Storia degli Italiani, vol. 08 (di 15) - 22
pianeti. Domenico Maria Novaro ferrarese determinò la posizione delle
stelle indicate nell’_Almagesto_, sospettò si fosse cambiato l’asse
di rotazione della terra, ed ebbe scolaro Copernico, cui suggerì il
concetto del sistema pitagorico. Paolo Toscanelli da Firenze confortò
le speranze di Cristoforo Colombo sulla possibilità di giungere alle
Indie dalla parte d’Occidente.
Le scienze naturali proseguivano in caccia di testi più che di
fatti, e solo nel secolo seguente appoggiaronsi alla sperienza e alle
matematiche, surrogando la realtà alle chimere, l’evidenza alle ipotesi
e all’autorità. Nè in medicina si paragonava lo stato sano col morboso;
e il libro del Ficino _Della vita umana_ è tutto formole per conservare
la salute e prolungare la vita con astrologiche osservanze; dalle
stelle deduce le malattie e l’efficacia dei rimedj; insegna ai vecchi
a ringiovanire bevendo sangue di giovani: delirj, comuni ad Arnaldo
Bacone, ad Arnaldo di Villanova ed ai migliori, ma combattuti da Pico
e dal Guainero pavese. Dino del Garbo, gloria dell’età sua, aggiunse
altre sottigliezze alle arabiche. Marsilio da Santa Sofia, Gentile
da Fuligno, Pietro da Tossignana, Guglielmo da Varignana, Cristoforo
Barziza, Giovanni da Concorezzo ed altri esercitarono con lode e
scrissero di medicina. Michele Savonarola padovano, buon osservatore,
francamente si emancipa da Averroe; eppure crede che Niccolò Piccinino
generasse di cento anni, che dopo la peste del 1348 invece di trentadue
denti se n’avessero ventidue o ventiquattro, e che col feto possa
uscire talvolta un animale.
I medici non rifuggivano dalla chirurgia, mentre questa fuor d’Italia
era abbandonata a barbieri ignoranti. Il salasso tenevasi operazione
d’importanza; contendevasi seriamente sul dove e quando praticarlo;
allorchè ne facesse bisogno, nelle case principesche adunavansi parenti
e amici, e se riescisse bene, ringraziavasi il Signore festeggiando.
Vincenzo Vianeo di Maida, Branca e Bojani di Tropea introdussero
l’innesto animale, rifacendo nasi. Il Governo veneto, come in molti
provvedimenti, così prevenne gli altri coll’ordinare, ai 7 maggio
1308, che ogni anno si sezionasse qualche cadavere. Nel 1315 Mondini
de’ Luzzi, professore a Bologna, ne dissecò pubblicamente, e diede
una descrizione del corpo umano fatta sul vero, e tavole anatomiche:
e sebbene non sappia francarsi dalla venerazione agli antichi, e
alle asserzioni di Galeno sagrifichi perfino l’evidenza, pure rimosse
molte asserzioni fantastiche, disse ciò che propriamente avea veduto,
e spiegò semplice e preciso; onde il suo libro per tre secoli rimase
testo; aggiungendovi le scoperte che man mano si facevano. Dopo lui
s’introdusse d’aprire ogni anno uno o due cadaveri nelle università:
Bartolomeo da Montagnana, professore a Padova, si vanta d’aver fatto
quattordici autopsie[161].
I farmacisti per lo più erano anche droghieri, laonde speziale
significò farmacista e confetturiere; e le città, nell’accordare le
licenze, v’aggiungevano l’obbligo di mandare alcuni dolci alla camera
del Comune. Saladino d’Ascoli diede un _Compendium aromatariorum_ per
norma dei farmacisti, dai quali pretende tante qualità, che pur beato
se la metà ne possedessero. Santo-Arduino fece altrettanto per Venezia,
Ciriaco degli Agosti di Tortona per l’Italia occidentale, Paolo Suardo
pel Milanese. Ermolao Barbaro e Nicolò Leoniceno, commentando Plinio,
giovarono assai alla botanica officinale. Nel 1415 Benedetto Rinio
medico e filosofo veneto, con lunga diligenza e peregrinazioni faceva
il _Liber de simplicibus_ in quattrocentrentadue faccie benissimo
dipinte da Andrea Amadio, e coi nomi latini, greci, arabi, slavi,
tedeschi. È la maggior raccolta che ancor si fosse fatta di piante e
fiori, col tempo opportuno a raccoglierli e l’applicazione medicinale;
e sta nella Marciana, coll’_Erbario o storia generale delle piante_,
lavorato nel secolo seguente da Pier Antonio Michiel.
Papa Benedetto XIII riprovò la magia come ereticale; e poichè
moltiplicavansi le guarigioni presunte miracolose alle tombe di san
Rocco, di santa Caterina da Siena, di sant’Andrea Corsini ed altri,
la Chiesa provvide non avesse a gridarsi al miracolo se non quando il
morbo fosse incurabile, e istantaneo il risanamento. La ricorrenza
delle pesti[162] crebbe la devozione per san Sebastiano, pel santo
Giobbe, per san Rocco principalmente, che di quell’età appunto dal
patrio Montpellier era pellegrinato in Italia onde assistere a’
contagiosi. Spesso ancora sulle facciate delle chiese e su tabernacoli
lungo le vie si dipingevano gigantesche figure di san Cristoforo,
la cui vista diceasi preservare dai cattivi incontri e dalle morti
improvvise, le quali sembra divenissero allora più frequenti; onde
spesseggiarono pure le invocazioni a sant’Andrea Avellino ed altre
devozioni preservative.
A richiamare dalla erudizione all’osservazione, dai testi ai fatti,
valsero alcune malattie nuove, come la morte nera; la tosse ferina,
comparsa nel 1414 sotto forma epidemica; la tarantola, epidemia
psichica che s’attribuiva al morso d’un ragno, e portava a ballare e
far attucci stravaganti. La lebbra vuolsi venuta in Italia co’ soldati
di Pompeo reduci dall’Egitto, ma presto si spense. Ricomparve al tempo
de’ Longobardi, poi di nuovo alle crociate: e forse non era cessata
mai del tutto, poichè ne cade menzione in miracolose guarigioni, e
negli ospedali istituiti; certamente Costantino, medico della scuola
salernitana, la decriveva precisa nel 1087, cioè avanti le crociate
che la diffusero. Al tempo che discorriamo pare scomparsa, giacchè il
Cardano non la conosceva, il Fracastoro la dice morbo raro[163], e gli
spedali de’ Lazzari diminuivano, per far luogo a quelli destinati a un
altro morbo, conseguenza e castigo della dissolutezza, che diffuso poi
al tempo della calata di Carlo VIII, fra noi ebbe il nome di francese,
di campano tra i Francesi. Dopo molto ragionarne resta dubbio se
venisse dall’America o fosse già conosciuto.
In complesso questa è un’età di reminiscenza, più che di fantasia e di
ragione; si fa tesoro delle cognizioni prische, anzichè conquistarne di
nuove; nè si mettono al vaglio dell’esperienza. Mancando la stampa, i
giornali, la posta, noi ci figuriamo che le opere di letteratura o di
scienza dovessero rimanere in angusto circolo, nè conoscersi lontano
le scoperte d’un paese. Però nelle università concorreva gente da
regioni remotissime, vi si comunicavano le cognizioni, i professori
vi portavano le opere proprie, i giovani voleano tornare in patria
arricchiti di qualche manoscritto, sicchè diffondeansi più prontamente
che non si possa credere. Gli autori stessi più volte, dopo pubblicato
un lavoro, lo correggevano, e ne facevano una seconda edizione, come
si pratica dopo la stampa: così Leonardo Fibonacci nel 1202 pubblicò
il suo _Abacus_, primo trattato d’algebra fra’ Cristiani; poi nel 28 ne
diede una nuova edizione con aggiunte.
Però i libri erano più venerati perchè rari; la quale venerazione
faceva che una notizia si tenesse per vera sol perchè scritta, si
ripetesse dai successivi perchè detta dai precedenti; che se la
sperienza la contraddicesse, non si smentiva l’autore, ma cercavasi
conciliarla, come si fa colla Bibbia, a costo di storpiare la verità.
Spesso s’ignoravano le scoperte e le lucubrazioni anteriori; e mentre
oggi non si perdona d’accingersi a un lavoro senza conoscere tutti i
precedenti, allora si trovano o accettati errori o ignorate verità, su
cui già da un pezzo altri aveva esercitato il giudizio.
Ad accelerare ed assicurare i progressi dello spirito umano valse
un’invenzione suprema di questo tempo, la stampa.
Gli antichi scrivevano sopra cuojo o foglie di palma, o sul libro,
cioè sulla seconda corteccia delle piante: dipoi si preparò carta o
colle fibre del papiro, canna propria dell’Egitto, ovvero con pelle
di pecora, la quale chiamossi _pergamena_ perchè a Pergamo inventata o
perfezionata. Tracciavano i caratteri con bocciuoli di canna, aguzzati
e intinti nell’inchiostro: le scritture di maggior conto incidevansi su
pietra, legno, metalli: per gli usi giornalieri sovra tavolette cerate
notavasi con uno stilo acuto, e si cancellava colla sua estremità
ottusa. Que’ papiri e quelle pergamene coprivansi da un lato solo,
appiccicando un foglio a piè dell’altro sinchè fosse compiuto un libro,
poi rololavansi (_volume_), e si fissavano con un bottone. Giulio
Cesare fu il primo che scrivesse sulle due faccie della pergamena
le lettere al senato, e divulgò l’uso di piegarla al modo de’ nostri
libri. Lisciare i fogli coll’avorio, profumarli coll’olio di cedro,
miniare e dorare le iniziali, le costole, il taglio, gli attaccagnoli,
era servigio degli schiavi libraj e grammatici, de’ quali ogni ricco
teneva uno o più: altri il facevano liberamente per venderli.
Tutto ciò operavasi a mano; e poichè alle mende inevitabili s’univano
quelle varietà capricciose e quasi istintive che ognuno insinua
trascrivendo, differenti e scorrettissimi riuscivano i codici: chi
volesse qualche testo emendato, l’esemplava di proprio pugno, come
fecero pochi diligentissimi grammatici, o qualche dottore della Chiesa,
rendendo famose certe edizioni d’Omero e della Bibbia.
Col cristianesimo l’arte dello scrivere passò dagli schiavi ai monaci,
per la necessità di diffondere dottrine, polemiche, orazioni; san
Benedetto pose obbligo a’ suoi il copiarne; monache vi si esercitavano
pure. Quanto dell’antichità possediamo, ci arrivò quasi solo per man
di essi; onde è ingratitudine e illiberalità il querelarli se, meglio
degli autori classici, si piacquero trascrivere i santi Padri ed opere
di teologia. Intanto è vero che degli autori lodatici dagli antichi per
sommi, nessuno forse ci manca, e di questi possediamo il meglio; com’è
vero che, già prima della caduta dell’Impero occidentale, rarissimi
erano fatti alcuni, a cagion d’esempio Aristotele, di cui a’ migliori
giorni di Roma non era avanzato che un solo esemplare; talchè gran
merito reputavasi il farne estratti o compendj, come usarono Floro,
Giustino, Plinio, Costantino ed altri. L’agevolezza procacciata da
questi compilatori recava a prendere minor cura delle opere originali
dopo che se n’era stillato il buono e il meglio, laonde lasciaronsi
andar perdute.
Il guasto degli autori classici cominciò dunque assai prima de’
Barbari; le guerre e gl’incendj di questi ne mandarono a male altri
assai; zelo de’ buoni costumi, che lascio ad altri il condannare,
fece da ecclesiastici distruggere alcuni scandalosi ed immorali.
Era difficile il trarre d’Egitto il papiro; poi divenne impossibile
dacchè gli Arabi l’ebbero occupato. La pergamena, già costosa, crebbe
allora smodatamente di prezzo; onde si ricorse ad uno spediente già
noto agli antichi: ciò fu di raschiare le scritture antecedenti,
onde sovrapporvene di nuove[164]. Buon frate, per te aveano suprema
importanza un antifonario, una raccolta di preghiere, un trattato della
confessione; e quando per essi coprivi o la _Repubblica_ di Cicerone o
il codice Teodosiano, vi avevi tanto diritto quanto oggi n’abbiamo noi
d’usare l’opposto.
Gli antichi valeansi di lettere majuscole e senza interpunzione;
più tardi per espeditezza si raccorciarono, in modo da venirne il
carattere minuscolo. Per la ragione medesima s’introdussero certe
abbreviature o note, le quali furono portate fino a cinquemila, e
col loro mezzo poteano i _notari_ tener dietro a qualunque discorso
per accelerato[165]. Raccoglievano questi dapprima le decisioni del
senato e delle pubbliche adunanze, o le ultime volontà; onde passò
il titolo di notaro a indicare chi è rogato a mettere in iscritto un
atto spettante a fede pubblica. I veri caratteri tachigrafi caddero
in dimenticanza tale nei secoli venturi, che un salterio trovato a
Strasburgo dal Tritemio era registrato nel catalogo come di lingua
armena.
Le iscrizioni già al tempo dell’Impero aveano preso caratteri
d’inelegante magrezza, com’è a vedere su pei muri di Pompei e
d’altrove, e peggio nelle catacombe cristiane e ne’ tempi oscuri; pure
continuarono le lettere tonde. Ma nel XII secolo, mentre s’introduceva
il gusto gotico nell’architettura, anche i caratteri si fecero
angolosi, poi s’ingombrarono di ghirigori; usanza durata fin nel
secolo XV, quando ripigliò la buona calligrafia con gran varietà di
caratteri[166]. Jacopo fiorentino, frate camaldolese, dopo il 1300 è
ricordato come il migliore scrittore di lettere romane che fosse prima
o poi, sicchè la sua mano fu conservata in un tabernacolo. Angelo
Pezzana negli _Scrittori parmensi_ noverò sedici calligrafi valenti,
ai quali poi ne aggiunse altri otto nella _Storia di Parma_, tutti del
secolo XV o circa.
Vi si associò il lusso delle pitture, quasi ogni pagina portando
profili, cornici, figure, stemmi, lettere bizzarre (Cap. XCIX), talchè
un libro divenne il complesso di tutte le arti belle; poesia e retorica
nel comporlo, calligrafia nel trascriverlo, miniatura nell’ornarlo
in oro, carmino, oltremare, pellicceria nel prepararne la coperta,
cesellatura nell’abbellirlo di borchie, oreficeria ad incastonarvi
gemme, doratura a lisciarne i margini.
Qual meraviglia se i libri salirono a prezzi ingenti? Da’ cataloghi che
i libraj esponevano, e dalle tasse determinate dalle università siamo
informati d’alcuni di questi; ma non vuolsi dimenticare che spesso
li rincarivano le miniature. Nel 1279 a Bologna si diedero ottanta
lire (L. 435) per copiare una Bibbia; ventidue per l’Inforziato[167].
Melchiorre, librajo di Milano, chiedeva dieci ducati d’oro per
una copia delle epistole famigliari di Cicerone. Alfonso d’Aragona
scrisse da Firenze al Panormita, che il Poggio aveva a vendere un
Tito Livio per cenventi scudi d’oro; il Panormita alienò una masseria
per acquistarlo; e il Poggio ne comperò una col prezzo ritrattone.
Borso d’Este nel 1464 pagava otto ducati d’oro a Gherardo Ghislieri di
Bologna per avere alluminato un libro intitolato _Lancellotto_; nel 69,
quaranta ducati per un Giuseppe Ebreo e un Quinto Curzio; la famosa
sua Bibbia, due grandi volumi in pergamena, dove ogni pagina porta
miniature diverse, per opera di Franco de’ Rossi e Taddeo Crivelli, gli
costò milletrecento settantacinque zecchini[168]. Piccola cosa doveano
dunque essere le biblioteche d’allora, e re e papi erano scarsi di
libri quant’oggi un cherichetto[169].
Nondimeno certuni aveano potuto raccorne di molti, in Italia
specialmente, e di qui li cercavano gli studiosi, massime da Roma e
da’ conventi rinomati della Novalesa, della Cava, di Montecassino.
La biblioteca del cardinale Giordano Orsini nel 1438, composta di
ducencinquantaquattro codici, stimavasi duemila cinquecento ducati
d’oro[170]. Tommaso da Sarzana ne comperava a credenza, ed accattava
per pagare copisti e miniatori. Il Petrarca lagnavasi che in tutto
Avignone non si trovasse un Plinio; ma una scelta biblioteca erasi
egli formata, che poi cedette per tenue compenso alla Repubblica
veneta: fra quei libri sono un Omero, donatogli da Sigeros ambasciatore
dell’Impero d’Oriente; un Sofocle, avuto da Leonzio Pilato, colla
traduzione dell’Iliade e dell’Odissea fatta da questo, ed esemplata
dal Boccaccio; un Quintiliano; tutte le opere di Cicerone, ricopiate
dal Petrarca stesso: forse è di suo pugno il Virgilio che si conserva
alla biblioteca Ambrosiana. Alla Marciana di Venezia servirono di
fondo i libri che il cardinale Bessarione avea compri per trentamila
zecchini, e che lasciò a quella «città retta dalla giustizia, dove le
leggi regnano, la saviezza e la probità governano, abitano la virtù,
la gravità, la buona fede». Cosmo de’ Medici, esulando colà, donò la
sua al convento di San Giorgio; poi in Firenze colla libreria privata
diede origine alla Laurenziana. Nicolò Niccoli gareggiava, secondo
sua fortuna, con esso nell’adunar libri, e ottocento volumi possedeva
fra greci, latini e orientali, esemplandoli egli stesso, riordinando e
correggendo testi malmenati dagli amanuensi, onde il chiamarono padre
dell’arte critica: lasciò quei libri ad uso pubblico, e furono messi
ne’ Domenicani di San Marco con una disposizione che servì di modello
alle future. Coluccio Salutato, lagnandosi del guasto de’ codici,
proponeva biblioteche pubbliche, dirette da dotti che discernessero
le lezioni migliori; e fece acquistarne una a Roberto di Napoli. Altri
signori l’imitarono; e rammentano un Andreolo de Ochis bresciano, che
venduto avrebbe beni, casa, donna, se stesso per aggiungere libri ai
molti che possedeva.
I lamenti per le scorrezioni delle copie cresceano quanto più
cresceva il desiderio di leggere; e Petrarca esclamava: — Chi recherà
efficace rimedio all’ignoranza e viltà dei copisti, che tutto guasta
e sconvolge?.... Nè fo querela dell’ortografia, già da lungo tempo
smarrita.... Costoro confondendo insieme originali e copie, dopo
aver promesso una, scrivono un’altra cosa affatto diversa, sì che
tu stesso più non riconosci quanto hai dettato. Se Cicerone, Livio,
altri egregi antichi, singolarmente Plinio Secondo, risuscitassero,
credi tu che intenderebbero i proprj libri? o che non piuttosto ad
ogni piè sospinto esitando, or opera altrui, or dettatura dei Barbari
li crederebbero?.... Non v’ha freno nè legge alcuna per tali copisti,
senza esame, senza prova alcuna trascelti: pari libertà non si dà
pei fabbri, per gli agricoltori, pei tesserandoli, per gli altri
artigiani».
Se la scorrezione sgarbava ne’ libri di letteratura, diveniva
importantissima in quelli che concernono la coscienza e la fede.
Pertanto fra gli Ebrei ogni esemplare della Bibbia doveva esser
riveduto dai rabbini; i quali dalla _Massora_ sapevano quanti versetti,
quante parole, quante lettere contenesse il sacro libro, e quante volte
ciascuna fosse ripetuta; e se trovassero qualche lettera di meno, o
scritta con inchiostro impuro, o su membrana preparata da incirconcisi,
bastava per dichiarar guasto quel testo e distruggerlo.
Rinfervorato l’amore degli studj, più vivo fu sentito il bisogno
di qualche succedaneo alla carta di membrana e di papiro, e dai
Cinesi i Tartari e gli Arabi, da questi gli Spagnuoli impararono a
farla di cotone, cui dopo il Mille si surrogarono i cenci di lino.
Se fosse vero che quella non si discerna da questa, come pretende
il Tiraboschi, n’avremmo una prova della sua perfezione, e poco
monterebbe il disputarne. Ad ogni modo erra il Cortusio differendo
al 1340 l’invenzione della carta di lino, la quale chiamossi papiro,
a differenza della bambagina[171]; e Pace da Fabriano, cui egli
ne ascrive il merito, forse non fece che trapiantare nel Trevisano
questa manifattura, già fiorente a Fabriano nella marca d’Ancona. Nè
ha fondamento l’asserire che la Repubblica fiorentina invitasse con
larghissimi privilegi quei di Fabriano a stabilire cartiere a Colle di
val d’Elsa, poichè in una carta del 6 marzo 1377 trovasi allogata per
venti anni una caduta d’acqua a favore di Michele di Colo da Colle, con
gora, casalino _et gualcheriam ad faciendas cartas,_ la quale già prima
era affidata a Bartolomeo di Angelo della Villa[172].
Dapprima adoperata solo per lettere ed istromenti, alla diffusione
delle dottrine non contribuì che nel secolo XIV, quando vi si
trascrissero libri. Dovettero questi allora rendersi men rari, e
qualche mercante ne troviamo alle Università di Germania e di Parigi; a
Firenze il Vespasiano nel 1446, un Melchior a Milano, Giovanni Aurispa
a Venezia poco dopo negoziavano di libri.
Pare condizione vitale della società che le scoperte vengano appunto
quand’essa ne ha bisogno per ispingersi con nuovo slancio. Allora
dunque che l’amore per la letteratura classica volgeva a cercar con
passione e riprodurre gli esemplari, e che le grandi controversie dei
re e della Chiesa faceano moltiplicare scritture, comparve l’arte più
mirabile fra le moderne, la stampa.
Dello scopritore si disputa. Pare i Cinesi la conoscessero da
antichissimo; stampe stereotipe faceansi in Europa, non per uso
letterario, bensì per figure di santi e carte da giuoco[173]; e Venezia
nel 1441 dava un privilegio, atteso che _l’arte di far le carte da
zugar e figure dipinte stampade era venuda a total defection_, in
grazia della gran quantità che n’entrava di forestiere. A quel modo
Lorenzo Coster di Harlem impresse facciate intere. Le prime stampe
furono dunque xilografiche, e la maggior parte veniva occupata da
figure; del che l’esempio più conosciuto è la _Bibbia de’ poveri_,
di quaranta fogli stampati da un lato solo: tutti poi son poco
voluminosi, eccetto i _Mirabilia Romæ_, specie d’itinerario a comodo
degli oltramontani che pellegrinavano alla gran città, e che consta
di centottanta facciate. Presto si avvisò potersi alle tavolette
sostituire caratteri mobili: e così se ne intagliarono di legno, poi di
piombo per arte di Giovanni Guttenberg da Magonza[174], cui l’orefice
Giovanni Faust somministrò capitali. Pietro Schöffer di Gernsheim al
piombo sostituì un metallo duro, e trovò l’inchiostro untuoso da ciò:
ancor più fece inventando i punzoni, sicchè, invece d’intagliarli uno
ad uno, si fusero i caratteri per mezzo di matrici. Il primo libro
stampato con caratteri mobili pare la Bibbia detta Mazarina, dalla
biblioteca in cui fu trovata, ed è del 1450 o 52 o più veramente 55:
alcuni esemplari sono sovra pergamena; bell’inchiostro, bei caratteri,
sebbene non sempre uniformi. Del 1454 si ha un opuscoletto di quattro
carte per esortare i Turchi con indulti di Nicola V; poi un almanacco
del 57.
Presto quell’arte giunse in Italia[175], e del 1465 abbiamo l’edizione
di Lattanzio e del _Cicero de oratore_ a Subiaco per Corrado
Schweinheim e Arnoldo Pannartz, coll’assistenza di Giovanni Andrea
Bussi di Vigevano, poi vescovo di Aleria; ma dicesi preceduta da un
_Donatus pro puerulis_. In Roma al 70 erano uscite almeno ventitre
edizioni di antichi. Giovanni da Spira, collocatosi a Venezia nel
69, vi lavora quanto a Roma; e così Vindelino suo fratello, poi
il francese Nicolò Jenson. Fino al 1500 s’erano stampate a Parigi
settecencinquantun’opere; in Italia quattromila novecentottantasette,
di cui a Firenze trecento, a Bologna ducennovantotto, a Milano
seicenventinove, a Roma novecenventicinque, a Venezia duemila
ottocentrentacinque; altre cinquanta città aveano stamperie. Anche
borgate vollero averne, come Sant’Orso presso Schio, Polliano nel
Veronese, Pieve di Sacco nel Padovano, Nonantola e Scandiano nel
Modenese, Ripoli presso Firenze. Le opere di Cicerone furono delle
prime; edite dallo Schweinheim a Roma e dal Jenson a Venezia; ma in
un corpo non comparvero che nel 98 a Milano pel Minuciano. Un Livio
imperfetto era appartenuto al Petrarca, poi l’ebbe Cristoforo Landino,
e su quella forma andò la prima stampa fattane a Roma forse fin dal 69,
poi nel 72; indi a Milano nel 78 dal Lavagna, e nell’80 dallo Zarotto;
e già a Venezia da Vindelino nel 70, a Roma ancora nel 71 e 72 da
Udalrico Gallo, a Treviso nell’80 e 83 da Michele Mazolino co’ tipi di
Giovan Vercelli, a Milano di nuovo nel 95: ma completo, almeno quale
ci resta, si vide solo a Magonza nel 1518. Di Vitruvio un esemplare si
aveva a Montecassino, e fu stampato a Roma nell’86, e commentato nel 95
da Silvano Morosini veneziano.
I copisti a mano erano di molta valentia e credito in Genova; e
temendo lo scapito che all’arte loro verrebbe dai torchi, ottennero
che quella Signoria li proibisse. Pertanto Mattia il Moravo, che vi
si era stabilito, passò a Napoli; e Giovan Bono tedesco, che a Savona
avea stampato Boezio, si trasferì a Milano. In conseguenza maestro
Filippo da Lavagna, ricco mercante innamorato di quest’arte, non potè
fondarla in patria, e la pose a Milano, primo stampatore nostrale che
si ricordi[176]. Gli disputa tale primato Antonio Zarotto di Parma,
che a Milano nel 1471 pubblicava Festo _De verborum significatione_,
e la _Cosmografia_ di Mela; l’anno dopo formava società con prete
Gabriele degli Orsoni, Pier Antonio da Borgo di Castiglione, Cola
Montano e Gabriele Paveri Fontana professori d’eloquenza, obbligandosi
egli a fondere caratteri, tenere in ordine i torchj, far l’inchiostro,
dirigere la tipografia. Fu il primo che stampasse libri liturgici
col celebre messale del 1475, e intagliasse punzoni di greco per la
grammatica del Lascari[177], mentre prima s’inscrivevano a mano. Vi
tennero dietro la _Batracomiomachia_ nell’85, l’Omero di Firenze
nell’88 a spese di Lorenzo Medici, l’Esiodo e Teocrito nel 93,
l’_Antologia_ nell’84, Luciano, Apollonio, il _Lessico_ di Suida: ma al
1495 non passavano la dozzina i libri greci stampati in Italia.
Il primo stampato italiano fu l’opera del Cennino orafo. A Reggio di
Calabria stamparonsi in ebraico i commenti di Jarchi sul Pentateuco nel
75; a Soncino nel Cremonese, per cura di Nathan Ismaele, il Pentateuco
nell’82; nell’86 i commenti del famoso Kimcki sui Profeti; nell’88
l’intera Bibbia con bellissimi caratteri, della quale non più che
cinque o sei esemplari si conoscono. A Cremona poi nel 1556 Vincenzo
Conti stampava i _Toledot_ e il salterio ebraico commentato dal Kimcki;
e in quella città, d’ordine dell’Inquisizione romana, si dice siano
stati abbruciati dodicimila esemplari di libri talmudici. Tipografie
ebraiche v’ebbe pure a Casalmaggiore e Sabbioneta. I primi caratteri
arabici si adoperarono a Fano da Gregorio Giorgi nel 1514 nelle sette
ore canoniche, poi da Pier Paolo Porro milanese.
A ristorare la deteriorata calligrafia sorse Aldo Manuzio di Sermoneta.
Dopo il _Museo_, prima opera da lui edita in Venezia nel 1495, il dotto
tipografo continuò venti anni attorno a classici latini e greci[178];
e si stupisce pensando che stampò per la prima volta Aristotele,
Aristofane, Tucidide, Sofocle, Erodoto, Senofonte, Erodiano, Demostene,
i Retori, gli Oratori, Platone, Ateneo, Dioscoride..... Adoprò il
carattere corsivo, detto _italico_ dai Francesi, ed inciso da Francesco
di Bologna, che tolse a modello la scrittura del Petrarca. Aldo stesso
le più comode e men dispendiose forme del dodicesimo, ossia piccolo
ottavo, sostituì alle solite in-folio: forse soltanto in Italia usavasi
l’in-quarto. Via via s’introdussero i registri dei fogli, prima che si
numerassero le pagine o le facciate; s’imparò a compartire gli spazj in
modo che le linee riuscissero eguali, senza code alla lettera finale;
poi vennero le virgole, poi le chiamate, e passo a passo la perfezione
presente.
La carta doveva emulare la pecora e il vitello (_vélin_), onde si facea
con cenci scelti di lino e di canapa, non imbianchita col liscivio che
oggi snerva la fibra vegetale: la pasta trituravasi lentamente colle
pile: ed il foglio, fatto a mano colla trecciuola, veniva incollato
fortemente colla gelatina, la quale lo induriva in modo che fin ad oggi
ne troviamo inalterate le qualità.
La carezza della carta e dell’inchiostro (il migliore traevasi da
Parigi), la tiratura diligentissima, i lavoranti ancora scarsi, e il
piccolo spaccio rendeano rischiose le imprese. Schweinheim e Pannartz
nel 1472 esposero a papa Sisto IV di trovarsi ridotti a povertà per
avere impresse tante opere senza esitarle; e dalla loro querela appare
che di consueto si tiravano copie ducensessantacinque, il doppio per
Virgilio, pe’ filosofici di Cicerone, e pei libri di teologia; in tutto
essi aveano prodotto dodicimila quattrocensettantacinque esemplari.
Anzichè arrischiare copiose edizioni, rinnovavansi; e quasi ogni anno
furono da Paolo Manuzio riprodotte le epistole famigliari di Marco
Tullio.
Presto ai libri si aggiunsero figure[179]; e già nel 1467 a Roma
uscivano le _Meditazioni_ del cardinale de Turrecremata con intagli in
legno, dipoi coloriti; nel 72 il _Roberti Valturii opus de re militari_
con macchine, fortificazioni, assalti. Il _Monte santo di Dio_ e
la _Divina Commedia_ di Firenze nel 1481 portano disegni di Sandro
Botticelli, incisi in rame da Baccio Baldini: un Tolomeo a Roma per
lo Schweinheim, ha le carte in acciajo di Arnoldo Buchink, così uno a
Bologna, e uno pel Berlinghieri a Firenze.
Gli stampatori in principio furono tenuti da molto, e Sisto IV conferì
a Jenson il titolo di conte palatino. Facevano anche da libraj, e
primamente in un libro stampato a Ferrara il 1474 si trova il nome
di _bibliopola_. I Giunti, che stamparono a Firenze e Venezia, fin
stelle indicate nell’_Almagesto_, sospettò si fosse cambiato l’asse
di rotazione della terra, ed ebbe scolaro Copernico, cui suggerì il
concetto del sistema pitagorico. Paolo Toscanelli da Firenze confortò
le speranze di Cristoforo Colombo sulla possibilità di giungere alle
Indie dalla parte d’Occidente.
Le scienze naturali proseguivano in caccia di testi più che di
fatti, e solo nel secolo seguente appoggiaronsi alla sperienza e alle
matematiche, surrogando la realtà alle chimere, l’evidenza alle ipotesi
e all’autorità. Nè in medicina si paragonava lo stato sano col morboso;
e il libro del Ficino _Della vita umana_ è tutto formole per conservare
la salute e prolungare la vita con astrologiche osservanze; dalle
stelle deduce le malattie e l’efficacia dei rimedj; insegna ai vecchi
a ringiovanire bevendo sangue di giovani: delirj, comuni ad Arnaldo
Bacone, ad Arnaldo di Villanova ed ai migliori, ma combattuti da Pico
e dal Guainero pavese. Dino del Garbo, gloria dell’età sua, aggiunse
altre sottigliezze alle arabiche. Marsilio da Santa Sofia, Gentile
da Fuligno, Pietro da Tossignana, Guglielmo da Varignana, Cristoforo
Barziza, Giovanni da Concorezzo ed altri esercitarono con lode e
scrissero di medicina. Michele Savonarola padovano, buon osservatore,
francamente si emancipa da Averroe; eppure crede che Niccolò Piccinino
generasse di cento anni, che dopo la peste del 1348 invece di trentadue
denti se n’avessero ventidue o ventiquattro, e che col feto possa
uscire talvolta un animale.
I medici non rifuggivano dalla chirurgia, mentre questa fuor d’Italia
era abbandonata a barbieri ignoranti. Il salasso tenevasi operazione
d’importanza; contendevasi seriamente sul dove e quando praticarlo;
allorchè ne facesse bisogno, nelle case principesche adunavansi parenti
e amici, e se riescisse bene, ringraziavasi il Signore festeggiando.
Vincenzo Vianeo di Maida, Branca e Bojani di Tropea introdussero
l’innesto animale, rifacendo nasi. Il Governo veneto, come in molti
provvedimenti, così prevenne gli altri coll’ordinare, ai 7 maggio
1308, che ogni anno si sezionasse qualche cadavere. Nel 1315 Mondini
de’ Luzzi, professore a Bologna, ne dissecò pubblicamente, e diede
una descrizione del corpo umano fatta sul vero, e tavole anatomiche:
e sebbene non sappia francarsi dalla venerazione agli antichi, e
alle asserzioni di Galeno sagrifichi perfino l’evidenza, pure rimosse
molte asserzioni fantastiche, disse ciò che propriamente avea veduto,
e spiegò semplice e preciso; onde il suo libro per tre secoli rimase
testo; aggiungendovi le scoperte che man mano si facevano. Dopo lui
s’introdusse d’aprire ogni anno uno o due cadaveri nelle università:
Bartolomeo da Montagnana, professore a Padova, si vanta d’aver fatto
quattordici autopsie[161].
I farmacisti per lo più erano anche droghieri, laonde speziale
significò farmacista e confetturiere; e le città, nell’accordare le
licenze, v’aggiungevano l’obbligo di mandare alcuni dolci alla camera
del Comune. Saladino d’Ascoli diede un _Compendium aromatariorum_ per
norma dei farmacisti, dai quali pretende tante qualità, che pur beato
se la metà ne possedessero. Santo-Arduino fece altrettanto per Venezia,
Ciriaco degli Agosti di Tortona per l’Italia occidentale, Paolo Suardo
pel Milanese. Ermolao Barbaro e Nicolò Leoniceno, commentando Plinio,
giovarono assai alla botanica officinale. Nel 1415 Benedetto Rinio
medico e filosofo veneto, con lunga diligenza e peregrinazioni faceva
il _Liber de simplicibus_ in quattrocentrentadue faccie benissimo
dipinte da Andrea Amadio, e coi nomi latini, greci, arabi, slavi,
tedeschi. È la maggior raccolta che ancor si fosse fatta di piante e
fiori, col tempo opportuno a raccoglierli e l’applicazione medicinale;
e sta nella Marciana, coll’_Erbario o storia generale delle piante_,
lavorato nel secolo seguente da Pier Antonio Michiel.
Papa Benedetto XIII riprovò la magia come ereticale; e poichè
moltiplicavansi le guarigioni presunte miracolose alle tombe di san
Rocco, di santa Caterina da Siena, di sant’Andrea Corsini ed altri,
la Chiesa provvide non avesse a gridarsi al miracolo se non quando il
morbo fosse incurabile, e istantaneo il risanamento. La ricorrenza
delle pesti[162] crebbe la devozione per san Sebastiano, pel santo
Giobbe, per san Rocco principalmente, che di quell’età appunto dal
patrio Montpellier era pellegrinato in Italia onde assistere a’
contagiosi. Spesso ancora sulle facciate delle chiese e su tabernacoli
lungo le vie si dipingevano gigantesche figure di san Cristoforo,
la cui vista diceasi preservare dai cattivi incontri e dalle morti
improvvise, le quali sembra divenissero allora più frequenti; onde
spesseggiarono pure le invocazioni a sant’Andrea Avellino ed altre
devozioni preservative.
A richiamare dalla erudizione all’osservazione, dai testi ai fatti,
valsero alcune malattie nuove, come la morte nera; la tosse ferina,
comparsa nel 1414 sotto forma epidemica; la tarantola, epidemia
psichica che s’attribuiva al morso d’un ragno, e portava a ballare e
far attucci stravaganti. La lebbra vuolsi venuta in Italia co’ soldati
di Pompeo reduci dall’Egitto, ma presto si spense. Ricomparve al tempo
de’ Longobardi, poi di nuovo alle crociate: e forse non era cessata
mai del tutto, poichè ne cade menzione in miracolose guarigioni, e
negli ospedali istituiti; certamente Costantino, medico della scuola
salernitana, la decriveva precisa nel 1087, cioè avanti le crociate
che la diffusero. Al tempo che discorriamo pare scomparsa, giacchè il
Cardano non la conosceva, il Fracastoro la dice morbo raro[163], e gli
spedali de’ Lazzari diminuivano, per far luogo a quelli destinati a un
altro morbo, conseguenza e castigo della dissolutezza, che diffuso poi
al tempo della calata di Carlo VIII, fra noi ebbe il nome di francese,
di campano tra i Francesi. Dopo molto ragionarne resta dubbio se
venisse dall’America o fosse già conosciuto.
In complesso questa è un’età di reminiscenza, più che di fantasia e di
ragione; si fa tesoro delle cognizioni prische, anzichè conquistarne di
nuove; nè si mettono al vaglio dell’esperienza. Mancando la stampa, i
giornali, la posta, noi ci figuriamo che le opere di letteratura o di
scienza dovessero rimanere in angusto circolo, nè conoscersi lontano
le scoperte d’un paese. Però nelle università concorreva gente da
regioni remotissime, vi si comunicavano le cognizioni, i professori
vi portavano le opere proprie, i giovani voleano tornare in patria
arricchiti di qualche manoscritto, sicchè diffondeansi più prontamente
che non si possa credere. Gli autori stessi più volte, dopo pubblicato
un lavoro, lo correggevano, e ne facevano una seconda edizione, come
si pratica dopo la stampa: così Leonardo Fibonacci nel 1202 pubblicò
il suo _Abacus_, primo trattato d’algebra fra’ Cristiani; poi nel 28 ne
diede una nuova edizione con aggiunte.
Però i libri erano più venerati perchè rari; la quale venerazione
faceva che una notizia si tenesse per vera sol perchè scritta, si
ripetesse dai successivi perchè detta dai precedenti; che se la
sperienza la contraddicesse, non si smentiva l’autore, ma cercavasi
conciliarla, come si fa colla Bibbia, a costo di storpiare la verità.
Spesso s’ignoravano le scoperte e le lucubrazioni anteriori; e mentre
oggi non si perdona d’accingersi a un lavoro senza conoscere tutti i
precedenti, allora si trovano o accettati errori o ignorate verità, su
cui già da un pezzo altri aveva esercitato il giudizio.
Ad accelerare ed assicurare i progressi dello spirito umano valse
un’invenzione suprema di questo tempo, la stampa.
Gli antichi scrivevano sopra cuojo o foglie di palma, o sul libro,
cioè sulla seconda corteccia delle piante: dipoi si preparò carta o
colle fibre del papiro, canna propria dell’Egitto, ovvero con pelle
di pecora, la quale chiamossi _pergamena_ perchè a Pergamo inventata o
perfezionata. Tracciavano i caratteri con bocciuoli di canna, aguzzati
e intinti nell’inchiostro: le scritture di maggior conto incidevansi su
pietra, legno, metalli: per gli usi giornalieri sovra tavolette cerate
notavasi con uno stilo acuto, e si cancellava colla sua estremità
ottusa. Que’ papiri e quelle pergamene coprivansi da un lato solo,
appiccicando un foglio a piè dell’altro sinchè fosse compiuto un libro,
poi rololavansi (_volume_), e si fissavano con un bottone. Giulio
Cesare fu il primo che scrivesse sulle due faccie della pergamena
le lettere al senato, e divulgò l’uso di piegarla al modo de’ nostri
libri. Lisciare i fogli coll’avorio, profumarli coll’olio di cedro,
miniare e dorare le iniziali, le costole, il taglio, gli attaccagnoli,
era servigio degli schiavi libraj e grammatici, de’ quali ogni ricco
teneva uno o più: altri il facevano liberamente per venderli.
Tutto ciò operavasi a mano; e poichè alle mende inevitabili s’univano
quelle varietà capricciose e quasi istintive che ognuno insinua
trascrivendo, differenti e scorrettissimi riuscivano i codici: chi
volesse qualche testo emendato, l’esemplava di proprio pugno, come
fecero pochi diligentissimi grammatici, o qualche dottore della Chiesa,
rendendo famose certe edizioni d’Omero e della Bibbia.
Col cristianesimo l’arte dello scrivere passò dagli schiavi ai monaci,
per la necessità di diffondere dottrine, polemiche, orazioni; san
Benedetto pose obbligo a’ suoi il copiarne; monache vi si esercitavano
pure. Quanto dell’antichità possediamo, ci arrivò quasi solo per man
di essi; onde è ingratitudine e illiberalità il querelarli se, meglio
degli autori classici, si piacquero trascrivere i santi Padri ed opere
di teologia. Intanto è vero che degli autori lodatici dagli antichi per
sommi, nessuno forse ci manca, e di questi possediamo il meglio; com’è
vero che, già prima della caduta dell’Impero occidentale, rarissimi
erano fatti alcuni, a cagion d’esempio Aristotele, di cui a’ migliori
giorni di Roma non era avanzato che un solo esemplare; talchè gran
merito reputavasi il farne estratti o compendj, come usarono Floro,
Giustino, Plinio, Costantino ed altri. L’agevolezza procacciata da
questi compilatori recava a prendere minor cura delle opere originali
dopo che se n’era stillato il buono e il meglio, laonde lasciaronsi
andar perdute.
Il guasto degli autori classici cominciò dunque assai prima de’
Barbari; le guerre e gl’incendj di questi ne mandarono a male altri
assai; zelo de’ buoni costumi, che lascio ad altri il condannare,
fece da ecclesiastici distruggere alcuni scandalosi ed immorali.
Era difficile il trarre d’Egitto il papiro; poi divenne impossibile
dacchè gli Arabi l’ebbero occupato. La pergamena, già costosa, crebbe
allora smodatamente di prezzo; onde si ricorse ad uno spediente già
noto agli antichi: ciò fu di raschiare le scritture antecedenti,
onde sovrapporvene di nuove[164]. Buon frate, per te aveano suprema
importanza un antifonario, una raccolta di preghiere, un trattato della
confessione; e quando per essi coprivi o la _Repubblica_ di Cicerone o
il codice Teodosiano, vi avevi tanto diritto quanto oggi n’abbiamo noi
d’usare l’opposto.
Gli antichi valeansi di lettere majuscole e senza interpunzione;
più tardi per espeditezza si raccorciarono, in modo da venirne il
carattere minuscolo. Per la ragione medesima s’introdussero certe
abbreviature o note, le quali furono portate fino a cinquemila, e
col loro mezzo poteano i _notari_ tener dietro a qualunque discorso
per accelerato[165]. Raccoglievano questi dapprima le decisioni del
senato e delle pubbliche adunanze, o le ultime volontà; onde passò
il titolo di notaro a indicare chi è rogato a mettere in iscritto un
atto spettante a fede pubblica. I veri caratteri tachigrafi caddero
in dimenticanza tale nei secoli venturi, che un salterio trovato a
Strasburgo dal Tritemio era registrato nel catalogo come di lingua
armena.
Le iscrizioni già al tempo dell’Impero aveano preso caratteri
d’inelegante magrezza, com’è a vedere su pei muri di Pompei e
d’altrove, e peggio nelle catacombe cristiane e ne’ tempi oscuri; pure
continuarono le lettere tonde. Ma nel XII secolo, mentre s’introduceva
il gusto gotico nell’architettura, anche i caratteri si fecero
angolosi, poi s’ingombrarono di ghirigori; usanza durata fin nel
secolo XV, quando ripigliò la buona calligrafia con gran varietà di
caratteri[166]. Jacopo fiorentino, frate camaldolese, dopo il 1300 è
ricordato come il migliore scrittore di lettere romane che fosse prima
o poi, sicchè la sua mano fu conservata in un tabernacolo. Angelo
Pezzana negli _Scrittori parmensi_ noverò sedici calligrafi valenti,
ai quali poi ne aggiunse altri otto nella _Storia di Parma_, tutti del
secolo XV o circa.
Vi si associò il lusso delle pitture, quasi ogni pagina portando
profili, cornici, figure, stemmi, lettere bizzarre (Cap. XCIX), talchè
un libro divenne il complesso di tutte le arti belle; poesia e retorica
nel comporlo, calligrafia nel trascriverlo, miniatura nell’ornarlo
in oro, carmino, oltremare, pellicceria nel prepararne la coperta,
cesellatura nell’abbellirlo di borchie, oreficeria ad incastonarvi
gemme, doratura a lisciarne i margini.
Qual meraviglia se i libri salirono a prezzi ingenti? Da’ cataloghi che
i libraj esponevano, e dalle tasse determinate dalle università siamo
informati d’alcuni di questi; ma non vuolsi dimenticare che spesso
li rincarivano le miniature. Nel 1279 a Bologna si diedero ottanta
lire (L. 435) per copiare una Bibbia; ventidue per l’Inforziato[167].
Melchiorre, librajo di Milano, chiedeva dieci ducati d’oro per
una copia delle epistole famigliari di Cicerone. Alfonso d’Aragona
scrisse da Firenze al Panormita, che il Poggio aveva a vendere un
Tito Livio per cenventi scudi d’oro; il Panormita alienò una masseria
per acquistarlo; e il Poggio ne comperò una col prezzo ritrattone.
Borso d’Este nel 1464 pagava otto ducati d’oro a Gherardo Ghislieri di
Bologna per avere alluminato un libro intitolato _Lancellotto_; nel 69,
quaranta ducati per un Giuseppe Ebreo e un Quinto Curzio; la famosa
sua Bibbia, due grandi volumi in pergamena, dove ogni pagina porta
miniature diverse, per opera di Franco de’ Rossi e Taddeo Crivelli, gli
costò milletrecento settantacinque zecchini[168]. Piccola cosa doveano
dunque essere le biblioteche d’allora, e re e papi erano scarsi di
libri quant’oggi un cherichetto[169].
Nondimeno certuni aveano potuto raccorne di molti, in Italia
specialmente, e di qui li cercavano gli studiosi, massime da Roma e
da’ conventi rinomati della Novalesa, della Cava, di Montecassino.
La biblioteca del cardinale Giordano Orsini nel 1438, composta di
ducencinquantaquattro codici, stimavasi duemila cinquecento ducati
d’oro[170]. Tommaso da Sarzana ne comperava a credenza, ed accattava
per pagare copisti e miniatori. Il Petrarca lagnavasi che in tutto
Avignone non si trovasse un Plinio; ma una scelta biblioteca erasi
egli formata, che poi cedette per tenue compenso alla Repubblica
veneta: fra quei libri sono un Omero, donatogli da Sigeros ambasciatore
dell’Impero d’Oriente; un Sofocle, avuto da Leonzio Pilato, colla
traduzione dell’Iliade e dell’Odissea fatta da questo, ed esemplata
dal Boccaccio; un Quintiliano; tutte le opere di Cicerone, ricopiate
dal Petrarca stesso: forse è di suo pugno il Virgilio che si conserva
alla biblioteca Ambrosiana. Alla Marciana di Venezia servirono di
fondo i libri che il cardinale Bessarione avea compri per trentamila
zecchini, e che lasciò a quella «città retta dalla giustizia, dove le
leggi regnano, la saviezza e la probità governano, abitano la virtù,
la gravità, la buona fede». Cosmo de’ Medici, esulando colà, donò la
sua al convento di San Giorgio; poi in Firenze colla libreria privata
diede origine alla Laurenziana. Nicolò Niccoli gareggiava, secondo
sua fortuna, con esso nell’adunar libri, e ottocento volumi possedeva
fra greci, latini e orientali, esemplandoli egli stesso, riordinando e
correggendo testi malmenati dagli amanuensi, onde il chiamarono padre
dell’arte critica: lasciò quei libri ad uso pubblico, e furono messi
ne’ Domenicani di San Marco con una disposizione che servì di modello
alle future. Coluccio Salutato, lagnandosi del guasto de’ codici,
proponeva biblioteche pubbliche, dirette da dotti che discernessero
le lezioni migliori; e fece acquistarne una a Roberto di Napoli. Altri
signori l’imitarono; e rammentano un Andreolo de Ochis bresciano, che
venduto avrebbe beni, casa, donna, se stesso per aggiungere libri ai
molti che possedeva.
I lamenti per le scorrezioni delle copie cresceano quanto più
cresceva il desiderio di leggere; e Petrarca esclamava: — Chi recherà
efficace rimedio all’ignoranza e viltà dei copisti, che tutto guasta
e sconvolge?.... Nè fo querela dell’ortografia, già da lungo tempo
smarrita.... Costoro confondendo insieme originali e copie, dopo
aver promesso una, scrivono un’altra cosa affatto diversa, sì che
tu stesso più non riconosci quanto hai dettato. Se Cicerone, Livio,
altri egregi antichi, singolarmente Plinio Secondo, risuscitassero,
credi tu che intenderebbero i proprj libri? o che non piuttosto ad
ogni piè sospinto esitando, or opera altrui, or dettatura dei Barbari
li crederebbero?.... Non v’ha freno nè legge alcuna per tali copisti,
senza esame, senza prova alcuna trascelti: pari libertà non si dà
pei fabbri, per gli agricoltori, pei tesserandoli, per gli altri
artigiani».
Se la scorrezione sgarbava ne’ libri di letteratura, diveniva
importantissima in quelli che concernono la coscienza e la fede.
Pertanto fra gli Ebrei ogni esemplare della Bibbia doveva esser
riveduto dai rabbini; i quali dalla _Massora_ sapevano quanti versetti,
quante parole, quante lettere contenesse il sacro libro, e quante volte
ciascuna fosse ripetuta; e se trovassero qualche lettera di meno, o
scritta con inchiostro impuro, o su membrana preparata da incirconcisi,
bastava per dichiarar guasto quel testo e distruggerlo.
Rinfervorato l’amore degli studj, più vivo fu sentito il bisogno
di qualche succedaneo alla carta di membrana e di papiro, e dai
Cinesi i Tartari e gli Arabi, da questi gli Spagnuoli impararono a
farla di cotone, cui dopo il Mille si surrogarono i cenci di lino.
Se fosse vero che quella non si discerna da questa, come pretende
il Tiraboschi, n’avremmo una prova della sua perfezione, e poco
monterebbe il disputarne. Ad ogni modo erra il Cortusio differendo
al 1340 l’invenzione della carta di lino, la quale chiamossi papiro,
a differenza della bambagina[171]; e Pace da Fabriano, cui egli
ne ascrive il merito, forse non fece che trapiantare nel Trevisano
questa manifattura, già fiorente a Fabriano nella marca d’Ancona. Nè
ha fondamento l’asserire che la Repubblica fiorentina invitasse con
larghissimi privilegi quei di Fabriano a stabilire cartiere a Colle di
val d’Elsa, poichè in una carta del 6 marzo 1377 trovasi allogata per
venti anni una caduta d’acqua a favore di Michele di Colo da Colle, con
gora, casalino _et gualcheriam ad faciendas cartas,_ la quale già prima
era affidata a Bartolomeo di Angelo della Villa[172].
Dapprima adoperata solo per lettere ed istromenti, alla diffusione
delle dottrine non contribuì che nel secolo XIV, quando vi si
trascrissero libri. Dovettero questi allora rendersi men rari, e
qualche mercante ne troviamo alle Università di Germania e di Parigi; a
Firenze il Vespasiano nel 1446, un Melchior a Milano, Giovanni Aurispa
a Venezia poco dopo negoziavano di libri.
Pare condizione vitale della società che le scoperte vengano appunto
quand’essa ne ha bisogno per ispingersi con nuovo slancio. Allora
dunque che l’amore per la letteratura classica volgeva a cercar con
passione e riprodurre gli esemplari, e che le grandi controversie dei
re e della Chiesa faceano moltiplicare scritture, comparve l’arte più
mirabile fra le moderne, la stampa.
Dello scopritore si disputa. Pare i Cinesi la conoscessero da
antichissimo; stampe stereotipe faceansi in Europa, non per uso
letterario, bensì per figure di santi e carte da giuoco[173]; e Venezia
nel 1441 dava un privilegio, atteso che _l’arte di far le carte da
zugar e figure dipinte stampade era venuda a total defection_, in
grazia della gran quantità che n’entrava di forestiere. A quel modo
Lorenzo Coster di Harlem impresse facciate intere. Le prime stampe
furono dunque xilografiche, e la maggior parte veniva occupata da
figure; del che l’esempio più conosciuto è la _Bibbia de’ poveri_,
di quaranta fogli stampati da un lato solo: tutti poi son poco
voluminosi, eccetto i _Mirabilia Romæ_, specie d’itinerario a comodo
degli oltramontani che pellegrinavano alla gran città, e che consta
di centottanta facciate. Presto si avvisò potersi alle tavolette
sostituire caratteri mobili: e così se ne intagliarono di legno, poi di
piombo per arte di Giovanni Guttenberg da Magonza[174], cui l’orefice
Giovanni Faust somministrò capitali. Pietro Schöffer di Gernsheim al
piombo sostituì un metallo duro, e trovò l’inchiostro untuoso da ciò:
ancor più fece inventando i punzoni, sicchè, invece d’intagliarli uno
ad uno, si fusero i caratteri per mezzo di matrici. Il primo libro
stampato con caratteri mobili pare la Bibbia detta Mazarina, dalla
biblioteca in cui fu trovata, ed è del 1450 o 52 o più veramente 55:
alcuni esemplari sono sovra pergamena; bell’inchiostro, bei caratteri,
sebbene non sempre uniformi. Del 1454 si ha un opuscoletto di quattro
carte per esortare i Turchi con indulti di Nicola V; poi un almanacco
del 57.
Presto quell’arte giunse in Italia[175], e del 1465 abbiamo l’edizione
di Lattanzio e del _Cicero de oratore_ a Subiaco per Corrado
Schweinheim e Arnoldo Pannartz, coll’assistenza di Giovanni Andrea
Bussi di Vigevano, poi vescovo di Aleria; ma dicesi preceduta da un
_Donatus pro puerulis_. In Roma al 70 erano uscite almeno ventitre
edizioni di antichi. Giovanni da Spira, collocatosi a Venezia nel
69, vi lavora quanto a Roma; e così Vindelino suo fratello, poi
il francese Nicolò Jenson. Fino al 1500 s’erano stampate a Parigi
settecencinquantun’opere; in Italia quattromila novecentottantasette,
di cui a Firenze trecento, a Bologna ducennovantotto, a Milano
seicenventinove, a Roma novecenventicinque, a Venezia duemila
ottocentrentacinque; altre cinquanta città aveano stamperie. Anche
borgate vollero averne, come Sant’Orso presso Schio, Polliano nel
Veronese, Pieve di Sacco nel Padovano, Nonantola e Scandiano nel
Modenese, Ripoli presso Firenze. Le opere di Cicerone furono delle
prime; edite dallo Schweinheim a Roma e dal Jenson a Venezia; ma in
un corpo non comparvero che nel 98 a Milano pel Minuciano. Un Livio
imperfetto era appartenuto al Petrarca, poi l’ebbe Cristoforo Landino,
e su quella forma andò la prima stampa fattane a Roma forse fin dal 69,
poi nel 72; indi a Milano nel 78 dal Lavagna, e nell’80 dallo Zarotto;
e già a Venezia da Vindelino nel 70, a Roma ancora nel 71 e 72 da
Udalrico Gallo, a Treviso nell’80 e 83 da Michele Mazolino co’ tipi di
Giovan Vercelli, a Milano di nuovo nel 95: ma completo, almeno quale
ci resta, si vide solo a Magonza nel 1518. Di Vitruvio un esemplare si
aveva a Montecassino, e fu stampato a Roma nell’86, e commentato nel 95
da Silvano Morosini veneziano.
I copisti a mano erano di molta valentia e credito in Genova; e
temendo lo scapito che all’arte loro verrebbe dai torchi, ottennero
che quella Signoria li proibisse. Pertanto Mattia il Moravo, che vi
si era stabilito, passò a Napoli; e Giovan Bono tedesco, che a Savona
avea stampato Boezio, si trasferì a Milano. In conseguenza maestro
Filippo da Lavagna, ricco mercante innamorato di quest’arte, non potè
fondarla in patria, e la pose a Milano, primo stampatore nostrale che
si ricordi[176]. Gli disputa tale primato Antonio Zarotto di Parma,
che a Milano nel 1471 pubblicava Festo _De verborum significatione_,
e la _Cosmografia_ di Mela; l’anno dopo formava società con prete
Gabriele degli Orsoni, Pier Antonio da Borgo di Castiglione, Cola
Montano e Gabriele Paveri Fontana professori d’eloquenza, obbligandosi
egli a fondere caratteri, tenere in ordine i torchj, far l’inchiostro,
dirigere la tipografia. Fu il primo che stampasse libri liturgici
col celebre messale del 1475, e intagliasse punzoni di greco per la
grammatica del Lascari[177], mentre prima s’inscrivevano a mano. Vi
tennero dietro la _Batracomiomachia_ nell’85, l’Omero di Firenze
nell’88 a spese di Lorenzo Medici, l’Esiodo e Teocrito nel 93,
l’_Antologia_ nell’84, Luciano, Apollonio, il _Lessico_ di Suida: ma al
1495 non passavano la dozzina i libri greci stampati in Italia.
Il primo stampato italiano fu l’opera del Cennino orafo. A Reggio di
Calabria stamparonsi in ebraico i commenti di Jarchi sul Pentateuco nel
75; a Soncino nel Cremonese, per cura di Nathan Ismaele, il Pentateuco
nell’82; nell’86 i commenti del famoso Kimcki sui Profeti; nell’88
l’intera Bibbia con bellissimi caratteri, della quale non più che
cinque o sei esemplari si conoscono. A Cremona poi nel 1556 Vincenzo
Conti stampava i _Toledot_ e il salterio ebraico commentato dal Kimcki;
e in quella città, d’ordine dell’Inquisizione romana, si dice siano
stati abbruciati dodicimila esemplari di libri talmudici. Tipografie
ebraiche v’ebbe pure a Casalmaggiore e Sabbioneta. I primi caratteri
arabici si adoperarono a Fano da Gregorio Giorgi nel 1514 nelle sette
ore canoniche, poi da Pier Paolo Porro milanese.
A ristorare la deteriorata calligrafia sorse Aldo Manuzio di Sermoneta.
Dopo il _Museo_, prima opera da lui edita in Venezia nel 1495, il dotto
tipografo continuò venti anni attorno a classici latini e greci[178];
e si stupisce pensando che stampò per la prima volta Aristotele,
Aristofane, Tucidide, Sofocle, Erodoto, Senofonte, Erodiano, Demostene,
i Retori, gli Oratori, Platone, Ateneo, Dioscoride..... Adoprò il
carattere corsivo, detto _italico_ dai Francesi, ed inciso da Francesco
di Bologna, che tolse a modello la scrittura del Petrarca. Aldo stesso
le più comode e men dispendiose forme del dodicesimo, ossia piccolo
ottavo, sostituì alle solite in-folio: forse soltanto in Italia usavasi
l’in-quarto. Via via s’introdussero i registri dei fogli, prima che si
numerassero le pagine o le facciate; s’imparò a compartire gli spazj in
modo che le linee riuscissero eguali, senza code alla lettera finale;
poi vennero le virgole, poi le chiamate, e passo a passo la perfezione
presente.
La carta doveva emulare la pecora e il vitello (_vélin_), onde si facea
con cenci scelti di lino e di canapa, non imbianchita col liscivio che
oggi snerva la fibra vegetale: la pasta trituravasi lentamente colle
pile: ed il foglio, fatto a mano colla trecciuola, veniva incollato
fortemente colla gelatina, la quale lo induriva in modo che fin ad oggi
ne troviamo inalterate le qualità.
La carezza della carta e dell’inchiostro (il migliore traevasi da
Parigi), la tiratura diligentissima, i lavoranti ancora scarsi, e il
piccolo spaccio rendeano rischiose le imprese. Schweinheim e Pannartz
nel 1472 esposero a papa Sisto IV di trovarsi ridotti a povertà per
avere impresse tante opere senza esitarle; e dalla loro querela appare
che di consueto si tiravano copie ducensessantacinque, il doppio per
Virgilio, pe’ filosofici di Cicerone, e pei libri di teologia; in tutto
essi aveano prodotto dodicimila quattrocensettantacinque esemplari.
Anzichè arrischiare copiose edizioni, rinnovavansi; e quasi ogni anno
furono da Paolo Manuzio riprodotte le epistole famigliari di Marco
Tullio.
Presto ai libri si aggiunsero figure[179]; e già nel 1467 a Roma
uscivano le _Meditazioni_ del cardinale de Turrecremata con intagli in
legno, dipoi coloriti; nel 72 il _Roberti Valturii opus de re militari_
con macchine, fortificazioni, assalti. Il _Monte santo di Dio_ e
la _Divina Commedia_ di Firenze nel 1481 portano disegni di Sandro
Botticelli, incisi in rame da Baccio Baldini: un Tolomeo a Roma per
lo Schweinheim, ha le carte in acciajo di Arnoldo Buchink, così uno a
Bologna, e uno pel Berlinghieri a Firenze.
Gli stampatori in principio furono tenuti da molto, e Sisto IV conferì
a Jenson il titolo di conte palatino. Facevano anche da libraj, e
primamente in un libro stampato a Ferrara il 1474 si trova il nome
di _bibliopola_. I Giunti, che stamparono a Firenze e Venezia, fin
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