Storia degli Italiani, vol. 08 (di 15) - 18
Milano, erasi ostinato a volere anch’esso un dominio; e quando la
pace di frà Simonetto pose quiete dappertutto, egli rizzò bandiera di
ventura, e accolse quanti voleano ancora esercitare il valore senza
badare al motivo. Tentò impadronirsi di Perugia e Bologna; respintone,
si gettò sul Senese menando guasto, finchè il duca di Milano e il papa
inviarono Roberto Sanseverino a reprimerlo; ma l’ottennero meglio col
pagargli ventimila fiorini. Quando poi Sigismondo Malatesta, figlio
di quel Pandolfo che dominò Bergamo e Brescia, voleva insignorirsi
di Pesaro, e insidiava Federico di Montefeltro duca d’Urbino, contro
di lui fu voltato il Piccinino, il quale sperperò la Romagna, fin
centoquindici castella predando in pochi giorni, e in una sola
cavalcata bottinando mille paja di buoi e cento uomini di taglia[121].
Le costui imprese sarebbero da eroe se non fossero state da masnadiero.
Come si ruppe guerra nel Napoletano, esitò con chi buttarsi, finchè
accettò il soldo di Giovanni d’Angiò, e spinse i guasti fin sotto Roma.
Ferdinando gli oppose Giorgio Castrioto, che con ottocento cavalli
venne dall’Epiro a ripagare Ferdinando de’ soccorsi prestatigli da
Alfonso (pag. 218), ma che comparve minore dell’aspettazione: — forse
qui combatteva per la patria e per la fede? Meglio profittò Ferdinando
col trarre di nuovo a sè i Sanseverino e gli Orsini, già ingelositi
degli incrementi di Giovanni, e speranzosi di nuove ricompense; poi a
liberarsi dal Piccinino, riverito come il miglior capitano superstite,
lo soldò assegnandogli novantamila ducati l’anno e la condotta di
tremila cavalli e cinquecento fanti e molti possessi. Avendolo
Francesco Sforza, antico emulo suo, invitato a Milano a sposare
sua figlia Drusiana, Ferdinando ne sollecitò il ritorno, l’accolse
con grandi manifestazioni d’onore, ma pochi giorni dopo coltolo a
tradimento, lo fece strangolare (1465 21 giugno). Con lui finiva la
scuola braccesca[122].
Giovanni d’Angiò più non potè che fuggire da un regno sempre infausto
a casa sua; molti regnicoli passarono seco a guerreggiare in Francia
e in Borgogna; e riprese le briglie, il re adoprò supplizj, confische,
tradimenti, per umiliare i baroni[123]. Giannantonio Orsini principe di
Taranto fra poco si trovò strangolato, dissero per opera di Ferdinando,
il quale addusse un testamento che lo faceva erede di Bari, Otranto,
Taranto, Altamura, d’un milione di fiorini in merci, cavalli, greggie,
altri mobili, e quattromila uomini di buone truppe: colpo mortale alla
fazione angioina. All’altro potentissimo Maria Marzano principe di
Rossano, duca di Sessa e d’altre terre, Ferdinando promise sposa una
figlia: poi quando, sotto l’ombra della pace conceduta, andò a caccia
da quelle parti, chiese abbracciarlo, e avutolo a sè, l’inviò prigione
a Napoli, e ne prese i figliuoli e gli Stati.
Superbo, doppio, avaro, Ferdinando malignò a guastare la pace che
in Italia durava dopo il 1454; col papa venne in urto per isminuire
il censo dovuto dal Regno; poi con esso e colla repubblica di Siena
cospirò per isvellere il dominio mediceo.
Siena, antica emula di Firenze come ghibellina, si era poi mutata alla
bandiera guelfa: ma se patria non sia, vien tedio a seguire le capiglie
interne e le replicate minaccie ch’ebbe a soffrire da poderosi vicini
o dai condottieri; fuori non esercitò mai grande efficacia, attesochè
dentro era trassinata fra una plebe invida e inetta, ed un’oligarchia
gelosa d’escludere le altre classi. I Monti, o vogliam dire gli
ordini de’ gentiluomini, dei nove, dei dodici, dei riformatori, del
popolo, la sbranavano, e l’uno prevalendo o l’altro, con alterne
persecuzioni logoravano le forze, e scapitavano di potenza e d’onore.
I gentiluomini, antichi proprietarj di tutto il terreno, prevalsi dal
1240 al 77, furono esclusi dalle magistrature, restando fin al 1355
superiore il Monte dei nove, in cui entrava una nobiltà popolana,
d’antiche ricchezze: poi fino al 68 primeggiò il Monte dei dodici,
cioè i ricchi mercanti; e fino all’84, quello dei riformatori: poi ora
questo, ora il popolo, eleggendo tre priori ciascuno, ed escludendo i
due primi, che restavano naturali nemici e sommovitori.
Si appoggiò a loro il duca di Calabria figlio di re Ferdinando, cupido
d’acquistarvi signoria; e indusse a cernire dai varj Monti un nuovo,
detto degli aggregati, che solo ottenesse gli uffizj, gli altri tutti
eliminando. Costoro non poteano cautelarsi che colla forza, e perciò
stavano ligi al duca, e col padre suo presero parte a ruina di Lorenzo
Medici. Dico di Lorenzo, perchè il papa, esclamando al sacrilegio
d’avere appiccato un unto del Signore, mosse le truppe che già aveva
allestite per secondare la congiura de’ Pazzi, e dichiarò guerra
non alla repubblica, bensì a Lorenzo, _figlio di iniquità, alunno di
perdizione_. Però i Fiorentini fecero comune la causa di lui; mandarono
pel mondo un ragguaglio della congiura e le prove della complicità del
papa, il quale non se ne scolpò; e protestarono contro la scomunica,
appellando al futuro concilio. Trovarono ascolto, e molti principi
minacciarono Sisto IV di disdirgli obbedienza se turbasse la Chiesa
con una guerra senza giustizia: il re di Francia non solo sospese di
inviare le annate, dacchè le vedeva destinate contro Cristiani non
contro gl’Infedeli, ma minacciò aprire un concilio.
Ecco dunque il papa al funesto bivio di revocare una sentenza appena
proferita, spezzando da sè il bastone apostolico datogli per rompere
i vasi inutili, e piegandosi alle minaccie secolari; ovvero ostinarsi
in una guerra ingiusta. A questa si gittò Sisto, avendo accaparrati
i migliori condottieri, intrigato a suscitare contro di Venezia e di
Milano guerre, sollevazioni, perfino i Turchi, acciocchè quelle non
potessero soccorrere Firenze.
La quale, côlta dall’armi fra’ suoi studj pacifici, non vide miglior
partito che soldare un capitano, e fu Ercole duca di Ferrara: ma poichè
costui era genero di Ferdinando, se non la tradiva, menava fiaccamente
le fazioni. Lorenzo, vedendo la città disanimarsi e ai timorati fare
offesa l’interdetto, mentre i collegati avanzavano a gran passi, parve
colla sua generosità voler dare risalto alla vigliaccheria di questi,
e propose di avventurare sè solo, giacchè contra lui solo dicevansi
armati. Parte dunque di Firenze (1479 7 xbre), lasciando una siffatta
lettera alla Signoria: — Eccelsi signori, se io non v’ho altrimenti
fatto noto la cagione di mia partita, non è stato per presunzione, ma
perchè mi pare, negli affanni ne’ quali si trova la città nostra, si
richiegga più il fare che ’l dire. Parendomi che cotesta città abbia
desiderio e bisogno grandissimo di pace, e vedendo tutti gli altri
partiti scarsi, m’è paruto meglio mettere me in qualche pericolo, che
tenervi tutta la città. E però ho deliberato trasferirmi liberamente
a Napoli; perchè, essendo io principalmente perseguitato da’ nemici
nostri, potrei forse ancora essere cagione, andando nelle loro mani,
di far rendere pace alla vostra città. Una delle due: o veramente la
maestà del re ama cotesta città, come ha predicato, e non c’è miglior
via a farne sperienza, che andar liberamente nelle sue mani. Se ha
animo di occupare la nostra libertà, a me pare che sia bene intenderlo
presto; e più tosto con danno d’uno, che di tutto il resto. Ed io
son molto contento essere quello per due cagioni: la prima, perchè
potrebb’essere che i nemici nostri non cerchino altro che ’l male
solamente mio; l’altra che, avendo io nella città avuto più onore e
condizione che alcun altro cittadino a’ dì nostri, giudico essere più
obbligato che tutti gli altri ad operare per la patria mia, fino a
mettere la vita. Forse Iddio vuole che, come questa guerra cominciò col
sangue di mio fratello e mio, così ancora finisca per le mie mani; ed
io desidero solo che la vita e la morte, e ’l male e ’l bene mio sia
benefizio della città. Che se gli avversarj non vogliono altro che me,
mi avranno liberamente nelle mani: se vogliono altro, s’intenderà, ed a
me pare essere certo che tutti i nostri cittadini si disporranno alla
difesa della libertà come sempre hanno fatto i padri nostri. Vommene
con questa buona disposizione, e senza alcun altro rispetto che del
bene della città; e prego Iddio mi dia grazia di fare quello ch’è
obbligato ciascun cittadino per la sua patria».
Si presentò di fatto a Ferdinando (1480), il quale lo ricevette con
solenni dimostrazioni; e tocco da tale fiducia, o forse persuaso
da quanto esso gli espose intorno alle vendette che i Fiorentini
potrebbero fare chiamando in Italia il re di Francia, erede delle
ragioni di casa d’Angiò sul trono di Napoli, patteggiò la pace,
restituendo a Firenze tutti i luoghi presi. I Veneziani che s’erano
chiariti per Lorenzo, si trovarono allora soli esposti alle armi
nemiche; sicchè esclamandosi traditi, non aborrirono dall’eccitare i
Turchi a ricuperare le terre italiane, dipendenti in antico dall’Impero
orientale. Il gran visir Acmet Breche-Dente dalla Vallona sbarcò
(agosto) presso Otranto (pag. 231), e mandatala a sacco e sangue, e
lasciatavi forte guarnigione, andò a raccogliere altre forze. Tutta
Italia ne sbigottì: il papa accingevasi a fuggir oltremonte, mentre
consentiva alla pace coi Fiorentini ed eccitava gl’italiani all’arme,
abbandonando l’ambìta Siena. In fatto Alfonso di Calabria assalì
vigorosamente Otranto, la cui guarnigione, perduta la fiducia di nuovi
soccorsi alla morte di Maometto II, capitolò (1481).
La qual morte restituì baldanza ai principi cristiani, quasi con lui
cessasse ogni pericolo; e invece di unirsi cogli altri potentati
d’Italia per assicurarla dai Turchi, ed assalirli intanto che li
snervava la discordia tra’ figliuoli di Maometto, e che tutti i nostri
soldati, incaloriti dalla vittoria, gridavano A _Costantinopoli_, re
Ferdinando prende per sè tutte le armi e l’artiglieria, e si vendica
de’ Veneziani eccitando Ercole d’Este duca di Ferrara suo genero ad
impacciare il commercio di quelli sul Po. Così passioni malevole e
basse conciliano alleanze o infocano nimicizie.
I dominj del duca di Ferrara faceano gola al papa non meno che a
Venezia, attesa la loro situazione. Venezia si doleva che Ercole
tirasse il sale da Comacchio, e impedisse il Po a quello de’ Veneziani,
i quali ne tolsero motivo di dichiarargli guerra, prendendo capitani
(1484) Roberto Sanseverino, Roberto Malatesta, il marchese Gonzaga, i
conti Rossi di Parma e Torelli di Guastalla, altri de’ Fieschi e de’
Frangipani. Il papa fa causa con loro; e perchè Ferdinando non spedisca
soccorsi a suo genero, arma nelle Marche.
Tutta Italia fu arruffata da questo miserabile piato. Col duca
stavano Federico di Montefeltro e i Milanesi, e sedici savj di guerra
dirigevano le mosse; fazioni si mescolarono ad assedj e saccheggi;
le truppe di Ferdinando disputaronsi i Polesini del Po, ed ebbero a
soccombere al clima: ma in quel bollimento generale neppure una giusta
battaglia fu combattuta. Il papa aveva blandito Venezia soltanto per
farla stromento alle nepotesche ambizioni; e quando vide poter meglio
soddisfare coll’abbandonarla, fermò il piede col re di Napoli e col
duca di Ferrara, e pose Venezia all’interdetto, come turbatrice della
quiete d’Italia, e insidiatrice di Ferrara, dovuta alla santa Sede.
Venezia, non badando alla condanna, ordina si continuino i riti,
ed appella al futuro concilio; e la guerra è proseguita con ingenti
sacrifizj e reciproci disastri[124].
Finalmente si arrivò alla pace di Bagnólo (1484 7 agosto), nella quale
Venezia cedeva il conquistato e ricuperava il perduto e i diritti di
navigazione sul Po, il Polesine di Rovigo, la privativa del sale: il
duca di Ferrara dovea rinunziare ai primitivi possessi della famiglia
d’Este: i Rossi, conti di San Secondo, perdeano tutti i dominj: nulla
aveva potuto il papa guadagnare pe’ nipoti suoi. Il trattato stesso
costituiva una lega italiana a comune difesa, de’ cui eserciti sarebbe
capitano Roberto Sanseverino, con diecimila ducati annui dal papa,
altrettanti dal re di Napoli, cinquantamila da Venezia e così dal
duca di Milano, diecimila da Firenze, e dai duchi di Ferrara, Modena e
Reggio.
Questo trattato segna un’êra nuova nella storia patria. Quando nel 1453
Nicolò V pacificava la penisola onde opporla ai Musulmani, si fece il
primo atto di concordia fra i potentati italiani. Poi nel 1470 Milano,
Napoli, Firenze, Roma s’alleavano contro il soverchiare di Venezia,
la quale unendosi poi a loro, costituiva una lega generale. Ora ecco
di nuovo l’Italia alleata contro Venezia, e finirsi con una generale
federazione. L’atto mostrasi come opera di pacificazione e di progresso
nazionale, come il termine d’infinite rivoluzioni. È necessità
di natura (vi è detto) cominciar dal male, dai disordini, dallo
scandalo; ma è legge di ragione arrivare alla concordia che nutrisce
la tranquillità, genera il ben essere, moltiplica i popoli, crea
l’abbondanza, propaga l’umanità. A tal uopo le potenze si perdonano i
danni e le guerre, _in qual sia modo fatte_, le rapine, gl’incendj, le
uccisioni, e senza frode o reticenza o cavillo giurano perpetua pace,
confederazione, unione e lega. Ogni memoria di Guelfi o Ghibellini
è abolita, dacchè si uniscono senza badare a origine o a storia;
promettendo al papa non dar mano ai baroni del suo paese, riconoscono
l’indipendenza degli Stati; assoldando un capitano comune vengono a
stabilire la base di tutte le federazioni, cioè che tutti i confederati
formano uno Stato solo contro il nemico, pur rimanendo distinti e
sovrani ciascuno; ma senza aspirare ad una matematica eguaglianza fra
loro, giacchè la somma da contribuire proporzionavano all’estensione
geografica. Il fatto irregolare ma storico della loro vicinanza vien
dunque dagli Stati italiani sottomesso a idee chiare; e se non tutta
Italia v’era compresa, se riservavasi _protocollo aperto_ al re di
Castiglia, è notevole però che dell’imperatore non si far pur cenno, e
il papa v’è considerato come un semplice signore; sepellendo così sotto
la concordia federale i due eterni fomiti delle disunioni. Fosse stato
per sempre!
La pacificazione d’Italia forse accelerò la morte (13 agosto) di quel
che sempre l’avea turbata, Sisto IV; «e fu (dice Machiavelli) il primo
che cominciasse a mostrare quanto un pontefice poteva, e come molte
cose chiamate per l’addietro errori, si potevano sotto la pontificale
autorità nascondere. Questo modo di procedere ambizioso lo fece più dai
principi d’Italia _stimare_, e ciascuno cercò di farselo amico». Mai
non si era così indegnamente trafficato nella curia: ne dichiarò venali
le cariche pubblicandone la tariffa; cercò guadagno dal distribuire i
benefizj e la porpora; mercatò di perdonanze; da’ sudditi smunse quanto
potè, e massime col fare incetta, poi procurare carestie artefatte
fissando egli stesso il prezzo, o mandandone fuori quando il potesse
a vantaggio, e traendone del cattivo pe’ suoi. Qualche volta piacevasi
vedere i soldati duellar fino a morte, e le scalee di San Pietro ebbero
a contaminarsi di sangue.
Appena Sisto spira, amareggiato dai falliti disegni, il palazzo de’
suoi nepoti è demolito, saccheggiati i pieni granaj; i Colonna, da
lui perseguitati, rientrano, e si mantengono coll’armi alla mano. I
cardinali si sforzarono di ovviare nuovi disordini collo stabilire
per capitolazione, il papa non potesse nominare più che un cardinale
della propria famiglia, governasse di concerto col sacro collegio,
e massime per alienare feudi della Chiesa dovesse ottenere due terzi
dei voti: ma meglio di questi sempre elusi ripieghi avrebbe giovato il
determinarsi ad una buona scelta. Fu detto che promettendo a ciascun
cardinale pingui posti e l’entrata di quattromila fiorini, ne ottenesse
i voti Giambattista Cybo genovese, che assunse il nome d’Innocenzo
VIII, e che le pasquinate dissero, a ragione chiamarsi padre,
poichè aveva sette figli naturali. Per questi legami e per debolezza
lasciavasi menare da indegni favoriti, che s’abbandonavano a sfrontata
venalità: Franceschetto Cybo s’impinguava col concedere impunità fino
ai masnadieri, di cui Roma era divenuta tana; di che il suo cameriere
con indegna celia lo scagionava dicendo che Dio non vuol la morte del
peccatore, ma che paghi e viva. Costui, che fu lo stipite dei duchi di
Massa e Carrara, consigliò il papa a creare una quantità d’impieghi,
per venderli caro a persone, le quali poi si rintegravano col far
mercato delle grazie apostoliche. Alcuni scrivani falsarono anche bolle
ed assoluzioni preventive per ogni sorta disordini: scoperti, furono
condannati a morte: si esibì pel loro riscatto cinquemila ducati, ma
pretendendosene sei, e non potendo trovarli, salirono al patibolo[125].
Non si dimentichi che questi aneddoti ci vengono da impurissima
fonte, come sono le ciancie d’anticamera, e le impudenze d’una cronaca
scandalosa; dalla quale si raccorrebbe perfino che colla trasfusione
del sangue di tre fanciulli tentasse Innocenzo prolungare la vita,
che i predecessori suoi versavano con santa generosità. Questo
deterioramento de’ pontefici doveva giustificare il flagello che già
fischiava in aria.
Le _prammatiche_ di re Ferdinando aveano principale scopo il
reprimere i baroni, proibendo esigessero dai vassalli oltre quello
che permettevano le costituzioni, nè gl’impedissero di vendere i
possessi a piacere; sottoposti tutti i beni all’estimo; ai magistrati
regj concesso di procedere d’uffizio in ogni misfatto, anche senza
querela della parte offesa; perseguitare i masnadieri e gli usurai in
qualsifosse luogo. Tale robustezza s’addiceva a tempi, in cui per tutta
Europa i re accentravano l’autorità pubblica, sparpagliata da prima;
ma rendeva Ferdinando esoso ai baroni, mentre a tutti spiacevano le
sue crudeltà nel punire, e l’avarizia esercitata con sozzi monopolj,
coll’accaparrare l’olio e il grano per rivenderli cari, col dare ai
villani de’ majali da ingrassare.
Peggio esacerbavano i fieri portamenti di suo figlio Alfonso di
Calabria. Costui (1485) fa proditoriamente arrestare Pietro Lallo
conte di Montorio, la cui famiglia da un secolo tenea il primato in
Aquila, ed occupa questa città. Essa lo caccia a furia, e si esibisce
ad Innocenzo VIII, col quale si collegano i principali baroni come a
signore sovrano del regno, ed a Ferdinando espongono i loro richiami,
e chiedono di non dover comparire in persona ai parlamenti, temendo
esservi presi e morti come i loro compagni; potere armar gente a difesa
dei proprj distretti, e mettersi al soldo di qualunque potenza non
fosse in guerra col re; questo non gravasse di straordinarie imposte
i loro vassalli, nè vi ponesse a quartiere le sue truppe. Ferdinando
finse darvi ascolto per guadagnar tempo e sconnetterli; ma essi,
accortisi del tranello, e risoluti di non cadere sotto all’aborrito
Alfonso, alzan bandiera papale in aperta rivolta: i Sanseverino, i
Del Balzo, gli Acquaviva, molti conti e principi e cavalieri, tra
cui il grand’ammiraglio, il gran siniscalco, il gran connestabile,
li secondano; il conte di Sarno, nobile antichissimo eppur dato ai
traffici con tanto utile che il re medesimo volle entrar seco in
società; Antonello Petrucci, che pe’ suoi talenti divenuto secretario
regio, accumulò onori e ricchezze e collocò altamente tutti i
figliuoli.
Ma i potentati vicini in cui fidavano, rimangono indifferenti od
ostili; il duca di Lorena, erede delle pretensioni angioine, che avea
promesso venire a soccorrerli, non giunge; Roberto Sanseverino valoroso
condottiero, messosi con loro, è sconfitto; Innocenzo VIII, che forse
gli aveva sobillati, si riconcilia con Ferdinando. Costretti a impetrar
pace, ottengono piena perdonanza dal re, il quale (1487) lascia al papa
Aquila ed i baroni che gli avevano fatto omaggio. Il trattato ebbe la
garanzia del papa, del re di Spagna, del re di Sicilia; eppure era un
lacciuolo. Appena i baroni ebbero deposte le armi, Ferdinando sollecitò
le nozze del figliuolo del conte di Sarno con una sua nipote, e tra le
feste e i balli fece arrestare lo sposo, il padre, il Petrucci e molti
baroni; poi, volendo quelle apparenze di giustizia che colà si sanno
troppo simulare, nominò una giunta e quattro pari, che li condannarono
a morte. E fu eseguita inesorabilmente; al fisco i loro beni,
perseguitati gli aderenti e uccisi chi in segreto, chi in pubblico,
nemmanco perdonando i fanciulli; appena la Bandella Gaetana potè fra
romanzeschi pericoli salvare i suoi figli, principi di Bisignano.
In secolo di tante perfidie questa rimase più famosamente esecrata;
e benchè Ferdinando mandasse a stampa il processo de’ baroni, non
risonava che un concerto di maledizioni. Innocenzo, cui egli ritolse
Aquila e ricusò il tributo promesso, lo proferì decaduto, e invitò
a quel trono Carlo VIII di Francia; principio di nuovi disastri
all’Italia.
A Firenze la congiura de’ Pazzi, come avviene dei tentativi falliti,
crebbe potere a Lorenzo, e più quando riuscì ad una pace, indarno a
lungo, maneggiata da consiglieri e ambasciatori. Cosmo avea provato
tutti i guaj e pochi frutti della dominazione, perchè nuova, e perchè
capo d’una fazione irrequieta, il diriger la quale gli costò più
che non il vincere l’avversa. Anche a suo figlio riuscivano impaccio
quei che pareano sostegni. Ma il pericolo di Lorenzo eccitò quella
devozione, ch’è singolare avviamento alle signorie smisurate; e gli
fu conferita autorità principesca, ch’egli adoprò a consolidare la sua
famiglia, non più col violare la costituzione, ma col fortificarla.
Diciassette riformatori ridussero a metà il tre per cento che pagavasi
pel debito pubblico, espediente che campò lo Stato dal fallire. Lorenzo
stesso, imputato di riparare col pubblico denaro le perdite al suo
privato cagionate dal lusso e dalla dissipazione de’ suoi agenti, non
trovò più decoroso il continuare i traffici, e ritirati i capitali,
gli investì in terreni: col quale espediente separò i proprj negozj
da quelli dei cittadini, che quasi interesse proprio aveano sostenuto
i suoi padri. Creò l’ultima balìa per istituire una magistratura
legislativa, di cui sin allora aveasi mancanza, e che dovea formarsi
di settanta membri e de’ gonfalonieri che man mano uscivano di carica,
ed essere consultata sopra tutti gli affari pubblici prima che gli
altri collegi deliberassero, nominare agli impieghi, amministrare il
tesoro. Così lasciava sussistere le forme repubblicane, ma se le facea
stromento al dominare. I settanta condussero il governo con quiete
e gloria, ma dipendente all’intuito dal principe, il quale avendo a
spendere ben poco ne’ magistrati, volgeva il denaro ai vantaggi suoi
domestici, e a sedurre, comprare o ammollire gli antichi repubblicani,
predisponendoli alla servitù de’ suoi successori. Sebbene però il
governo allora introdotto fosse tutto materiale e di speculazione,
Firenze n’ebbe la pace di cui tanto avea mestieri, e considerò quello
come il tempo suo più lieto: solita ventura de’ governi che succedono
a lunghi turbamenti, e a cui i popoli fanno merito del male che non
commettono.
Ormai tutta Toscana obbediva a Firenze, a patti o a forza essendosi,
da Siena in fuori, assoggettate le città e le signorie (pag. 244).
Pietrasanta, posseduta dal banco genovese di San Giorgio, fu ripigliata
dai Fiorentini nel 1484. Antonio Pucci, commissario di quella guerra,
insisteva presso il capitano perchè desse la battaglia; e questo
«dimostrava molte difficoltà’, e che vi si farebbe una beccheria
d’uomini. Il Pucci, veduta la sua pusillanimità o malizia, fece un
colpo da savio, e disse: _Orsù, capitano, datemi la vostra corazza, ed
io andrò a dare battaglia, e voi rimarrete con questi altri commissarj
a provvedere il bisogno_. Tali parole furono dette con tanta efficacia,
che il governatore si vergognò e, _Io v’ho detto il parer mio; niente
di meno farò il vostro_; e così dettono una grandissima battaglia,
in modo vi morì di molta brigata, e feriti da ogni banda. Di che il
Pucci usò un altro colpo di savio, accompagnato colla carità: che
andò, e fece rassettare tutti i feriti, e andogli a visitare e seco
il medico, e raccomandarli loro, e baciavali e commendavali, e seco
anche il cancelliere con denari, e diceva: _Orsù, fratelli, chi ha
bisogno di denari lo dica_; e davane loro e confortavali che non
temessino di niente. Quelle parole e fatti furono di tal efficacia
appresso a’ feriti come a’ sani, che si sariano buttati per marzocco
nel fuoco; e parea loro mill’anni si desse l’altra battaglia. E come si
dette, aveano dimenticato i pericoli, e mai si spiccarono che presero
Pietrasanta: e se passava quindici giorni, bisognava levarsi da campo
con vergogna e danno» (CAMBI).
Nell’87 si ricuperò Sarzana, stata tolta dai Fregosi. Volterra,
sollevatasi nel 49, fu punita; poi essendosi nel 72 scoperta una ricca
allumiera a Castelnuovo, i cittadini ne pretendeano la proprietà, e
negata, si ribellarono. I Fiorentini mandarono Federico d’Urbino, che,
assediata la città, la ridusse a capitolare: ma mentre se ne trattava,
un Veneziano nascostamente introdusse i soldati, che si buttarono al
sacco, invano trattenuti dal conte d’Urbino, che fece anche impiccare
il Veneziano. Così Volterra tornò ai Fiorentini, non più come alleata
ma suddita, senza privilegi, e tenuta in senno dalla torre del Maschio,
una delle peggiori prigioni di Stato.
Lorenzo frametteasi alle quistioni politiche d’Italia, e spesso
opportunamente; per esso gli Estensi ottennero la pace di Bagnolo che
li salvò; per esso gli Aragonesi la quiete dopo la congiura de’ baroni;
per esso Innocenzo VIII la sommessione di Bocolino de’ Gozoni, che,
sollevata Osimo, invitava i Turchi a sostenerlo; per esso fu all’Italia
ritardata l’invasione dei Francesi, inuzzoliti dalla chiamata di Sisto
IV. Era egli stato educato squisitamente da Cristoforo Landino, dal
greco Giovanni Argiropulo, da Marsilio Ficino, e dalla propria madre
Lucrezia Tornabuoni, protettrice e intelligente delle lettere. Vi unì
abilità in tutti gli esercizj del corpo; e il torneo, dove giovinetti
armeggiarono esso e il fratello, eccitò il Poliziano a comporre le
più belle ottave che ancor si fossero udite. Educava egli stesso
domesticamente i suoi figliuoli[126], e come d’erudizione, così era
pieno d’arguzie; e motti e burle di lui abbondano nelle raccolte di
quel tempo.
Venuto poi a capo dello Stato, meritò il titolo di Magnifico per lo
splendore onde tenne corte; chè corte veramente potea dirsi dacchè era
trattato alla pari dai principi, sebbene non portasse titolo. Faceasi
talora incaricare dai Fiorentini della esecuzione di qualche opera
utile, che egli stesso avea suggerita, e dove metteva del proprio. Le
case antiche, un tempo pari alla medicea, per quanto ricche e numerose,
più non comparivano che da suddite. Ridotti uniformi i voleri, segreti
i consigli, arbitraria la erogazione del pubblico denaro, accomodata
la città di nuove vie, e fortificatala contro i nemici, potè volgersi
alla politica esteriore, e tener le bilancie d’Italia in modo, che gli
stranieri non vi prevalessero.
So che, quanto fu stile l’esaltarlo durante la dominazione de’ Medici,
così il denigrarlo sotto gli Austriaci, e più dai moderni come autore
della susseguita servitù. Chi negherà ch’e’ vi trovasse preparato
il paese? e che libertà era quella, dove i cittadini migliori erano
stati proscritti? La nuova generazione avea perduto quel sentimento
del vivere franco e del concorrere al governo e al ben della patria,
ch’era parso felicità ai loro maggiori. Tra siffatti è agevole a
pochi sommovitori il turbare la quiete col pretesto della libertà; e
il reprimerli è dovere d’un capo restauratore. Un Frescobaldi tramò
d’uccidere Lorenzo, e fu mandato alla forca; Baldinotto Baldinotti
il tentò pure, e fu col figlio trascinato per le vie di Pistoja; e il
popolo, non che irritarsene, applaudì.
Siccome Augusto, adoperò a restituire i Fiorentini dalla vita pubblica
alla domestica, ma non trascese le condizioni di primo cittadino di
paese libero. L’ambizione di lui dovea pur restare lusingata allorchè,
dall’alto della sua villa, osservava questa città, bellissima di
antiche e nuove grandezze, dove Arnolfo, l’Orcagna, Masaccio aveano
insignemente attestato il risorgere delle arti, e Brunelleschi
fabbricato Santo Spirito, la più bella delle chiese, preparato nel
pace di frà Simonetto pose quiete dappertutto, egli rizzò bandiera di
ventura, e accolse quanti voleano ancora esercitare il valore senza
badare al motivo. Tentò impadronirsi di Perugia e Bologna; respintone,
si gettò sul Senese menando guasto, finchè il duca di Milano e il papa
inviarono Roberto Sanseverino a reprimerlo; ma l’ottennero meglio col
pagargli ventimila fiorini. Quando poi Sigismondo Malatesta, figlio
di quel Pandolfo che dominò Bergamo e Brescia, voleva insignorirsi
di Pesaro, e insidiava Federico di Montefeltro duca d’Urbino, contro
di lui fu voltato il Piccinino, il quale sperperò la Romagna, fin
centoquindici castella predando in pochi giorni, e in una sola
cavalcata bottinando mille paja di buoi e cento uomini di taglia[121].
Le costui imprese sarebbero da eroe se non fossero state da masnadiero.
Come si ruppe guerra nel Napoletano, esitò con chi buttarsi, finchè
accettò il soldo di Giovanni d’Angiò, e spinse i guasti fin sotto Roma.
Ferdinando gli oppose Giorgio Castrioto, che con ottocento cavalli
venne dall’Epiro a ripagare Ferdinando de’ soccorsi prestatigli da
Alfonso (pag. 218), ma che comparve minore dell’aspettazione: — forse
qui combatteva per la patria e per la fede? Meglio profittò Ferdinando
col trarre di nuovo a sè i Sanseverino e gli Orsini, già ingelositi
degli incrementi di Giovanni, e speranzosi di nuove ricompense; poi a
liberarsi dal Piccinino, riverito come il miglior capitano superstite,
lo soldò assegnandogli novantamila ducati l’anno e la condotta di
tremila cavalli e cinquecento fanti e molti possessi. Avendolo
Francesco Sforza, antico emulo suo, invitato a Milano a sposare
sua figlia Drusiana, Ferdinando ne sollecitò il ritorno, l’accolse
con grandi manifestazioni d’onore, ma pochi giorni dopo coltolo a
tradimento, lo fece strangolare (1465 21 giugno). Con lui finiva la
scuola braccesca[122].
Giovanni d’Angiò più non potè che fuggire da un regno sempre infausto
a casa sua; molti regnicoli passarono seco a guerreggiare in Francia
e in Borgogna; e riprese le briglie, il re adoprò supplizj, confische,
tradimenti, per umiliare i baroni[123]. Giannantonio Orsini principe di
Taranto fra poco si trovò strangolato, dissero per opera di Ferdinando,
il quale addusse un testamento che lo faceva erede di Bari, Otranto,
Taranto, Altamura, d’un milione di fiorini in merci, cavalli, greggie,
altri mobili, e quattromila uomini di buone truppe: colpo mortale alla
fazione angioina. All’altro potentissimo Maria Marzano principe di
Rossano, duca di Sessa e d’altre terre, Ferdinando promise sposa una
figlia: poi quando, sotto l’ombra della pace conceduta, andò a caccia
da quelle parti, chiese abbracciarlo, e avutolo a sè, l’inviò prigione
a Napoli, e ne prese i figliuoli e gli Stati.
Superbo, doppio, avaro, Ferdinando malignò a guastare la pace che
in Italia durava dopo il 1454; col papa venne in urto per isminuire
il censo dovuto dal Regno; poi con esso e colla repubblica di Siena
cospirò per isvellere il dominio mediceo.
Siena, antica emula di Firenze come ghibellina, si era poi mutata alla
bandiera guelfa: ma se patria non sia, vien tedio a seguire le capiglie
interne e le replicate minaccie ch’ebbe a soffrire da poderosi vicini
o dai condottieri; fuori non esercitò mai grande efficacia, attesochè
dentro era trassinata fra una plebe invida e inetta, ed un’oligarchia
gelosa d’escludere le altre classi. I Monti, o vogliam dire gli
ordini de’ gentiluomini, dei nove, dei dodici, dei riformatori, del
popolo, la sbranavano, e l’uno prevalendo o l’altro, con alterne
persecuzioni logoravano le forze, e scapitavano di potenza e d’onore.
I gentiluomini, antichi proprietarj di tutto il terreno, prevalsi dal
1240 al 77, furono esclusi dalle magistrature, restando fin al 1355
superiore il Monte dei nove, in cui entrava una nobiltà popolana,
d’antiche ricchezze: poi fino al 68 primeggiò il Monte dei dodici,
cioè i ricchi mercanti; e fino all’84, quello dei riformatori: poi ora
questo, ora il popolo, eleggendo tre priori ciascuno, ed escludendo i
due primi, che restavano naturali nemici e sommovitori.
Si appoggiò a loro il duca di Calabria figlio di re Ferdinando, cupido
d’acquistarvi signoria; e indusse a cernire dai varj Monti un nuovo,
detto degli aggregati, che solo ottenesse gli uffizj, gli altri tutti
eliminando. Costoro non poteano cautelarsi che colla forza, e perciò
stavano ligi al duca, e col padre suo presero parte a ruina di Lorenzo
Medici. Dico di Lorenzo, perchè il papa, esclamando al sacrilegio
d’avere appiccato un unto del Signore, mosse le truppe che già aveva
allestite per secondare la congiura de’ Pazzi, e dichiarò guerra
non alla repubblica, bensì a Lorenzo, _figlio di iniquità, alunno di
perdizione_. Però i Fiorentini fecero comune la causa di lui; mandarono
pel mondo un ragguaglio della congiura e le prove della complicità del
papa, il quale non se ne scolpò; e protestarono contro la scomunica,
appellando al futuro concilio. Trovarono ascolto, e molti principi
minacciarono Sisto IV di disdirgli obbedienza se turbasse la Chiesa
con una guerra senza giustizia: il re di Francia non solo sospese di
inviare le annate, dacchè le vedeva destinate contro Cristiani non
contro gl’Infedeli, ma minacciò aprire un concilio.
Ecco dunque il papa al funesto bivio di revocare una sentenza appena
proferita, spezzando da sè il bastone apostolico datogli per rompere
i vasi inutili, e piegandosi alle minaccie secolari; ovvero ostinarsi
in una guerra ingiusta. A questa si gittò Sisto, avendo accaparrati
i migliori condottieri, intrigato a suscitare contro di Venezia e di
Milano guerre, sollevazioni, perfino i Turchi, acciocchè quelle non
potessero soccorrere Firenze.
La quale, côlta dall’armi fra’ suoi studj pacifici, non vide miglior
partito che soldare un capitano, e fu Ercole duca di Ferrara: ma poichè
costui era genero di Ferdinando, se non la tradiva, menava fiaccamente
le fazioni. Lorenzo, vedendo la città disanimarsi e ai timorati fare
offesa l’interdetto, mentre i collegati avanzavano a gran passi, parve
colla sua generosità voler dare risalto alla vigliaccheria di questi,
e propose di avventurare sè solo, giacchè contra lui solo dicevansi
armati. Parte dunque di Firenze (1479 7 xbre), lasciando una siffatta
lettera alla Signoria: — Eccelsi signori, se io non v’ho altrimenti
fatto noto la cagione di mia partita, non è stato per presunzione, ma
perchè mi pare, negli affanni ne’ quali si trova la città nostra, si
richiegga più il fare che ’l dire. Parendomi che cotesta città abbia
desiderio e bisogno grandissimo di pace, e vedendo tutti gli altri
partiti scarsi, m’è paruto meglio mettere me in qualche pericolo, che
tenervi tutta la città. E però ho deliberato trasferirmi liberamente
a Napoli; perchè, essendo io principalmente perseguitato da’ nemici
nostri, potrei forse ancora essere cagione, andando nelle loro mani,
di far rendere pace alla vostra città. Una delle due: o veramente la
maestà del re ama cotesta città, come ha predicato, e non c’è miglior
via a farne sperienza, che andar liberamente nelle sue mani. Se ha
animo di occupare la nostra libertà, a me pare che sia bene intenderlo
presto; e più tosto con danno d’uno, che di tutto il resto. Ed io
son molto contento essere quello per due cagioni: la prima, perchè
potrebb’essere che i nemici nostri non cerchino altro che ’l male
solamente mio; l’altra che, avendo io nella città avuto più onore e
condizione che alcun altro cittadino a’ dì nostri, giudico essere più
obbligato che tutti gli altri ad operare per la patria mia, fino a
mettere la vita. Forse Iddio vuole che, come questa guerra cominciò col
sangue di mio fratello e mio, così ancora finisca per le mie mani; ed
io desidero solo che la vita e la morte, e ’l male e ’l bene mio sia
benefizio della città. Che se gli avversarj non vogliono altro che me,
mi avranno liberamente nelle mani: se vogliono altro, s’intenderà, ed a
me pare essere certo che tutti i nostri cittadini si disporranno alla
difesa della libertà come sempre hanno fatto i padri nostri. Vommene
con questa buona disposizione, e senza alcun altro rispetto che del
bene della città; e prego Iddio mi dia grazia di fare quello ch’è
obbligato ciascun cittadino per la sua patria».
Si presentò di fatto a Ferdinando (1480), il quale lo ricevette con
solenni dimostrazioni; e tocco da tale fiducia, o forse persuaso
da quanto esso gli espose intorno alle vendette che i Fiorentini
potrebbero fare chiamando in Italia il re di Francia, erede delle
ragioni di casa d’Angiò sul trono di Napoli, patteggiò la pace,
restituendo a Firenze tutti i luoghi presi. I Veneziani che s’erano
chiariti per Lorenzo, si trovarono allora soli esposti alle armi
nemiche; sicchè esclamandosi traditi, non aborrirono dall’eccitare i
Turchi a ricuperare le terre italiane, dipendenti in antico dall’Impero
orientale. Il gran visir Acmet Breche-Dente dalla Vallona sbarcò
(agosto) presso Otranto (pag. 231), e mandatala a sacco e sangue, e
lasciatavi forte guarnigione, andò a raccogliere altre forze. Tutta
Italia ne sbigottì: il papa accingevasi a fuggir oltremonte, mentre
consentiva alla pace coi Fiorentini ed eccitava gl’italiani all’arme,
abbandonando l’ambìta Siena. In fatto Alfonso di Calabria assalì
vigorosamente Otranto, la cui guarnigione, perduta la fiducia di nuovi
soccorsi alla morte di Maometto II, capitolò (1481).
La qual morte restituì baldanza ai principi cristiani, quasi con lui
cessasse ogni pericolo; e invece di unirsi cogli altri potentati
d’Italia per assicurarla dai Turchi, ed assalirli intanto che li
snervava la discordia tra’ figliuoli di Maometto, e che tutti i nostri
soldati, incaloriti dalla vittoria, gridavano A _Costantinopoli_, re
Ferdinando prende per sè tutte le armi e l’artiglieria, e si vendica
de’ Veneziani eccitando Ercole d’Este duca di Ferrara suo genero ad
impacciare il commercio di quelli sul Po. Così passioni malevole e
basse conciliano alleanze o infocano nimicizie.
I dominj del duca di Ferrara faceano gola al papa non meno che a
Venezia, attesa la loro situazione. Venezia si doleva che Ercole
tirasse il sale da Comacchio, e impedisse il Po a quello de’ Veneziani,
i quali ne tolsero motivo di dichiarargli guerra, prendendo capitani
(1484) Roberto Sanseverino, Roberto Malatesta, il marchese Gonzaga, i
conti Rossi di Parma e Torelli di Guastalla, altri de’ Fieschi e de’
Frangipani. Il papa fa causa con loro; e perchè Ferdinando non spedisca
soccorsi a suo genero, arma nelle Marche.
Tutta Italia fu arruffata da questo miserabile piato. Col duca
stavano Federico di Montefeltro e i Milanesi, e sedici savj di guerra
dirigevano le mosse; fazioni si mescolarono ad assedj e saccheggi;
le truppe di Ferdinando disputaronsi i Polesini del Po, ed ebbero a
soccombere al clima: ma in quel bollimento generale neppure una giusta
battaglia fu combattuta. Il papa aveva blandito Venezia soltanto per
farla stromento alle nepotesche ambizioni; e quando vide poter meglio
soddisfare coll’abbandonarla, fermò il piede col re di Napoli e col
duca di Ferrara, e pose Venezia all’interdetto, come turbatrice della
quiete d’Italia, e insidiatrice di Ferrara, dovuta alla santa Sede.
Venezia, non badando alla condanna, ordina si continuino i riti,
ed appella al futuro concilio; e la guerra è proseguita con ingenti
sacrifizj e reciproci disastri[124].
Finalmente si arrivò alla pace di Bagnólo (1484 7 agosto), nella quale
Venezia cedeva il conquistato e ricuperava il perduto e i diritti di
navigazione sul Po, il Polesine di Rovigo, la privativa del sale: il
duca di Ferrara dovea rinunziare ai primitivi possessi della famiglia
d’Este: i Rossi, conti di San Secondo, perdeano tutti i dominj: nulla
aveva potuto il papa guadagnare pe’ nipoti suoi. Il trattato stesso
costituiva una lega italiana a comune difesa, de’ cui eserciti sarebbe
capitano Roberto Sanseverino, con diecimila ducati annui dal papa,
altrettanti dal re di Napoli, cinquantamila da Venezia e così dal
duca di Milano, diecimila da Firenze, e dai duchi di Ferrara, Modena e
Reggio.
Questo trattato segna un’êra nuova nella storia patria. Quando nel 1453
Nicolò V pacificava la penisola onde opporla ai Musulmani, si fece il
primo atto di concordia fra i potentati italiani. Poi nel 1470 Milano,
Napoli, Firenze, Roma s’alleavano contro il soverchiare di Venezia,
la quale unendosi poi a loro, costituiva una lega generale. Ora ecco
di nuovo l’Italia alleata contro Venezia, e finirsi con una generale
federazione. L’atto mostrasi come opera di pacificazione e di progresso
nazionale, come il termine d’infinite rivoluzioni. È necessità
di natura (vi è detto) cominciar dal male, dai disordini, dallo
scandalo; ma è legge di ragione arrivare alla concordia che nutrisce
la tranquillità, genera il ben essere, moltiplica i popoli, crea
l’abbondanza, propaga l’umanità. A tal uopo le potenze si perdonano i
danni e le guerre, _in qual sia modo fatte_, le rapine, gl’incendj, le
uccisioni, e senza frode o reticenza o cavillo giurano perpetua pace,
confederazione, unione e lega. Ogni memoria di Guelfi o Ghibellini
è abolita, dacchè si uniscono senza badare a origine o a storia;
promettendo al papa non dar mano ai baroni del suo paese, riconoscono
l’indipendenza degli Stati; assoldando un capitano comune vengono a
stabilire la base di tutte le federazioni, cioè che tutti i confederati
formano uno Stato solo contro il nemico, pur rimanendo distinti e
sovrani ciascuno; ma senza aspirare ad una matematica eguaglianza fra
loro, giacchè la somma da contribuire proporzionavano all’estensione
geografica. Il fatto irregolare ma storico della loro vicinanza vien
dunque dagli Stati italiani sottomesso a idee chiare; e se non tutta
Italia v’era compresa, se riservavasi _protocollo aperto_ al re di
Castiglia, è notevole però che dell’imperatore non si far pur cenno, e
il papa v’è considerato come un semplice signore; sepellendo così sotto
la concordia federale i due eterni fomiti delle disunioni. Fosse stato
per sempre!
La pacificazione d’Italia forse accelerò la morte (13 agosto) di quel
che sempre l’avea turbata, Sisto IV; «e fu (dice Machiavelli) il primo
che cominciasse a mostrare quanto un pontefice poteva, e come molte
cose chiamate per l’addietro errori, si potevano sotto la pontificale
autorità nascondere. Questo modo di procedere ambizioso lo fece più dai
principi d’Italia _stimare_, e ciascuno cercò di farselo amico». Mai
non si era così indegnamente trafficato nella curia: ne dichiarò venali
le cariche pubblicandone la tariffa; cercò guadagno dal distribuire i
benefizj e la porpora; mercatò di perdonanze; da’ sudditi smunse quanto
potè, e massime col fare incetta, poi procurare carestie artefatte
fissando egli stesso il prezzo, o mandandone fuori quando il potesse
a vantaggio, e traendone del cattivo pe’ suoi. Qualche volta piacevasi
vedere i soldati duellar fino a morte, e le scalee di San Pietro ebbero
a contaminarsi di sangue.
Appena Sisto spira, amareggiato dai falliti disegni, il palazzo de’
suoi nepoti è demolito, saccheggiati i pieni granaj; i Colonna, da
lui perseguitati, rientrano, e si mantengono coll’armi alla mano. I
cardinali si sforzarono di ovviare nuovi disordini collo stabilire
per capitolazione, il papa non potesse nominare più che un cardinale
della propria famiglia, governasse di concerto col sacro collegio,
e massime per alienare feudi della Chiesa dovesse ottenere due terzi
dei voti: ma meglio di questi sempre elusi ripieghi avrebbe giovato il
determinarsi ad una buona scelta. Fu detto che promettendo a ciascun
cardinale pingui posti e l’entrata di quattromila fiorini, ne ottenesse
i voti Giambattista Cybo genovese, che assunse il nome d’Innocenzo
VIII, e che le pasquinate dissero, a ragione chiamarsi padre,
poichè aveva sette figli naturali. Per questi legami e per debolezza
lasciavasi menare da indegni favoriti, che s’abbandonavano a sfrontata
venalità: Franceschetto Cybo s’impinguava col concedere impunità fino
ai masnadieri, di cui Roma era divenuta tana; di che il suo cameriere
con indegna celia lo scagionava dicendo che Dio non vuol la morte del
peccatore, ma che paghi e viva. Costui, che fu lo stipite dei duchi di
Massa e Carrara, consigliò il papa a creare una quantità d’impieghi,
per venderli caro a persone, le quali poi si rintegravano col far
mercato delle grazie apostoliche. Alcuni scrivani falsarono anche bolle
ed assoluzioni preventive per ogni sorta disordini: scoperti, furono
condannati a morte: si esibì pel loro riscatto cinquemila ducati, ma
pretendendosene sei, e non potendo trovarli, salirono al patibolo[125].
Non si dimentichi che questi aneddoti ci vengono da impurissima
fonte, come sono le ciancie d’anticamera, e le impudenze d’una cronaca
scandalosa; dalla quale si raccorrebbe perfino che colla trasfusione
del sangue di tre fanciulli tentasse Innocenzo prolungare la vita,
che i predecessori suoi versavano con santa generosità. Questo
deterioramento de’ pontefici doveva giustificare il flagello che già
fischiava in aria.
Le _prammatiche_ di re Ferdinando aveano principale scopo il
reprimere i baroni, proibendo esigessero dai vassalli oltre quello
che permettevano le costituzioni, nè gl’impedissero di vendere i
possessi a piacere; sottoposti tutti i beni all’estimo; ai magistrati
regj concesso di procedere d’uffizio in ogni misfatto, anche senza
querela della parte offesa; perseguitare i masnadieri e gli usurai in
qualsifosse luogo. Tale robustezza s’addiceva a tempi, in cui per tutta
Europa i re accentravano l’autorità pubblica, sparpagliata da prima;
ma rendeva Ferdinando esoso ai baroni, mentre a tutti spiacevano le
sue crudeltà nel punire, e l’avarizia esercitata con sozzi monopolj,
coll’accaparrare l’olio e il grano per rivenderli cari, col dare ai
villani de’ majali da ingrassare.
Peggio esacerbavano i fieri portamenti di suo figlio Alfonso di
Calabria. Costui (1485) fa proditoriamente arrestare Pietro Lallo
conte di Montorio, la cui famiglia da un secolo tenea il primato in
Aquila, ed occupa questa città. Essa lo caccia a furia, e si esibisce
ad Innocenzo VIII, col quale si collegano i principali baroni come a
signore sovrano del regno, ed a Ferdinando espongono i loro richiami,
e chiedono di non dover comparire in persona ai parlamenti, temendo
esservi presi e morti come i loro compagni; potere armar gente a difesa
dei proprj distretti, e mettersi al soldo di qualunque potenza non
fosse in guerra col re; questo non gravasse di straordinarie imposte
i loro vassalli, nè vi ponesse a quartiere le sue truppe. Ferdinando
finse darvi ascolto per guadagnar tempo e sconnetterli; ma essi,
accortisi del tranello, e risoluti di non cadere sotto all’aborrito
Alfonso, alzan bandiera papale in aperta rivolta: i Sanseverino, i
Del Balzo, gli Acquaviva, molti conti e principi e cavalieri, tra
cui il grand’ammiraglio, il gran siniscalco, il gran connestabile,
li secondano; il conte di Sarno, nobile antichissimo eppur dato ai
traffici con tanto utile che il re medesimo volle entrar seco in
società; Antonello Petrucci, che pe’ suoi talenti divenuto secretario
regio, accumulò onori e ricchezze e collocò altamente tutti i
figliuoli.
Ma i potentati vicini in cui fidavano, rimangono indifferenti od
ostili; il duca di Lorena, erede delle pretensioni angioine, che avea
promesso venire a soccorrerli, non giunge; Roberto Sanseverino valoroso
condottiero, messosi con loro, è sconfitto; Innocenzo VIII, che forse
gli aveva sobillati, si riconcilia con Ferdinando. Costretti a impetrar
pace, ottengono piena perdonanza dal re, il quale (1487) lascia al papa
Aquila ed i baroni che gli avevano fatto omaggio. Il trattato ebbe la
garanzia del papa, del re di Spagna, del re di Sicilia; eppure era un
lacciuolo. Appena i baroni ebbero deposte le armi, Ferdinando sollecitò
le nozze del figliuolo del conte di Sarno con una sua nipote, e tra le
feste e i balli fece arrestare lo sposo, il padre, il Petrucci e molti
baroni; poi, volendo quelle apparenze di giustizia che colà si sanno
troppo simulare, nominò una giunta e quattro pari, che li condannarono
a morte. E fu eseguita inesorabilmente; al fisco i loro beni,
perseguitati gli aderenti e uccisi chi in segreto, chi in pubblico,
nemmanco perdonando i fanciulli; appena la Bandella Gaetana potè fra
romanzeschi pericoli salvare i suoi figli, principi di Bisignano.
In secolo di tante perfidie questa rimase più famosamente esecrata;
e benchè Ferdinando mandasse a stampa il processo de’ baroni, non
risonava che un concerto di maledizioni. Innocenzo, cui egli ritolse
Aquila e ricusò il tributo promesso, lo proferì decaduto, e invitò
a quel trono Carlo VIII di Francia; principio di nuovi disastri
all’Italia.
A Firenze la congiura de’ Pazzi, come avviene dei tentativi falliti,
crebbe potere a Lorenzo, e più quando riuscì ad una pace, indarno a
lungo, maneggiata da consiglieri e ambasciatori. Cosmo avea provato
tutti i guaj e pochi frutti della dominazione, perchè nuova, e perchè
capo d’una fazione irrequieta, il diriger la quale gli costò più
che non il vincere l’avversa. Anche a suo figlio riuscivano impaccio
quei che pareano sostegni. Ma il pericolo di Lorenzo eccitò quella
devozione, ch’è singolare avviamento alle signorie smisurate; e gli
fu conferita autorità principesca, ch’egli adoprò a consolidare la sua
famiglia, non più col violare la costituzione, ma col fortificarla.
Diciassette riformatori ridussero a metà il tre per cento che pagavasi
pel debito pubblico, espediente che campò lo Stato dal fallire. Lorenzo
stesso, imputato di riparare col pubblico denaro le perdite al suo
privato cagionate dal lusso e dalla dissipazione de’ suoi agenti, non
trovò più decoroso il continuare i traffici, e ritirati i capitali,
gli investì in terreni: col quale espediente separò i proprj negozj
da quelli dei cittadini, che quasi interesse proprio aveano sostenuto
i suoi padri. Creò l’ultima balìa per istituire una magistratura
legislativa, di cui sin allora aveasi mancanza, e che dovea formarsi
di settanta membri e de’ gonfalonieri che man mano uscivano di carica,
ed essere consultata sopra tutti gli affari pubblici prima che gli
altri collegi deliberassero, nominare agli impieghi, amministrare il
tesoro. Così lasciava sussistere le forme repubblicane, ma se le facea
stromento al dominare. I settanta condussero il governo con quiete
e gloria, ma dipendente all’intuito dal principe, il quale avendo a
spendere ben poco ne’ magistrati, volgeva il denaro ai vantaggi suoi
domestici, e a sedurre, comprare o ammollire gli antichi repubblicani,
predisponendoli alla servitù de’ suoi successori. Sebbene però il
governo allora introdotto fosse tutto materiale e di speculazione,
Firenze n’ebbe la pace di cui tanto avea mestieri, e considerò quello
come il tempo suo più lieto: solita ventura de’ governi che succedono
a lunghi turbamenti, e a cui i popoli fanno merito del male che non
commettono.
Ormai tutta Toscana obbediva a Firenze, a patti o a forza essendosi,
da Siena in fuori, assoggettate le città e le signorie (pag. 244).
Pietrasanta, posseduta dal banco genovese di San Giorgio, fu ripigliata
dai Fiorentini nel 1484. Antonio Pucci, commissario di quella guerra,
insisteva presso il capitano perchè desse la battaglia; e questo
«dimostrava molte difficoltà’, e che vi si farebbe una beccheria
d’uomini. Il Pucci, veduta la sua pusillanimità o malizia, fece un
colpo da savio, e disse: _Orsù, capitano, datemi la vostra corazza, ed
io andrò a dare battaglia, e voi rimarrete con questi altri commissarj
a provvedere il bisogno_. Tali parole furono dette con tanta efficacia,
che il governatore si vergognò e, _Io v’ho detto il parer mio; niente
di meno farò il vostro_; e così dettono una grandissima battaglia,
in modo vi morì di molta brigata, e feriti da ogni banda. Di che il
Pucci usò un altro colpo di savio, accompagnato colla carità: che
andò, e fece rassettare tutti i feriti, e andogli a visitare e seco
il medico, e raccomandarli loro, e baciavali e commendavali, e seco
anche il cancelliere con denari, e diceva: _Orsù, fratelli, chi ha
bisogno di denari lo dica_; e davane loro e confortavali che non
temessino di niente. Quelle parole e fatti furono di tal efficacia
appresso a’ feriti come a’ sani, che si sariano buttati per marzocco
nel fuoco; e parea loro mill’anni si desse l’altra battaglia. E come si
dette, aveano dimenticato i pericoli, e mai si spiccarono che presero
Pietrasanta: e se passava quindici giorni, bisognava levarsi da campo
con vergogna e danno» (CAMBI).
Nell’87 si ricuperò Sarzana, stata tolta dai Fregosi. Volterra,
sollevatasi nel 49, fu punita; poi essendosi nel 72 scoperta una ricca
allumiera a Castelnuovo, i cittadini ne pretendeano la proprietà, e
negata, si ribellarono. I Fiorentini mandarono Federico d’Urbino, che,
assediata la città, la ridusse a capitolare: ma mentre se ne trattava,
un Veneziano nascostamente introdusse i soldati, che si buttarono al
sacco, invano trattenuti dal conte d’Urbino, che fece anche impiccare
il Veneziano. Così Volterra tornò ai Fiorentini, non più come alleata
ma suddita, senza privilegi, e tenuta in senno dalla torre del Maschio,
una delle peggiori prigioni di Stato.
Lorenzo frametteasi alle quistioni politiche d’Italia, e spesso
opportunamente; per esso gli Estensi ottennero la pace di Bagnolo che
li salvò; per esso gli Aragonesi la quiete dopo la congiura de’ baroni;
per esso Innocenzo VIII la sommessione di Bocolino de’ Gozoni, che,
sollevata Osimo, invitava i Turchi a sostenerlo; per esso fu all’Italia
ritardata l’invasione dei Francesi, inuzzoliti dalla chiamata di Sisto
IV. Era egli stato educato squisitamente da Cristoforo Landino, dal
greco Giovanni Argiropulo, da Marsilio Ficino, e dalla propria madre
Lucrezia Tornabuoni, protettrice e intelligente delle lettere. Vi unì
abilità in tutti gli esercizj del corpo; e il torneo, dove giovinetti
armeggiarono esso e il fratello, eccitò il Poliziano a comporre le
più belle ottave che ancor si fossero udite. Educava egli stesso
domesticamente i suoi figliuoli[126], e come d’erudizione, così era
pieno d’arguzie; e motti e burle di lui abbondano nelle raccolte di
quel tempo.
Venuto poi a capo dello Stato, meritò il titolo di Magnifico per lo
splendore onde tenne corte; chè corte veramente potea dirsi dacchè era
trattato alla pari dai principi, sebbene non portasse titolo. Faceasi
talora incaricare dai Fiorentini della esecuzione di qualche opera
utile, che egli stesso avea suggerita, e dove metteva del proprio. Le
case antiche, un tempo pari alla medicea, per quanto ricche e numerose,
più non comparivano che da suddite. Ridotti uniformi i voleri, segreti
i consigli, arbitraria la erogazione del pubblico denaro, accomodata
la città di nuove vie, e fortificatala contro i nemici, potè volgersi
alla politica esteriore, e tener le bilancie d’Italia in modo, che gli
stranieri non vi prevalessero.
So che, quanto fu stile l’esaltarlo durante la dominazione de’ Medici,
così il denigrarlo sotto gli Austriaci, e più dai moderni come autore
della susseguita servitù. Chi negherà ch’e’ vi trovasse preparato
il paese? e che libertà era quella, dove i cittadini migliori erano
stati proscritti? La nuova generazione avea perduto quel sentimento
del vivere franco e del concorrere al governo e al ben della patria,
ch’era parso felicità ai loro maggiori. Tra siffatti è agevole a
pochi sommovitori il turbare la quiete col pretesto della libertà; e
il reprimerli è dovere d’un capo restauratore. Un Frescobaldi tramò
d’uccidere Lorenzo, e fu mandato alla forca; Baldinotto Baldinotti
il tentò pure, e fu col figlio trascinato per le vie di Pistoja; e il
popolo, non che irritarsene, applaudì.
Siccome Augusto, adoperò a restituire i Fiorentini dalla vita pubblica
alla domestica, ma non trascese le condizioni di primo cittadino di
paese libero. L’ambizione di lui dovea pur restare lusingata allorchè,
dall’alto della sua villa, osservava questa città, bellissima di
antiche e nuove grandezze, dove Arnolfo, l’Orcagna, Masaccio aveano
insignemente attestato il risorgere delle arti, e Brunelleschi
fabbricato Santo Spirito, la più bella delle chiese, preparato nel
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