Storia degli Italiani, vol. 08 (di 15) - 30
nome de’ Capponi e degli Albizzi, al dieci e dodici e fin sedici per
cento. Borromeo de’ Borromei, di quel Samminiato donde uscirono fra
poco i Buonaparte e gli Sforza, nel 1379 accomodava di ottantamila
fiorini d’oro Gian Galeazzo Visconti. Nel 1321 i Peruzzi doveano avere
cennovantunmila fiorini d’oro, e centrentatremila i Bardi dai cavalieri
di San Giovanni. Fu considerato come pubblico disastro quando gli Scali
nel 1339 fallirono di quattrocentomila fiorini; e i Peruzzi e Bardi di
mille trecento settantatremila, che equivarrebbero a quaranta milioni
di lira d’oggi.
Agli Ebrei attribuisce Giovan Villani le lettere di cambio, i quali,
sbanditi di Francia sotto Dagoberto I nel 630, Filippo Augusto nel
1181, e Filippo il Lungo nel 1316, si ritirarono in Lombardia, e
per trarre il denaro lasciato colà, a mercanti e viaggiatori davano
lettere concise. Qual conto fare di un’indicazione di tempo così
indeterminato? e quanto poco è probabile, allorchè il bando vietava
ogni comunicazione ed assistenza agli Ebrei espulsi. Sa più ragionevole
il lodarne i Guelfi di Firenze, che sbanditi dai Ghibellini, trassero
somme, principalmente in Lione. I Ghibellini, cacciati alla lor volta,
ricoverarono ad Amsterdam, ed usarono altrettanto[288].
Alcune cambiali non aveano particolare direzione, il che si praticava
specialmente in Levante, e sembra indicarle il Fibonacci sin dal 1202:
altre ordinavano di pagare a persona nominata; e il primo esempio
sicuro è di papa Innocenzo IV, che nel 1246 trasmetteva venticinquemila
marchi d’argento ad Enrico Raspon anticesare, facendoli pagare a
Francoforte da una casa di Venezia. Nel 1253 Enrico III d’Inghilterra
autorizzò alcuni italiani suoi creditori a rimborsarsi mediante
tratte sopra vescovi del suo regno, il valor delle quali ammontava
a 150,540 marchi; e il legato pontifizio ebbe cura di farle pagare
puntualmente. I negozianti trovarono comodo il pareggiar le partite
senza intervenzione dei banchieri per via di tratte; e la più antica
che ci resti è d’una casa di Milano, che nel 1326 tirava sopra una di
Lucca a cinque mesi dalla data[289]. Baldo giureconsulto adduce due
cambiali, una del 1381 sotto nomi supposti, l’altra del 95 di Borromeo
de’ Borromei da Milano sopra Alessandro Borromeo.
Un regolamento del 1394 ingiunge ai negozianti di Barcellona di pagar
le cambiali entro ventiquattr’ore dalla presentazione, e di attergarne
l’accettazione; e pare si conoscessero anche i protesti. Più tardi
s’introdussero le girate, che ne formarono la vera comodità. Se dunque
gli Ebrei inventarono le cambiali, la vera teorica loro è dovuta
agl’Italiani, che le estesero per incassare i fondi, da ogni parte del
mondo affluenti alla corte di Roma.
Alle fiere di Champagne, molto frequentate perchè medie fra l’Italia,
la Francia meridionale e i Paesi Bassi, breve tempo s’indugiavano i
negozianti; laonde i re di Francia statuirono che, contro chi lasciasse
scadere una cambiale firmata nella fiera precedente, si procedesse
in via sommaria. Di qui il diritto cambiario; e spesso obbligavansi i
debitori ad enunziare ne’ recapiti che il debito era stato contratto in
tempo di fiera per goderne il privilegio.
Spedientissime trovate furono le banche pubbliche, le quali nelle
transazioni di commercio surrogano al denaro sonante i viglietti, cioè
raddoppiano i titoli legali del concambio. Fin dal 1171 pare Venezia
possedesse un banco di credito; altre città ne istituirono, ma nessuna
con tanta ampiezza e fortuna quanto Genova, del cui banco di San
Giorgio abbiamo già parlato a disteso (tom. VII, pag. 111).
Affine poi che anche i privati trovassero comodità di prestiti senza
cascare negli usurieri, si stabilirono i Monti di pietà. Il primo si
vide a Perugia nel 1467[290], per opera di Bernabò medico di Terni,
frate francescano, che non esigeva se non quanto bastasse alle spese
d’amministrazione. San Bernardino da Feltre e frà Michele da Carcano
diffusero quest’istituzione a Mantova[291], a Como e nella restante
Lombardia; Sisto IV approvò quello eretto a Viterbo il 1479, e ne pose
uno in Savona sua patria; tosto Cesena, Firenze, Bologna, Napoli,
Milano, Roma seguirono l’esempio, imitato dalle città industri di
Fiandra, e più tardi dai Francesi. A qualche rigoroso moralista
odoravano di usura, e accanita disputa si allungò fra teologi e
giureconsulti; ma l’utilità che ne derivava indusse a mettervi
piuttosto ordine e misura.
Da quanto esponemmo siete chiari come le forze e i capitali si
sapessero aumentare col formar compagnie di commercio. Fin dal 1188 è
ricordata la società pisana degli Umilj, stabilita a Tiro, e che fra
il negoziare non lasciava di soccorrere i Crociati[292]. I Bardi di
Firenze aveano quasi il monopolio di tutto il regno di Napoli. Parrebbe
anzi che le varie compagnie si abbracciassero in una generale, che
costituiva una potenza mercantile, e che per ambasciadori trattava coi
re e coi baroni, al modo dell’Ansa tedesca. Certamente un _capitano
dell’università de’ mercadanti lombardi e toscani_ risedeva a
Montpellier, donde il 1276 re Filippo l’Ardito consentì si trasportasse
a Nîmes[293], nella carta stessa concedendo che nessun membro d’essa
università potesse citarsi ad altro tribunale che al regio; morendo, i
loro beni passino agli eredi; non soffrano del diritto di naufragio;
vadano esenti dalle guardie, dalle taglie, dai servizj militari. Nel
1293 al Bourget in Savoja stipulavasi una salvaguardia tra Lodovico
di Savoja signore di Vaud, e l’università dei mercanti di Lombardia,
Toscana, Provenza, rappresentata da procuratori de’ mercanti di Milano,
Firenze, Roma, Lucca, Siena, Pistoja, Bologna, Orvieto, Venezia,
Genova, Alba, Asti, Provenza (Cibrario). Nè ignota era la società
d’accomandita, per cui uno dà a trafficare una somma, partecipando
agli utili interi, ma alle perdite soltanto fin all’ammontare del
prestato[294]; e con decreto del 1315 Luigi X di Francia dichiarava non
trovare usura in società siffatte, da Italiani istituite.
Le società stipulavano comunemente che le gabelle non fossero
d’improvviso aumentate ne’ luoghi di passaggio; se qualche nazionale
o i conduttori facessero ingiuria ai natìi, si punirebbe l’offensore
senza concedere rappresaglie sopra i mercanti; si terrebbero netti i
cammini da masnadieri; che se essi od altri danneggiassero, i mercanti
ne verrebbero rifatti; non si sballerebbero le merci; le quistioni che
insorgessero, sarebbero definite il giorno medesimo. Inoltre aveano
chiesa, bagno, piazza, forno, macello, casa, giurisdizione propria,
talvolta anche criminale. Nel 1189 Pietro re d’Arborea agli uomini di
Genova assegna in Oristano _tantam terram, qua fabricari possunt centum
botegas_; poi nel 92 privilegi amplissimi, fra cui promette, se alcun
legno rompe, farà restituire quanto venisse tolto; se alcun uomo muoja,
non ne terrà cosa alcuna benchè intestato.
Nel 1169 Boemondo III principe d’Antiochia dona ai Genovesi tutto
ciò ch’essi tengono in Antiochia e Laodicea e nel porto di Seleucia:
cioè in Antiochia una ruga colla chiesa di San Giovanni; in Laodicea
il fondaco e la strada che lo cinge, e terza parte delle rendite del
porto; come anche in Seleucia. E se farà altri acquisti, concederà
quello stesso che hanno in Laodicea; se qualche ingiuria ricevano,
e’ ne vorrà accomodamento e giustizia fra quaranta giorni; sieno
licenziati a negoziare in qualunque terra egli acquisti col loro
soccorso: il che tutto fa per consiglio de’ baroni suoi, perchè
molto ama i Genovesi, e desidera frequentino al possibile la terra
di lui e vi dimorino. Pel qual privilegio Lanfranco Alberico, uomo
nobilissimo, e legato del senato e de’ consoli, per sè e pel Comune
della famosissima città di Genova gli promettono ajutarlo, crescere le
sue possessioni e difenderle[295].
In qualche luogo, come a Tiro, i Genovesi partecipavano del diritto
di catena che pagavasi da ogni nave entrando o uscendo. Secondo lo
spirito d’esclusione d’allora, ciascuna compagnia affaticavasi non
meno a vantaggiare se stessa che a deprimere le altre, e col monopolio
assicurarsi ingenti guadagni[296]. Di simili trattati una gran
quantità troviamo sia delle città fra loro, sia de’ principi, che vi
s’affrettavano perchè assicuravano ai loro paesi un lucroso passaggio:
ma spesso più che le grida e i tribunali valeva l’opera del papa, che
con interdetti e scomuniche puniva i violatori.
La quantità de’ pirati, massimamente barbareschi, cagionava che il
commercio non procedesse senz’armi, anzi ogni nave era obbligata uscire
ben munita. A Genova per legge del 1291 era multato in dieci lire il
mercante che navigasse oltre Portovenere senza buone armi per sè e pei
servi, e cinquanta verrettoni nel turcasso. A Venezia ogni marinajo
dovea recarsi elmo di cuojo e di ferro, scudo, giaco, coltello, spada
e tre lancie; se ricevesse più di quaranta lire di stipendio, vi
doveva aggiungere la panciera; ed anche balestra e cento saette il
nocchiero[297]. Pertanto vedemmo i nostri negozianti prendere tanta
parte alle crociate e far conquiste, od esercitare in mari lontani le
ire fratricide della patria.
Anche le compagnie di commercio terrestre provvedeano colle armi alla
propria sicurezza, e talora le adopravano in guerra. Alberto Scotto,
famoso tiranno di Piacenza, era alla testa di una grossa _compagnia
degli Scotti_, che nel 1299 ottenne di negoziare cogli agenti del re di
Francia sulle fiere della Brie e della Sciampagna; la qual compagnia,
composta di quattrocento cavalli e millecinquecento pedoni, poco poi
guerreggiava a’ servizj d’esso re[298].
La maggiore importanza consistette sempre nel commercio di mare. Lo
scadimento di Roma crebbe vita a Costantinopoli, la quale stendendo
la destra verso l’Arcipelago, la sinistra al Ponto Eusino e alla
palude Meotide, coll’Asia Minore in faccia e l’Europa alle spalle,
pare destinata centro ai negozj di tutto il nostro emisfero. Le
merci d’Oriente vi erano condotte dall’Egitto, o i Bisantini medesimi
andavano cercarle nell’India, nella Persia, fors’anche nella Cina. Il
primo irrompere degli Arabi divenuti maomettani non potea che rovinare
il commercio: ma poi essi medesimi vi si applicarono dovunque estesero
la conquista; fondarono Bàssora, che tolse il vanto ad Alessandria;
coll’occupare l’Egitto, interclusero ai Bisantini il mar Rosso,
obbligandoli a provvedere da loro le ormai indispensabili derrate
dell’India, o a questa rivolgersi per una traccia lunghissima, salendo
fino a Kiof in Russia.
Le crociate, cominciando a far guardare l’Europa come una sola nazione,
unirono gli uomini a concordi imprese, gli avvicinarono ai paesi
delle derrate preziose, guadagni e privilegi e occasioni accrebbero
alle città marittime, che collo stendardo della croce protessero le
speculazioni. Poi le frazioni feudali agglomeravansi in nazioni;
e i Comuni sorgevano a quella libertà, che dà coraggio a cercare
i miglioramenti; e Amalfitani e Pisani in prima, poi Genovesi e
Veneziani si resero i principali, se non gli unici fattori del traffico
europeo[299]. Dal settentrione per la Piccola Tartaria vettureggiavano
canapa, legname, gòmene, pece, sego, cera, pelli, molti trattati
conchiudendo coi Mongoli successori di Gengis-kan e di Oktai, che
aveano conquistato la Russia, la Polonia, l’Ungheria e la Moldavia, e
da cui compravano il bottino e schiavi. Impediti d’andare nell’India
per l’Egitto, vi si spingeano pel mar Maggiore, come chiamavano il
Nero, nel quale il Tanai, il Boristene, il Dniester, il Danubio portano
le variatissime produzioni di estesissime contrade, mal accessibili per
terra. Ivi principale posatojo era la Tana, cioè Azof, all’imboccatura
del Don, ove da un lato si aveva la Moscovia, dall’altro l’Armenia,
l’Arabia, la Persia, per cui poteasi arrivare al Mogol e alla
Cina; e vi teneano cànove Genova, Venezia, Firenze e altre città. I
Veneziani per giungere dalla Tana a Catai doveano lasciarsi crescere
le barbe, e avere un buon interprete e servigiali che sapessero di
tartaro; ordinariamente un mercante portava seco in denari e merci per
venticinquemila ducati d’oro; e trecento a trecencinquanta bastavano al
viaggio fino a Peking, compresi i salarj degl’inservienti (Pegolotti).
Costantinopoli, oziosa e corrotta capitale d’uno Stato senza
industria, considerava il commercio men tosto come elemento di
pubblica prosperità, che come rendita fiscale; onde le speculazioni
di quell’immenso mercato rimanevano a stranieri. Perciò Veneziani e
Genovesi, dapprima tollerati, presto furono trovati utili, infine
necessarj; e i deboli imperatori, per mantenersene la vacillante
amicizia, non conoscevano altro spediente che rinnovare e spesso
estendere i loro privilegi. Ne rampollarono calde rivalità fra Genova
e Venezia, che vedemmo combattute nei mari nostri e negli orientali.
La conquista di Costantinopoli pei Crociati dava la prevalenza ai
Veneziani? i Genovesi favorivano Michele Paleologo a distruggere
l’impero latino; ed esso in compenso privilegiò la loro colonia di
Galata, che spesso giovò, spesso incusse timore all’impero greco.
Genova, posta quasi nel mezzo della costa che archeggia dalla Sicilia
allo stretto Gaditano, avendosi dinanzi il Mediterraneo, da un lato la
Provenza e la Francia, dall’altro l’Italia meridionale, a spalle la
pingue Lombardia, a fronte Corsica e Sardegna, Spagna ed Africa, con
poco ed ingrato terreno, con mare scarso di pesci, mostrasi predisposta
al commercio, che di fatto vi è antico quanto lei. Le emulazioni
con Pisa, con Venezia, coi Catalani ne svilupparono la marittima
abilità ed il caratteristico coraggio: marinaj più intraprendenti
de’ suoi dove trovare? molti per proprio conto assumevano spedizioni
e conquiste, talora approvati dal Governo, talaltra abbandonati alle
forze particolari, secondo portava il pubblico interesse o la fazione
dominante. I dossi erano ancora vestiti di pini e d’abeti, e nel 1822
dal solo bosco di Bajardo presso Triora bastò legname per trentotto
galee; da quello di mont’Ursale a Pareto per dieci ogni anno (Serra).
E preti e nobili negoziavano; molteplici le società, ove i ricchi
mettevano denari, i poveri l’opera: se non che l’infellonire delle
fazioni tolse a quella repubblica di cogliere tutti i vantaggi che le
avrebbero procurato tanta abilità degli ammiragli, tanta intrepidezza
delle ciurme, tanto spirito intraprendente, tanti capitali.
L’acquisto più famoso di Genova in Levante fu la Gazarìa. Sulla
penisola della Tauride, bagnata dal Ponto Eusino e dalla palude Meotide
o mare delle Zabacche, nel giro di ben settecencinquanta miglia, e
per l’istmo di Perekop, largo un miglio, unita ai paesi del Boristene
e del Bog e alle steppe della Tartaria Nogaja, già per l’opportunità
gli antichi Greci aveano piantato colonie, vinte da Mitradate, poi
dai Romani. Fu occupata da successive genti barbare, e massime dagli
Slavi Cazari, dai quali il nome di Gazarìa. Soggiogata dai Tartari nel
1237, un loro principe la vendette ai Genovesi nel 61, che vi assisero
colonie per tutto, e principalmente a Caffa. Questa, situata sul
lembo orientale della penisola, a piè de’ monti che fanno cintura alla
medesima, già era colonia greca, poi illustre col nome di Teodosia,
finchè non cadde in ruine, fu ristorata e munita dai nuovi padroni, i
quali con titolo di magazzini fecero case basse, poi le fortificarono
senza far mostra, siccome gl’Inglesi a Bengala. Ivi preso buon avvio,
le alture vicine roncarono a viti, insegnarono a depurare la soda
dalle ceneri dell’atrepice laciniato, ivi abbondantissimo, ed estesero
i vantaggi del commercio. Il vecchio Crim, che sedeva sull’opposto
pendìo, e dove i Tartari recavano le loro prede, salì per questi vicini
in tale aumento, che a tutta la penisola venne il nome di Crimea, e da
trecentomila abitanti arrivò ad un milione.
A Caffa i Genovesi trovavansi in casa propria, esenti dai capricciosi
dazj de’ Barbari cui erano esposti alla Tana, e a milletrecencinquanta
miglia dalla patria aveano un porto nazionale ove deporre le merci
e raddobbarsi, mentre desse luogo la stagione malvagia. Coi soliti
vantaggi de’ popoli colti fra i Barbari, annodarono relazioni di
commercio e di politica, ai cittadini diedero magistrati proprj e
statuti e moneta, e piantarono una missione. Il console Donadeo Giusti
la fe cingere di mura; nel 1383 Leonardo Montaldo doge vi faceva
una seconda cinta; e tanto ingrandì, che i Turchi la denominavano
Costantinopoli di Crimea (_Krim Stamboul_); vent’anni appena dopo
fondata, spediva tre galee a soccorrere Tripoli di Soria; nel 1318 vi
era insediato un vescovo, con giurisdizione dalla Bulgaria al Volga,
dalla Russia al mar Nero.
A mezzodì e a settentrione del seno di Caffa due altri se n’addentrano.
Nel primo è Sodagh o Soldaja, con poggi a viti preziose, e terebinto,
e pietre da macine. I Genovesi vi fabbricarono una torre di
difficilissimo accesso, e attorno a quella le proprie case e mura.
Avanzando ancora a meriggio si volta il capo d’Ariete (_Kriu-metopon_),
oggi Ajù; poi piegando a ponente è il Portus Symbolorum, detto
Cimbalo dai nostri, ed oggi Balaklava, dove i Genovesi posero colonia,
opportuno ricovero alle navi del ponente. Dietro a Cimbalo, tra Lusen
e la Lombarda, la Gozia ricordava col nome i Goti, e quivi, dove le
strade vengono a incrociarsi, i Genovesi eressero l’inespugnabile
Mankup. A settentrione si scende in un piano irrigato dall’Alma, ove i
kan della Crimea fabbricarono Bakciserai; e tutt’intorno vi rimangono
vestigia di case e villaggi genovesi.
Da Caffa volgendo a settentrione, si trova Cerco alle falde del monte
ove stava Panticapea, camera dei re del Bosforo, sporgendosi fra
l’Europa e l’Asia; e i Genovesi non trascurarono di fortificarlo,
chiudendo quel varco tra il mar Nero e quello delle Zabacche. Di colà
si spinsero entro le foci del Danubio, presso Chiliavecchia posero un
castello, e profittavano della pesca dello storione; alle foci del
Dniester aveano in Ackerman stabilimenti pel sale e la pesca, e per
ricevere grani dalla Polonia; sul lido opposto, a Sinope pescavano
il palamide, che seccato fa vece di baccalare. Giunsero poi anche a
farsi padroni della Tana, in fondo alla palude Meotide[300]; ma nessuno
storico accenna il quando e il come di sì importante acquisto. Forse
quella città posseduta dai Tartari fu, nelle sconfitte di questi,
distrutta da Tamerlano, e i coloni genovesi da Caffa vi accorsero e la
rialzarono verso il 1400.
Chi vide testè (1855) tutta Europa combattersi pel possesso di
quel mare e per voler aperto il passo dei Dardanelli, comprenderà
l’importanza che allora v’annetteano i Genovesi; tanto più che allora
ignoravasi la via più diretta alle Indie.
La repubblica genovese, fiaccata dal continuo traspeggio, cedette la
Gazarìa al banco di San Giorgio, del cui senno restano bel monumento
gli _statuti_ che le diede. Ordinata a sembianza della metropoli,
presedeva all’amministrazione un console annuo con un cancelliere,
nominati a Genova, e che prestavano cauzione. Rappresentava la colonia
un consiglio di ventiquattro, rinnovato ogni anno dai membri uscenti,
e che sceglieva un piccolo consiglio di sei, fuori del suo grembo; non
più di quattro borghesi di Caffa potevano aver parte nel primo, due
nel secondo; alcuni posti pei nobili, altri per i plebei. Il console
arrivando dava ai ventiquattro il giuramento, e tosto facea procedere
alla loro rinnovazione; governava col piccolo consiglio, senza cui non
poteva imporre taglie nè fare spese straordinarie; non avere traffici
per proprio conto, nè ricever doni. Il cancelliere, scelto dal Governo
fra i notari di Genova, rogava gli atti e apponeva il suggello.
L’uffizio della campagna rendeva giustizia ne’ contratti de’ coloni coi
liberi confinanti.
Così da Costantinopoli, da Caffa, dalla Tana, Genova esercitava il
commercio col Levante mediante una sequela di scali, che giungevano
fino alla Cina da una parte, dall’altra all’India lungo il golfo
Arabico, sul quale sembra le fosse interdetto veleggiare. Altri n’aveva
in tutta la Romania, la Macedonia e l’Arcipelago; e nominatamente a
Scio, una delle isole Sporadi, che perduta, fu recuperata da Simon
Vignoso con galee fornite da nove famiglie, unitesi poi nella _maona_
o ditta de’ Giustiniani, dal nome della famiglia ch’era creditrice
di trecentomila scudi d’oro; la repubblica ne lasciò loro il dominio,
che conservarono fino al 1556. Scio avea ben centomila abitanti; e il
mastice che geme dai lentischi, e che si masticava per tener belli
i denti e grato l’alito, dava esercizio a ventidue villaggi, se ne
vendeva un milione e mezzo di libbre l’anno, e il decimo che toccava
all’erario era valutato dall’imperatore Cantacuzeno ventimila bisanti,
o vogliam dire zecchini. Da esso e dalle gabelle provenivano annui
cenventimila scudi d’oro (sei milioni d’oggi), che si ripartivano
fra le famiglie compadrone a misura del capitale impiegato; al quale
si proporzionavano pure i voti nel governo. In un trattato del 1431
i Genovesi assentirono al soldano di trarre da Caffa schiavi; e La
Brouquière ne’ suoi viaggi in Asia incontrò un Genovese che trafficava
di quest’esecrabile merce.
Nell’Anatolia possedevano Smirne, produttrice di sete, cotoni,
ciambellotti, olj, scamonea; e Focea nuova e la vecchia, donde veniva
l’allume. Da Cipro traevano legname, canape, ferro, grano, zuccaro,
cotone, olj, oltre le derivazioni dall’Oriente. In Italia due magazzini
a Mutrone erano stati donati a Genova dai Lucchesi, per deporvi il
sale e le lane; cave d’allume attivò presso a Portercole; dall’alta
Italia richiedeva produzioni e manifatture da barattare; dominava anche
in Corsica, Sardegna, Malta, Sicilia; e la prima le dava eccellente
legname, cacio, vini, pescagione, soldati; l’altra grani, sardoniche,
tonni, sardine, oro e argento; Malta frumento, agrumi, cotoni; la
Sicilia sale, seta, cotone, oro, e ogni ben di Dio[301]: dalle Baleari
toglieva sale; e di due borse che avea Majorca, l’una era comune a
tutte le nazioni, l’altra speciale de’ Genovesi.
Savona, Oneglia, Albenga, Monaco, Ventimiglia, altre città della
Riviera formavano Stati indipendenti: pure Genova esercitava fino
a Nizza un protettorato, che le procurava relazioni abituali con
Marsiglia per mare e per terra, e coi porti della Linguadoca,
principalmente con Aiguesmortes, che posta fra la Provenza e la
Linguadoca, col Rodano, colle saline, colle vicinanze di Ales e di
Sant’Egidio, rinomati per la coltivazione del chermisi, prosperava
più che Marsiglia finchè le alluvioni non la separarono dal mare.
Raimondo di Tolosa che n’era signore, donò ai Genovesi casa e fondaco
in Sant’Egidio, una strada di Arles, il castello di Torbìa, la metà di
Nizza, parte di Marsiglia, metà delle dogane, e il commercio esclusivo
ne’ suoi porti. Sulle popolose fiere di Sciampagna, Genova spacciava le
droghe e raccoglieva lane[302]. Case avea pure sulle coste dell’Oceano,
del Belgio, dell’Inghilterra; e documenti del 1316 e 35 attestano
che portava mercanzie, e specialmente allume, in quell’isola: così
colla Spagna, a malgrado de’ Catalani, i soli che in mare reggessero
a concorrenza co’ nostri; e dall’Andalusia traeva frutti, da Siviglia
biade, olio, liquori, dalla Castiglia piombo, lane, allume, dalla
Catalogna vino, frumento, sparto da tessere stuoje. Fin dal 1236 facea
trattati coi Barbareschi della costa africana per garantire i naufraghi
e proteggere il proprio commercio; teneva una cancelleria di lingua
arabica per agevolare le corrispondenze con quel litorale, e nel 1274
fu assoldato Asmeto di Tunisi perchè insegnasse il parlar arabo[303].
Tunisi era il suo scalo primario, come per l’Europa occidentale Nîmes,
Aiguesmortes, Majorca.
Ne’ porti di Marocco e dell’Andalusìa rinfrescavano le navi prima di
uscire nell’Oceano per calarsi fino al capo Non, o salire alle rade
belgiche o britanne[304]. Dal Baltico le nostre bandiere erano escluse
dalla lega Anseatica, gelosa di conservare il monopolio delle derrate
di Russia: le tele, i merletti, l’acciajo, il salnitro, i fornimenti
di cavalli, le mercerie di Germania andavano a caricare sul Reno, per
deporle ne’ magazzini di Bruges e d’Anversa. Al tempo della guerra
di Chioggia un ammiraglio veneto nelle acque di Rodi diede la caccia
ad un naviglio genovese carico di mussoline, drappi di seta, d’oro e
d’argento, del valsente di quindicimila ducati; un altro prese due navi
catalane, cariche per conto di Genovesi, delle quali l’una portava per
ventimila ducati veneti, l’altra per quarantamila.
Genova dunque teneva le tre grandi vie del commercio dell’Asia centrale
e dell’India; di cui la prima sboccava al mar Nero pel Caspio e il
Volga; la seconda a Lajazzo, l’antica Isso, pel golfo Persico, Aleppo
e l’Armenia; la terza ad Alessandria pel mar Rosso e l’Egitto; e per
quelle cambiava le seterie della Cina, le spezie, i legni tintorj,
il cotone, le gemme dell’India, i profumi dell’Arabia, i tessuti
di Damasco, i panni di Tarso, lo zuccaro, il rame, le tinture di
Levante, l’oro e le piume dell’Africa interna, le pelli, il canape,
il catrame, il caviale, il pelo di castoro, le antenne, i legni di
costruzione dell’Europa settentrionale, i grani di Tunisi, della
Sicilia, della Lombardia, cogli olj, i vini, i frutti secchi delle
Riviere, con armi di lusso, coi coralli lavorati a Genova, colle
tele di Sciampagna, con lacca, piombo, stagno d’Inghilterra, coi
prodotti insomma di tutta Europa. Aveano (dice press’a poco il Serra)
traffico e dominio in tutta la Liguria marittima da Corvo a Monaco,
e nell’isola di Corsica: provvedevano di sale i Lucchesi; la parte
occidentale della Sardegna riceveva le loro leggi o quelle de’ principi
loro amici; visitavano Civitavecchia e Corneto, emporj di vettovaglie
nello Stato ecclesiastico; nel Regno, lor principale abitazione dopo
Napoli era Gaeta; e se non vennero a capo de’ loro disegni sopra la
Sicilia, furono sempre in gran numero a Messina, Palermo, Alciata. Nel
mare orientale d’Italia frequentarono Manfredonia, Ancona, e negli
intervalli di pace anco Venezia. In Ispagna, i conti Berengarj di
Catalogna divisero seco la città di Tortosa; i re di Castiglia, quella
d’Almeria, e poichè ebbero perdute od alienate ambedue, onorevoli
convenzioni tanto co’ regni cristiani della Spagna, quanto co’
Mori aprirono loro tutti i porti marittimi e i mercati mediterranei
della ricca penisola. Ne’ Paesi Bassi, Bruges poi Anversa accolsero
onorevolmente le loro compagnie, le quali non solo v’accumulavano
roba, ma l’avviavano ancora in Danimarca, Svezia, Inghilterra, Russia,
Germania: i loro navigli entravano nel Reno carichi di merci orientali.
L’Egitto era più frequentato dai Veneziani; tuttavolta i Genovesi non
lasciavano di far mercato in Alessandria, in Rosetta, in Damiata, di
stabilirsi anche al Gran Cairo, e di stringere paci favorevoli con
que’ soldani. Nel Levante la colonia di Pera soprantendeva mediante
i suoi magistrati alle parti meno distanti, quella di Caffa alle più
lontane. Sotto la prima erano la marca de’ Zaccaria, la Focide de’
Gattilussi, l’Acaja de’ Centeri, un tempo la Canea in Candia, poi molte
isole e porti nell’Arcipelago, Famagosta e Limisso con altri luoghi in
Cipro, Cassandria, Ainos, Salonichi, la Cavalla nella Macedonia, Sofia,
Nicopoli e altre in Bulgaria, Suczava in Moldavia, Smirne e Fochia
vecchia e nuova nell’Asia Minore, Altoluogo e Setalia ne’ Turchi, Kars,
Sisi, Tarso, Lajazzo nelle due Armenie, e finalmente Eraclea, Sinope,
Castrice ed Ackerman nel mar Nero. Dipendeano dal governo di Caffa
i possessi di Gazarìa, Taman colla sua penisola, Copa in Circassia,
Totatis in Mingrelia, Kubatscka nel Daghestan, il castello vicino a
Trebisonda, il fondaco in Sebastopoli, il gran mercato della Tana,
e tutte le carovane indirizzate verso il settentrione ed il centro
dell’Asia. Il consolato di Tauris in Persia, forse indipendente dagli
altri, dovea promovere e reggere il traffico dell’Asia meridionale;
ove il provvedimento più notabile era, che i mercatanti genovesi non
facessero società con forestieri.
Principalmente l’Inghilterra tenevasi legata co’ Genovesi, e i più
bellicosi suoi re Edoardo III ed Enrico V ne mostrarono speciale
benevolenza, adoprandoli in luminosi impieghi, rifacendoli delle offese
dei corsari. Enrico VI avea proibito d’asportare le lane d’Inghilterra
cento. Borromeo de’ Borromei, di quel Samminiato donde uscirono fra
poco i Buonaparte e gli Sforza, nel 1379 accomodava di ottantamila
fiorini d’oro Gian Galeazzo Visconti. Nel 1321 i Peruzzi doveano avere
cennovantunmila fiorini d’oro, e centrentatremila i Bardi dai cavalieri
di San Giovanni. Fu considerato come pubblico disastro quando gli Scali
nel 1339 fallirono di quattrocentomila fiorini; e i Peruzzi e Bardi di
mille trecento settantatremila, che equivarrebbero a quaranta milioni
di lira d’oggi.
Agli Ebrei attribuisce Giovan Villani le lettere di cambio, i quali,
sbanditi di Francia sotto Dagoberto I nel 630, Filippo Augusto nel
1181, e Filippo il Lungo nel 1316, si ritirarono in Lombardia, e
per trarre il denaro lasciato colà, a mercanti e viaggiatori davano
lettere concise. Qual conto fare di un’indicazione di tempo così
indeterminato? e quanto poco è probabile, allorchè il bando vietava
ogni comunicazione ed assistenza agli Ebrei espulsi. Sa più ragionevole
il lodarne i Guelfi di Firenze, che sbanditi dai Ghibellini, trassero
somme, principalmente in Lione. I Ghibellini, cacciati alla lor volta,
ricoverarono ad Amsterdam, ed usarono altrettanto[288].
Alcune cambiali non aveano particolare direzione, il che si praticava
specialmente in Levante, e sembra indicarle il Fibonacci sin dal 1202:
altre ordinavano di pagare a persona nominata; e il primo esempio
sicuro è di papa Innocenzo IV, che nel 1246 trasmetteva venticinquemila
marchi d’argento ad Enrico Raspon anticesare, facendoli pagare a
Francoforte da una casa di Venezia. Nel 1253 Enrico III d’Inghilterra
autorizzò alcuni italiani suoi creditori a rimborsarsi mediante
tratte sopra vescovi del suo regno, il valor delle quali ammontava
a 150,540 marchi; e il legato pontifizio ebbe cura di farle pagare
puntualmente. I negozianti trovarono comodo il pareggiar le partite
senza intervenzione dei banchieri per via di tratte; e la più antica
che ci resti è d’una casa di Milano, che nel 1326 tirava sopra una di
Lucca a cinque mesi dalla data[289]. Baldo giureconsulto adduce due
cambiali, una del 1381 sotto nomi supposti, l’altra del 95 di Borromeo
de’ Borromei da Milano sopra Alessandro Borromeo.
Un regolamento del 1394 ingiunge ai negozianti di Barcellona di pagar
le cambiali entro ventiquattr’ore dalla presentazione, e di attergarne
l’accettazione; e pare si conoscessero anche i protesti. Più tardi
s’introdussero le girate, che ne formarono la vera comodità. Se dunque
gli Ebrei inventarono le cambiali, la vera teorica loro è dovuta
agl’Italiani, che le estesero per incassare i fondi, da ogni parte del
mondo affluenti alla corte di Roma.
Alle fiere di Champagne, molto frequentate perchè medie fra l’Italia,
la Francia meridionale e i Paesi Bassi, breve tempo s’indugiavano i
negozianti; laonde i re di Francia statuirono che, contro chi lasciasse
scadere una cambiale firmata nella fiera precedente, si procedesse
in via sommaria. Di qui il diritto cambiario; e spesso obbligavansi i
debitori ad enunziare ne’ recapiti che il debito era stato contratto in
tempo di fiera per goderne il privilegio.
Spedientissime trovate furono le banche pubbliche, le quali nelle
transazioni di commercio surrogano al denaro sonante i viglietti, cioè
raddoppiano i titoli legali del concambio. Fin dal 1171 pare Venezia
possedesse un banco di credito; altre città ne istituirono, ma nessuna
con tanta ampiezza e fortuna quanto Genova, del cui banco di San
Giorgio abbiamo già parlato a disteso (tom. VII, pag. 111).
Affine poi che anche i privati trovassero comodità di prestiti senza
cascare negli usurieri, si stabilirono i Monti di pietà. Il primo si
vide a Perugia nel 1467[290], per opera di Bernabò medico di Terni,
frate francescano, che non esigeva se non quanto bastasse alle spese
d’amministrazione. San Bernardino da Feltre e frà Michele da Carcano
diffusero quest’istituzione a Mantova[291], a Como e nella restante
Lombardia; Sisto IV approvò quello eretto a Viterbo il 1479, e ne pose
uno in Savona sua patria; tosto Cesena, Firenze, Bologna, Napoli,
Milano, Roma seguirono l’esempio, imitato dalle città industri di
Fiandra, e più tardi dai Francesi. A qualche rigoroso moralista
odoravano di usura, e accanita disputa si allungò fra teologi e
giureconsulti; ma l’utilità che ne derivava indusse a mettervi
piuttosto ordine e misura.
Da quanto esponemmo siete chiari come le forze e i capitali si
sapessero aumentare col formar compagnie di commercio. Fin dal 1188 è
ricordata la società pisana degli Umilj, stabilita a Tiro, e che fra
il negoziare non lasciava di soccorrere i Crociati[292]. I Bardi di
Firenze aveano quasi il monopolio di tutto il regno di Napoli. Parrebbe
anzi che le varie compagnie si abbracciassero in una generale, che
costituiva una potenza mercantile, e che per ambasciadori trattava coi
re e coi baroni, al modo dell’Ansa tedesca. Certamente un _capitano
dell’università de’ mercadanti lombardi e toscani_ risedeva a
Montpellier, donde il 1276 re Filippo l’Ardito consentì si trasportasse
a Nîmes[293], nella carta stessa concedendo che nessun membro d’essa
università potesse citarsi ad altro tribunale che al regio; morendo, i
loro beni passino agli eredi; non soffrano del diritto di naufragio;
vadano esenti dalle guardie, dalle taglie, dai servizj militari. Nel
1293 al Bourget in Savoja stipulavasi una salvaguardia tra Lodovico
di Savoja signore di Vaud, e l’università dei mercanti di Lombardia,
Toscana, Provenza, rappresentata da procuratori de’ mercanti di Milano,
Firenze, Roma, Lucca, Siena, Pistoja, Bologna, Orvieto, Venezia,
Genova, Alba, Asti, Provenza (Cibrario). Nè ignota era la società
d’accomandita, per cui uno dà a trafficare una somma, partecipando
agli utili interi, ma alle perdite soltanto fin all’ammontare del
prestato[294]; e con decreto del 1315 Luigi X di Francia dichiarava non
trovare usura in società siffatte, da Italiani istituite.
Le società stipulavano comunemente che le gabelle non fossero
d’improvviso aumentate ne’ luoghi di passaggio; se qualche nazionale
o i conduttori facessero ingiuria ai natìi, si punirebbe l’offensore
senza concedere rappresaglie sopra i mercanti; si terrebbero netti i
cammini da masnadieri; che se essi od altri danneggiassero, i mercanti
ne verrebbero rifatti; non si sballerebbero le merci; le quistioni che
insorgessero, sarebbero definite il giorno medesimo. Inoltre aveano
chiesa, bagno, piazza, forno, macello, casa, giurisdizione propria,
talvolta anche criminale. Nel 1189 Pietro re d’Arborea agli uomini di
Genova assegna in Oristano _tantam terram, qua fabricari possunt centum
botegas_; poi nel 92 privilegi amplissimi, fra cui promette, se alcun
legno rompe, farà restituire quanto venisse tolto; se alcun uomo muoja,
non ne terrà cosa alcuna benchè intestato.
Nel 1169 Boemondo III principe d’Antiochia dona ai Genovesi tutto
ciò ch’essi tengono in Antiochia e Laodicea e nel porto di Seleucia:
cioè in Antiochia una ruga colla chiesa di San Giovanni; in Laodicea
il fondaco e la strada che lo cinge, e terza parte delle rendite del
porto; come anche in Seleucia. E se farà altri acquisti, concederà
quello stesso che hanno in Laodicea; se qualche ingiuria ricevano,
e’ ne vorrà accomodamento e giustizia fra quaranta giorni; sieno
licenziati a negoziare in qualunque terra egli acquisti col loro
soccorso: il che tutto fa per consiglio de’ baroni suoi, perchè
molto ama i Genovesi, e desidera frequentino al possibile la terra
di lui e vi dimorino. Pel qual privilegio Lanfranco Alberico, uomo
nobilissimo, e legato del senato e de’ consoli, per sè e pel Comune
della famosissima città di Genova gli promettono ajutarlo, crescere le
sue possessioni e difenderle[295].
In qualche luogo, come a Tiro, i Genovesi partecipavano del diritto
di catena che pagavasi da ogni nave entrando o uscendo. Secondo lo
spirito d’esclusione d’allora, ciascuna compagnia affaticavasi non
meno a vantaggiare se stessa che a deprimere le altre, e col monopolio
assicurarsi ingenti guadagni[296]. Di simili trattati una gran
quantità troviamo sia delle città fra loro, sia de’ principi, che vi
s’affrettavano perchè assicuravano ai loro paesi un lucroso passaggio:
ma spesso più che le grida e i tribunali valeva l’opera del papa, che
con interdetti e scomuniche puniva i violatori.
La quantità de’ pirati, massimamente barbareschi, cagionava che il
commercio non procedesse senz’armi, anzi ogni nave era obbligata uscire
ben munita. A Genova per legge del 1291 era multato in dieci lire il
mercante che navigasse oltre Portovenere senza buone armi per sè e pei
servi, e cinquanta verrettoni nel turcasso. A Venezia ogni marinajo
dovea recarsi elmo di cuojo e di ferro, scudo, giaco, coltello, spada
e tre lancie; se ricevesse più di quaranta lire di stipendio, vi
doveva aggiungere la panciera; ed anche balestra e cento saette il
nocchiero[297]. Pertanto vedemmo i nostri negozianti prendere tanta
parte alle crociate e far conquiste, od esercitare in mari lontani le
ire fratricide della patria.
Anche le compagnie di commercio terrestre provvedeano colle armi alla
propria sicurezza, e talora le adopravano in guerra. Alberto Scotto,
famoso tiranno di Piacenza, era alla testa di una grossa _compagnia
degli Scotti_, che nel 1299 ottenne di negoziare cogli agenti del re di
Francia sulle fiere della Brie e della Sciampagna; la qual compagnia,
composta di quattrocento cavalli e millecinquecento pedoni, poco poi
guerreggiava a’ servizj d’esso re[298].
La maggiore importanza consistette sempre nel commercio di mare. Lo
scadimento di Roma crebbe vita a Costantinopoli, la quale stendendo
la destra verso l’Arcipelago, la sinistra al Ponto Eusino e alla
palude Meotide, coll’Asia Minore in faccia e l’Europa alle spalle,
pare destinata centro ai negozj di tutto il nostro emisfero. Le
merci d’Oriente vi erano condotte dall’Egitto, o i Bisantini medesimi
andavano cercarle nell’India, nella Persia, fors’anche nella Cina. Il
primo irrompere degli Arabi divenuti maomettani non potea che rovinare
il commercio: ma poi essi medesimi vi si applicarono dovunque estesero
la conquista; fondarono Bàssora, che tolse il vanto ad Alessandria;
coll’occupare l’Egitto, interclusero ai Bisantini il mar Rosso,
obbligandoli a provvedere da loro le ormai indispensabili derrate
dell’India, o a questa rivolgersi per una traccia lunghissima, salendo
fino a Kiof in Russia.
Le crociate, cominciando a far guardare l’Europa come una sola nazione,
unirono gli uomini a concordi imprese, gli avvicinarono ai paesi
delle derrate preziose, guadagni e privilegi e occasioni accrebbero
alle città marittime, che collo stendardo della croce protessero le
speculazioni. Poi le frazioni feudali agglomeravansi in nazioni;
e i Comuni sorgevano a quella libertà, che dà coraggio a cercare
i miglioramenti; e Amalfitani e Pisani in prima, poi Genovesi e
Veneziani si resero i principali, se non gli unici fattori del traffico
europeo[299]. Dal settentrione per la Piccola Tartaria vettureggiavano
canapa, legname, gòmene, pece, sego, cera, pelli, molti trattati
conchiudendo coi Mongoli successori di Gengis-kan e di Oktai, che
aveano conquistato la Russia, la Polonia, l’Ungheria e la Moldavia, e
da cui compravano il bottino e schiavi. Impediti d’andare nell’India
per l’Egitto, vi si spingeano pel mar Maggiore, come chiamavano il
Nero, nel quale il Tanai, il Boristene, il Dniester, il Danubio portano
le variatissime produzioni di estesissime contrade, mal accessibili per
terra. Ivi principale posatojo era la Tana, cioè Azof, all’imboccatura
del Don, ove da un lato si aveva la Moscovia, dall’altro l’Armenia,
l’Arabia, la Persia, per cui poteasi arrivare al Mogol e alla
Cina; e vi teneano cànove Genova, Venezia, Firenze e altre città. I
Veneziani per giungere dalla Tana a Catai doveano lasciarsi crescere
le barbe, e avere un buon interprete e servigiali che sapessero di
tartaro; ordinariamente un mercante portava seco in denari e merci per
venticinquemila ducati d’oro; e trecento a trecencinquanta bastavano al
viaggio fino a Peking, compresi i salarj degl’inservienti (Pegolotti).
Costantinopoli, oziosa e corrotta capitale d’uno Stato senza
industria, considerava il commercio men tosto come elemento di
pubblica prosperità, che come rendita fiscale; onde le speculazioni
di quell’immenso mercato rimanevano a stranieri. Perciò Veneziani e
Genovesi, dapprima tollerati, presto furono trovati utili, infine
necessarj; e i deboli imperatori, per mantenersene la vacillante
amicizia, non conoscevano altro spediente che rinnovare e spesso
estendere i loro privilegi. Ne rampollarono calde rivalità fra Genova
e Venezia, che vedemmo combattute nei mari nostri e negli orientali.
La conquista di Costantinopoli pei Crociati dava la prevalenza ai
Veneziani? i Genovesi favorivano Michele Paleologo a distruggere
l’impero latino; ed esso in compenso privilegiò la loro colonia di
Galata, che spesso giovò, spesso incusse timore all’impero greco.
Genova, posta quasi nel mezzo della costa che archeggia dalla Sicilia
allo stretto Gaditano, avendosi dinanzi il Mediterraneo, da un lato la
Provenza e la Francia, dall’altro l’Italia meridionale, a spalle la
pingue Lombardia, a fronte Corsica e Sardegna, Spagna ed Africa, con
poco ed ingrato terreno, con mare scarso di pesci, mostrasi predisposta
al commercio, che di fatto vi è antico quanto lei. Le emulazioni
con Pisa, con Venezia, coi Catalani ne svilupparono la marittima
abilità ed il caratteristico coraggio: marinaj più intraprendenti
de’ suoi dove trovare? molti per proprio conto assumevano spedizioni
e conquiste, talora approvati dal Governo, talaltra abbandonati alle
forze particolari, secondo portava il pubblico interesse o la fazione
dominante. I dossi erano ancora vestiti di pini e d’abeti, e nel 1822
dal solo bosco di Bajardo presso Triora bastò legname per trentotto
galee; da quello di mont’Ursale a Pareto per dieci ogni anno (Serra).
E preti e nobili negoziavano; molteplici le società, ove i ricchi
mettevano denari, i poveri l’opera: se non che l’infellonire delle
fazioni tolse a quella repubblica di cogliere tutti i vantaggi che le
avrebbero procurato tanta abilità degli ammiragli, tanta intrepidezza
delle ciurme, tanto spirito intraprendente, tanti capitali.
L’acquisto più famoso di Genova in Levante fu la Gazarìa. Sulla
penisola della Tauride, bagnata dal Ponto Eusino e dalla palude Meotide
o mare delle Zabacche, nel giro di ben settecencinquanta miglia, e
per l’istmo di Perekop, largo un miglio, unita ai paesi del Boristene
e del Bog e alle steppe della Tartaria Nogaja, già per l’opportunità
gli antichi Greci aveano piantato colonie, vinte da Mitradate, poi
dai Romani. Fu occupata da successive genti barbare, e massime dagli
Slavi Cazari, dai quali il nome di Gazarìa. Soggiogata dai Tartari nel
1237, un loro principe la vendette ai Genovesi nel 61, che vi assisero
colonie per tutto, e principalmente a Caffa. Questa, situata sul
lembo orientale della penisola, a piè de’ monti che fanno cintura alla
medesima, già era colonia greca, poi illustre col nome di Teodosia,
finchè non cadde in ruine, fu ristorata e munita dai nuovi padroni, i
quali con titolo di magazzini fecero case basse, poi le fortificarono
senza far mostra, siccome gl’Inglesi a Bengala. Ivi preso buon avvio,
le alture vicine roncarono a viti, insegnarono a depurare la soda
dalle ceneri dell’atrepice laciniato, ivi abbondantissimo, ed estesero
i vantaggi del commercio. Il vecchio Crim, che sedeva sull’opposto
pendìo, e dove i Tartari recavano le loro prede, salì per questi vicini
in tale aumento, che a tutta la penisola venne il nome di Crimea, e da
trecentomila abitanti arrivò ad un milione.
A Caffa i Genovesi trovavansi in casa propria, esenti dai capricciosi
dazj de’ Barbari cui erano esposti alla Tana, e a milletrecencinquanta
miglia dalla patria aveano un porto nazionale ove deporre le merci
e raddobbarsi, mentre desse luogo la stagione malvagia. Coi soliti
vantaggi de’ popoli colti fra i Barbari, annodarono relazioni di
commercio e di politica, ai cittadini diedero magistrati proprj e
statuti e moneta, e piantarono una missione. Il console Donadeo Giusti
la fe cingere di mura; nel 1383 Leonardo Montaldo doge vi faceva
una seconda cinta; e tanto ingrandì, che i Turchi la denominavano
Costantinopoli di Crimea (_Krim Stamboul_); vent’anni appena dopo
fondata, spediva tre galee a soccorrere Tripoli di Soria; nel 1318 vi
era insediato un vescovo, con giurisdizione dalla Bulgaria al Volga,
dalla Russia al mar Nero.
A mezzodì e a settentrione del seno di Caffa due altri se n’addentrano.
Nel primo è Sodagh o Soldaja, con poggi a viti preziose, e terebinto,
e pietre da macine. I Genovesi vi fabbricarono una torre di
difficilissimo accesso, e attorno a quella le proprie case e mura.
Avanzando ancora a meriggio si volta il capo d’Ariete (_Kriu-metopon_),
oggi Ajù; poi piegando a ponente è il Portus Symbolorum, detto
Cimbalo dai nostri, ed oggi Balaklava, dove i Genovesi posero colonia,
opportuno ricovero alle navi del ponente. Dietro a Cimbalo, tra Lusen
e la Lombarda, la Gozia ricordava col nome i Goti, e quivi, dove le
strade vengono a incrociarsi, i Genovesi eressero l’inespugnabile
Mankup. A settentrione si scende in un piano irrigato dall’Alma, ove i
kan della Crimea fabbricarono Bakciserai; e tutt’intorno vi rimangono
vestigia di case e villaggi genovesi.
Da Caffa volgendo a settentrione, si trova Cerco alle falde del monte
ove stava Panticapea, camera dei re del Bosforo, sporgendosi fra
l’Europa e l’Asia; e i Genovesi non trascurarono di fortificarlo,
chiudendo quel varco tra il mar Nero e quello delle Zabacche. Di colà
si spinsero entro le foci del Danubio, presso Chiliavecchia posero un
castello, e profittavano della pesca dello storione; alle foci del
Dniester aveano in Ackerman stabilimenti pel sale e la pesca, e per
ricevere grani dalla Polonia; sul lido opposto, a Sinope pescavano
il palamide, che seccato fa vece di baccalare. Giunsero poi anche a
farsi padroni della Tana, in fondo alla palude Meotide[300]; ma nessuno
storico accenna il quando e il come di sì importante acquisto. Forse
quella città posseduta dai Tartari fu, nelle sconfitte di questi,
distrutta da Tamerlano, e i coloni genovesi da Caffa vi accorsero e la
rialzarono verso il 1400.
Chi vide testè (1855) tutta Europa combattersi pel possesso di
quel mare e per voler aperto il passo dei Dardanelli, comprenderà
l’importanza che allora v’annetteano i Genovesi; tanto più che allora
ignoravasi la via più diretta alle Indie.
La repubblica genovese, fiaccata dal continuo traspeggio, cedette la
Gazarìa al banco di San Giorgio, del cui senno restano bel monumento
gli _statuti_ che le diede. Ordinata a sembianza della metropoli,
presedeva all’amministrazione un console annuo con un cancelliere,
nominati a Genova, e che prestavano cauzione. Rappresentava la colonia
un consiglio di ventiquattro, rinnovato ogni anno dai membri uscenti,
e che sceglieva un piccolo consiglio di sei, fuori del suo grembo; non
più di quattro borghesi di Caffa potevano aver parte nel primo, due
nel secondo; alcuni posti pei nobili, altri per i plebei. Il console
arrivando dava ai ventiquattro il giuramento, e tosto facea procedere
alla loro rinnovazione; governava col piccolo consiglio, senza cui non
poteva imporre taglie nè fare spese straordinarie; non avere traffici
per proprio conto, nè ricever doni. Il cancelliere, scelto dal Governo
fra i notari di Genova, rogava gli atti e apponeva il suggello.
L’uffizio della campagna rendeva giustizia ne’ contratti de’ coloni coi
liberi confinanti.
Così da Costantinopoli, da Caffa, dalla Tana, Genova esercitava il
commercio col Levante mediante una sequela di scali, che giungevano
fino alla Cina da una parte, dall’altra all’India lungo il golfo
Arabico, sul quale sembra le fosse interdetto veleggiare. Altri n’aveva
in tutta la Romania, la Macedonia e l’Arcipelago; e nominatamente a
Scio, una delle isole Sporadi, che perduta, fu recuperata da Simon
Vignoso con galee fornite da nove famiglie, unitesi poi nella _maona_
o ditta de’ Giustiniani, dal nome della famiglia ch’era creditrice
di trecentomila scudi d’oro; la repubblica ne lasciò loro il dominio,
che conservarono fino al 1556. Scio avea ben centomila abitanti; e il
mastice che geme dai lentischi, e che si masticava per tener belli
i denti e grato l’alito, dava esercizio a ventidue villaggi, se ne
vendeva un milione e mezzo di libbre l’anno, e il decimo che toccava
all’erario era valutato dall’imperatore Cantacuzeno ventimila bisanti,
o vogliam dire zecchini. Da esso e dalle gabelle provenivano annui
cenventimila scudi d’oro (sei milioni d’oggi), che si ripartivano
fra le famiglie compadrone a misura del capitale impiegato; al quale
si proporzionavano pure i voti nel governo. In un trattato del 1431
i Genovesi assentirono al soldano di trarre da Caffa schiavi; e La
Brouquière ne’ suoi viaggi in Asia incontrò un Genovese che trafficava
di quest’esecrabile merce.
Nell’Anatolia possedevano Smirne, produttrice di sete, cotoni,
ciambellotti, olj, scamonea; e Focea nuova e la vecchia, donde veniva
l’allume. Da Cipro traevano legname, canape, ferro, grano, zuccaro,
cotone, olj, oltre le derivazioni dall’Oriente. In Italia due magazzini
a Mutrone erano stati donati a Genova dai Lucchesi, per deporvi il
sale e le lane; cave d’allume attivò presso a Portercole; dall’alta
Italia richiedeva produzioni e manifatture da barattare; dominava anche
in Corsica, Sardegna, Malta, Sicilia; e la prima le dava eccellente
legname, cacio, vini, pescagione, soldati; l’altra grani, sardoniche,
tonni, sardine, oro e argento; Malta frumento, agrumi, cotoni; la
Sicilia sale, seta, cotone, oro, e ogni ben di Dio[301]: dalle Baleari
toglieva sale; e di due borse che avea Majorca, l’una era comune a
tutte le nazioni, l’altra speciale de’ Genovesi.
Savona, Oneglia, Albenga, Monaco, Ventimiglia, altre città della
Riviera formavano Stati indipendenti: pure Genova esercitava fino
a Nizza un protettorato, che le procurava relazioni abituali con
Marsiglia per mare e per terra, e coi porti della Linguadoca,
principalmente con Aiguesmortes, che posta fra la Provenza e la
Linguadoca, col Rodano, colle saline, colle vicinanze di Ales e di
Sant’Egidio, rinomati per la coltivazione del chermisi, prosperava
più che Marsiglia finchè le alluvioni non la separarono dal mare.
Raimondo di Tolosa che n’era signore, donò ai Genovesi casa e fondaco
in Sant’Egidio, una strada di Arles, il castello di Torbìa, la metà di
Nizza, parte di Marsiglia, metà delle dogane, e il commercio esclusivo
ne’ suoi porti. Sulle popolose fiere di Sciampagna, Genova spacciava le
droghe e raccoglieva lane[302]. Case avea pure sulle coste dell’Oceano,
del Belgio, dell’Inghilterra; e documenti del 1316 e 35 attestano
che portava mercanzie, e specialmente allume, in quell’isola: così
colla Spagna, a malgrado de’ Catalani, i soli che in mare reggessero
a concorrenza co’ nostri; e dall’Andalusia traeva frutti, da Siviglia
biade, olio, liquori, dalla Castiglia piombo, lane, allume, dalla
Catalogna vino, frumento, sparto da tessere stuoje. Fin dal 1236 facea
trattati coi Barbareschi della costa africana per garantire i naufraghi
e proteggere il proprio commercio; teneva una cancelleria di lingua
arabica per agevolare le corrispondenze con quel litorale, e nel 1274
fu assoldato Asmeto di Tunisi perchè insegnasse il parlar arabo[303].
Tunisi era il suo scalo primario, come per l’Europa occidentale Nîmes,
Aiguesmortes, Majorca.
Ne’ porti di Marocco e dell’Andalusìa rinfrescavano le navi prima di
uscire nell’Oceano per calarsi fino al capo Non, o salire alle rade
belgiche o britanne[304]. Dal Baltico le nostre bandiere erano escluse
dalla lega Anseatica, gelosa di conservare il monopolio delle derrate
di Russia: le tele, i merletti, l’acciajo, il salnitro, i fornimenti
di cavalli, le mercerie di Germania andavano a caricare sul Reno, per
deporle ne’ magazzini di Bruges e d’Anversa. Al tempo della guerra
di Chioggia un ammiraglio veneto nelle acque di Rodi diede la caccia
ad un naviglio genovese carico di mussoline, drappi di seta, d’oro e
d’argento, del valsente di quindicimila ducati; un altro prese due navi
catalane, cariche per conto di Genovesi, delle quali l’una portava per
ventimila ducati veneti, l’altra per quarantamila.
Genova dunque teneva le tre grandi vie del commercio dell’Asia centrale
e dell’India; di cui la prima sboccava al mar Nero pel Caspio e il
Volga; la seconda a Lajazzo, l’antica Isso, pel golfo Persico, Aleppo
e l’Armenia; la terza ad Alessandria pel mar Rosso e l’Egitto; e per
quelle cambiava le seterie della Cina, le spezie, i legni tintorj,
il cotone, le gemme dell’India, i profumi dell’Arabia, i tessuti
di Damasco, i panni di Tarso, lo zuccaro, il rame, le tinture di
Levante, l’oro e le piume dell’Africa interna, le pelli, il canape,
il catrame, il caviale, il pelo di castoro, le antenne, i legni di
costruzione dell’Europa settentrionale, i grani di Tunisi, della
Sicilia, della Lombardia, cogli olj, i vini, i frutti secchi delle
Riviere, con armi di lusso, coi coralli lavorati a Genova, colle
tele di Sciampagna, con lacca, piombo, stagno d’Inghilterra, coi
prodotti insomma di tutta Europa. Aveano (dice press’a poco il Serra)
traffico e dominio in tutta la Liguria marittima da Corvo a Monaco,
e nell’isola di Corsica: provvedevano di sale i Lucchesi; la parte
occidentale della Sardegna riceveva le loro leggi o quelle de’ principi
loro amici; visitavano Civitavecchia e Corneto, emporj di vettovaglie
nello Stato ecclesiastico; nel Regno, lor principale abitazione dopo
Napoli era Gaeta; e se non vennero a capo de’ loro disegni sopra la
Sicilia, furono sempre in gran numero a Messina, Palermo, Alciata. Nel
mare orientale d’Italia frequentarono Manfredonia, Ancona, e negli
intervalli di pace anco Venezia. In Ispagna, i conti Berengarj di
Catalogna divisero seco la città di Tortosa; i re di Castiglia, quella
d’Almeria, e poichè ebbero perdute od alienate ambedue, onorevoli
convenzioni tanto co’ regni cristiani della Spagna, quanto co’
Mori aprirono loro tutti i porti marittimi e i mercati mediterranei
della ricca penisola. Ne’ Paesi Bassi, Bruges poi Anversa accolsero
onorevolmente le loro compagnie, le quali non solo v’accumulavano
roba, ma l’avviavano ancora in Danimarca, Svezia, Inghilterra, Russia,
Germania: i loro navigli entravano nel Reno carichi di merci orientali.
L’Egitto era più frequentato dai Veneziani; tuttavolta i Genovesi non
lasciavano di far mercato in Alessandria, in Rosetta, in Damiata, di
stabilirsi anche al Gran Cairo, e di stringere paci favorevoli con
que’ soldani. Nel Levante la colonia di Pera soprantendeva mediante
i suoi magistrati alle parti meno distanti, quella di Caffa alle più
lontane. Sotto la prima erano la marca de’ Zaccaria, la Focide de’
Gattilussi, l’Acaja de’ Centeri, un tempo la Canea in Candia, poi molte
isole e porti nell’Arcipelago, Famagosta e Limisso con altri luoghi in
Cipro, Cassandria, Ainos, Salonichi, la Cavalla nella Macedonia, Sofia,
Nicopoli e altre in Bulgaria, Suczava in Moldavia, Smirne e Fochia
vecchia e nuova nell’Asia Minore, Altoluogo e Setalia ne’ Turchi, Kars,
Sisi, Tarso, Lajazzo nelle due Armenie, e finalmente Eraclea, Sinope,
Castrice ed Ackerman nel mar Nero. Dipendeano dal governo di Caffa
i possessi di Gazarìa, Taman colla sua penisola, Copa in Circassia,
Totatis in Mingrelia, Kubatscka nel Daghestan, il castello vicino a
Trebisonda, il fondaco in Sebastopoli, il gran mercato della Tana,
e tutte le carovane indirizzate verso il settentrione ed il centro
dell’Asia. Il consolato di Tauris in Persia, forse indipendente dagli
altri, dovea promovere e reggere il traffico dell’Asia meridionale;
ove il provvedimento più notabile era, che i mercatanti genovesi non
facessero società con forestieri.
Principalmente l’Inghilterra tenevasi legata co’ Genovesi, e i più
bellicosi suoi re Edoardo III ed Enrico V ne mostrarono speciale
benevolenza, adoprandoli in luminosi impieghi, rifacendoli delle offese
dei corsari. Enrico VI avea proibito d’asportare le lane d’Inghilterra
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