Storia degli Italiani, vol. 08 (di 15) - 24

cavallo messer Chiavello signor di Fabriano, gl’imbasciatori di Venezia
e di Fiorenza. Tutte le gentildonne onorate le si fecero incontro
ballando, vestite a porta per porta secondo la sua divisa; e quelle che
non erano atte a ballare, andavano lor dietro.
«La comunità di Perugia donò ad ogni compagnia dieci fiorini d’oro.
Innanti ci era una gran moltitudine di trombe, le quali sonavano di
maniera che invitavano ciascuno a festa: fu fatto un bando che, durante
detta festa, non si aprisse bottega alcuna; che fu per lo spazio di
otto giorni. Fu fatta la mensa nella sala papale, e intorno ci erano
collocate assaissime tavole, ed eravi il luogo apposta per le torcie.
La tavola di Biordo era in capo, più eminente; alle altre furono per
ciascheduna fiata posti trecento taglieri; e fu allora raccontato che
in Toscana non si trovò mai la più bella corte. Le donne tutte s’erano
radunate in casa di Biordo, ed erano una compagnia reale.
«Il giorno seguente tutte le città, terre e luoghi le ferono presenti
e doni singolarissimi: e prima l’imbasciator di Venezia l’appresentò
un dono che valeva ducento fiorini d’oro; quel di Fiorenza le dette
un palio di scarlatto ed un cavallo covertato; quel di Città di
Castello un altro palio ed un cavallo; Castel della Pieve un altro
cavallo; Orvieto un finimento intero da tavola tutto d’argento; Todi
il medesimo, e di più due pezze intere di velluto; gli altri tre
imbasciatori fecero il simile. Oltre questo, ci furono moltissime
donne che si vestirono alla divisa di Biordo, e tutte quasi fecero tre
vesti per ciascuna, e andavano ballando per la piazza. Il mercoledì si
giostrò una barbuta con l’armi del Comune dietro; e si continuò fino a
notte, onde fu d’uopo adoperarvi le torcie».
Nelle feste delle città commercianti la principale toccava alle arti,
distribuite in maestranze; e la cronaca del Canale ci divisa quelle
del 1268 per l’assunzione del Tiepolo in doge di Venezia. La prima
festa (dic’egli molto più prolissamente in francese) fu fatta in mare
davanti il palazzo del doge, e Piero Michele capitano fece apparecchiar
le galee, e navigare tutto davanti il palazzo anzi ch’egli se ne
andasse, e alzare l’applauso al doge in tale maniera: — Cristo vince,
Cristo regna, Cristo impera: a nostro signore Lorenzo Tiepolo, la Dio
grazia inclito doge di Vinegia, Dalmazia e Croazia, e dominatore della
quarta parte e mezzo dell’imperio di Romania, salvamento, onore, vita
e vittoria: san Marco, tu lo ajuta». Simil lode levarono e cantarono
quei delle altre galee; e poi le fece il capitano navigare per mezzo
Venezia; e se ne andarono a vedere la dogaressa, che li ricevette a
lieta ciera.
Di poi tutti i mestieri un dopo l’altro, riccamente apparecchiati,
andarono a vedere il lor signore e la donna di lui. Primieramente
quei di Torcello e delle altre contrade armarono il naviglio proprio e
vennero al doge e alla dogaressa. Quei di Murano aveano in nave galli
vivi[188], perchè si conoscesse donde fossero, e le loro bandiere erano
issate per mezzo il naviglio. I maestri fabbri e tutti i loro serventi
andarono insieme sotto un gonfalone, ciascuno una ghirlanda in capo,
e trombe ed altri strumenti con loro: montarono di sopra il palazzo,
e salutarono il doge augurandogli ciascuno vita e vittoria; ed egli
rendette loro salute e buone avventure. Discesi come erano andati, se
ne vennero fino a Sant’Agostino, ove la dogaressa era, e la salutarono,
ed ella rese loro salute siccome donna. I maestri pellicciaj d’opera
selvaggia addobbaronsi di ricchi mantelli di ermino e vajo ed altre
ricche pelli selvatiche, e i loro garzoni e fattorini guernirono molto
riccamente; misersi innanzi una bella bandiera, e dietro quella vennero
due a due. I maestri pellicciaj d’opera vecchia misero lor gonfalone
avanti, e le trombe, gli stromenti, le coppe d’argento e le fiale piene
di vino: e guernirono loro corpi molto riccamente di drappi di sciamito
e di zendado, di scarlatto e di molte altre ricche robbe soppannate di
vajo e di grigio e d’altre ricche pelli; ed i loro serventi piccoli
e grandi guernirono anche molto bellamente. Poi i pellaj di pelli
agnelline si misero il lor gonfalone avanti, le trombe e gli stromenti
e le coppe d’argento e le fiale caricate di vino, ed i maestri e tutti
i loro fattorini. I tesserandoli di nappe e tovaglie misero davanti
il gonfalone, e addobbarono i corpi loro e quelli de’ calcolajuoli e
serventi molto bellamente, e fecersi precedere da cembali e trombe e
coppe d’argento e fiale di vino, e sotto di buoni conducitori se ne
andarono cantando canzonette e cobbole pel doge; e venuti che furono
al palazzo, montarono i gradini, e lo salutarono cortesemente, ed egli
rese loro la salute molto bellamente; poi andarono a far lo stesso
colla dogaressa.
Allora comincia ad inforzare la gioja e la festa; chè primieramente
si vestirono di novello dieci de’ maestri sartori tutto di bianco a
stelle vermiglie, cotta e mantello foderati di pelliccerie: i maestri
lanajuoli col solito gonfalone e le trombe e le coppe d’argento e
le fiale di vino, e ciascuno un ramo d’ulivo nella mano, ed in capo
ghirlande pur d’ulivo: i maestri cotonieri che fanno i frustagni
di cotone, addobbaronsi tutto di nuovo, di cotte e di mantelli de’
frustagni che fanno, pellicciati riccamente: e così i maestri che fanno
le coltri e le giubbe: e fece ciascuno una nuova cappa di color bianco
sparsa di fiordalisi, e le cappe aveano ciascuna un capperone, ed essi
aveano ghirlande di perle operate ad oro sulle teste.
I maestri di drappi a oro se ne posero di ricchi, e i loro fattorini
pur di drappo a oro o di porpora e zendado, e in testa i capperoni
indorati e ghirlande di perle e di fregetti d’oro: misero il lor
gonfalone e bandiere avanti, e trombe e cembali. I calzolaj e loro
serventi ebber sulle teste delle ghirlande di perle e di fregetti a
oro. I merciaj andarono a vedere il lor signore con ricchi drappi, e
le teste e le robbe di fregetti a oro e di sete e di tutte beltà che
l’uomo potrebbe divisare. Quei che vendono i camangiari di carni salate
e formaggi, fecero lor gonfalone, avendo molto ricchi drappi tinti in
scarlatto ad oricello o in risanguine od altri colori, pellicciati di
vajo e di grigio, e sulla testa ricche ghirlande di perle e di fregetti
a oro. Succedono quelli che vendono uccelli di riviera e pesci del mare
e dei fiumi.
Poi i maestri barbieri ebbero con loro due uomini a cavallo, armati
di tutto punto, come i cavalieri erranti, e seco traevano quattro
damigelle, addobbate molto stranamente. Venuti al palazzo, ascesero,
salutarono il doge, ed egli rendette loro la salute; e immantinente
discese uno di quelli che a cavallo erano armati di tutte armi, e
disse al doge: — Messere, noi siamo due cavalieri erranti, che abbiam
cavalcato per trovare avventure; e tanto ci siamo penati e travagliati,
che abbiamo conquiso queste quattro damigelle: or siamo a vostra
corte venuti, e se ci ha nessun cavaliere che di quinc’entro venisse
avanti per provare suo corpo e per conquistare le strane damigelle da
noi, noi siamo apparecchiati per difenderle». Immantinente rispose il
doge, fossero i ben venuti, e che Domeneddio li lasci gioire di loro
conquiste; e — Ben voglio che voi siate onorati a mia corte, ma punto
non voglio che nullo di qui entro vi contraddica, e sì ve ne quieto del
tutto». Montò allora il cavaliere errante, e gridaron tutti: — Viva
nostro signore Lorenzo Tiepolo, nobile doge di Venezia»; poi se ne
ritornarono a dietro, grande gioja dimostrando, e se ne andaron tutti
in tale maniera a vedere la dogaressa, che molto bene li ricevè.
I maestri vetraj ornaronsi di ricchi scarlatti, foderati di vajo
e d’altri ricchi drappi, gli uomini carichi di loro lavorii, cioè
guastade ed oricanni ed altrettali vetrami gentili, e le coppe
d’argento e le fiale piene di vino. Si misero alla via cantando novelle
canzoni, nelle quali si diceva di Lorenzo Tiepolo e di suo padre, di
cui abbia l’anima Dio, che doge era stato. A tale gioja ed a tale festa
se ne andarono due a due molto bene arringati sotto il lor gonfalone
cantando e diportando sino al palagio. I maestri orafi addobbaronsi
di perle e d’oro e d’argento e di ricche e preziose pietre, cioè
di zaffiri, smeraldi, diamanti, topazj, giacinti, ametiste, rubini,
diaspri, carbonchj e d’altre pietre di gran valuta; e loro sergenti
anch’essi molto riccamente, e di cosa in cosa fecero come gli altri.
I maestri pettinajuoli v’andarono pure, menando gran gioja: quando
furono al doge, Ughetto, savio maestro, si mise avanti e disse: — Sire,
io prego Gesù Cristo e sua dolce madre e san Marco vi donino la sanità,
vita e vittoria, ed a governare lo onorato popolo veneziano in vittoria
e ad onore per tutta la vostra età». E il doge risposegli molto
saviamente, e quelli gridarono tutti insieme: — Viva nostro signore,
il valente messere Lorenzo Tiepolo, il nobile doge di Venezia». Que’
maestri pettinajuoli aveano con loro una lanterna piena d’uccelli
di diverse maniere; e per allietare il doge, ne aprirono la portina
per dove gli uccelli uscirono fuora tutti, volando qua e là a loro
talento[189].
Mi apporrete che questi particolari nulla ingeriscono alla storia
d’Italia? Ma scopo nostro è conoscere gl’Italiani, nè credo che una
persona si mostri qual è ove s’ignorino i suoi abiti e i costumi suoi:
altri poi ha detto non conoscere un popolo chi non lo osservò nelle sue
feste. In quella che or descrivemmo, dovette parere vi passasse davanti
il medioevo, con quella libertà non individuale ma collettiva, dove,
piuttosto che uno Stato, erano a vedersi molti gruppi di famiglie, di
corporazioni, di Comuni, di chiesa, di nobiltà, ciascuno con leggi e
norme e divise sue proprie. E delle feste di Venezia potrebbe farsi un
libro, anzi fu fatto, ogni avvenimento pubblico essendovi commemorato
con solennità di devozione e di patriotismo (Cap. XCVIII).
Poichè il santo patrono usavasi sovente pel nome del Comune stesso,
dicendo San Marco, Sant’Ambrogio, San Pietro, per Venezia, Milano,
Roma, la festa di quello era altrettanto civile quanto religiosa. Lo
Statuto di Modena prescriveva che il giorno di san Geminiano d’ogni
famiglia dello Stato venisse uno alla città con un cero in mano, e
vi restasse fino a terza del domani; e così da ogni Comune forense
vi si portasse il vessillo, seguìto dagli uomini della villa o del
castello. A Ferrara, chiunque possedesse da cento lire in su doveva,
la vigilia di san Giorgio, portare un cero a mattutino. A Milano per
la natività di Maria doveano convenire tutti i Comuni dipendenti,
col proprio gonfalone: alla festa poi di sant’Ambrogio, secondo il
Decembrio, presentavasi all’altare di lui una gran mole di fiori ed
erbe, di uva matura con pampani verdi, tutto fatto di cera. Di tali
convegni non manca nessuna città dominatrice, e principalmente solenne
era il san Giovanni a Firenze. A Montecatino, quando per le litanie di
san Marco il clero scende alla pieve di Niévole, le donne continuano
il giorno intero, come in recuperata libertà, a sonar quelle campane,
sensibili per tutta la valle: la mattina di Risurrezione il celebrante
benedice molti corbelli di pane e di carne d’agnello, che poi sono
generosamente distribuiti a ciascheduno quasi in ristoro del digiuno
quaresimale[190].
Le feste religiose spesso avevano del beffardo, come le sculture
delle chiese. Tal era la cornomania che si celebrò a Roma fin verso
il Mille, avanzo di qualche solennità pagana. Il sabato dopo pasqua,
quando si aveano a cantare le litanie al papa, gli arcipreti delle
diciotto chiese diaconali colle campane convocavano il popolo; il
sacristano metteasi la cotta e una ghirlanda di fiori con corna, e in
mano un finobolo, canna di bronzo grossa quanto un braccio, e per metà
ornata di campanelli. Così andavasi processionalmente a San Giovanni
Laterano, e ciascun arciprete formando circolo colla sua plebe, si
cantava al pontefice: — Su, preghiere; Iddio per la tua prosperità;
Maria madre di Dio; su, preghiere. Buon giorno, o padrone; apriteci le
porte; noi veniamo a vedere il papa, vogliam salutarlo e fargli onore,
e cantargli le litanie, come si usava ai Cesari. Bravo, uom benigno,
papa che governi tutte cose al posto di Pietro; il cielo risplendette,
le nubi si dissiparono». Frattanto il sacristano pirovettava in mezzo
a ciascun circolo, scotendo le corna e il finobolo. Finite le litanie,
un arciprete s’avanzava traendosi dietro un asino, allestito dai
famigli della corte; un cameriere reggeva sopra la testa della bestia
un bacino con venti denari d’argento; e quell’arciprete, rovesciandosi
tre volte indietro, colla mano abbrancava più soldi che potesse da
quel piatto, e quanti ne pigliava erano suoi. Gli altri arcipreti
seguivano col clero deponendo ghirlande a’ piedi del papa; quello di
Via Lata deponeva insieme una volpe, che non essendo legata fuggiva; e
il papa davagli un bisante e mezzo: quel di Santa Maria in Aquiro, un
gallo colla corona, e riceveva un bisante e un quarto: l’arciprete di
Sant’Eustachio un cerbiatto, e toccava egual compenso: un solo bisante
gli altri, e la benedizione del pontefice. Reduci alla propria chiesa,
il sacristano nell’arnese stesso, con un prete e due compagni, portando
l’acquasantino e rami d’alloro e chicche, iva di porta in porta col
finobolo, benedicendo le case, mettendo foglie d’alloro sul fuoco, e
distribuendo le chicche ai fanciulli, cantando una cantilena in lingua
barbara, che cominciava: _Jaritan, jaritan, jajariasti. Raphayn,
jercoyn, jajariasti_; e il padrone della casa dava qualche mancia[191].
I banchetti erano solennità popolari e aristocratiche. Uno magnifico fu
imbandito, quando Gian Galeazzo Visconti fu investito duca di Milano,
nel cortile dell’Arengo, dove ora sta il palazzo reale; e, secondo il
Corio, da prima si presentò a ciascuno de’ convitati acqua alle mani,
stillata con preziosi odori; poi seguitarono le imbandigioni, tutte
accompagnate con trombe ed altri diversi suoni. La prima delle quali
fu marzapani e pignocate dorate con l’arme del serenissimo imperatore
e del nuovo duca, in tazze d’oro con vino bianco; indi pollastrelli
con sapore pavonazzo, uno per scodella e pane dorato; poi porci
due grandi dorati, e due vitelli parimenti dorati. Indi vi furono
portati grandissimi piattelli d’argento; e per cadauno pezzi due di
vitelli, pezzi quattro di castrato, pezzi due di cignali, capretti
due interi, pollastri quattro, capponi quattro, prosciutto uno, somata
uno, salsiccie due, e savore bianco per minestra, e vino greco. Dopo
furono portati altri piattelli di simile grandezza con pezzi quattro
di vitello arrosto, capretti due interi, lepri due intere, piccioni
grossi sei, uccelli quattro; poi pavoni quattro, cotti e vestiti;
orsi due dorati, con sapore citrino e vino leggiero. Vennero quindi
altri grandissimi piattelli d’argento con quattro fagiani per cadauno,
vestiti; a quelli seguitavano conche grandi d’argento, con un cervo
indorato, un daino similmente indorato, e capriuoli due con gelatine.
Poi piattelli come di sopra, con non poco numero di quaglie e pernici
con sapore verde; poi torte di carne indorate con pere cotte. Data
alle mani acqua, fatta con delicati odori, seguitavano pignocate in
forma di pesci inargentate; poi pane inargentato e malvasia, limoni
siroppati inargentati in tazze, pesce vestito con sapore rosso in
scodelle d’argento, pastelli d’anguille inargentati; poi piattelli
grandi di argento con lamprede e gelatina inargentata, trote grandi
con savore nero, e storioni due inargentati; indi torte grandi, verdi,
inargentate, mandorle fresche, persiche, e diversi confetti a varie
foggie. Compiuto il desinare, furono portati in su la mensa vasi
d’oro e d’argento, con fermagli, collane, anelli, e molte pezze di
panno d’oro, di seta, di porpora; il che tutto, secondo il grado, fu
presentato ai signori.
Dal Corio stesso ci sono divisati i regali che, vent’anni di poi,
corsero a quella Corte per le nozze della figliuola di Galeazzo
Visconti in Lionello d’Inghilterra. Cento taglieri furono disposti
nella sala maggiore pei primati, nelle altre i restanti; e tanto era
il sonare, che altro non s’udiva. Le imbandigioni venivano recate a
cavallo; e la prima messa furono porcellini dorati, con due leopardi
riccamente forniti e dodici coppie di segugi. Alla seconda lepri e
lucci dorati, cui seguivano sei coppie di levrieri, ornati di argento,
e sei astori. Alla terza vitello e trote, col presente di sei stivieri
con collari di velluto e fibbie dorate e cordoni di seta nera. Alla
quarta venivano pernici, quaglie, temoli dorati e dodici sparvieri
con sonagli d’argento, e dodici paja di bracchi. Per quinta diedero
anitre, cisoni e carpani, e dodici falchi, col cappelletto messo a
perle. Venne alla sesta carne di bove e capponi, con savore d’agliata
e storioni. Era la settima di vitelli e capponi con limonea e tinche,
e dodici arnesi da giostra, dodici lancie, altrettante selle dorate.
All’ottava portarono carne di bue, pesta e impastata con formaggio e
zucchero, ed anguille; poi dodici ricchi fornimenti da guerra, compiti
in tutto punto. Comparvero poscia carni e polli, e pesci in gelatina; e
dodici pezze di tôcca d’oro, altrettante di seta colorata. Indi corni
di gelatina saporita e grosse lamprede, col dono di due doglie di
vino, sei bacili ed altrettanti mortaj d’argento dorato. Consistette
l’undecima portata in capretti e paperi e agoni, col donativo di
sei corsieri bardati, ed altrettante lancie, targhe, cappelline
d’acciajo, una delle quali guarnita di bellissime perle. La duodecima
fu lepri e capriuoli in savore, con pesce zuccherato, accompagnati
da sei destrieri, altrettante lancie, e cappelli. Seguitarono carni
di bue e cervo con savore di zucchero e limone, tinche ed altri
pesci, e sei palafreni riccamente bardati: poi tinche, polli e sei
destrieri da giostra: indi piccioni, cavoli, fagiuoli, lingue salate,
carpione, ed un cappuccio e giubbone lavorati a compasso e soppannati
d’ermellino. La sedicesima fu di conigli, pavoni, cisoni, anguille
con savor di cedro, e un vasto bacile d’argento, un chiavacuore di
rubino e diamante, con una perla d’ingente prezzo, e quattro cinti
d’argento dorati. La decimasettima furono giuncate e formaggi, e il
dono di dodici bovi. La frutta venne allo sparecchio coi vini, e poi
cencinquanta cavalli per donare a baroni e signori, ed altre varie robe
e gioje. Ai buffoni toccarono cencinquanta vesti; e dopo molto torneare
e bagordare, lieto ognuno si partì.
Lungo sarebbe dire le stravaganze, di cui volevasi far pompa in tali
pasti. Qualche volta, al primo pungere del coltello dello scalco,
il tacchino creduto arrostito saltava bell’e vivo, scompigliando i
trionfi: qualch’altra di sotto un pasticcio sbucava un nano, facendo
le meraviglie della bella adunata. Questi tripudj rinnovavansi non
infrequenti; ed i cronisti si compiaciono talmente a descriverli, che
a noi non sarebbe parso di bene interpretarli se non gli avessimo in
ciò secondati; e tu rimani stupito quando nella pagina medesima essi
ti fanno il racconto d’un incendio, d’una sconfitta, d’una morìa, e
insieme di una solennità sfarzosa, alla quale mezzo mondo prese parte.
Dante si lagnava che il tempo e la dote fossero all’età sua usciti
di misura[192]; al qual passo Benvenuto da Imola spiega come per lo
innanzi un ricchissimo padre dava in dote alla figlia due o trecento
fiorini, mentre allora duemila o millecinquecento; le pulzelle
maritavansi ai venti o venticinque, ora a dodici o quindici. A Milano,
dove Landolfo il vecchio asseriva che sull’entrare del secolo X non si
contraevano matrimonj prima dei trent’anni, le Consuetudini più tardi
abolivano quelli conchiusi prima dei sette[193]. Pel 1348 abbiamo «le
spese di Bartolomeo di Caroccio degli Alberti: per lo costo delle nozze
e un desinare che si fece innanzi alle nozze a’ servitori, e denari
che ebbero i trombadori e altri buffoni, e denari dati a’ portatori,
e confetti, e tramutare masserizie, e per altre spese che a nozze
si richiede, lire cennovantasei; per la lettiera, cassa, cassone e
tettuccio, lire diciotto; per due para pianelle e due para scarpette,
lire una e soldi sedici». Ma le doti e i corredi delle signore e
principesse sorpassavano ogni credenza, e ne toccammo poco sopra.
Si hanno in sei volumi i _Monumenti della casa Del Verme_, ove, tra
molte altre curiosità, trovansi due corredi di spose, che vogliamo
qui riprodurre per esempio: — Nel 1474 Francesco degli Stampa di porta
Ticinese, della parrocchia di Santa Maria Valle a Milano, come corredo
della Bartolomea de’ Guaschi, riceve ducento sessantaquattro perle,
stimate ottanta ducati d’oro in oro; quattr’oncie di perle formate
a rete, per ventiquattro ducati; otto pezze di tela di lino fino per
far camicie, una di tela di stoppa (_revi_) per far tovagliuoli pel
capo; quattro pezze di fazzoletti (_panetorum_) che sono cinquantotto;
diciotto camicie da donna; trenta monete de tenere in testa; libbre
nove e mezzo di refe di lino bianco; uno specchio grande e uno più
piccolo; tre pettini d’avorio; un uffizietto della beata Vergine co’
suoi guarnimenti; un cofanetto, dorato di sopra; un _corriginus_ di
broccato d’oro cremisino co’ suoi fornimenti, e uno di broccato d’oro
cilestro col suo fornimento e con perle; un chiavacuore d’argento
dorato col suo agorajo d’argento dorato; due fodere lavorate in oro;
sei cuscini verdi di tappezzeria; dodici fodere di tela di lino fina
co’ suoi lavori intorno; una veste di damasco bianco coi fornimenti
dorati e col collare a perle; un’altra di drappo morello di grana
colle maniche strette, e con fornimenti dorati e con perle; un’altra
di drappo scarlatto di Londra colle sue balzane di velluto nero al
collare, alle maniche e ai piedi; una gamurra o socca di velluto
cilestro, e un’altra di drappo di lana rosso; un par di maniche di
broccato d’argento cilestro; un vestito di zetonino cilestro colle
maniche strette, e ricamato al bavaro e alle maniche; un vestito di
scarlatto colle maniche strette e ricamate, e col bavaro fatto di
punticelli; un vestito turchino colle maniche strette, ricamato alle
maniche e al bavaro; un vestito di velluto morello con maniche serrate
e guarnizioni fatte a telajo alle maniche; un vestito rosa secca
con maniche al modo stesso; uno di drappo verde scuro; una giubba di
velluto cremisino; una socca scarlatta, e una di drappo turchino; un
par di maniche di drappo d’oro riccio, un cremisino, e uno d’argento
cremisino, e uno di cilestro; un par di maniche di zetonino cremisino,
e uno di morello; uno di velluto cremisino, e uno di verde; un
corrigino d’argento dorato fatto a raggi (_a raziis_); un chiavacuore
d’argento dorato coi coltellini; una coreggia con tessuto d’oro e
guarnizioni d’argento dorato, ecc. Di tali doni rogò Francesco di
Besozzo, notajo di porta Comasina.
Molto più ricco è il corredo di Chiara Sforza, rimaritatasi il 1488 a
un Campofregoso. Nel solo ricamo sopra una manica vi sono da trentasei
in quarant’oncie di perle, stimate ducati quattrocento; sessantasette
perle da un ducato l’una; diciannove da tre carati il pezzo, a ducati
otto l’una; quattro da carati dodici in quattordici, a ducati cento
il pezzo; una di carati venticinque a ducati trecento; due rosette di
rubino, da sessanta ducati il pezzo; un rubino da tavola con quattro
perle, ducati settanta; quattro smeraldi in tavola, a ducati quindici
il pezzo; uno smeraldo quadro a faccette, ducati venti; oltre un
filo di trecento diciassette perle, da un ducato al pezzo. C’è una
perla a pero, di carati ventuno, stimata mille ducati; un mazzo di
cinquantaquattro giri di catena d’oro, pesante quarant’oncie; un
pendente con un balascio in tavola in mezzo, una punta di diamante e
una perla a pera, valutati ducati duemila; un altro fermaglio con un
balascio in tavola, ducati mille e seicento[194].[195]
Anche a Genova, per testimonio di Franco Sacchetti, «le nozze durano
quattro dì, e sempre si balla e canta, e mai non vi si proffera nè
vino, nè confetti, perocchè dicono che profferendo il vino e’ confetti
è uno accomiatare altrui; e l’ultimo dì la sposa giace col marito e non
prima».
E poichè dalle donne ben s’argomenta ai costumi d’un tempo, già
ricordammo (t. VII, p. 563) la Cia degli Ubaldini, che lasciata dal
marito Francesco Ordelaffi a difendere Cesena, perseverò governatrice
e capitana, finchè, ormai tutta ruine, la rese a patti onorevoli pe’
suoi soldati; per sè le bastò la protezione che la generosità ritrova
anche presso i nemici. È pure nota per le tradizioni Bianca de Rossi
moglie di Giovan della Porta governatore di Bassano, la quale, morto
il consorte, difese la città contro Ezelino tiranno: presa colle
armi in pugno, Ezelino cercò farle onta, ed essa precipitatasi da una
finestra si ruppe una spalla: guaritane e per forza vituperata, appena
libera di sè corse all’avello del marito, e messo il capo sotto il
coperchio, se lo schiacciò. Margherita da Ravenna, divenuta cieca a tre
anni, acquistò tanto estese cognizioni, che era consultata su punti di
teologia e di morale, e morì il 1505. Morata, figlia di Danese Orsini e
di una Beccaria, a Stradella levata al battesimo da Filippo Visconti,
sposata in Jacopo de’ Saracini di Siena, invece di danzare, la festa
divertivasi a leggere, e venne un portento di sapere come di virtù. A
Siena, nel pomposo incontro fatto a Federico III e sua moglie, ella
parve vestita troppo modestamente; ma a chi glie ne faceva appunto
rispose: — Le matrone senesi non devono far pompa che di modestia». E
interrogata quale fra tanti cavalieri che faceano corteo agli sposi,
le paresse il più leggiadro, — Io non guardo che mio marito». I Senesi
l’ebbero in concetto di santità, e quando il conte Jacopo Piccinino li
minacciava di sterminio, essa li rassicurò del pronto soccorso di Maria
Vergine, e che il conte non tarderebbe a scontar la pena, come avvenne.
Di virtuose potremmo gran numero schierare ricorrendo al leggendario.
Voltiamo il quadro. La padovana Speronella, figliuola di Delesmanno,
a quattordici anni era già maritata in Jacopino da Carrara, quando
il conte Pagano, lasciato dal Barbarossa a governare Padova, se ne
invaghì, e presto l’ebbe rapita e sposata. I suoi, irritati, levarono
popolo contro lo straniero, che dovette cedere le fortezze e la
libertà. Allora la Speronella fu maritata ad uno de’ Traversari, col
quale rimasta alquanto, passò a Pietro Zausanno: e dopo tre anni ne
fuggì per isposare Ezelino da Romano. Questi, accolto a Monselice con
ogni guisa di miglior cortesia da Olderico di Fontana, come tornò a
casa, non sapeva finire di lodare alla moglie le gentilezze dell’ospite
e le maschie bellezze di esso: di che tanto desiderio si accese nella
malonesta donna, che per messaggi fu presto d’accordo col Fontana,
e da Ezelino se ne fuggì ad esso. Così passava di marito in marito,
mentre il precedente vivea ancora; poi lasciò un lungo testamento, il
quale non è che un catalogo di chiese e spedali, fra cui distribuiva
ogni aver suo; venti soldi a questa, quaranta a quella, stramazzi,
coltri, lenzuoli, coperte di pelle; a un ospizio i piumacci su cui
ella dormiva, e tovaglie e salviette ai pellegrini d’oltremare;
campi e denari a vescovi per riparare se mai avesse ad alcuno recato
nocumento[196].
Donnina amica di Bernabò, e Nisotta di Gian Galeazzo Visconti, aveano
al loro servizio cortigiani, musici, minestrelli; ai principi vicini
e nominatamente ai duchi di Savoja mandavano a regalare cani, cavalli,
cappelline, e ne riceveano il ricambio[197]. Agnese, figlia di Bernabò
e maritata in Francesco Gonzaga signore di Mantova, al marito non
voleva bene, e vie meno dacchè il vedeva amico ed alleato di Gian
Galeazzo uccisore del padre di lei. Presto s’intese con Antonio
di Scandiano, cameriere fidatissimo del Gonzaga; ma questo, saputa
la tresca, dissimulò lungamente il torto, poi ne volle un regolare
processo, da cui essendo apparsa la costoro reità, lui fe impiccare;
lei decapitare il 1391, benchè moglie d’un principe, cognata di due re.
Per delitto d’infedeltà poteano il duca Filippo Visconti e il Gonzaga
di Mantova mandare al patibolo la moglie, Nicola marchese di Ferrara la
sua Parisina Malatesti col figlio Ugo, Ercole Bentivoglio processare
Barbara Torelli: forse tutte innocenti, ma è un gran caso il vedere i