleto e Camerino, condotti ai
soldi dell'imperatore di Costantinopoli. In questa impresa il principe
aghlabita occupò, il venti luglio, una città di cui non ben si legge il
nome, forse Nardò;[152] e si ridusse alfine con tutte le genti in
Palermo, donde mandò nunzii al padre col racconto delle vittorie e il
meglio del bottino. Fino alla primavera del novecentodue, quando andò a
trovarlo ei medesimo in Affrica, Abd-Allah soggiornò nella capitale
della Sicilia, reggendo i popoli con giustizia e bontà.[153]
Corse fama in Italia che Ibrahim, intendendo dai messaggi del figliuolo
la impresa di Reggio, prorompesse in rampogne: “Non esser suo sangue,
no, tener dalla madre, questo svenevole che s'impietosiva dei Cristiani
e tornava addietro, principiate appena le vittorie! Se ne venisse dunque
a poltrire in Affrica, chè egli, Ibrahim-ibn-Ahmed, andrebbe a mostrare
ai nemici di Dio e degli uomini il valor vero della schiatta d'Aghlab.”
A queste parole d'ira s'aggiugneano romori contraddittorii: che
Abd-Allah segretamente sopraccorresse a corte per falso avviso della
morte del padre; che Ibrahim vistoselo accanto, in luogo di incrudelire,
gli rinunziasse il regno e ponessegli al dito il proprio anello.[154]
Così tra le fole si risapea la verità. Al dir d'una cronica araba, la
verità era che richiamatisi i Musulmani di Tunis appo il califo
abbassida Mo'tadhed-Billah delle enormezze che aveano a sopportare, e
mostratogli che certe schiave che Ibrahim gli avea mandato in dono,
fosser le mogli e figliuole loro, Mo'tadhed inorridito si risovveniva
d'essere pontefice e imperatore. Facea dunque sentire in Affrica, la
prima volta da un secolo, i voleri del successor del Profeta.
Significavali per un messaggiero; al quale Ibrahim volle farsi incontro
in attestato di riverenza, contenendo i superbi movimenti dell'animo,
con sì duro sforzo, ch'ei ne fu colpito di malattia biliosa, e costretto
a sostare alla _sibkha_, o vogliam dire stagno salmastro di Tunis.
Abboccatosi quivi segretamente con l'ambasciatore, promesse di ubbidire
al califo; il quale per bocca di costui, senza comando scritto, gli
ingiugnea di risegnare il governo al figliuolo Abd-Allah e
rappresentarsi in persona a Bagdad.[155] Tanta modestia civile d'Ibrahim
si comprenderà meglio, considerando ch'ei già sentiva crollare il trono
aghlabita. Una sètta politica, delle tante che ne covavano sotto la
teocrazia musulmana, s'era appresa alla forte tribù berbera di Kotâma; e
scoppiava già in aperta ribellione, minacciando al paro il principato
d'Affrica e il califato. In Affrica, Arabi e Berberi, ortodossi e
scismatici, nobiltà menomata dai supplizii e plebe spolpata sotto
pretesto di farle giustizia contro i nobili, a una voce tutti maledivan
l'Empio, come il chiamarono per antonomasia.[156] Minacciavalo di più,
dall'Egitto, la dinastia dei Beni-Tolûn, potentissimi di ricchezze e
d'ardire, imparentati col califo, usurpatori che per far più guadagno
s'offrian sostegni alla legittimità. Sovrastandogli dunque novella
guerra civile, complicatissima, spaventevole, senza speranze di uscirne
vincitore, ei riformò il governo e abdicò, fingendo d'ubbidire al
califo. Notevole è che un altro cronista, copiato o abbreviato nel
_Baiân_, senza far parola del messaggio di Mo'tadhed, attribuisce a
dirittura le riforme d'Ibrahim ai movimenti della tribù di Kotâma, e
dice che allora ei volle farsi grato all'universale, e riguadagnare gli
animi degli antichi partigiani di casa d'Aghlab.[157]
Pose il nome d'anno della giustizia al dugentottantanove dell'egira (16
dicembre 901 a 4 dicembre 902) che incominciava tra quelle vicende;
abolì le gabelle; disdisse le novazioni nel modo di riscuotere le
decime;[158] rimesse agli agricoltori un anno di tributo fondiario;
liberò i prigioni di stato; manomesse i proprii schiavi; cavò dalli
quella ferrea sferza degli schiavi stanziali.[111]
Poi surse in arme la colonia di Belezma, gente arabica della tribù di
Kais, venuta la più parte nei principii del conquisto, e stanziata da
parecchie generazioni in quella città, sul confin meridionale
dell'odierna provincia di Costantina, in mezzo alla catena degli Aurès,
donde teneva a segno la tribù berbera di Kotâma. Gli agguerriti Arabi di
Belezma ributtarono Ibrahim, ito in persona a combatterli: ond'ei
perdonò loro; attirò a Rakkâda, prima alcuni capi sotto specie di
trattar faccende, poi, con altri pretesti, più numero di gente; lor diè
splendide vestimenta, onori quanti ne vollero e alloggiamento in uno
edifizio circondato di mura con una sola porta, nel quale settecento o
mille cavalieri, chè tanti se n'erano accolti, se pur pensavano allo
esempio dei liberti del Castel Vecchio, si fidavano al certo di
affrontar chi che si fosse. E così ogni evento delle istorie avvera la
sentenza del Machiavelli, che colui che inganna, troverà sempre chi si
lascerà ingannare.[112] Il dì che le altre soldatesche toccavan la paga,
inebbriate di danaro, fors'anco di vino, Ibrahim le lanciava allo
scannatoio ov'eran serrati i guerrieri di Belezma; i quali (893-894)
valorosamente si difesero; e tutti perirono.[113] La pena di tal
misfatto, come spesso accade, la pagò non Ibrahim, ma la dinastia;
poichè, decadendo Belezma, la tribù di Kotâma imbaldanzì, e condusse al
trono i Fatemiti.[114] Più pronto gastigo minacciava la sollevazione
generale delle milizie arabiche, scoppiata immediatamente e rinnovatasi
poi varie fiate; ma Ibrahim trionfò di tutti, mercè le mura di Rakkâda,
la virtù militare del figliuolo Abd-Allah, e gli schiavi armati; dei
quali accrebbe il numero; lor affidò la reggia; e pose capitani sopra di
loro due schiavi, Meimûn e Rescîd. Accentrò al medesimo tempo Ibrahim
grande autorità in persona di Hasân-ibn-Nâkid, nuovo suo ciambellano,
capitan di eserciti, emir di Sicilia, e rivestito di altri oficii,
scrive la cronica,[115] probabilmente le amministrazioni di finanza, e
il tribunale dei soprusi nelle province sollevate.
Tra i casi di questa rivoluzione seguirono non più udite enormezze dei
soldati regii, i quali, presa Tunis per battaglia, fecero schiavi tra i
Musulmani, sforzaron le donne e sparsero gran sangue (893-894). Dato
avviso della vittoria a Rakkâda per lettere legate al collo dei colombi,
Ibrahim rescrisse di caricare i cadaveri su le carra; mandarli a
Kairewân; e condurli in giro per le strade. Comandò, non guari dopo
(894-895), di mettere a morte i nobili della tribù di Temîm, ceppo di
sua famiglia, e appendere i cadaveri alle porte di Tunis. Ministro di
tai vendette era stato Meimûn, nominato dianzi, donde venne fieramente
in odio a quei cittadini; ma Ibrahim, non prima n'ebbe sentore, che gli
mandò, diremmo noi, un bell'ordine cavalleresco: all'uso di que' tempi
collana d'oro e vestimenta di seta ricche d'oro, disegni e svariati
colori; e il manigoldo in tanto sfarzo cavalcò trionfalmente in Tunis.
Un anno appresso, fattevi rizzar nuove fortezze, vi andò a soggiornare
il tiranno in persona;[116] meditando già la impresa di Sicilia, o
parendogli Rakkâda mal sicura senza lo scampo del mare: o volle sfogare
la superbia dell'animo suo sopra la città ribelle, prostratagli ai piè
come cadavere.
Il medesimo anno della rivolta, Ibrahim allagò di sangue la reggia per
sospetto di una congiura degli eunuchi e stanziali schiavoni contro la
vita di lui e della madre:[117] dal qual tempo in poi, aspettandosi che
alcuno dei tanti che tremavano trovasse modo ad ammazzarlo, per meglio
guardarsi, consultò astrologhi e arioli, nei quali ponea molta fede. Gli
dissero dover morire di certo per man d'un piccino; se di statura o di
anni, i furbi maestri nol discernean bene in lor arte: ond'egli visse in
sospetto de' giovani paggi schiavoni; e se gliene venia veduto alcuno
audace e fiero in volto, vago di maneggiar la spada, pensava tra sè:
ecco l'assassino; e lo facea spacciare. Quando n'ebbe ucciso molti, temè
la vendetta dei rimagnenti: onde li uccise tutti;[118] e tolse paggi
negri in luogo dei bianchi; e non tardò a fare sgombero anche di quelli,
l'anno dugento ottantotto (900).[119] Ma nel lungo suo regno i domestici
eccidii sovente si rinnovarono e cominciaron prima della tirannide di
fuori; bastando l'ira ad aizzarlo quanto il sospetto, e quanto l'uno e
l'altra la gelosia. Aveva egli vietato sotto pene severe la vendita del
vino a Kairewân; la tollerava a Rakkâda[120] in grazia forse dei suoi
stanziali; e beveva egli stesso senza scrupolo nei penetrali dello
harem. Or accadde che fattosi mescer vino da una donna, nei primi credo
io del regno, e datole a tenere il fazzoletto di seta con che si
asciugava le labbra, colei lasciosselo cader di mano, e un eunuco il
trovò e nascose. Ibrahim non sapendo qual fosse costui, tutti i trecento
eunuchi che avea fe' morire,[121] per seppellir forse con loro il
segreto della regia intemperanza. Diversa cagione ebbe la morte di
sessanta sciagurati giovanetti ch'ei teneasi in palagio, e, calpestando
più d'uno dei precetti di sua religione, ogni sera lor dava a ber vino,
e poi non volea che troppo dimesticamente vivesser tra loro. Avutane
spia, chiamolli dinanzi a sè; interrogolli, e confessando alcuni il
fallo, e negandolo tra gli altri audacemente un fanciullo molto amato da
lui, Ibrahim gli spezzò il cranio con una mazza di ferro: gli altri fece
morire a cinque o sei il dì, tra soffocati nella stufa e arsi nella
fornace del bagno.[122]
Nè men geloso in punto di religione, aggravò la vergogna degli _dsimmi_,
come se non bastassero al suo zelo i segni esteriori di vassallaggio che
si costumavano innanzi.[123] Comandò Ibrahim che portassero su le spalle
una toppa bianca, con la figura, i Giudei d'una scimmia e i Cristiani
d'un maiale; e che gli stessi animali si dipingessero in tavole confitte
su le porte di lor case.[124] Il martirio ch'ei diè ai quattro
Siracusani si è narrato di sopra, su la fede delle agiografie
cristiane.[125] Non sappiam se sia dei martiri siracusani un Sewâda, di
cui scrivon le cronache musulmane che proffertogli l'oficio di direttore
della tassa fondiaria, se rinnegasse, e rispondendo egli che non
barattava la fede, Ibrahim lo fece spaccare in due e sospender mezzo
cadavere a un palo, mezzo ad un altro, l'anno dugentosettantotto
dell'egira (891-892).[126] Tuttavia gli eretici dell'islamismo poteano
invidiare la condizione de' Cristiani. Dopo le stragi d'una battaglia,
vinta sopra la tribù berbera di Nefûsa, l'anno dugentottantaquattro
(897-898), Ibrahim interrogò un dottore che si trovava tra i prigioni:
“Che pensi di Alì?” “Era infedele e però sta in inferno; e chi non dice
così, andravvi con lui,” rispose il prigione; scoprendosi Kharegita a
questo parlare. Il tiranno allora gli domandava se tutta la tribù di
Nefûsa tenesse tal credenza, e saputo di sì, ringraziava il Cielo
d'averne fatto macello. I prigioni, ch'eran cinquecento, se li fece
recare innanzi a uno a uno: egli assiso in alto, tenendo in mano un suo
lanciotto, cercava con la punta sotto l'ascella ove fosse il vano tra
costola e costola dell'uomo,[127] e poi data una spinta, andava a trovar
dritto il cuore, e facea passare un altro, finchè tutti gli trafisse.
Così il Nowairi.[128] L'autore del _Baiân_ scrive che i prigioni fossero
trecento, ch'ei ne avesse fatto spacciar uno e poi trattogli il cuor con
le proprie mani, e fattolo trarre agli altri, infilzati in una funicella
i trecento cuori, e sospesi a festone su la porta di Tunisi.[129] Ambo
le tradizioni bene stanno ad Ibrahim-ibn-Ahmed, e possono ammettersi
insieme.
Innanzi tal pia scelleratezza, era ito Ibrahim a Tripoli (896-897),
governata per lui da un suo cugin carnale, Mohammed-ibn-Ziadet-Allah,
uomo di egregii costumi, erudito, poeta e scrittore d'una storia di casa
aghlabita: onde il tiranno ignorante l'invidiava fin dalla gioventù, ma
adoperavale per averne bisogno. Il coperto odio divampò, quando il
califo abbassida Mo'tadhed, risapendo le enormezze di Tunis, minacciò in
parole, e secondo altri scrisse a dirittura a Ibrahim, ch'ei lo avrebbe
deposto, e surrogatogli il cugino, specchio di virtù. Pertanto non
contentossi Ibrahim d'ucciderlo; ma volle fosse appiccato il cadavere a
un palo come di malfattore.[130] Somiglianti sospetti di Stato lo
spinsero, prima e poi, a mandare a morte ciambellani, ministri,
cortigiani, e un povero segretario, chiuso vivo nel feretro. Otto
fratelli suoi proprii erano scannati al suo cospetto; un de' quali,
obeso e infermo che non potea reggersi, implorava gli si lasciassero
quei pochi giorni di vita; e Ibrahim rispose: “Non fo eccezioni;” e
accennò il carnefice di percuotere. Abu-l-Aghlab suo figlio ebbe tronco
il capo dinanzi a lui; dicesi per trame di Stato. Abd-Allah, maggior tra
i figliuoli, erede presuntivo della corona, folgor di guerra che
spezzava nei campi di battaglia i viluppi creati dalla tirannide del
padre, Abd-Allah ubbidiente troppo, virtuoso, dotto, modesto, pur si
sentiva ad ogni istante sul collo la scimitarra del carnefice.[131]
Inviperiva Ibrahim ogni dì più che l'altro; ciascun misfatto tirandosene
dietro parecchi; incarnandosi ogni vizio con l'uso e con la età;
aggravandosi in lui l'atrabile, la monomania, la causa qual si fosse che
lo portava al sangue; su la quale decida chi mai arriverà a penetrare
l'arcano della umana volontà. Chi raccoglie i fatti, noterà due sintomi
atrocissimi. L'un che costui nelle vittime segnalate per la costanza
dell'animo, ricercava rabidamente il cuore, sede del pensiero secondo
gli Arabi; quasi il tiranno volesse dar di piglio alla causa materiale
di lor contumacia. Il disse ei medesimo a San Procopio vescovo di
Taormina, mandandolo al supplizio (902).[132] Parecchi anni innanzi avea
notomizzato il cuore di un altro valoroso, Ibn-Semsâma, suo primo
ministro; il quale straziato di cinquecento battiture, non avea detto un
ahi, nè s'era mosso; e a ciò, comandando Ibrahim di ucciderlo, s'era
vantato di aprire e chiuder la mano tre fiate dopo recisogli il capo, e
avea tenuto parola.[133]
L'altra orribilità mi sembra un'avversione, un dispetto, un'invidia
ch'ei sentisse della perpetuità della umana schiatta. Non dirò delle
mogli e concubine che facea strangolare, murar vive, sparar loro il
corpo, se incinte: e tuttociò senza lor colpa, forse senza gelosia.
Lungo tempo così era vissuto, non parlando a donne fuorchè la madre, la
_Sîda_ che è a dir “Signora” come chiamavanla a corte. Costei, cercando
ridurlo ad alcun sentimento umano, un dì che le parve di umor men tetro,
gli appresentò due leggiadre donzelle, alle quali fe' recitare il Corano
e cantar versi su la chitarra e il liuto. A che parendo si compiacesse
il tiranno, rallegrato anco dal vino, la madre gli offrì in dono le due
schiave; ei le accettò, e lo seguirono. Ed entro un'ora veniva alla Sîda
lo schiavo fidato d'Ibrahim con una cesta ricoperta di ricco drappo.
Trovò le due teste; e, gittando un grido, cadde svenuta; ma tornata in
sè, le prime parole che profferì furono maledizioni sopra il figliuolo.
Pur era serbata a veder maggiore empietà. Avea comandato Ibrahim di
mettere a morte ogni figliuola che gli nascesse; e talvolta non avea
aspettato che venissero alla luce. E la Sîda pur osava trafugare e far
nudrire occultamente le bambine. Nell'età matura del figliuolo, coltolo
un'altra fiata in velleità di clemenza, si provò a mostrargli le
fanciulle cresciute come lune di bellezza, dice la cronica; e credette
aver vinto quando gliele sentì lodare. Si fa allora più ardita; gli
svela che son sua prole; gli rassegna i nomi loro e delle madri. Il
tiranno uscì dalla stanza. Chiamato un suo negro “Meimûn,” dissegli,
“arrecami le teste delle donzelle che tien la Sîda.” Il carnefice non si
movea. “Obbedisci, sciagurato schiavo,” ripigliava Ibrahim, “o ti farò
andare innanzi, ed esse dopo.” E Meimûn tornò poco stante, avvolgendosi
alle mani le sanguinose chiome di sedici teste, e le gettò a mucchio sul
pavimento.[134] La critica non può mettere in forse coteste orribilità.
Ancorchè noi le tenghiamo di seconda mano, è evidente la veracità degli
scrittori primitivi, cittadini del Kairewân o d'Affrica al certo, e
concordi tra loro, non avversi punto a casa aghlabita, vissuti in tempi
vicinissimi e di cultura letteraria. D'altronde i misfatti narrati ben
s'attagliano l'uno all'altro; e molti particolari che rivelano
quell'istinto d'uom tigre, sono ricordati quasi con le medesime parole
dai Musulmani e dai Cristiani, tra i quali il diligentissimo
contemporaneo Giovanni, diacono napoletano.[135]
CAPITOLO III.
Contro lo scellerato signore s'era levata la colonia siciliana, Arabi e
Berberi al paro; e da quattro anni tenean fermo, succedendo a lor posta
i tumulti d'Affrica, quando, l'ottocento novantotto, non so per qual
ribollimento di sangui o magagna d'Ibrahim, tornarono i Berberi ad
assalire il giund. Vedendo fitti i coloni nell'assurdo intento di
scuotere il giogo senza cessare di straziarsi l'un l'altro, Ibrahim,
ridendosene, entrò di mezzo: scrisse ad ambe le fazioni ch'ei
perdonerebbe, se tornassero alla ubbidienza, e che sarebbe contento a
gastigare i capi soli; ch'erano, dei Berberi un Abu-Hosein-ibn-Iezîd,
coi figliuoli; e del giund un Hadhrami, oriundo, come lo mostra tal
nome, dell'Arabia meridionale. Affrettaronsi i sollevati a consegnarli
di peso alle soldatesche affricane, di presidio, credo io, a Mazara:
dalle quali furono imprigionati, imbarcati per l'Affrica, e quivi dati
al supplizio. Il Berbero, per fuggirlo, bevve un veleno che di presente
lo fe' morire; talchè non rimase ad Ibrahim che d'appiccare il cadavere
al patibolo e scannare i figliuoli del suicida. Sfogò con nuovo
argomento di tortura sopra l'Hadhrami. Fattoselo recare innanzi, disse a
un carnefice pien di facezie, come tanti ve n'ha, che tentasse il
condannato con motteggi e buffonerie: e quando il misero cominciava a
sperarne salvezza e gli spuntava il riso in faccia, “No,” proruppe
Ibrahim, “non è ora da burle:” e fe' cenno al manigoldo; il quale a
colpi di bastone lo ammazzò.[136]
Mandava poi Ibrahim a reggere la Sicilia un uom di sangue aghlabita,
statovi emiro, com'e' sembra, una ventina d'anni innanzi, per nome
Abu-Mâlek-Ahmed-ibn-Omar-ibn-Abd-Allah.[137] Con la riputazione del
casato sperava il tiranno lusingare o tenere in rispetto i popoli; e con
la imbecillità della costui persona si fidava governar la colonia a suo
piacimento dall'Affrica. Ma le due inveterate discordie che sopra
toccammo, non si poteano comporre sì di leggieri; e per giunta gli
sdegni, i rancori, i rimproveri, che tengon dietro ad una rivoluzione
repressa, fecer nascere nuove scissure. Donde l'anno ottocento
novantanove, tante piccole fazioni, confusamente combattendo, empiean la
Sicilia di sangue.[138] Per ovviare alla debolezza di Ahmed, dicon le
croniche, o piuttosto per domare la Sicilia nel solo modo che si poteva,
Ibrahim vi mandò un esercito poderoso, capitanato dal proprio figliuolo
Abu-Abbâs-Abd-Allah, vincitor dei ribelli d'Affrica.[139]
Salpò costui con centoventi navi da trasporto e quaranta da guerra, il
ventiquattro luglio del novecento; arrivò a Mazara il primo
d'agosto;[140] donde movea all'assedio di Trapani. A ciò l'esercito
palermitano, ch'era uscito a far guerra contro que' di Girgenti, si
ritrasse immantinente alla capitale; e inviò al campo affricano il cadi
e parecchi sceikhi, a protestare obbedienza verso il principe, e
scusarsi, bene o male, dello assalto sopra Girgenti. Vennero al medesimo
tempo messaggi di cotesta città a dolersi dell'esorbitanza dei
Palermitani: e sufolarono all'orecchio di Abd-Allah, non si fidasse di
quel popol contumace, senza legge nè fede, nè di sua simulata e
frodolenta sommessione; e che, se volea pescare al fondo della magagna,
chiamasse di Palermo il tale e il tale, e se ne chiarirebbe. Ed ei sì
chiamolli: ma ricusarono; e tutta la città dichiarò che non andrebbero.
Abd-Allah, a questo, ritien prigioni gli oratori palermitani, rilasciato
il solo cadi; e poco appresso mandavi, a portar forse orgogliosi
comandi, otto sceikhi affricani. Gli Arabi di Palermo a lor volta li
imprigionavano; e risolveansi a tentar la sorte delle armi. Fu capo in
questo periodo di rivoluzione un Rakamûweih, uom di nome persiano. Fu
emir degli stolti, dice amaramente Ibn-el-Athîr che visse tre secoli
appresso: contemporaneo del gran Saladino, scrittor non servile,
incapricciatosi d'Ibrahim-ibn-Ahmed, per quella sua feroce severità.
Perciò doveano parere savii ad Ibn-el-Athîr coloro che di queto si
lasciasser divorare dalla tigre; perciò l'annalista metteva in non cale
i dritti dei Musulmani, le sacre franchige calpestate da Ibrahim,
valorosamente difese dal popol di Palermo!
Lascio indietro, perchè sembra error di compilazione, l'episodio narrato
da un altro storico:[141] che i Girgentini, dopo di avere stigato
Abd-Allah, si unissero coi Palermitani contro di lui. Movea di Palermo
il dì quindici agosto, alla volta di Trapani, lo esercito capitanato da
un Mesûd-Bâgi.[142] L'armata d'una trentina di vele uscì non guari dopo:
fu colta da una tempesta nella breve e difficile navigazione ch'è da
Palermo a Trapani, onde la più parte dei legni perì; quegli scampati,
senza potere altrimenti offendere il nemico, si ridussero a casa. L'oste
intanto assaliva il campo affricano sotto Trapani: si combattea
fieramente da ambo le parti con gran sangue, e rimaneva indecisa la
vittoria. Ma il ventidue agosto, rappiccata dai Palermitani la zuffa,
mantenuta con uguale fortuna infino a vespro,[143] prevalse in ultimo la
esperienza di guerra di Abd-Allah, o il numero degli Affricani che
arrivava al certo a quattordici o quindici mila nomini, se si risguardi
ai centoventi legni che li avean portato. Abd-Allah, usando la vittoria,
prese la via di Palermo su le orme del nemico; indirizzò a Palermo
l'armata che aveva ormai libero il mare, e poteva assaltare la città e
molestar anco l'oste che si ritraea. Lenti e minacciosi ritraeansi i
Palermitani, come quelli che sapean difendere patria e libertà; sì che
fecero far al vincitore una sessantina di miglia in quattordici giorni;
e al decimoquinto, che fu l'otto settembre, gli presentaron la terza
battaglia. Pugnarono dieci ore continue dall'alba a vespro, in una delle
due valli, credo io, che sboccano nell'agro palermitano a dritta e a
sinistra di Baida.[144] Alfine menomati, rifiniti, sopraffatti,
sbaragliaronsi fuggendo verso la città vecchia: gli Affricani da vespro
a sera ferono orribil macello di loro; occuparono i sobborghi;
saccheggiaronli,[145] a spreto della legge che vietava di por mano nella
roba e nel sangue dei ribelli musulmani. Con tuttociò non si fa ricordo
di enormezze come quelle di Tunisi, dalle quali rifuggia l'animo alto e
gentile di Abd-Allah. Gli increbbe anco della battaglia, se ci
apponghiamo al sentimento di tre versi, che improvvisò in Sicilia, forse
quel dì stesso; nei quali, disgustato delle stragi, incendii e
distruzioni, quel prode, sospirando, pensava a qualche giorno
tranquillo, vivuto nei giardini di Rakkâda, in mezzo alle sue donne e
figliuoli.[146]
Palermo ingrossando di quartieri suburbani, stendeasi in questo tempo
dalla parte di scirocco infino alla sponda dell'Oreto; da ponente ne
saliva una catena di abituri per due miglia e più infino al villaggio di
Baida, ossia alle falde dei monti: sobborghi sì importanti che
racchiudeano da dugento moschee e però vi si debbon supporre a un di
presso due quinti di tutta la popolazione palermitana.[147] Su quel
vasto aggregato di ville da diletto ed umili case della gente
industriale, torreggiava la città antica, afforzata di bastioni e di
lagune, il Cassaro come l'appellarono gli Arabi, spaziosa cittadella di
figura ovale che tenea quasi il mezzo dell'odierna città.[148] Occupati
i sobborghi dal nemico, i cittadini si difesero nel Cassaro per dieci
giorni e stipularono un accordo; onde furono schiuse le porte ad
Abd-Allah, il diciotto settembre. Per patto, o innanzi che si fermasse,
grandissimo numero di cittadini con lor donne e figliuoli andavano a
rifuggirsi in Taormina; Rakamûweih e i più intinti nella rivoluzione
facean vela chi per Costantinopoli, chi per altri paesi di Cristianità,
ove mai non potesse arrivare il braccio d'Ibrahim. Dopo lo sgombro,
rimase pure uno stuolo di ottimati sospetti che Abd-Allah inviava al
padre in Affrica; forse di quelli cui non v'era pretesto ad uccidere,
poichè le croniche non parlan di supplizio loro. Così riluce per ogni
verso la umanità del vincitore.[149]
Sì lunghe discordie non poteano ignorarsi dai Cristiani. Que' di Val
Demone le aveano usato nella tregua dell'ottocento novantacinque, nella
quale sembra entrato, allora o poi, lo stratego di Calabria; atteso che
Giovanni Diacono di Napoli dice provocata da cotesto accordo la guerra
di Abd-Allah in quella provincia.[150] Nel medesimo tempo Sant'Elia da
Castrogiovanni, ancorchè ottuagenario e infermo, si apprestava a
ripassare in Sicilia, lusingato, forse richiesto, dall'imperatore Leone
il Sapiente: Elia da Castrogiovanni, stato ausiliare di Basilio Macedone
nel tentato racquisto dell'isola venti anni innanzi; e il vedremo tra
non guari incoraggiare, a modo suo, all'estrema difesa il popolo di
Taormina.[151] Vedrem anco novelli sforzi dei Bizantini: un patrizio e
un presidio mandati a Taormina; grand'oste adunata a Reggio; armata
venuta di Costantinopoli a Messina. I quali fatti mostrano ad evidenza
che l'impero fe' disegno nelle guerre civili dei Musulmani e nel bisogno
che avea di lui la colonia ribelle. Dopo la occupazione di Palermo,
l'impero armò un poco; suscitò al riscatto le popolazioni cristiane
dell'isola, alla guerra quelle di Calabria; trascinato egli stesso dai
Musulmani rifuggiti a Taormina, a Costantinopoli e in Calabria, i quali
speravano gran cose al certo e molte più ne diceano.
Abd-Allah, sapesse o no coteste pratiche, dovea combattere la guerra
sacra, per dare sfogo agli agitati animi dei Musulmani di Sicilia, per
soddisfare a sè stesso, alla opinione pubblica, al padre. Non tardò
dunque a uscir di Palermo; cavalcò il contado di Taormina; svelse le
vigne; molestò il presidio con avvisaglie; e come l'inverno
s'innoltrava, sperando ridurre più agevolmente Catania, città in
pianura, la assediò; ma indarno. Perlochè, tornato in Palermo a
svernare, apparecchiò più poderosi armamenti, e, abbonacciata la
stagione, fe' salpare il navilio a' venticinque marzo del novecento uno.
Egli con l'esercito andò a porre il campo a Demona; piantò i mangani
contro le mura; le battè per diciassette giorni; ma risaputo d'un grande
sforzo di genti che i Bizantini adunavano in Calabria, lasciò stare il
presidio di Demona buono a difendersi e non ad offendere; e volò con
l'esercito a Messina. Par che l'armata vi fosse ita innanzi, e che la
città si fosse di queto sottomessa. Abd-Allah passava immantinenti lo
stretto. Trovata l'oste sotto le mura di Reggio, un'accozzaglia dei
presidii bizantini dell'Italia meridionale e di Calabresi che li
abborrivano, i Musulmani la sbaragliaron col solo terrore, dice Giovanni
Diacono. Mentre i fuggenti correano da ogni banda per la campagna,
Abd-Allah irruppe senza ostacolo in città il dieci giugno. Le feroci
genti sue cominciarono una strage indistinta: poi l'avarizia consigliò
di far prigioni; che ne ragunarono diciassettemila, tra i quali fu
tratto in carcere, come scrive Giovanni, il venerando vescovo dal crin
bianco e dalla faccia colorita, spirante dolcezza. Immenso il cumulo
della preda: oro, argento, suppellettili; rigorosamente custodito dai
vincitori, continua il medesimo autore, e ben si riscontra con la legge
musulmana che vieta di scompartire il bottino in territorio nemico. Vi
si aggiunsero i tributi e presenti delle città vicine, le quali si
affrettavano a mandare oratori chiedendo l'amân; poichè Abd-Allah avea
dato voce di volere stanziare a Reggio. Ma improvvisamente ei ripassa lo
stretto, sapendo arrivata da Costantinopoli a Messina un armata greca; e
la coglie nel porto; le prende trenta legni; fa diroccar le mura della
città, per gastigo o cautela. Intanto traghettavano continuamente da
Reggio a Messina le navi da carico, zeppe di roba e schiavi. Abd-Allah
condusse di nuovo l'armata su le costiere di Terraferma; combattè altri
nemici, forse gente dei duchi Franchi di Spoleto e Camerino, condotti ai
soldi dell'imperatore di Costantinopoli. In questa impresa il principe
aghlabita occupò, il venti luglio, una città di cui non ben si legge il
nome, forse Nardò;[152] e si ridusse alfine con tutte le genti in
Palermo, donde mandò nunzii al padre col racconto delle vittorie e il
meglio del bottino. Fino alla primavera del novecentodue, quando andò a
trovarlo ei medesimo in Affrica, Abd-Allah soggiornò nella capitale
della Sicilia, reggendo i popoli con giustizia e bontà.[153]
Corse fama in Italia che Ibrahim, intendendo dai messaggi del figliuolo
la impresa di Reggio, prorompesse in rampogne: “Non esser suo sangue,
no, tener dalla madre, questo svenevole che s'impietosiva dei Cristiani
e tornava addietro, principiate appena le vittorie! Se ne venisse dunque
a poltrire in Affrica, chè egli, Ibrahim-ibn-Ahmed, andrebbe a mostrare
ai nemici di Dio e degli uomini il valor vero della schiatta d'Aghlab.”
A queste parole d'ira s'aggiugneano romori contraddittorii: che
Abd-Allah segretamente sopraccorresse a corte per falso avviso della
morte del padre; che Ibrahim vistoselo accanto, in luogo di incrudelire,
gli rinunziasse il regno e ponessegli al dito il proprio anello.[154]
Così tra le fole si risapea la verità. Al dir d'una cronica araba, la
verità era che richiamatisi i Musulmani di Tunis appo il califo
abbassida Mo'tadhed-Billah delle enormezze che aveano a sopportare, e
mostratogli che certe schiave che Ibrahim gli avea mandato in dono,
fosser le mogli e figliuole loro, Mo'tadhed inorridito si risovveniva
d'essere pontefice e imperatore. Facea dunque sentire in Affrica, la
prima volta da un secolo, i voleri del successor del Profeta.
Significavali per un messaggiero; al quale Ibrahim volle farsi incontro
in attestato di riverenza, contenendo i superbi movimenti dell'animo,
con sì duro sforzo, ch'ei ne fu colpito di malattia biliosa, e costretto
a sostare alla _sibkha_, o vogliam dire stagno salmastro di Tunis.
Abboccatosi quivi segretamente con l'ambasciatore, promesse di ubbidire
al califo; il quale per bocca di costui, senza comando scritto, gli
ingiugnea di risegnare il governo al figliuolo Abd-Allah e
rappresentarsi in persona a Bagdad.[155] Tanta modestia civile d'Ibrahim
si comprenderà meglio, considerando ch'ei già sentiva crollare il trono
aghlabita. Una sètta politica, delle tante che ne covavano sotto la
teocrazia musulmana, s'era appresa alla forte tribù berbera di Kotâma; e
scoppiava già in aperta ribellione, minacciando al paro il principato
d'Affrica e il califato. In Affrica, Arabi e Berberi, ortodossi e
scismatici, nobiltà menomata dai supplizii e plebe spolpata sotto
pretesto di farle giustizia contro i nobili, a una voce tutti maledivan
l'Empio, come il chiamarono per antonomasia.[156] Minacciavalo di più,
dall'Egitto, la dinastia dei Beni-Tolûn, potentissimi di ricchezze e
d'ardire, imparentati col califo, usurpatori che per far più guadagno
s'offrian sostegni alla legittimità. Sovrastandogli dunque novella
guerra civile, complicatissima, spaventevole, senza speranze di uscirne
vincitore, ei riformò il governo e abdicò, fingendo d'ubbidire al
califo. Notevole è che un altro cronista, copiato o abbreviato nel
_Baiân_, senza far parola del messaggio di Mo'tadhed, attribuisce a
dirittura le riforme d'Ibrahim ai movimenti della tribù di Kotâma, e
dice che allora ei volle farsi grato all'universale, e riguadagnare gli
animi degli antichi partigiani di casa d'Aghlab.[157]
Pose il nome d'anno della giustizia al dugentottantanove dell'egira (16
dicembre 901 a 4 dicembre 902) che incominciava tra quelle vicende;
abolì le gabelle; disdisse le novazioni nel modo di riscuotere le
decime;[158] rimesse agli agricoltori un anno di tributo fondiario;
liberò i prigioni di stato; manomesse i proprii schiavi; cavò dalli
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