Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II - 01


STORIA DEI MUSULMANI DI SICILIA.

Proprietà letteraria.


STORIA DEI
MUSULMANI DI SICILIA

SCRITTA
DA MICHELE AMARI.

VOLUME SECONDO.

FIRENZE.
FELICE LE MONNIER.
1858.


LIBRO TERZO.


CAPITOLO I.

Al contrario della stanca società bizantina che sgombrava di Sicilia, la
musulmana che le sottentrò, portava in seno elementi di attività,
progresso e discordia. Nel primo Libro, toccammo gli ordini generali dei
Musulmani, e come si assettarono in Affrica. Or occorre divisare più
distintamente alquanti capitoli di lor dritto pubblico, e l'applicazione
che sortirono appo la colonia siciliana.
Farem principio dal reggimento politico. Il dispotismo che prevalse con
la dinastia omeîade, e si aggravò con l'abbassida, non era bastato ad
opprimere le due aristocrazie, gentilizia e religiosa, tanto che non
prendessero parte, secondo lor potere, alla cosa pubblica. Fecerlo in
due modi; cioè con la interpretazione dottrinale della legge, e con lo
smembramento dello impero: a che si è accennato, trattando
dell'Affrica.[1] Secondo le teorie distillate per man dei dottori,[2]
dagli eterogenei elementi della legge musulmana, lo impero, era ormai,
in dritto e in fatto, debole federazione di Stati, impropriamente
chiamati province. Troviamo in Mawerdi, egregio pubblicista del decimo
secolo, doversi tenere lo emir di provincia come delegato della
repubblica musulmana, non del califo.[3] Ei veramente esercitava tutta
l'autorità sovrana, fuorchè la interpretazione decisiva dei dommi.[4]
Allo emir di provincia era dato:
Ordinare lo esercito, distribuire le forze nei luoghi opportuni, e
fissare gli stipendii militari, quando non lo avesse già fatto il
califo;
Vegliare all'amministrazione della giustizia ed eleggere i _câdi_ e gli
_hâkem_, magistrati simili al câdi nelle città minori;
Riscuotere tutte le entrate pubbliche, pagar chi di dritto su quelle, ed
eleggerne gli amministratori;
Difendere la religione e la società;
Applicare le pene ad alcuni misfatti, nei limiti che appresso si
descriveranno;
Presedere alle preghiere pubbliche, in persona o per delegati;
Avviare e sovvenire i pellegrini della Mecca;
E, se la provincia stesse in su i confini, far la guerra ai vicini
infedeli, scompartire il bottino ai combattenti e serbarne la quinta a
chi appartenesse.[5]
Il popolo, dunque, di una parte del territorio musulmano costituita in
provincia e governata da un emiro, non riconosceva il califo nè come
legislatore nè com'esecutor della legge; non vedeva altra autorità che
dello emiro; e costui, alla sua volta, non era tenuto ubbidire che alla
legge ed alla propria coscienza; nè dovea rispettare il fatto del
principe, fuorchè nel caso degli stipendii militari già determinati da
esso. Il principe eleggeva e rimovea d'oficio l'emiro, come il câdi,
senza poter dettare all'uno i provvedimenti, nè all'altro i giudizii;
talchè tutta la amministrazione civile, militare, ecclesiastica e
giudiziale si conducea come in oggi quella sola della giustizia negli
Stati di Europa che abbiano magistrati amovibili ad arbitrio. Bene o
male, era conseguenza logica della teocrazia. Se avvenia che il califo
sforzasse lo emiro ad alcun provvedimento con minaccia di deposizione,
ciò non costituiva norma d'ordine pubblico; era abuso di chi comandava e
viltà di chi obbediva. Similmente il califo celava, quasi fosse colpa,
la vigilanza sua sopra lo emiro, affidandola al direttor della posta.[6]
Alla effettiva autorità rispondeano le apparenze, e in particolare la
cerimonia della inaugurazione, nella quale si prestava giuramento
all'emiro non altrimenti che al califo.[7] La moneta, nei primi due
secoli dell'islamismo, si coniava spesso col solo nome dell'emiro, per
esempio di Heggiâg-ibn-Iûsuf in Irak, di Mûsa-ibn-Noseir in Affrica e
Spagna, e di Ibrahim-ibn-Aghlab in Affrica.[8] Sì larga essendo la
potestà legale del governator di provincia e impossibile di tarparla nei
paesi lontani dalla metropoli, e stanziando in quelli la nobiltà armata,
ognun vede con che agevolezza le province si poteano spiccar
dall'impero, sol che le milizie parteggiassero per l'emiro; nel qual
caso tornava inefficace la sola ragione lasciata al califo, cioè dargli
lo scambio. Così nacquero le dinastie dei Taheriti in Persia, degli
Aghlabiti in Affrica, dei Tolûnidi in Egitto e non poche altre. Cotesti
novelli principi alla lor volta, se mandavano emiri nelle province
conquistate, si trovavano rispetto a quelli nelle medesime condizioni e
peggiori, che i califi verso di loro; non avendo la dignità del
pontificato, nè distinguendosi pur nel titolo dai governatori delle
proprie colonie.
Le esposte norme di dritto pubblico si osservarono in Sicilia, infino ai
tempi del tiranno Ibrahim-ibn-Ahmed, e se alcuno le trasgredì, furono i
coloni più tosto che il principe. Gli emiri dell'isola facean da sè paci
e accordi e scompartivano il bottino, a quanto si può spigolare tra gli
aridi annali musulmani; nè si trovan vestigie di comando esercitato in
Sicilia dai principi d'Affrica. Il titolo dell'oficio or si legge
_emîr_, or _wâli_, e, nei primordii della colonia, _sâheb_; la qual voce
par che denotasse il fatto d'una insolita autorità, e quasi
independente, come dicemmo nel secondo Libro.[9] Men precisi indizii
troviamo nelle monete. Tra le poche che ce ne avanzano degli Aghlabiti,
due di argento portano il nome dello emiro siciliano insieme e del
principe aghlabita, date di Sicilia il dugentoquattordici e il
dugentoventi. Poi ne occorre una anche d'argento, del dugento trenta,
ove leggonsi i simboli religiosi, il motto di casa d'Aghlab e la data di
Palermo, senza nome nè dell'emiro nè del principe. In ultimo, un
quarteruolo d'oro del dugentotrentatrè senza il nome della Sicilia nè
del principe, ha ben quel dello emiro con la formola religiosa e il
motto aghlabita. Di lì alla fine della dinastia, qualche moneta che si
crede siciliana dalla fattura, senza che vi si legga Sicilia nè Palermo,
offre il sol nome del principe Affricano.[10] Da ciò si può conchiudere
di certo che i primi emiri coniassero moneta; ma non che i successori
non ne coniassero. D'altronde lo esercizio di tal dritto, che sarebbe
assai significativo trattandosi di reami cristiani, poco monta negli
Stati musulmani dei primi cinque secoli dell'egira, quando i califi
lasciavan correre nelle monete, come dicemmo, il nome degli emiri di
provincia; e i veri principi che sottentrarono ai califi ne lasciaron
correre il nome; sì che passò in proverbio “è rimasa al tale la _Khotba_
e la zecca” per significare un titolo senza potestà.[11]
Oltre la piena autorità esercitata dagli emiri di Sicilia, è da notar
che sovente i coloni non aspettaron licenza dall'Affrica per rifar
l'emiro, quando fosse venuto a morte, e sovente anco scacciarono gli
eletti o confermati dal principe;[12] appunto com'era avvenuto in Spagna
avanti il califato di Cordova, e in Affrica avanti gli Aghlabiti. A così
fatta usurpazione li spingea l'assioma che lo emiro rappresentasse non
il principe, ma il popolo musulmano; e altresì la dubbia sovranità degli
Aghlabiti, e la consuetudine allo esercizio di un dritto anteriore
all'islamismo e non abrogato: cioè che tutta associazione di Arabi,
grande o picciola, tribù o circolo, sempre scegliesse il proprio capo.
Le altre parti del civile ordinamento non occorre descrivere
minutamente; sendo notissime, nè molto diverse da paese a paese. Con
l'emiro pochi magistrati eran preposti alla esecuzione della legge.
Cominciando dall'amministrazione della giustizia, si vedrà questa
intralciata e sovente arbitraria. Decidea sempre un sol giudice;
prendendo avviso legale da' _muftî_, assessori come noi diremmo. V'era
un sol grado di giurisdizione; e quattro maniere di giudici con mal
definita competenza. Primo giudice criminale il principe o l'emiro,[13]
che poteva applicar le pene scritte testualmente nel Corano e non altre;
ma al contrario, nella istruzione del processo, gli era lecito lo
arbitrio che si negava al câdi. Nei misfatti di dritto divino[14]
l'emiro decideva o delegava la causa; quei di dritto umano[15] eran
conosciuti da lui o dal câdi, a chi si rivolgessero gli offesi.[16]
L'emiro poteva alzar poi un tribunale straordinario chiamato dei
_mezâlim_ o diremmo noi de' soprusi, ov'ei sedea coi câdi, hâkim,
giuristi, segretarii, testimonii e guardie; e sì decidea, con procedura
eccezionale, su i richiami per casi qualunque, criminali, amministrativi
e anche civili, quando la potenza dell'accusato avesse tolto all'offeso
d'ottenere giustizia ne' modi soliti.[17] Independente dallo emiro, il
câdi nelle città maggiori e lo hâkim nelle altre, esercitava quella
tutela delle persone incapaci e opere pie che appo noi va attribuita al
pubblico ministero; e inoltre giudicava tutte cause civili e le
criminali che richiedessero interpretazione di legge o fossero delegate
dall'emiro; fuorchè le cause civili e criminali di minor momento, alle
quali era preposto il _mohtesib_.[18] I parenti del profeta aveano
magistrato speciale.[19] Infine il _mohtesib_ esercitava la
giurisdizione meramente esecutiva nelle cose civili, e nelle criminali
quella che potremmo chiamare correzionale, se esattamente rispondesse
alla definizione dei nostri codici; e al medesimo tempo era oficiale di
polizia urbana ed ecclesiastica; vegliava ai mercati; alla giustezza dei
pesi e delle misure; allo esercizio delle arti liberali o arti
meccaniche o commercii, sì che non nocessero ai cittadini.[20]
Dopo ciò, poco rimane a dire dell'amministrazione civile: della quale
dapprima ebbe carico il mohtesib; ma l'oficio in alcuni Stati fu diviso,
con diversi nomi; e rimase quel di _mohtesib_ al preposto dei
mercati.[21] La sicurezza pubblica, o sicurezza del despotismo, fu
affidata, nelle capitali, a un prefetto chiamato per lo più
_sâheb-es-sciorta_,[22] del quale v'ha ricordo negli annali della
Sicilia musulmana;[23] e il nome rimase per lo meno infino al
decimoterzo secolo, quando i capitoli del Regno di Sicilia chiamano
_Surta_ le pattuglie di polizia.[24] Il _mohtesib_, o come che si
addimandasse, partecipava alle cure edilizie insieme col magistrato
municipale propriamente detto, com'oggi l'intendiamo.
Scarsi quanto siano i ricordi che ci avanzan di cotesta parte di civile
reggimento negli Stati musulmani del medio evo, pur non cade in dubbio
la esistenza dei corpi municipali. Generalmente si appellavano _gemâ'_,
che suona adunanza; come sappiamo del Kairewân sotto gli Aghlabiti;[25]
di tutte le città d'Affrica nei primordii della dinastia fatemita[26];
del califato abbassida nel decimo secolo,[27] e fino ai nostri giorni
delle cittadi e tribù dell'Affrica settentrionale.[28] Questo ordine,
non istituito da legge scritta, era appunto novella forma del gran
consiglio di tribù e di circolo, di che parlammo nelle istituzioni
aborigene degli Arabi: e in vero non si potrebbe comprendere che i
nomadi, fatti cittadini, avessero disusato quell'ordinamento, quando il
novello lor modo di vivere lo rendea sì necessario, se non per trattare
le cose politiche, certo per provvedere, con mezzi e volontà comuni, ai
bisogni particolari della città. La _gemâ'_ nelle popolazioni arabiche
par sia stata composta dei capi di famiglie nobili, dei dotti, facoltosi
e capi delle corporazioni di arti, le quali assimilavansi a famiglie e
costituivano società di assicurazione reciproca nei casi penali: perciò
questo corpo municipale somigliava in parte alla curia romana.[29] Non
sappiamo se la _sciûra_, di che si fa menzione negli annali della Spagna
musulmana,[30] sia la _gemâ'_ sotto altro nome, ovvero una deputazione
della _gemâ'_, un comitato esecutivo, diremmo oggi, il quale nei tempi
ordinarii amministrasse i negozii del municipio deliberati dalla
_gemâ'_; ma certo è che nei tempi torbidi reggeva le faccende politiche.
Nei tempi ordinarii la _gemâ'_ era richiesta, in difetto dell'erario, di
provvedere, per contribuzioni volontarie di danaro o d'opera, alla
costruzione o restaurazione degli acquedotti, delle mura, delle moschee
cattedrali e al sovvenimento dei viandanti poveri. La richiedeva il
_mohtesib_; poteva obbligarla il solo principe, e nel sol caso che la
città fosse piazza di confini, onde, cadute le mura o dispersa la
popolazione, ne sarebbe tornato pericolo a tutto il reame. La
obbligazione, sempre era collettiva, non individuale: dal che ognun vede
essere stata la _gemâ'_ corpo morale, e vero municipio. Alla
ristorazione delle moschee minori provvedeano quei circoli o quartieri
che le possedessero; e trascurandosi da loro cotesto dovere, il
_mohtesib_ era tenuto a farne memoria.[31] Ciò conferma il fatto che
oltre il magistrato municipale della città ve n'era altri di quartiere o
contrada;[32] istituzione necessaria nelle città musulmane, le quali, al
par che le nostre del medio evo, eran divise in quartieri, abitati per
lo più da nazioni o arti diverse.
Cotesti ordini dall'Affrica passarono senza dubbio nella colonia
siciliana; onde v'ha memoria della gemâ' di Palermo, costituita come le
altre a modo aristocratico; e pronta a trapassare alla usurpazione
dell'autorità politica.[33] La riputazione dei giuristi che notai
trattando dell'Affrica, va supposta necessariamente in Palermo, ove
fiorirono nei principii del decimo secolo gli studii di dritto, secondo
la scuola di Malek.[34] Contuttociò non apparisce in Sicilia l'umor di
parti di cittadini e nobiltà militare, ond'erasi agitata l'Affrica nei
principii del nono secolo. La concordia durava per esser fresco il
conquisto; e perchè nobili e cittadini di schiatte orientali stanziavano
la più parte in Palermo, uniti da interessi comuni, dalla gelosia contro
il governo d'Affrica, e dalla brama di sopraffare i Berberi lor compagni
nell'isola.
Pria di passare all'azienda son da esaminare i due ordinamenti economici
della colonia dai quali dipendea principalmente la entrata e la spesa
pubblica; cioè, il primo, la costituzione della proprietà territoriale;
il secondo, i ruoli militari. Molto si è disputato tra i dotti europei
sul dritto di proprietà nei paesi musulmani; e manca nondimeno una
verace e nitida esposizione di tal materia; ond'è forza ch'io mi provi
ad abbozzarla. Premetto essere erronea la generalità, che si è troppo
ripetuta e renderebbe superfluo ogni esame; cioè che tutti i terreni
appartengano in proprietà a Dio, e per lui al pontefice principe.[35]
Gli eruditi che trovarono tal paradosso, tolsero in iscambio di
dichiarazione di dritto le frasi poetiche o teologiche, come voglia
dirsi, frequentissime nel Corano: che Iddio è padrone del Cielo e della
Terra, padrone dei Mondi, e via discorrendo. Al certo i Musulmani,
ammesso un creatore, lo doveano tener signore di sue proprie fatture; ma
pensavano ch'egli avesse lasciato il terreno, non altrimenti che
l'acqua, l'aria, il fuoco, la luce, a utilità universale delle creature;
non donatolo in particolare a Maometto, e molto manco ai pontefici che
gli dovean succedere.
Tanto egli è vero non aver mai il Profeta presunto sì strano dritto,
che, secondo una tradizione sua, l'erba, unico prodotto del suolo nella
maggior parte dell'Arabia, si tenne sì come l'acqua e il fuoco proprietà
comune di tutti gli uomini.[36] Tali anco furono risguardati certi
minerali agevoli a raccogliere, come sale, antimonio, nafta,
antracite.[37]
Dal dritto nomade volgendoci a quello delle popolazioni stanziali, è
manifesto che il Corano e la Sunna riconoscano la piena proprietà delle
terre coltivate, al medesimo titolo che la proprietà mobile. L'una e
l'altra maniera di facoltà va soggetta ad unica tassa: dieci per cento
su i prodotti del suolo, e due e mezzo su la quantità degli armenti,
moneta e altri beni mobili; la quale gravezza, ragionandosi nel primo
caso su la rendita e nel secondo sul capitale, viene a ragguaglio, o
torna più lieve su le terre che su gli altri capitali.[38] Maometto,
imitando così le decime giudaiche, ne mutò lo investimento; e con
sublime idea chiamò questa tassa _sedekât_ o vogliam dire offerte di
schietto animo, e _zekât_[39] che suona purificazione: purificazione,
dir volle, della colpa che ha il ricco lasciando morir di fame i poveri
e mancar le entrate allo Stato. In vero tassa di poveri è questa, non
men che pubblica contribuzione; andando tripartita per legge tra lo
erario, i parenti del Profeta e i bisognosi, fossero orfanelli,
viandanti, o altri.[40] Le proprietà esistenti, rispettate così dallo
islamismo, si trasmetteano, al par che i beni mobili, per vendita,
donazione o successione.
Quanto ai nuovi acquisti, Maometto non parlò che del legittimo per
eccellenza: dichiarò che chiunque renda alla vita una terra morta, così
esprimeva il dissodare un suolo inculto o fabbricarvi sopra, ne divenga
padrone assoluto; sì che nè il principe nè altri possa togliergli il
podere, finch'ei lo coltivi.[41] Nei tempi appresso restaron dubbii,
secondo le varie scuole, i limiti che potesse porre il principe a tal
dritto di primo occupante; ma la sostanza del dritto non fu mai
disputata; anzi si accordò la terra intorno il pozzo, a chi primo lo
avesse scavato in terren deserto.[42]
Su le proprietà stabili rapite ai vinti, Maometto non fece provvedimento
generale, perchè rado occorse ai tempi suoi; nè parlarne troppo ei
potea, proponendosi di conciliare e amalgamare la nazione. Cominciati i
conquisti fuori d'Arabia, Omar applicò al caso qualche esempio del
Profeta, e l'ordine posto dal Corano al partaggio della preda; onde
quattro quinte andavano divise ai combattenti e una quinta serbata a
utilità pubblica, e sussidii a varie classi di persone.[43] Per tal modo
furon divise alcune terre ai combattenti.[44] Ma, in quell'età eroica,
gli Arabi si tediavan di così fatta ricchezza. Tra il genio di correre a
cavallo, combattendo, rubando e gridando _Akbar-Allah_; e tra
abnegazione e ignoranza, alcuni _giund_ rinunziarono alla repubblica la
parte loro dei terreni; talchè, nella fertile provincia del Sewâd, Omar
poneva in demanio tutti i poderi della dinastia regia di Persia, e dei
privati che fossero morti o fuggiti.[45] Tal nuova usanza invalse in
appresso; anche non volendolo le milizie, nell'animo delle quali i
sentimenti poetici sempre più calavano alla prosa. Come i combattenti,
oltre la quota del bottino, godeano stipendio su le entrate pubbliche; e
come i conquisti erano da attribuirsi alla potenza comune dei Musulmani,
anzi che alle armi di tale o tal altro esercito, così parve giusto, che
i frutti perenni della vittoria si godessero dallo Stato: e indi più di
raro si effettuò il partaggio dei quattro quinti delle terre.[46]
A ciò condusse anco il fatto che i paesi non si pigliavano quasi mai con
la spada alla mano; ma per dedizione degli abitatori, assoluta o a
patti: avvenendo che, dopo alcuna vittoria, intere province si
sottomettessero nell'uno o nell'altro modo; ovvero che gli abitatori si
facessero musulmani prima dell'occupazione. Or, a mente del Corano, il
principe disponeva ad arbitrio suo delle persone e roba degli Infedeli
arresi a discrezione;[47] in caso di accordo i patti eran legge; e in
caso di conversione le terre, secondo alcuni giuristi, rimaneano in
libera proprietà ai possessori attuali; secondo altri, il principe
scegliea tra questo partito e il sottometterle a tributo.[48] I
principi, ad esempio di Omar, provvidero o stipolarono in tre diversi
modi, intorno la proprietà territoriale degli Infedeli vinti. I demanii
del governo scacciato e i poderi caduti nel fisco per morte, schiavitù o
fuga dei possessori, divennero proprietà perpetua e inalienabile della
repubblica musulmana; e teneansi in economia, o si davano in enfiteusi,
per annua rendita, _kharâg_, come dissero vagamente gli Arabi, cioè quel
ch'esce, quel che si cava dal podere.[49] Le altre terre lasciaronsi ai
possessori infedeli, dove in piena proprietà, e però con dritto di
alienare, ipotecare e disporre per testamento; e dove in dominio utile,
ammettendo soltanto, com'e' pare, le successioni; in ambo i casi a
condizione di pagare un tributo, che fu detto similmente _kharâg_.
Questo, su le terre di piena proprietà, tornava a tassa fondiaria, e
cessava per conversione del possessore, o passaggio del podere in man di
Musulmani; e su le terre di dominio utile era una maniera di censo, e
durava in perpetuo.[50] La legge riconoscea, dunque: proprietà libera di
Musulmani per possesso anteriore alla conversione, per dissodamento o
fabbrica, e per partaggio al conquisto; proprietà piena di Infedeli,
soggetta a _kharâg_ eventuale; proprietà vincolata di Musulmani e
Infedeli, soggetta a _kharâg_ perpetuo; e finalmente enfiteusi di fondi
demaniali. Altra origine di possessione territoriale non v'era. Il
principe potea scompartire ai combattenti e abilitare chiunque al
dissodamento; non mai concedere terreni gratuitamente; non essendo suoi
proprii, ma della repubblica o dello esercito vincitore.[51]
Questo fu il dritto generale infino al decimo secolo dell'era cristiana.
Nel fatto, erano già nati parecchi abusi in questa e quell'altra
provincia: e dove si vedeano proprietà demaniali usurpate da
privati,[52] dove, al contrario, par che i governi si sforzassero a
confondere il _kharâg_ eventuale e il perpetuo; e ad aggravare, come se
fossero demaniali, i poderi tributarii della prima o seconda delle
classi dette di sopra: e non è dubbio che gli abusi crebbero col tempo;
sopra tutto dall'undecimo secolo in poi, quando la schiatta turca dominò
successivamente la più parte degli Stati musulmani, e vi istituì veri
beneficii militari. Dopo dodici secoli, il viluppo cagionato da coteste
vicende nella ragione delle proprietà, è stato assai difficile a
penetrare; e si è corso rischio di scambiare il dritto con lo abuso, la
eccezione con la regola, la ragion d'un paese con la ragione d'un altro:
tanto più che la voce _kharâg_ ha i varii significati che accennammo, e
inoltre quello di censo dell'acqua dei canali mantenuti dallo Stato, con
che si inaffiassero terre decimali, ossia di libera proprietà
musulmana.[53] E indi è che i trattati usciti fin qui su tal materia,
lasciano tanto a desiderare.[54] Quanto a noi, ci basta saper le teorie
ammesse da Mawerdi, un secolo e poco più, dopo il conquisto di Sicilia:
e avremo compiuto il nostro debito dimostrandone coi fatti la
osservanza, se non nella colonia siciliana, almeno in tempi vicini e
paesi analoghi.
Nella quale investigazione occorre che al primo ordinamento della
colonia d'Affrica (698) furono assoggettati al _kharâg_ i Berberi non
musulmani e gli abitatori cristiani di sangue fenicio, pelasgico o
germanico,[55] e ne andarono esenti i Berberi musulmani; i quali
sostennero tal franchigia con le armi (720 a 740), contro governatori
troppo fiscali.[56] Da un'altra mano sappiamo che il governo dei califi,
dando sesto alla Spagna nei principii del conquisto (720), divise parte
delle terre ai soldati; parte ne serbò in demanio; e parte lascionne
agli antichi abitatori, sotto tributo:[57] nè è verosimile, anzi non è
possibile, che siasi fatto altrimenti nell'Affrica propria, ond'eran
mossi i conquistatori della Spagna, ed ove la colonia arabica tollerava
sì poco il comando, non che i soprusi, dei califi. Ci accusa libera
proprietà in Affrica il fatto che Ibrahim-ibn-Aghlab, emiro, comperava
dai Beni-Tâlût (801) il terreno per fabbricare la cittadella
d'Abbâsîa.[58] Dei poderi soggetti al _kharâg_ non è mestieri allegar
prove. Dei poderi demaniali, _dhiâ_, come chiamavanli, si fa menzione
più volte negli annali d'Affrica.[59]
Ove si considerino i modi e il lungo spazio di tempo in che i Musulmani
compieano il conquisto della Sicilia, non si metterà in forse che
nascesservi tutte le maniere di proprietà discorse di sopra. Superfluo
sarebbe a dire dei beni demaniali,[60] e di quei rimasi ai
Cristiani.[61] Quanto alle possessioni dei Musulmani, poichè se ne
conoscon tante dopo il conquisto normanno,[62] non è mestieri, provare
che esistessero innanzi; ma sì indagare se al tempo della dominazione
musulmana ne fossero state delle decimali e delle tributarie; cioè
proprietà libere o vincolate. Su di ciò non troviamo attestati positivi.
Ma è verosimile, che non mancassero le terre decimali, acquistate sia
per dissodamento, sia per partaggio. Le prime debbon supporsi rade e di
poca estensione. Il partaggio fu al certo di maggiore importanza.
Quantunque in Affrica fosse cominciata a seguirsi nel nono secolo la
scuola di Malek, la quale attribuisce allo Stato le terre prese per
forza d'armi,[63] pur non erano obbligatorie così fatte teorie, nè la
scuola era riconosciuta da tutti i giuristi; e inoltre i principi
aghlabiti, infino ad Ibrahim-ibn-Ahmed, poca o niuna autorità
esercitarono su le milizie di Sicilia, le quali certamente amavano
meglio il partaggio. Indi è da conchiudere che gli emiri pigliassero in
demanio quando poteano, e, quando no, scompartissero i quattro quinti
delle terre. Così credo si praticò alla resa di Palermo; il cui
territorio, e forse di gran parte della provincia, fu tolto ai naturali,
per esser tutti o fuggiti o fatti schiavi.[64] E veramente a partaggio
accennano le discordie che immediatamente seguirono, composte a mala
pena dagli Aghlabiti.[65] La resa a discrezione o presura per forza
d'armi, si rinnovò poscia in varii luoghi, onde dovea portare il
medesimo effetto. Le possessioni decimali poteano anco nascer da quelle
lasciate per avventura in piena proprietà a Cristiani i cui figliuoli
avessero professato poi l'islamismo; chè moltissimi il fecero nel nono
secolo in Val di Mazara, e nel seguente in Val di Noto e parte del Val
Demone. Nondimeno, com'è incerta la stipolazione della piena proprietà,
e come l'interesse del governo e degli antichi Musulmani si opponeva a
lasciar godere la franchigia ai novelli convertiti, così non sapremmo
supporre frequente un tal caso. Un cenno che ne danno le cronache nei
principii dell'undecimo secolo, e che si riferirà a suo luogo, ne fa
certi che i Musulmani dettivi Siciliani, fossero progenie degli antichi
abitatori, ma non che il _kharâg_ posto sopra di loro lo fosse stato
allora per la prima volta: e però questo fatto non può dare argomento
dell'indole della proprietà, se libera o vincolata.[66]
In ogni modo il conquisto musulmano cagionò profondo rivolgimento nella
costituzione e distribuzione della proprietà territoriale in Sicilia. I
poderi dei Musulmani, originati da dissodamento o partaggio, doveano
esser molti e non vasti; e a suddividerli conducea la legge delle
successioni, la quale permette i legati infino a un terzo dell'asse
ereditario, accorda parti uguali ai figli e metà di parti alle
figliuole, e chiama all'eredità gli ascendenti, anche sendovi
discendenti, e in mancanza degli uni e degli altri ammette i
collaterali.[67] Spicciolavansi altresì le terre del demanio, affittate
o censite per compartimenti.[68] Conferman la suddivisione della
proprietà i moltissimi nomi arabici che rimaneano ai poderi nel
duodecimo secolo, soprattutto in Val di Mazara, e ve ne rimangono
tuttavia, i quali nacquero al certo dal detto rimescolamento; poichè le
denominazioni topografiche son tenacissime, le antiche si smetton di
rado per mutazione del possessore, le nuove nascon quasi sempre da
suddivisione o aggregamento dei poderi. Così il conquisto musulmano
guarì la piaga dei latifondi, la quale avea consumato la Sicilia fino al
secol nono, e riapparve con la dominazione cristiana nel duodecimo.
Più vasto frutto della vittoria, più divisibile, e più congeniale alla
maggior parte dei primi coloni di Sicilia, era lo stipendio militare.
Godealo, in tutti gli Stati musulmani, il _giund_, ordine militare
propriamente detto; del quale farem parola, lasciando indietro le altre
maniere di combattenti; cioè gli schiavi e liberti che alcuna volta si
adoperavano come stanziali, e le plebi, le quali traeano volontariamente