Storia degli Italiani, vol. 08 (di 15) - 21

Ferrara, Ugo de’ Benzi senese, «tenuto ne’ suoi tempi principe de’
medici, invitò seco a desinare tutti que’ filosofi greci che erano
venuti a Ferrara; e dopo il splendido apparato venuto al fine a poco a
poco, pian piano cominciò a tirargli piacevolmente in disputa, sendo
già presente il marchese Nicolò, e tutti i filosofi che si trovavano
in quel concilio. Addusse in mezzo tutti i luoghi de la filosofia,
sopra quali par che fieramente contendino e sieno tra loro discordanti
Platone ed Aristotele, e disse ch’egli voleva difendere quella parte
che oppugnerebbero i Greci, seguissero Platone o vero Aristotele.
Non ricusando la contesa i Greci, durò molte ore la disputa; al fine
avendo Ugo padrone del convito fatto tacere i Greci ad un ad uno con
l’argomentazione e con la copia del dire, fu manifesto a tutti che i
Latini, come già avevano superato i Greci con la gloria de l’armi, così
nell’età nostra e di lettere e d’ogni specie di dottrina andavano a
tutti innanzi»[148].
A Firenze il 1441 fu annunziata, per cura di Lorenzo De’ Medici e di
Leon Battista Alberti, una gara pubblica di letterati, dove ciascuno
leggerebbe qualche suo componimento intorno alla vera amicizia, e il
migliore otterrebbe una corona d’argento in forma d’alloro. In Santa
Maria del Fiore, magnificamente parata e coll’intervento delle autorità
e di gran popolo, lessero lor composizioni Francesco Alberti, Antonio
Alli, Mariotto Davanzati, Francesco Malecarni, Benedetto Aretino,
Michele da Gigante, Leonardo Dati, applauditi come si suol essere
in tali circostanze: ma i segretarj di papa Eugenio, ai quali per
onoranza erasi rimesso il decidere, dichiararono che erano tutte belle
quasi del pari, e si trassero d’impaccio col decretare la corona alla
Chiesa[149]. Poi esso Lorenzo volle rinnovare dopo dodici secoli la
festa di Platone, che si celebrava ai tempi di Plotino e Porfirio; e
Firenze e Careggi seguitarono per più anni a festeggiare lo scolaro di
Socrate.
Anche fuori venivano cercati i nostri; e Gregorio di Tiferno, allievo
del Crisolara, nel 1458 ridestava gli studj classici nell’Università di
Parigi; nella quale professarono Tranquillo Andronico, Fausto Andreini,
Beroaldo, Balbi, Cornelio Vitelli, forse altri.
Conseguenza della stima allora profusa ai letterati fu l’affidare
ad essi l’educazione de’ principi, lasciata in prima a guerrieri e a
dame. Il Guarino allevò Lionello d’Este; tre figliuoli e una figlia
di Francesco Gonzaga di Mantova Vittorino da Feltre, collocato perciò
in un’abitazione da principe, con giardini, appartamenti sontuosi,
pitture, giuochi, sicchè a ragione chiamavasi la Giojosa. Vittorino
però non la pensava come certi odierni pedagoghi, che deva esser gaja
ed agevole l’educazione, mentre avvia ad una vita di triboli; sicchè
poco a poco fece sparire le delizie, e l’effeminata magnificenza
ridusse a parca severità. Eppure mostravasi padre affettuoso ancor
più che abile maestro; a lui accorreasi di Francia, di Germania, di
Grecia, e vi si trovava ogni mezzo di istruirsi nelle scienze e nelle
arti belle, avendo intorno a sè raccolto maestri d’ogni bel sapere. Da’
suoi scolari pretendeva esatta esposizione; col che avviò alla lettura
corretta. Nulla pubblicò, e, mirabil cosa tra que’ dotti iracondi, non
si trova chi di lui sparlasse. Francesco Prendilacqua suo discepolo ne
scrisse un’elegante vita, conseguendo il più bell’effetto, quello di
far amare il suo eroe.
Maffeo Vegio, che ebbe la baldanza di fare seicento versi di
supplemento all’Eneide, nel trattato dell’educazione[150] diede
buoni consigli ai maestri, deducendoli non solo dagli etnici, ma
anche dai santi Padri; bene espose le virtù e i vizj de’ giovani; e
all’educazione delle fanciulle applicò molti esempj, tratti da santa
Monica madre di sant’Agostino.
È strano che principi, futuri reggitori di popoli, s’affidassero a
gente ignara di governo, e sol capace per avventura di formare il prete
o l’avvocato. Ma il vezzo si perpetuò: e mentre gli antichi insegnavano
nelle scuole la storia e le idee della propria nazione, e lo studiar
le straniere fu curiosità o erudizione di pochi; nelle moderne, al
contrario, i figli si addestrarono in lingua diversa dalla materna, e
leggi e società estranee alla loro propria, onde i sentimenti attinti
dalla scuola discordarono da quelli che doveano avere nel mondo.
Molti poetarono latino, fra cui Zanobio Strada fiorentino, che n’ebbe
corona dall’imperatore, e del quale non ci rimangono che cinque
poveri versi. Il Petrarca loda moltissimi come degni d’alloro; anzi
del lor soverchio numero si lagna, «contagio che penetrò fin entro
la corte romana, ove giureconsulti e medici non badano ad Esculapio
e a Giustiniano, non a litiganti e infermi, ma a Virgilio ed Omero;
agricoltori, falegnami, muratori gettano gli stromenti delle arti
loro per trattenersi con Apollo e colle Muse. Temo d’avere col mio
esempio contribuito a tale farnetico». Battista Mantovano, onorato di
statua accanto a Virgilio, al quale Erasmo nol credeva inferiore, oggi
chi lo ricorda? Migliore è Giovian Pontano, preside dell’accademia
di Napoli, rimasta la più illustre al cadere della romana e della
fiorentina: e di fama più estesa Angelo da Montepulciano, col nome
di Poliziano. Raccolto giovinetto (1491) da Lorenzo Medici che ne
indovinò l’ingegno, a ventinove anni professò greca e latina eloquenza,
sapeva d’ebraico, ed ebbe ogni sorta di onori e d’insulti dagli emuli.
Le sue _Miscellanee_, raccolta di cento osservazioni di grammatica,
d’allusioni, di costumi sopra autori latini, erano reputate capolavoro,
e gloria l’esservi menzionato, come ingiuria il restarne dimentico.
Tratta egli que’ soggetti con solida e variata amenità, ben rara agli
eruditi, e con purezza superiore ai precedenti, sentendo al vivo
le bellezze romane, ben descrivendo, a gran proposito adoperando i
classici, comunque ridondi nelle descrizioni, abusi dei diminutivi
e degli arcaismi, e inciampi in improprietà[151]. Meglio meritò col
trasfondere i modi de’ classici nella poesia italiana, siccome il
Boccaccio avea fatto nella prosa, richiamandola all’eleganza.
Anche gl’ingegni migliori, a forza di pensar latino, si erano domati
alla servitù dell’imitazione; e come in quello si ricalcavano Virgilio
e Cicerone, così nell’italiano il Petrarca e il Boccaccio (Dante fu
dimenticato), e si cominciarono dispute eterne intorno alla lingua,
derivandone l’autorità da questo autore, anzichè ricorrere alla
parlata. Ma tristo effetto di quella idolatria per gli antichi era
stato il disprezzo per la lingua italiana, abbandonata col titolo di
vulgare. «Mi ricordo io (dice Benedetto Varchi) quando ero giovinetto,
che il primo e più severo comandamento che facevano generalmente i
padri a’ figliuoli, e i maestri a’ discepoli, era che eglino, nè per
bene nè per male, non leggesseno cose vulgare (per dirlo barbaramente
come loro): e maestro Guasparri Mariscotti da Marradi, che fu nella
grammatica mio precettore, uomo di duri e rozzi ma santissimi e buoni
costumi, avendo una volta inteso, in non so che modo, che Schiatta di
Bernardo Bagnesi ed io leggevamo il Petrarca di nascoso, ce ne diede
una buona grida, e poco mancò che non ci cacciasse dalla scuola».
Ne venne di conseguenza un gergo affettato insieme e rozzo, di
barbarismi vulgari mescolati a latinismi eruditi, senza sapore di
legamenti, senza scelta di frasi, senza nerbo di sintassi, ma contorto
e rabberciato, tutto toppe e rappezzi, simile a quello che poi s’imitò
per ischerzo, e si chiamò maccheronico e fidenziano. Chiunque abbia
letto qualche libro d’allora, potette averne un saggio; e se non
basti qualche passo da noi citato, e singolarmente la lettera del
Poliziano (pag. 300), soggiungeremo che il vescovo di Vercelli, il
presidente del consiglio, il capitano di Sant’Agata, ambasciadori del
duca di Savoja, scrivevano al duca di Milano nel 1484: — La Excellenza
del nostro signor duca a recevuto una lettera vostra, della quale
el tenore et contenu est che Lojis et Passin de Vimercà hano tractà
et conspirà de privare el signor Lodovico vostro degnissimo barba
dello governo ecc.»[152]. Frà Jacopo Filippo da Bergamo, autore d’una
storia generale col titolo di _Supplementum Chronicorum_, stampato
quattro volte in quel secolo e più altre dappoi, e lodato per rare
notizie, scriveva al cardinale Ippolito d’Este nel 1498: — Questi
itaque anni passati, havendo me tua Excellenzia mandato a donare
una bella mulla per mio usare, la acceptay cum gratiarum actione, et
poy statim cognosce me ancora gagliardo di posser caminare a’ piedi,
gela remanday. Ma di presente siendo molto invecchiato, et appresso
a li settanta anni di etade, non possendo quasi più caminare, cum una
indubitata fede me voglio ricorrere a la plentissima vostra signoria,
come quella a suo devotissimo oratore gli piaqua donarli una qualche
honesta chavalchatura; et questo prima per amore di Dio, et per
riconoscimento di tante mie fatiche, che hoe pigliato in ornare tutta
la illustrissima casa vostra etc....». E frà Francesco Colonna, autore
d’un eruditissimo e lascivo romanzo, _Hipnerotomachia Poliphili, ubi
humana omnia nonnisi somnium esse docet_, finge d’essersi in sogno
ritrovato «in una quieta e silente piaggia, di culto diserta, d’indi
poscia disaveduto con grande timore intrò in una invia et opaca silva»;
e così descrive l’aurora: «Phoebo in quel hora manando, che la fronte
di Matula Leucothea candidava, fora già dell’oceane onde, le volubili
rote sospese non dimostrava, ma sedulo cum gli sui volucri caballi
Pyroo primo et Eoo alquanto apparendo, ad dipingere le lycophe quadrige
morava». E di questo tenore prosegue tutto il dottissimo volume.
Se però decadeva l’italiano letterario, il popolare acquistava dovizia
e destrezza, e felicemente l’adoprarono alcuni Fiorentini, come Matteo
Palmieri nel dignitoso e sobrio trattato della _Vita civile_; Feo
Belcari, che con cara semplicità stese la _Vita di Giovanni Colombini_
e varie poesie divote[153] e rappresentazioni sceniche; e Agnolo
Pandolfini, nel _Governo della famiglia_[154], dialogo di persone
reali intorno a reali soggetti e ai bisogni quotidiani, con precetti
d’economia e di morale alla mano di tutti, ed esposti con purissima
proprietà, vero modello di simil genere di comporre. Alla stessa fonte
attinsero Luigi Pulci, il Poliziano, Lorenzo Medici, che saluteremo
quali precursori dell’aureo Cinquecento. Esso Lorenzo a diciassette
anni s’incontrò con Federico d’Aragona, figlio del re di Napoli, e
domandato da questo sui migliori poeti italiani, di propria mano gliene
trascrisse molti, insieme con alcune proprie composizioni. Di poi si
facea capo delle mascherate che uscivano il carnevale, con sempre nuove
invenzioni e addobbi; induceva i poeti a compor canzoni per quelle, e
ne componeva egli stesso; e scendeva sulla piazza a menar la danza, a
intonar l’aria, ad accordare gli strumenti, facendo arte di governo la
letizia d’un popolo ch’era alla vigilia di troppe sventure.


CAPITOLO CXXII.
Scienziati. I libri. La stampa.

Carlo IV mandò al Petrarca un diploma, ove Giulio Cesare e Nerone
assolvevano l’Austria dalla dipendenza imperiale; ed esso il dichiarò
impostura. Scoperta di minimo merito, se allora non fosse stato
straordinario il dubitare di cosa scritta; e al Petrarca va lode
d’avere usato la critica, quantunque spesso in fallo, sovra di opere
attribuite ad autori falsi, o di cui scambiavansi il tempo e il nome.
Egli avea fatto una raccolta di medaglie, e si lagna che i Romani
ignorino le cose proprie, e per vile guadagno distruggano i preziosi
avanzi campati dai Barbari; e dell’averli restaurati encomia Cola
Rienzi, il quale dallo studio di questi aveva attinto l’ammirazione
pel buono stato antico[155]. Anche Guglielmo Pastrengo, grand’amico
del Petrarca, ustolava ad anticaglie ed iscrizioni; e il suo _Lessico
storico_, biblioteca generale degli scrittori sacri e profani, per
quanto imperfettissimo, attesta molta lettura. Nicolò Niccoli possedeva
una serie di medaglie, di cui si valse per accertare l’ortografia di
alcune voci.
Che le iscrizioni potessero venire in appoggio alla storia, l’aveano
già scorto gli antichi. Il Pizzicolli, detto Ciriaco Anconitano,
per incarico di papa Nicola V andò a farne una raccolta per Italia,
Grecia, Ungheria, e pei paesi di Levante ancora intatti dai Turchi; nè
noi col Poggio e col Decembrio teniamo ch’e’ fosse impostore, bensì
che spessissimo s’ingannasse nel giudicare il tempo, l’origine, la
destinazione de’ monumenti. Anche l’architetto frà Giocondo da Verona
ne raccolse di molte; a Reggio serbasi manoscritta la raccolta di
Michele Ferravino con disegni; una ne fece Nicolò Perotto, vescovo di
Manfredonia; altri altre di particolari provincie. Girolamo Bologni pel
primo v’aggiunse spiegazioni e commenti, talchè la storia presentavasi
appoggiata all’erudizione. Con testimonj di questa Bernardo Rucellaj,
splendido amico dei letterati, trattò della città di Roma; e Biondo
Flavio (-1463), segretario di Eugenio IV, ne illustrò gli edifizj,
il governo, le leggi, le cerimonie, la disciplina militare (_Romæ
instauratæ libri III — Romæ triumphantis libri IX_); poi nell’Italia
illustrata descrisse le quattordici regioni della penisola: ma era
possibile non incappasse in molti errori? Nega che esistesse un vulgare
parlato, contemporaneo allo scritto dei classici. Preparava anche una
storia d’Italia dalla caduta dell’Impero fino a’ suoi giorni.
De’ magistrati romani discorse Domenico Fiocchi (1497) fiorentino
Pomponio Leto calabrese, bastardo dei Sanseverino, cercò monumenti
_fin in riva al Tanai_, e pensava vedere le Indie; ma nel distolse la
compagnia de’ valentuomini, dei quali era capo nell’accademia romana.
Dilapidata la sua casa in una sollevazione ai tempi di Sisto IV,
«lui in giuppetto coi borzacchini e con la canna in mano se n’andò a
lamentare co’ superiori» (Infessura), e gli amici a gara il rifornirono
d’ogni occorrente. Sino alle lacrime il commoveano i monumenti, e per
ammirazione all’antichità pareangli selvaggi i costumi e le credenze
presenti, a tal segno che fu creduto empio. Di rimpatto Bonino
Mombrizio milanese in due eleganti volumi raccolse vite di santi, tolte
da biblioteche e archivj, copiando fin gli errori, e non discernendo le
apocrife.
Annio da Viterbo domenicano, per gran virtù e franchezza (1502) fu
elevato maestro del sacro palazzo, e odiato da Cesare Borgia che
forse il fece avvelenare. Nei trattati _Dell’impero de’ Turchi_ e
_De’ futuri trionfi de’ Cristiani_ deduceva dall’Apocalissi speranze
per la prossima caduta del nemico della cristianità. Era il tempo che
comparivano ad ogni ora nuovi documenti dell’antichità, onde furono
accolti con entusiasmo i suoi _Antiquitatum variarum volumina XVII_.
Erano autori antichissimi, atti a chiarire l’origine de’ popoli,
quali Beroso caldeo, Fabio Pittore, Mirsilo da Lesbo, Sempronio,
Archiloco, Catone, Metastene, Marceto, altri ed altri. Ne tripudiarono
gli eruditi, levando a cielo il fortunato Annio; a gara ingemmarono
le loro scritture coi bei trovati di esso; e tutte le storie uscite
in quel torno ne furono infette. Perocchè que’ frammenti non erano
che una finzione, e poco tardarono ad olezzare di falso. Ma era egli
ingannatore o ingannato? ancora se ne disputa, nè manca chi li crede
di fondo vero, comunque alterato; e il moderato quanto erudito Zeno,
esaminando la questione riprodottasi fra il domenicano Mazza che
pubblicò l’_Apologia_ di Annio, e il Macedo che la sostenne contro
il veronese Sparavieri, trova eccesso da un canto e dall’altro,
giudicandolo illuso da quelli che allora speculavano sopra la smania
delle scoperte antiche.
Intanto non è a dire quanta confusione ne venisse a tutti gli storici
nostri, massimamente municipali, che con intrepidezza risalivano a Noè
o almeno alla guerra di Troja, e cercavano tra Fenici e Caldei quel che
avevano in casa: i Milanesi seppero che Anglo figlio di Ettore fondò
Angleria, e fu stipite de’ Visconti, i quali perciò s’intitolavano
conti d’Angéra; i Comaschi ebbero in pronto un Comer figlio di Giafet
fondatore della loro città; Cremona un Cremone trojano (vedi Cap. II);
Gian Grisostomo Zanchi deduceva il nome così tedesco di Bergamo dalle
voci ebraiche _Beradin gom mon_, cioè _inundatorum clypeata civitas_,
che interpreta _Dei Galli regia città_. Nè va di miglior passo il
Platina nella storia di Mantova; ma in quella dei papi ripudia,
congettura, e se non sempre imbrocca, già era assai questo dubitare di
asserzioni d’antichi. Abbiamo detto a quali ardimenti si spingesse la
critica col Valla (pag. 314).
Conosciuti i modelli classici, migliorato il gusto, si volle che la
storia fosse anche bella; e tale fu scritta spesso in latino, talvolta
in vulgare. Dei vulgari già parlammo (tom. VII, pag. 332): fra i latini
è dei migliori Andrea Silvio Piccolomini, che in quella d’Austria
raccontò i fatti della Boemia e di Federico III, nella _Cosmografia_
descrisse l’Europa e l’Asia Minore, ed espose gli avvenimenti
dell’Italia dall’anno di sua nascita fino all’ultimo del suo
pontificato con vigorosa dicitura e studio dei caratteri e dei costumi.
Stamparonsi centoventi anni dopo, sotto il nome di Giovanni Gobellino
suo segretario, continuati fino al 1469 da Jacopo degli Ammanati
fiorentino, cui esso papa diede il cognome della propria famiglia e il
vescovado di Pavia e il cappel rosso.
Antonio Bonfini d’Ascoli, vissuto in Ungheria alla corte di Mattia
Corvino e di Vladislao II fino al 1502, lasciò tre decadi della
storia di quel paese al modo di Tito Livio, cioè elegante e falsa,
pure preziosa dove ogn’altra ne manca. Filippo Bonaccorsi o Callimaco
Esperiente toscano, fuggito da Roma al disperdersi dell’accademia, dopo
lungo errare fu in Polonia accolto da re Casimiro, che collo storico
Giovanni Dlugos l’adoprò per educatore di suo figlio, segretario
proprio, e spesso ambasciadore. Scrisse i fasti di re Ladislao V e la
battaglia di Varna ove questi era perito; e un opuscolo sulle mosse de’
Veneziani per eccitare Tartari e Persi contro i Turchi.
Aurelio Brandolini, detto Lippo perchè cieco, poeta latino di Firenze,
in Ungheria caro a Mattia Corvino, morì a Parma il 1497, lasciando
moltissime opere.
Da Tommaso da Pizzano, astrologo bolognese a’ servigi di Carlo V di
Francia, nacque Cristina, che bella ed educata alla corte e alle
lettere, vide applaudite le prime sue poesie; poi per provvedere
alla sua povera vedovanza scrisse d’arte militare, la _Mutazione di
fortuna_, e la vita o piuttosto panegirico di quel re. A fatica oggi
può leggersi quel che allora tanto ammirossi: pure associa vivacità
poetica con fina ragionevolezza, delicato sentimento con forza.
Le scienze dunque erano uscite affatto dal santuario, e secolarizzate;
se la teologia rimaneva sempre la prima, non era più l’unica; e
sebbene in essa, fra tanti dissensi ecclesiastici, si moltiplicassero
dissertazioni e commenti, nessuno s’accostò alla potenza di Tommaso
d’Aquino e di Bonaventura. Quanti ragionamenti e sofisterie nella
quistione de’ Minoriti! In più serie e vitali quistioni ai concilj di
Basilea, di Costanza, di Firenze figurarono e nostrali e stranieri, e
principali Enea Silvio e il cancelliere Gerson.
A quest’ultimo i Francesi, a Tommaso da Kempis i Tedeschi, i nostri a
Giovanni Gersen abate di Vercelli[156], attribuiscono l’_Imitazione
di Cristo_, il libro più famoso del medioevo, e il più letto dopo
la Bibbia, e che si disse sarebbe il primo del mondo se questa non
esistesse: riprodotto in almeno mille ottocento edizioni, tradotto
in ogni lingua, senza che alcuna raggiunga la concisa energia di quel
latino, comunque scorretto, e simile alle figure di santi che allora
posavansi sui sepolcri, non mosse, eppur belle, e sopratutto soavi.
Non prende esso per intermediarj i profeti, i dottori, la Chiesa, ma
è un colloquio dell’anima col suo Creatore. Quest’intimità ne forma
l’attrattiva; e poichè non v’ha dispute, non sistemi e speculazione,
non decisioni particolari, ma impeti dell’anima, nulla d’intrinseco
ajuta a riconoscerne l’autore. Tale incertezza non mal gli si addice,
scomparendo affatto la personalità perchè rimangano soli il cuore e il
sentimento. In tempo di tanto litigare, ivi nessun alito di polemica;
al più qualche gemito sull’infelicità de’ tempi, e il consiglio di
ripararsene col formarsi una solitudine profonda, dove ascoltare Iddio
che parla. E sull’anime invelenite dall’amor della contesa come dovea
piovere ristorante quella parola: — Nella croce è salute, è vita, è
schermo dai nemici, è infondimento di superna dolcezza; nella croce è
vigore alla mente, gaudio allo spirito. Nella croce sta tutto, tutto
è riposto nel morire; nè alla vita e all’interna pace v’è altra via
che della croce e della cotidiana mortificazione. Cammina per dove
vuoi, cerca checchè tu vuoi; non troverai più alta strada di sopra,
nè più sicura di sotto, che quella della croce. Disponi le cose come
ti pare e piace, non però troverai altro che da patir qualche cosa.
La croce è sempre apparecchiata, e in ogni luogo ti aspetta: non
la puoi cansare dovunque tu corra. Se la porti di buon grado, ella
porterà te, e ti scorgerà al termine desiderato, dove sia fine al
patire: se forzatamente la porti, ti fai un peso, e viepiù gravi te
stesso, e nondimeno ti sarà forza portarla. Se una croce tu getti via,
un’altra ne troverai, forse più grave. Non è secondo l’uomo portar
la croce ed amarla, castigare il suo corpo e costringerlo in servitù,
fuggire gli onori, sostenere di buon grado gli scherni, disprezzare se
medesimo e bramare d’essere disprezzato, patire qualsivoglia danno, e
nessuna prosperità desiderare. Ma se ti fidi nel Signore, dal cielo
ti verrà fortezza, e alla tua signoria saranno soggettati il mondo
e la carne»[157]. E l’imitar Cristo è una iniziazione progressiva,
per mezzo dell’astinenza, poi dell’ascetismo, della comunicazione,
infine dell’unione. Questi successivi passaggi espose l’innominato al
popolo, colla lingua del chiostro; e divenne libro popolare quel ch’era
ascetico lavoro di monaco.
Nelle scuole aveano per tutto il medioevo contrastato i Realisti, che
propendendo all’unità di sostanza, giudicavano mere astrazioni i nomi
di genere, specie, individui; contro i Nominalisti, che proclamavano
la pluralità della sostanza, ripristinando l’individuazione, il
genere, la specie, all’universale non attribuendo altro valore che
d’un segno. Dappoi la battaglia erasi ingaggiata e continuava sotto
le antiche bandiere d’Aristotele e Platone, del ragionamento e
dell’entusiasmo, del sillogismo e dell’ispirazione. Dal 1313 al 16 un
frà Paolino minorita diresse a Marin Badoaro duca di Candia un trattato
italiano col titolo _De recto regimine_, dove analizza con semplicità
e chiarezza i doveri d’un magistrato; tiene pel governo d’un solo,
ma che si circondi di una consulta di savj. Parteggia invece per la
repubblica, almeno nei piccoli Stati, Egidio da Roma, educatore di
Filippo il Bello e arcivescovo di Bourges; di cui i due primi libri _De
regimine principum_ sono una direzione di coscienza pei re, il terzo
un trattato di diritto politico, esaminando le varie forme di governo
e le leggi civili che vi si riferiscono: nemicissimo della servitù
personale, non riconosce regno se non si conformi agli eterni canoni
della giustizia.
Accursio rimase tipo de’ glossatori, talchè sopra di lui si
concentrarono i biasimi e le lodi. Ma la sua grande compilazione
avea posto termine alle spiegazioni orali de’ professori, fin allora
usitate; le interpretazioni furono ristrette; i glossatori divennero
autorità unica, fino a dirsi che una glossa val più di cento testi. In
conseguenza la scienza decadde, e sottentrarono i giuristi scolastici,
che alla giurisprudenza applicarono i metodi dialettici; nel che
vedemmo illustri Baldo e Bártolo, il quale colla gran pratica del fôro
suppliva alla mancanza di storia e di filologia. Tutti i loro seguaci
sono prolissi e barbari; onde dagli umanisti erano tenuti per dappoco,
perchè conservavano ancora lo stile ispido, l’argomentare scolastico,
le affollate citazioni al par de’ teologi: pure alcuni cominciarono
a disselvatichire quegli studj, meditar Giustiniano con filologia e
storia, e Andrea Alciato fu de’ primi, poi i francesi Budeo e Mulineo,
e superiore a tutti il Cujaccio.
Molti ottennero celebrità per consulti legali e per opere o per
magistrature sostenute; ma col rinnovarsi della scienza i loro libri
non serbarono alcuna importanza, neppur d’erudizione. Chi non lodava
allora Paris de Puteo, alessandrino o napoletano, Giovan Antonio
Carafa, principe de’ giureconsulti, Matteo degli Afflitti, il più dotto
leggista di quanti furono prima o poi, i cui _Commenti sopra i feudi_
non hanno pari, e che raccogliendo le decisioni della curia napoletana,
diede origine alla nuova genìa dei _Decisionanti?_ Giovanni d’Andrea
bolognese o fiorentino fu in voce del maggior canonista; e le sue
figlie Novella e Bettina dettarono anch’esse. Paolo da Liazari, costui
scolaro, allevò Giovanni da Legnano, così celebre che alla sua morte
si chiusero le botteghe. Andrea d’Isernia fu nominato l’evangelista
del diritto feudale, e re Roberto il menò seco onde perorare alla
corte d’Avignone i diritti che vantava al trono di Napoli[158].
Gran lume al diritto civile recò pure Francesco Accolti d’Arezzo.
Guadagnò moltissimo di sua professione, e sperava anche il cappello
cardinalizio, ma Sisto IV gliel ricusò dicendo temeva di sottrarre alle
scienze un troppo illustre cultore. Volendo dimostrare ai suoi scolari
in Ferrara quanto importi conservare il buon nome, rubò della carne da
un macello: subito ne vennero imputati gli studenti, e due in cattiva
reputazione furono arrestati e correvano pericolo, quando l’Accolti
andò ad accusare se stesso: non si volle credergli, finchè non addusse
i testimonj e il motivo.
I canali, le macchine da guerra, i molini ad acqua e a vento, una
filatura in Bologna nel 1341 mossa per forza d’acqua ed equivalente
all’opera di quattromila filatrici, e i grandi lavori architettonici
e idraulici attestano coltivate la geometria e la meccanica. Nel 1455
Gaspare Nadi e Aristotele di Feravante trasportarono la torre della
Magione di Bologna colle sue fondamenta, alte ottanta piedi, colla
spesa di sole cencinquanta lire; e raddrizzarono il campanile di Cento,
che strapiombava più di cinque piedi[159].
Per servizio ora della magia, ora del commercio, le matematiche
venivano coltivate dai nostri. Paolo Dagomari, detto Dall’Abaco, pel
primo usò la virgola a distinguere in gruppi di tre cifre i numeri
troppo lunghi, e introdusse i taccuini. Molti trattati d’algebra
o, come dicevano, almacabala, si trovano nelle biblioteche; e
il primo messo a stampa fu l’italiano di Luca Pacioli da Borgo
Sansepolcro francescano, professore a Milano, che servì di base a
tutti i matematici del secolo seguente. «In quest’arte maggiore,
detta dal vulgo regola della cosa», arriva all’equazione di secondo
grado, non più in là del Fibonacci; se non che la sua osservazione
che le regole relative alle radici sorde possono riferirsi alle
grandezze incommensurabili pressente l’applicazione dell’algebra alla
geometria. Aveva visitato le città commerciali d’Italia, e porge
le diverse pratiche dei negozianti, esempj numerosissimi di conti,
cambj, arbitramenti, società, e principalmente la tenuta de’ libri in
scrittura doppia all’italiana, che tanto tardò ad essere adottata[160].
Giorgio Valla piacentino (-1500) scrisse una specie di enciclopedia
_de expetendis et fugiendis rebus_, desumendola da Greci e Latini, a
preferenza degli Arabi, e nel III cap. dà un trattato delle sezioni
coniche, forse primo dopo il risorgimento. Non abbiamo però matematici
nostri che equivalgano ai tedeschi Purbach e Regiomontano. Questo pel
primo costruì un almanacco colla posizione degli astri, gli eclissi, e
calcoli della situazione del sole e della luna per trent’anni; chiamato
a Roma per l’emendazione del calendario, vi morì in fresca età.
Gli astronomi erano tutti ubbie astrologiche, e ne formicola il
famoso _Libro del perchè_ del Manfredi: pure la scienza avanzò. Nelle
tavole di Giovanni Bianchini bolognese sono combinati tutti i moti dei